Grice e Labeone:
il diritto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha larga cultura
filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età d’OTTAVIANO. Si ignora se segue
un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma rifiuta il
consolato offertogli d’Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona meno
anziana. Appartenne al partito repubblicano. Scruve CCCC saggi di cui
restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De iure
pontificio" -- in almeno XV libri, diversi "Commentarii
giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno XV libri, "Librì
posteriores", in almeno XL libri. S'interessò anche di studi
logico-grammaticali. Grice: “Logico-grammatical stuff is my thing, as was
Labeone’s. My example is “Fido is shaggy,” Labeone’s was not!” -- Marco
Antistio Labeone.
Grice e Labriola: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Filosofo italiano. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential
Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del
marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere. Il
padre, oriundo di Brienza, e nipote diretto di PAGANO. Si iscrive alla
facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia si e trasferita.
Qui studia con VERA e SPAVENTA, il cui appoggio gli procura un posto di
applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del prefetto. Scrive Una
risposta alla prolusione di Zeller, un saggio in cui osteggia il CRITICISMO contro
ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Consegue
il diploma di abilitazione e insegna nel ginnasio Principe Umberto di Napoli.
Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una
significativa presa di distanze dall'idealismo in favore del
materialismo. Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone
ed Aristotele”, premiata dalla Reale
Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza
in filosofia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'università.
Scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di VICO” e
collabora con il "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze
politiche, al quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto
da Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al
quale L. aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di
Napoli" e dell'Unità Nazionale, diretta da Bonghi, al Monitore di Bologna
e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue X Lettere napoletane. Si
dichiara herbartiano in psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi
Della libertà morale, dedicata a Graf e Morale e religione. Trasferitosi a
Roma, supera il concorso alla cattedra
di filosofia a Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia.”
Divienne direttore del Museo di istruzione e di educazione. Sono anni in cui L.
mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale
degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base della popolazione,
inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo
s'informa sug’ordinamenti scolastici dei paesi europei. Pubblica gli Appunti
sull'insegnamento secondario privato in altri stati e l'Ordinamento della
scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente L. abbandona le
convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni
radicali. Oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello stato
nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio
universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al parlamento. Ottiene
la cattedra di filosofia a Roma e inizia un corso sul socialismo. A seguito di
notizie che danno imminente la stipula del concordato con il Vaticano, L. tiene
a Roma la conferenza Della Chiesa e dello stato a proposito della
conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni
accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua
lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere teoricamente socialista ed
avversario esplicito delle dottrine cattoliche e nella conferenza Della scuola
popolare, auspica l'ABOLIZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO. Sul giornale Il
Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni. Tiene
agl’operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti
condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica
e dichiara di desiderare un governo del popolo mediante il popolo stesso e la
formazione di un grande partito popolare. Scrive che i parlamenti, come forma
transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo
del proletario e tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso
Del socialismo commemorando la comune di Parigi. L. saluta il congresso
della social-democrazia tedesca a Halle scrivendo che il proletariato militante
procede sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione
ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri
mezzi e nelle sue proprie forze. Entra in rapporto epistolare con Engels, che
conosce a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky,
Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprove a TURATI, il più prestigioso
leader socialista italiano e direttore della rivista Critica sociale,
superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degl’avversari politici.
Vuole che il partito socialista, che deve nascere ufficialmente con il congresso
di Genova, sia un partito d’operai e non di intellettuali positivisti borghesi.
Vede nei fasci siciliani un concreto esempio di socialismo popolare e
rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a essere compreso in Italia
(cf. GRICE, MARXISMO ONTOLOGICO). Fa lezione sul manifesto di Marx ed
Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un corso sulla genesi del
socialismo ma di non riuscire a risolversi a scriverne un saggio per
l'ignoranza su tanti fatti, persone, teorie, etc, che sono tante fasi, tanti
momenti né sentiti né conosciuti in Italia, come ribadisce a Adler che il
marxismo non piglia piede in Italia. Su sollecitazione di Sorel, scrive In
memoria del Manifesto dei comunisti, sulla concezione materialistica della storia,
che esce sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce a Engels, ricevendone
le lodi. Anche CROCE che ne promuove la stampa in Italiane è influenzato tanto
da attraversare il suo pur breve periodo di adesione al marxismo. Nei due anni
successivi L. scrive altri due saggi, Del materialismo storico, dilucidazione
preliminare e Discorrendo di socialismo e di FILOSOFIA. È sepolto presso il
cimitero acattolico di Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il
percorso filosofico e politico di L. in tre diversi momenti: innanzitutto fu
propugnatore dell'idealismo hegeliano, influenzato da SPAVENTA, del quale e allievo a Napoli. Successivamente, possiamo
distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del
realismo herbartiano. Infine, il momento in cui aderisce pienamente al
marxismo. L'approccio di L. al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart,
per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Kautsky. Egli
vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla
storia, ma piuttosto come una filosofia auto-sufficiente per capire la
struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. E
necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo
vuole considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze
operanti nella storia. Il marxismo dove essere inteso come una teoria critica,
nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad
interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo
al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque
la concreta e materiale prassi umana. La sua descrizione del marxismo come
filosofia della prassi e ripresa nei Quaderni dal carcere di GRAMSCI. In
pedagogia L. avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una
scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia
post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione
morale e complessiva delle classi sub-alterne. Nella monografia
Dell'insegnamento della storia, dedicata alle più importanti questioni della
pedagogia generale, L. aveva asserito la centralità dell'educazione alla
socialità. Il metodo pedagogico dove essere quello della ricerca critica e di DIBATTITO
e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero
logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al
confronto (non a caso i primi studi di L. Sono stati rivolti a Socrate e al
metodo socratico. Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per L. e
necessaria un'attenzione maggiore ai pre-requisiti logici piuttosto che alla
struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che
egli chiama un'epi-genesi analitica. Celebre e una sua conferenza tenuta
nell'Aula Magna dell'Roma, discorso sollecitato dalla stessa Società degli
Insegnanti della capitale, che poi ne cura la pubblicazione in opuscolo. E
necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali
le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come
risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di
condizioni ambientali. Per L. proprio l'azione dell'ambiente storico sociale
sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione.
Per cui le idee non cascano dal cielo. Il metodo deve partire dalla prassi,
dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti. Il nucleo
essenziale della pedagogia della prassi sta nella percezione della connessione
dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.
Trockij conosce con entusiasmo i saggi di Labriola, quando e detenuto nel
carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che come pochi scrittori
latini, L. possede la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'e
impacciato, certo nel campo della FILOSOFIA della storia. Sotto quel
dilettantismo brillante c'e vera profondità. L. liquida egregiamente la teoria
dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i
nostri destini. Trockij aggiunge che dopo anni continua a rimanergli in mente
il ritornello Le idee non cascano dal cielo. Altri saggi: Una risposta alla
prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza,
La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli,
Stamperia della Regia Università, Della
libertà morale, Napoli, Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Ferrante, Dell'insegnamento
della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola
popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta, I problemi della filosofia della storia.
Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza
tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato
per la commemorazione di BRUNO in Pisa. Lettera, Roma, Aldina, Del socialismo. Conferenza,
Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera a Socci a proposito del
Congresso democratico, Roma, La CO-OPERATIVA; Saggi intorno alla concezione
materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma,
Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo
di socialismo e di FILOSOFIA. Lettere a Sorel, Roma, Loescher, CROCE, Bari,
Laterza, Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la
libertà della scienza, Napoli, Veraldi, A proposito della crisi del marxismo,
"Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di
filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Croce, Bari, Laterza, Socrate, Croce,
Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di Croce
sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia
e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia,
Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e
socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Pane, I,
Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di
Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche
sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti
di pedagogia e di politica scolastica, Bertoni Jovine, Roma, Riuniti, Saggi sul
materialismo storico, Gerratana e Guerra, Roma, Riuniti, introduzione e cura di
Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Poni, Firenze, Le
Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e
introduzioni di Marchi, Firenze, La nuova Italia, Scritti politici. Gerratana,
Bari, Laterza, Opere, Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Sbarberi,
Torino, Einaudi, Lettere a Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio.
Nascita e lotte del socialismo. IV saggio della concezione materialistica della
storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici,
Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Riuniti, Roma, Riuniti,
Roma, Riuniti, Lettere inedite. Roma,
Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica
italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di
Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti,
Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI,
Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni
della Normale,. Tutti gli scritti
filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,.
Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione
l'edizione nazionale delle opere di L., istituita con decreto del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, Savorelli e Zanardo, Bibliopolis, I problemi della
filosofia della storia e recensioni Cacciatore e Martirano, Bibliopolis, Da un secolo
all'altro. Miccolis e Savorelli, Bibliopolis, archividifamiglia-sapienza.beniculturali.
Trotzkij, La mia vita, Fiorilli, L. Ricordi «Nuova Antologia», Berti, Per uno studio della
vita e del pensiero di L., Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e
socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista
italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista,
Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna,
Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane,
Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano
Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo
italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio
Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia.
Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali,
Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi,
Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Livorsi,
Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi,
Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio
Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Croce, Firenze, Renzo Martinelli,
Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende
del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, L. e B. Croce
nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini,
"Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo",
in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale M. Guidi e L. Michelini, Annali della
Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e
nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A.
Labriola, "Il Cronista", L. e la sua Università. Mostra documentaria
per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio
Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio
introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia,
Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi,
contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007.
Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica,
Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis,
Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica,
Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio
Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,, Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale
di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro
Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antonio Labriola, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Labriola, su Liber
Liber. Opere di L., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola,
su Progetto Gutenberg. L'Archivio
Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Roma. La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi.
Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni
su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica Posizione di Socrate nella storia della
religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di
Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione
del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso
misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici.
Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo
socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio
d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere
e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della
pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un
riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche. L’ individuo e lo stato. Vili. Delle virtù. Generalità.
Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e
del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del
sapere. Del bone. Della felicità. Del sapere.
Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del divino.
II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità storica di
Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza di
Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su le fonti. Orizzonte
della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella storia della
religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di
Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del forma- lismo
logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa soggettività
di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti
storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione
formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione
e concetto, p^^- e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i
generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione
fra volere e sapere (yvttjtì-t. aauxóv). Fondamento della pedagogia
socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore?
L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e lo Stato. Delle
viriti. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione
della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene,
della felicità e del sapere. Del bene. Della felicità. Del sapere. Del
divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il
concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in
bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse
ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il
libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea
esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla
maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto
il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera
sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di
spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo
conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi
uditori. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più,
perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni.
IV, 4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. Strùmpell fa rilevare molto vivamente la
differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento
formale. toria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte
le pubbliche fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse
Socrate di continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per
ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era
egli forse un mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea
forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui-
stioni ? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti
disparatissimi, e quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno
studio nella scelta degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla
ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica
risultò mai un complesso di pronun- ziati, che prendessero forma di massime e
di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non
consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne (i) Zeller ha
molto bene criticata l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista
popolare; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore
filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui
recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica. più tardi, le
relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta-
mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia
dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi
che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di-
scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia
notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e
certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi
presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non
apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della
ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed
obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di [Vedi su questo
punto Hermann: Gescìiichte ecc.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar-
stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, Hegel è stato uno dei primi a
riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del
prin- cipio filosofico di Socrate, e cfr. Biese: Die Philosophie des
Aristoicles, colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il
ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta
e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo
ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico
della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso
indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma
logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma
tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e
formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un
bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione
chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi-
cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può
ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi
ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la
coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella
storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti;
e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed
inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora
intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la
parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira-
zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe
avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le
incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la
vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui-
stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella
definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due
funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era
tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello
spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la
natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza
precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza,
per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente.
Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come
elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare
dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto
pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di
affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza
isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di
sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio
efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore
attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick-
ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des
Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie
nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri
luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della
filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori,
non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in
una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di
Schleier- macher e di Brandis. Determinazione del valore del formalismo
logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di
Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che
non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate
sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del
sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la
scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del
mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto,
dello spirito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo
per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono
a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè
devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica
socratica. Ba- Per es. Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del
Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit.,
passim. sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che
Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o
attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare
un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi
obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del
sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si
è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe
ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica ('); mentre la
repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un
risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice
esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore
filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo;
ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione,
esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza
sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci
avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza
deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre
come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le
incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia
rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il
termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate
coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli
ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('), si viene a confondere
due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giudizio che noi riportiamo
su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di
consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di
Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (L'Alberti
specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del
proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che
s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico;
vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi
di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono
esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca
della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare
indirettamente, e mediante la congettura, il processo genetico della sua
coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice
testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto
nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o la critica di una
tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione
astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca e
correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole. Le condizioni speciali del
suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di
una religione intima e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una
certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei
interessi e delle opinioni correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò
il suo soddisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva
insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come
predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza d'animo, il naturale
sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la
perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè riconosciuto provvidenziale, —
tutte queste tendenze sollecitarono la sua in- telligenza, predisposta alla
riflessione, a cer- care una norma costante dei giudizi, e tro- vatala egli
persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei
suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei
giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e nella tradi- zione ed espresso
nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo
fondamento nelle costanti con- dizioni della natura umana, non corrispondeva
sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli
aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui
l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed
educatore della gioventù. In questa nostra maniera d'intendere l'at- tività
filosofica di Socrate trovano un posto na- turale alcune opinioni, che
incontestabilmente gli appartengono, e che altrimenti non sa- rebbero
spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che si son sollevate su la dottrina
socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche- remo alcuni di questi
punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più
vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni, il contrasto (i)
Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte
Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum
andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des
Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich. che correa fra la novità delle sue
filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione delle
sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convinci-
mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio normativo della
consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto
ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costi- tuire la
capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato ('). Solo la piena
coscienza della propria capacità e la speciale cono- scenza delle faccende da
trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legit- tima ambizione
politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è sorretta dal
fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza
dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. Al-
l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori,
sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta
notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2,
6 e seg. SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli
amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio
che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza
di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una
manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca,
perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar- chia e
dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi
nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione
di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur
nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto
questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o,
come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della
conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di
distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica
amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e
scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la
costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere
sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della
conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una
tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per
regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle
sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei
confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di
una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come
impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità
dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità. E
considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di
cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna
pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione
dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il
concetto sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7,
9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e
seg. sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente
nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non
deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un
segno precursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un
progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve
consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una
tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del
tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o
quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico
bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea
fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto
del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell'
individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza
(i) Come vuole Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller,
Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati
Vortràge ecc., pp. 62-82 incertezza e divagazioni. Sotto questo
riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale
ecc., perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti,
devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni,
e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del
sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo,
perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola con- clusione,
basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata
l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a
capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa:
e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo
pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e
la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la
meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte
riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap.
ii, mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo,
che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di
Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può essere inteso come
interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento ofenerale della
conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della
meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al
criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava
allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro
ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica.
Anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle
donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa
è l'opinione di Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann:
Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John :
The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks, LE FORME
CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle
angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e
sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza
dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli
elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora
qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato
nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso,
che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col
lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se
ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone
p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti
dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di
Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa
è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria
come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni
verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una
distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello
che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso
nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del
Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il
pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Antonio
Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito
socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su
Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia,
dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del
socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo
in Italia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e
il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice
e Lacida: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lacrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lacrito: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lafeonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di
Pitagora”).
Grice e Lagalla: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazoinale della teoria geocentrica – la terra al centro del universo –
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Padula).
Filosofo italiano.
Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in
Florence was a Platonist!” Figlio
di un alto funzionario della burocrazia vice-reale. Studia filosofia. Perdette
i genitori ed e affidato alla tutela di uno zio paterno, che lo avvia agli
studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua
formazione. Si iscrive ai corsi di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri
Stillabota, Vivoli e Longo. Affidato dal Collegio degli archiatri a Provenzale
e Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale
competenza da meritare i gradi accademici nulla pecuniarum solutione. Grazie a
Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza
a Napoli, con la quale si dirigge verso le coste laziali, per giungere poi a
Roma. A Roma consegue una laurea, in
seguito alla quale entra al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne
da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza. Cura
per Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae
ex sententia Aristotelis VII”, manifestazione
di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale L. si
interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad
attirargli sospetti di eterodossia. Altre saggi: “La circuncisione di Cristo”. Al
problema dell'anima L. dedica corsi della lettura ordinaria di filosofia, che
tenne alla Sapienza. Queste lezioni sono raccolte in “De anima commentarii”. Allo stesso argomento
è dedicato un saggio dato alle stampe da L., il “De immortalitate animorum ex
Aristotelis sententia libri III” (Roma). L., pur riaffermando le posizioni
della tradizione d’AQUINO sulla questione dell'anima umana, secondo le quali
l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta
quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli,
ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove
eternamente, ma piuttosto come forma informante. Morto Santori, s’avvicina ad Aldobrandini, entrando al suo
servizio. Conosce Cesi, al quale e legato da una cordiale amicizia. Se questa
non da luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa
richiesta da parte di L., e solo a causa della sua marcata professione
aristotelica Cesi lo presenta comunque a GALILEI quando quest'ultimo si reca a
Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al
giudizio degli autorevoli astronomi del collegio romano, nonché di influenti
membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni
incontri, durante i quali L., incuriosito dall'occhialino galileiano, lo
sperimenta ed e intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle pietre lucifere
di Bologna. Da ciò che vide, trasse spunto per due saggi, pubblicati in De
phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. GALILEI nunc iterum
suscitatis physica disputatio nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia). Atteso con impazienza da Galilei, che e costantemente
informato da Cesi dei progressi nella composizione, il saggio delude l'ambiente
linceo. Nel primo dei due saggi, pur
difendendo la verità ottica di ciò che mostra il telescopio, cerca di spiegare
l'irregolare -- la scabrosità della superficie lunare, detta perfetta da
Aristotele -- come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di
un principio di regolarità -- invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni
inclusi in essi -- cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le
asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense d’etere, più
opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo saggio L.
racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, Misiani
e Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente
o una qualità reale, tratta delle pietre lucifere e, contro l'interpretazione
di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del
minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che
rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di
luce, poi lentamente rilasciata. Con ciò esclude che possa essere il prodotto
della riflessione della luce solare sulla terra da parte della luna. A proposito del primo dei due saggi, Galilei
medita di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L., di cui le
note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio.
Tale risposta non arriva, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse
per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche.
In occasione dell'osservazione di una cometa, scrive il Tractatus “de metheoro
quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium” e
poiché quest'opera pare, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, e
attaccato di scarso aristotelismo. Si convence così a chiedere a Galilei e a
Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte
di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fa niente, ma anche in
questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi. Aumenta intanto la sua
insofferenza verso gl’ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto.
La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento d’Allacci.
Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di
fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di
trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute
(soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con
complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo
portarono a rifiutare. Continua a praticare
la filosofia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari
luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere L. sulla Luna. Altre saggi: “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii
usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris
anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera
disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca
apost. Vaticana, Barb. lat.; cfr. Kristeller; cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze,
Biblioteca, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una
stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo
[Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii
laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani,
Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei
matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae
patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina);
G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani,
Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini,
Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura
salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno, Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere
del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione
nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è
pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G.
Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary
bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia
napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him
Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che
dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la
terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna,
l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei, sublunary,
lunary. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library. Lagalla.
Grice e Lamisco: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A
Pythagorean and friend of Archita di Taranto. When Plato runs into trouble in
Siracusa, Archita sent L. to rescue him – which takes him ‘two weeks and a
half.’
Grice e Lamanna: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del risorgimento fiorentino – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Matera). Filosofo italiano. Grice: “I like Lamanna – a very systematic
philosopher especially interested in the longitudinal history of philosophy –
he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Fa i primi studi in seminario e poi nel Liceo
classico della sua città. Si trasfere a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna
a Messina e Firenze. Pubblica un commento alla dottrina. Autore di un fortunato
manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei.
Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito,
per L., che la religiosità e un'esigenza naturale dello spirito umano, egli
rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il
dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come
razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e
disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la
concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la
necessità dell'esistenza di Dio. Analoga antinomia gli sembra esistere tra
morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando
nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e
divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa
etico ossia, secondo L., realmente politico, realizzandosi concretamente
nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la
vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Altri
saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di
Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La
filosofia, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze);
Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova; Piovani (Torino); Piovani, Tra
etica e storia, Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», Calò,
Il pensiero, Napoli, Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico
degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned
about the idea of the state, which is not an easy thing. More specifically, the
concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy for ‘i licei
classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history
goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He is the only
philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO,
which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own entry for
‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The third
volume is ITALO-CENTRIC, from VICO onwards, FARLINGIERI, and notably GENTILE to
end with MUSSOLINI. The idea is presented by L. as a ‘riconstruzione dello
stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale borghese is
in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does not
consider it within the realm of the proper history of philosophy when he talks
of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the
liberal party – the philosophy of the laissez-faire. It provides NEGATIVE
freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also, as he notes,
liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every
member of society, so that liberalism only pays lip service to ‘liberale’. With
the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore –
and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does
Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had L. continued
from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s
idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks
of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.).
SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come
and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is
machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing
is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel
idea of the state (after la rivoluzione fascista) with a Kantian approach.
Since L. has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here:
Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a
slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE
to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is
constantly on the azione or prassi, which is understandable since the pupils
are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is
candid about this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It
was the ANTI-PARTY movement --. L. provides the editorial. During the
ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE
NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government
(polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even
the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to
worthip the God of the Heroes. It is an ‘etica guerriera’ and it targets the male
– virtu, andreia. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is
interesting because this is conceived after the temporary successes in Africa –
Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war.
For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds are in
the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only
provides negative freedom, anyway, and where the initial conditions are unequal. Lo stato fascista does not play with
parlamentarism, so Congress is closed, and the only party is the national
party. Jews are excluded from PUBLIC service -- even if some wrote panegirici
for fascism, like Mondolfo. The philosophical foundations are found in Hegel.
If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with
himself. GENTILE did not really help, although he was the official voice of
fascist philosophy --. The student of philosophy then is taught the lessons of
history (philosophy is IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the
final stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is
no idea of dissent. L. however emphasises that the stato fascista still
recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato
comunista or socialista would not!” Eustachio
Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna.
Keywords: il risorgimento fiorentino, Mussolini nella storia della filosofia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lami: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale della ragione dei antichi romani – la tradizione
della polizia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Lami; he has written
interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Altri saggi: "La
ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino,
Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora
-- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il
libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa,
"Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia
della storia nuova destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/
Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola.
E’ davvero difficile per me, ricordare L. In questi giorni, ho dovuto farlo più
volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare
da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e
sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione
di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche
lui. Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando
io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Noce.
Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto
Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il
sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse
immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese
dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Voegelin,
allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale
ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Borghi e
pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie
voegeliniane (qui è bene rinviare a Voegelin: un interprete del totalitarismo,
Astra), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da
Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo
austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare,
attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale,
Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia
possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN,
Israele e rivelazione, Aracne, ma anche L., Introduzione a Voegelin,
Giuffré). Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Noce,
secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli,
scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile
dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico
(Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la
gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da
un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali,
dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose
dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro
individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia
politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente
contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER
e EVOLA. Al primo dedica un volume significativo (TILGHER, un pensatore
liberale, Seam), nel quale evidenzia il tema della pluralità delle morali, come
caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo L., lo avvicinava al
filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individua effettive vie
realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo,
dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo da alle stampe la prima
monografia filosofica: Introduzione a Evola. Un passo per la vita e un passo
per il pensiero, Volpe. Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, cura
diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a
contestualizzare storicamente l’opera del filosofo romano e a coglierne il
valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione. E’
proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli
anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA,
tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della
tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo,
interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana
del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizza sempre
negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo
ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà
romana tanto insiste. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a
questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tenta
di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”,
come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare
della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico,
tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie
intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).
Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale
ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino
e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me,
gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria
della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”,
o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto
lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua
assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e
presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti,
come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento
spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia
dell’eterno presente, Il Cerchio. L’università di Roma, con Lui ha perso una
delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente,
non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua
amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami
touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating
Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a
Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in
that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization
of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione
una. Espressione varie e tradizione una.
With the birth of
Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean
‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old
Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for
Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all
this – and more --. Gian Franco Lami. Lami.
Keywords: la ragione degl’antichi, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lampria:
la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Tutor of
Aristosseno di Taranto, although he seems to have taught him music rather than
philosophy.
Grice e Landi: la ragione conversazionale e la semiotica
economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I
would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze
umane e antropologia, apportato un notevole contributo agli sviluppi alla
semantica (senso) e la pragmatica (prassi, pratica – ragione pratica) -- crt,
cercando di unificare la dialettica romana e fiorentina con quella oxoniense. Diplomato al Regio
Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia. Insegna
a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in tre
fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché l'analisi
dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione”
del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra
la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La
terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione”
dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca,
Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,”
– cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is
Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova. La
semiotica e “Segnare” come lavoro e mercato,
-- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational
effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with
‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence
of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational.
Bompiani, Milano, Segno ed ideologia
(Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori,
Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf.
Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris
paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them
‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th. (Bompiani,
Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’
y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale
ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo,
Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio
su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did
Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from
Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at
Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic
to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information
is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo,
l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria
formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e
te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere:
i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone
di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore,
ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va
speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto,
intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa.
Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella
volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si
adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di
regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la
quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della
volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della
volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il
valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti
concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni
scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi
così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che
la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè
questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano
naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa,
o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si
può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un
fabbricante per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il
valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di
un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto
quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche
ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai,
CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre
possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che
costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare
che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti,
e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE
‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula.
Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante
u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento
accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio
proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece
si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il
beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al
rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della
volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula
sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del
beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve
migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.
glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè
diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla
formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la
circostanza del MALE ALTRUI. Allora si
avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore
della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione
egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO
(plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si
avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta
il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò:
W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che
al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W
(rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con
una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u,
questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W
(u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non
aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si
avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può
disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)?
W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU)
W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le
circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di
quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non
dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti
concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il
valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera
secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora
non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler
giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto
lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è
buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e
maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre
momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La
validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista.
Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza:
subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità
la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una
contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si
escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica,
di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi
della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione,
solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO
(IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni
con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo
stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla
volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato
abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili,
così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un
binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli
stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in
rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti
concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono fare le seguenti
sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola
relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della
volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno,
a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze
dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si
avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è
risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa
volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma
positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale
negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra
loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due
bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati
in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non
coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che
dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il
valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella
negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è
congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala,
ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”,
“W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la
funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente
con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un
grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un
piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non
pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un
non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria
rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una
LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'”
indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità
delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule
all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori
“r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per
g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno
ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale
d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo
divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato
l'interesse proprio da sacrificare. È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) =
- C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)=
0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure
evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più
INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà
da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella
seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo
della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene
proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula
terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore
quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi
che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che
si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio.
Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si
accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il
che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL
CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere
le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande
dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno
così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A
questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra
correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del
binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y
gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00
lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune
conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l
a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno,
secondo la formula principale or ora ricavata, in un rapporto di
RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo
luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e
MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il
NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, …
n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme
superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti
sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di
mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una
volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta
ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g”
e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso
attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)=
>. Passamo ora ad esaminare un'altra
coppia di binomi: gr g+1 1 T (go+
1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa
dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords:
implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library,
Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza, “Grice’s
principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical
semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and
excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Landino: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della sforziade degl’italiani -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love the way a
philosopher can be judged by his fellow citizens and by furriners: Landino’s
“De Anima” fascinates the Germans, for example! While his poetry fascinates the
Americans, as I Tatti testifies!” Nacque
da una famiglia originaria di Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in
materie letterarie e giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio
fiorentino la cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro
Marsuppini: L., sostenuto dai Medici, e stato avversato da non pochi personaggi
in vista, come Rinuccini e Acciaiuoli. Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e
FICINO (si veda). In quel periodo ricopre anche incarichi pubblici, facendo
parte della segreteria di Parte guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi
viaggi, spicca quello a Roma. La sua Xandra e una raccolta di componimenti
dedicata inizialmente ad Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse III dialoghi:
il De anima, le Disputationes Camaldulenses e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei
secoli di L. e però legata alla sua attività di commentatore dei classici. Diede
alle stampe il Comento sopra la Comedia di ALIGHIERI, su ORAZIO e su VIRGILIO.
Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di PLINIO e la
Sforziade di Simonetta Il volgarizzamento pliniano e un vero e proprio evento.
Per la prima volta la plebe puo leggere la più importante e vasta enciclopedia
del mondo romano -- tra i suoi lettori Pulci, Colombo e Vinci. Per i meriti
acquisiti, la signoria fiorentina gli assegna una torre nel Casentino e una
pensione. Venne ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da
Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Altri saggi: “Orazione
alla Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di
lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses;
“De vera nobilitated”; “Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”;
“Commento all’epopea eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio Plinio
Secondo tradocta di lingua latina in fiorentina
al serenissimo Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria
fiorentina quando presenta il suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di
Lorenzo, Formulario di epistole, Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può
leggere in edizione critica. Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit
A. Perosa (Firenze); “Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De
vera nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino”
(Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C.
Landino, Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la
Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo
parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino,
In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada,
Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia,
cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade
di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia
storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina,
Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce
del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto
Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones
interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo
studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,
di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN,
Ratisbona. Liba secundus u aut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars
enim natnratn quoad ua Itt feropq imitatur. Sed nefeio quo pado cum de
eqmalo quod iti vita Kiriorio iMispa natura nucttigadum nobis
propofuannus:iam fecundo in naturam rela« bor.lta^ bacomifla ad illud
tademrueamusipcimunique omnibus PHILOSOPHIS omnibmi cbtifiianis audoribus non in
eo quod ab ad ione proueninfcdin fo» h ratione coUocemus. Non enim quid
fadum iinfed qua mente fadum animad uettunt. Quapropter quatuor ueluti
principia ponunt. Cum enim fe nobis ilu quid offert: mouctuc ea te fic
oblata uis quzdam animorum nofttorums ut illam cognoscat: tandem p
decernit aliud bonum efTc aliud contra maium. Quapto ptrrcumiam feferes
obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt adtamr tertio
loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem
uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id
tncmbraezc quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus
illis ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a voluntate
qua in ordine tertiam pofuimust. Non enim eo Verres pcccauit quod tabulz
ftgnac ac reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe of Ferreti Non
rurfus quia iudica ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd
quia rapere uoluit cu uf«p adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft
non rapuerit :tamen quia rapere uo luerit fitelus commifllim fitx Non
enim interfecerit ne an non interfecerit: fed uo lueiitne interficere in
culpa eft:Defueruntuires. P.CIodio quominus Annium Milonem oeddere pof Tetx.
Qua quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit ea uis:quzmentis
propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non aduscorpord
motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur iure homi dda Clodius
quia Milonem uoluit ocddere: Fac autem ocddifte cum minime ta men
uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:
fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii vel ex insdiia rem quampiam
c6 mittunnii non modo culpa carent: uCTum etiam cdmiseratione fzpistime
digni putanmr. Quis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi
fabulosum putetmon iolum illum crimine liberat: Sed fumma infupercomifetatione
profe quituRcum animadvertat hominem ex infdria dum feram uulnerarc
putat: ca tifiimam fibi coniugem percu Eiffeteuius morte in summum moerorem
acludu paulo postcafuruseifett Vides igitur auolutatisadu ueluti a fua
origine uitium in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem
adionis prouenire ex infirmitate primi agentis rem hanc planius
exponendam cenfeo: Videamus ita in quo defidatuoluntas ante commifllim
fadnus. Qui quidem defedusfibi a natura non erinfemperenimadbzrct/ femp pcccaret:ne
rurfus eftcafu bc for luna:eflet enim extra nos. Est igitur
uOluurius.S'ed ut uideasundeifit error boc aedpe. Visdus rd quz agit ab
eo agente perficittu quod fupra fe eft: Donec enim id quod fecundo loco
agit perfeuerat in ordine primi agentis munus fuum abfo lute
peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut fiatim aut
paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef. Hic idem fi
nunu dedinet a mom ceflabit. Ergo igitur ut ad rem redeam nupa dicebam
duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire ntt Res quz fefe nobis oSu a :
k [ t Oerumniobonp nttitt K uii gucdam ilfas oblatu
fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A Ut moueri poffifaliguidhabeat
proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap et di uis omnem appetitum mouebit.
Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape petitum qui a renfibus e(i
mouere ualai Ratio autem proprie uoluntatem mouc biti Rurfuscum latio varia
bonorum genera percipere poiritcuiuilibetautcm & proprius finist Etit
uoluntatis quoque pprius nnis k primum quo moueatiu n5 bonum
quodlibetifed certum aliquod ac pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo
tas perceptione eius rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciui B
teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum
iudb do bona efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu
6tmorib9 uoluntas. Peiueriio igit" ordinis qui est ad rationem et ad
proprium finem gignit peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad
fubium fec fiis perceptionem voluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas
bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillis bonum iudicatat.
Efirurrus cum ratio ipfa minime decepta id bonum efle decemittquod uere
bonum dici potcft.Hcx tamen tepore aut hocmodo bonum efie negatur. Voluntas
tamen in id fertur nu llam ordinis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis
per uerfio uoluntaria eih pptc reaqi uitio non carets Loquacior fortalTc fum q
par cfi in natura mali. Addam tamen ex iis argumentationibus quibus
demonftracum efimalum nullam efienda am eflesati ob eam tem per fe
fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo in bono feroper efle
oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem
dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K foima qua res priuatut
in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce modi cil ut fua
natius facultate formam fufeipere ualeat. Hoc autem quis bona negabit cum
eodem in genere et ipsa sive facultas sive potentia Scadus qui inde cll
omnino confilhnt. Prxterea malum ta
folum ratione malum didiT quia nev cct. At non ncKct malo. ElTc enim
bonum fi malo pemitirm afiFcrrct. Nocet igitur bono. Nonautefi de rei
forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz citas polyphcmo
nocebitinifi fit in polyphemo excitas. Verum cum uulum boa no opponatur quo
pado utn idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim altc/alte tum pellinhoc fi
dicas ita tibi refpondebo.Quicquid ens did poteft idem 8C boa num
dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente fit:quzlibct enim ptia
uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non efi in ente fibi oppofito. Si enim czeitatem dico hoc non eos comune quide
minime eft ut uifum ubi^ tola lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo
fubicdo fcd in animaote. Q_ux quide om nia eo teduntiut non pofliit iu
fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn bonum.Quod enim fummum malum
fututum fit id fine alicuius boni cofora tio elTc oportet. At nullum
malum a bono omnino feparatu efle inuehies. C^ua doquidem ut paulo ante
ofiendimus fuas in bono radices malu egit: & in eo luu ut Ita loquar
fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis fututum effe
id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo num clfc
uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita quod
ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba
tettius cipranificflct caura iitidepcadcrettt Dafiautcaurambotiucfre
dirimus. A 4 de & boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior
eft illa quz per accidens caula dicitur. At malum non efi caufa niri per
accidens.Non igitur inuenimr (u Inum malum.Hatc funt quae de plurimis
longecp «ccllenrioribus quz Leo Baptista memoriter diluride ac copiose in
tantorum uirotum confriTu difputauit t mcminil Te ualui.ln quibus cum
abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me* ridiemalccndi(ret:nos omnes
ita adbottante Mariotto hofpite libeta Mimo to» Kzimusiillumf fecuti ad
tefidenda corpora difi:ellimus. L. CAMALDVLENSLVM DISPVTATIONVM AD
ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM IN P. VIRGILIO MARONIS ALLEGORIAS.
Um Satuissem cum fermonem illustrissime Federice litteris mandate quem
Leo BAPTISTA Albertus no sine summa oiumquia et erunt admirarione: at(^ftu
porede iis Homeris habuiflct inqbus.
VIRGILIO j fundiflimam illam fcietiam i occultatcqua fummu bois bonum
diuinitus defcribit et quU uia ad id Hcircamur mirificc exprimit: uercbar
ne in nonui 1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii
imbecillitate tnericntcs et Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus
ociofas auditoru au icsdcledaret cdmctum rae credant et nos pro arbitrio
nodro quz dicimus ottu uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid poctz
fint: fi quam eorum origo ue tufia appareat fecum teputentifi q magna/q
uaria dodrina plurimi in eo artifii< rioflorucrint confidcTcnncogoofccnt profedoid
quod grauil Timorum PHILOSOPHORUM iudido comprobatum uidemus nullum efie
feriptorum genus : qui autmagnitudine cloquentiz.aut divinitate iapictiz
poetis pates fuerintr Qua quidem ce ARISTOTELE virum excellenti ingenio et
doctrina pofi PLATONE om nino singulari motum crediderimrut eofdem prifds
temporibus theologos poe tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poesis ipsa
quid sit diligentius inturamur: fad k erit nofle non cfle illam unam ex
iis artibusrquas noflri maiores quoniam reli quis excellentiores funt libctales
appcllarunnin quarum una altera ue fiqui 0 o lucrunttin maximo funt femper
pretio habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz universas illas compledcns
certis quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam pedibus
ptogrcdienstuariifi luminibus ac floribus diftinda quzcutp homines qjotnt
quaecn norint: quzeu contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr atip
in alias quasdam spedes traducattut cum aliud quippii multo
inferiusimul (09 humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad
ceflantium aures ob kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic
in ipfo diuinitaris fbn tctecondita pTonunt: Quo quidem gratilTimo errore
tandem animaduerfo au ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem
deucniat: fed mira eriam uolu ptatccz figmento pctfundatuc. Quam quidem
temdiuinam potius s humani f iii fn. cfle cu! potius f
Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana tradi;f<d divino
furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua infcnbitur/cum tria
alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn quc poeticum elfe
uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir. Rcfeit enim da
ibcxleftibusredibusucr farcntur animi no(lri/ et cius harmonix
quxinxtema dei mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos
participes fuit fe. Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati propterca
ad ia feriora iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus
ac monbodia membris impeditos uix eos concentus qui humano artiHno
comparantur auribus padperc poflerqui et Ii a cxledi harmonia longe
abfintinihilominus quoni om ucluti fimulacra quxdam ac imagines illius
funt nos in tacitam quadam ex Icftium recordationem
inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw am reuolandi
inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima go lit pnofcamus.interim
uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa bis licet/bac noftra
illam imitari cdtedimus non uocum modulationibus ueluti uulgares quidi et
leviores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete posse no negauerimtquicq
aut prxterea prxihre posse no cocedor Sed grauiori quo« dam iudicio
diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof mentis fenfus elega ti arminc
exprimutsat divino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq fupra
humanas uires cofticutas gradi spiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc
ille iam refedetitifeipfosadmirentVat obllupercant. Quapropter non folum
auribus adulant ifed fuaui nedarc et diuina ambrolia mentes demulcet hi
igic diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo
fandti ab Ennio ap E elbnt": his folum
diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude fuauiteripla entitmodo
grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo in leda ti amnis
morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt copref fef
gredicnti quocui uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche
metior^ in iilis spiritus infurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant. Grxa
dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At dices fonafle
none 8C reliqui feriptores fuo libto poetx id eft effedores iuie dici
poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii et dicedo limul &
intelligedo ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus
feriptoribus comune etie opottuitsucluti fuum ac pprium fibi
uedicauerunt. Et piedo quicuqi uates boc noie digni fueriitiii fupra
humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe DIO elTe poflunt
prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy fes uir
bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos
lib^; rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm
diuinitate cofai plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t
cum odoginta iam natus an nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis
r aret. Nam qux ea fint qux Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex
iis chriflianis qui paulo dudi ores babet latere puto. At hic ut ex libro
fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael tutPcftincc nuc {>fcqr
quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si Jonumis i qux
dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno inudu cotitinuab
dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum: ut iion modo poete: verum exteri 9uo(^
rcriptorcs quicutK remaliguam maiorem litteris mandarent: eam ua tiis Hgmentis/uariisfigurarum
integumentis obfcurarent: putabant enim fo teii negodumdifibcilius
ccdderent: ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflent dignitatem audoritatemc^
habitura: 8C 9U1 percepiffent: guoniam non fine la^ borc at(^ induftria
id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem inde uoluptatem
percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu
ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant
non inuidiamoti sed ut aliquod inter follertem at mentem diferimen
appareret: cum non idem ociofusguod studiosus affeguetetur: sic enim dC
premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem
artibus quando leKguis noD prohccrent niterentur fummopere accendebantur.
Difficultate enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur: uindt onmia la
bor impro bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Quam guiiguam
feribendi ratione grxid guoi^lccutimntfguortim & Orpheum thracem:& atheniefem
museum et thebanum Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum Lini
Mufei^ uiz uciligia eztant: Orphd autem poemata in quibus multa deui
diuinainecpau ca dererumnatura continentur 2 ad eam quam diaimus formam
confcnptitaf fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis uero qui deinceps
doruerunt/nihil dicam: Fabularum enim figtUenta quibus aut deorum/aut
rerum naturam /aut ea gu» ad uitam & mores pertinent obfcuriusquidem
sed maxima cum dignitate exprimunt: rem manifeffam reddunt. Qua propter cui
mirum uideatur: fi otnnisxtas:omnesnationes. Omnesguialigua
ufguamdodrinacxcelluerint: poc tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos
adprzfens omittamq multos q maximos in philofophia locos Aristotele tanms
uir poetarum tcflimonio cot roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua
netpde poetis duosme^ de arte poetica tres libros accuratiffime
confaipfiflet. Quanti autem hoc bomi num genus PLATONE fadat: ipfe in
libro de re.p.fadle offendit: q uoniam n ihil uei jbementius mentis
intima penetrare/qua poefim affirma. At dicet aliquis no ne in libro de
legibus idem PLATONE poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed eam
rdidenda dmonet: qux more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee to
laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores edocet: probosuiros
extol ]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet. Deni nonullis in lods
aliquod poe tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poesim
autem ipfam qua donout diuina mex tollit quas quidem res cum diligentius
fecu reputauerint qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam
immutaturos exiffimo: qui tamen si nos carpere uoluerint: potius
temeritatis arguantiquoniam ea qux fupranoftrasuires funt/aggreffi
fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc tit 2 nos uidif Te putent 2 Ego
autem quauis non tantum mihi arrogem: ut hu ius poetx diuinitatem fatis
pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii turum putauirH noff
ra indufiria quantulacunc ea fit/dodiores uicos ad tnaioif ra de ENEIDE
demonftranda exdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli indigo oiK
no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti utbca ca coi nim lutun erga
Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS gant i ii qua
detint addant t Qua quide in re non modo emendari me xquo animo fctam: r<d
ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc ter oro. dam m
maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U> ter aliis
oftendet er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il
lo reliquis profuturus iitu o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi
iiberalif fime effundamtfl Canullo mortalium quz mihi delint/fumere
dedigner:ad que autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad
te iUui^ime Fcde tice:qui & Maronis pra; terca KeTos & udiofiirimusrem
perfuetist & cum reliqui iulue principes in eo omnem indufiriam
ponannut quamaximos fibi tbc£uitos comparent i auri^ at^ argenti aceruus
magis magifi^ indies aefcatitu maxu mam tuarum opum partem in mularum
& eorum qui mulas colunt omsmen ta liberalissime effuns: ut iam
quemadmodum Homericus ille Agamenon coniidebat/fi decem aliifibi Nefimesadeircntiforeut
breui Troiam apturus eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi
non diam decem ut iliet fcd duos przteta Federicos haberent t brevi
futurum ut universa ITALIA alterz Athenz futun fitr feddeczteris alio locoi
Non enim in hunc fermonem hoc tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd
ut te fic dc litteratis hominibus meritum quamaiimispof Tumus laudibus
profequamuri qui quauisfolus ex omnibus qui in imperio confiituti funt has
parta tuearis : amen iu late patet tua in oes litteratos liberalitas. Ut
non pauciora ez a fiC poetae BC ontorat & om niuffl rerum feriptora
prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe quintus pontifex
mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris bus/ac maximis
pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta ti:8t fibi
gloriam fua dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape E
atronu etiam tuc cum multorum principum qui et nuc uiuunt/& olim
regna« ut fama fepulta iacebit in xtema femper^ recenti memoria uiuum
retinebut. Veru haec quoniam omni luce clariora fu Dt; longiusprofequenda
non cenfeot Praefertim cu ipfa iam ra postuletaut diuinum dodimmi uiti
Baptiftz Termone ego quantum memoria repetere poteto Tuo ordine
referam.Ille enim cum bci> ne mane ad confuctum locum ueniflemus : 8i
min audiendi cupiditate inflam mati ab eius ore Tummo cum filentio penderemus
huiufccmodi principio dil/ putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem
tibi Laurenti aperiri cupias r qui uel ex omnibus re^onibusaquarum babiatorcshifioriacognofant
suci cxotnnibus lzculis squkadnofhamur memoriam acriptorum beneficio
per uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif (^ exifiatsno poflfum
meo oea tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii. Ncmo
modome diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn ut
ita loquar eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue
figurae rrnt sive charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit
glot L - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus
fiivmlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific aepennL:
fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc Bcoocctu Mluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ IIBD mu
DCMI mat vtik lia cnlK lioilfl olis a tpai KSoa 10
ik lOa B oulip icbui> nft» none flbfr
qSiQ 011 ipiB’ bSlfimu cottfiaabt incredibilefli auribus voluptate
pariat. Ex quatuor aut riie& di generibus ita opus contcxitiut ne ocio
copiame negocio brevitas defit. Vi dcbis quxdarua sic dtatc at<j
ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib lufhau at diftint Sa
deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un# deoiaadoe
elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptum DulIum invenias. Adde
ad haec cognitionem hifioriatai Adde quadili gentissimus and» quitaristt
oonmodonofliaturctuifed &grzcaru &omm nationu inuelliga#
torcxriterittqptil conjmuaborumobretuatiinmus fueritiq elegata quxdain
Boua ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit. Prxterco ius duile:
omit loiuspontiridu nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab
aliis accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue. Hzc igitur & cotum limilia
fi a me tibi ex« pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos
diligeorius apetiiem contende tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi
negociu imponetes. Quis enim illa pub chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo
artifido tccondita non ludicct: fed funt ta nicri a multis iifdcm^
dodisuitis patefada. Quod aute petis id & multo diviiuuscftt Kmagisinobrcuro
UtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus fua ferie patcfadum.quod ne
gtimaricus nc tbetot nouerit.fed fi ex intimis FILOSOFI arcanis eruendum.
Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Ae ncaectrotibusidc dus
hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua qua (untnonulli/qui
di ea quae paulo ante dicebam promaximb admirentutt at^ in ipfis fuma
abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo uate fuicent.
Quos tamen fi roges quid fibi in ea te VIRGILIO perficere uolue riti Hometumimitandu
fibi propofum eafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id
pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint fuccubat penitus
necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba omitta multoseofde
grauifTimos PHILOSOPHOS tqu i Homerii ocm zgypriopi dodrina
haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat. Qua in fen
tcnria nili ARISTOTELE fuiiret nunqua homeriaru ambiguitatii libros fex scripfif
fet. Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus coo
minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/
uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui
quidem idem de hoc poeta a Sirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz
inudor tra OMERO tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo
legerit: Sed & inlucem le ad amauum ite dicebatiquo hin dus legendi
maior copia daretur, yctum quid reliquos nunc colligamtcum unius PLATONE
testimonio nihil fit, quod probari non polTitlls igitur in eo uolumine
quod de summo bono scripsit omnes artes huc diuinz fiue humanz illz fint in
unum Homeri poema uciuti r in proprium receptaculum confluxifle afHrmat.
Quamobrem animaduettens Mato dodrinam huius hominis ex egyptiorum sacerdotum
fontibus bauftam fimillimamcum Platonicist quorum Qud iofifTimus fuit rauonem
babere eam uTadeo admiratus dl:ut idem in fuo ENEA efficere uolucrit :
quod ille antea in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^
figmentis eum nobis unw i^oiinai qui pluri, a^ aux^nis u itiis pauwim
expiatusue dckeps 'ir»v I f •*/ .«MI inr ;
iRft. mitis uiituHbiu Illuftratus id quod fummahotmnibdliaeStquoiI^
tufi & pl ip6t/ tatnnlal^ equnec^ VcTdcu illud mrera
diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a PLATONE
didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime perueniripofle/q animi
nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex piati penitus reddantur.
Cum SOCRATE i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle neget. Quapropcet non
folumflnes bonoru nobis miririceezpreiritt Verum etiam qua uia qua ue
ratione eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt Ne qua pars eius
philofophia; qui gtxd ethicen/nos de vita et moribus nomp namus: prxtermitteretur:in
ea enim nos nihil aliud quammus nili primum bo notum malorum^
iincstdeindeof Scia quibusueluti uia quadam ad eosdem ducamur. Laboriofum
omnino negodum/at^ omni difficultate plcnum: divinum tamen & quo uno foelix
limul atip fapiens homo effidaturtdeo^ iungaf Soli enim fapienti fas eft
ufi adeo deo c6iungi:ut nihil quod feparcr/intercink ce poflit. Deus enim
ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui uerum mente non pettin gat/eum
lapientem efle minime poiTet^os autem cum quatuor lint qu 2 in feru
ptoris mente aperienda inue(tigemus in rem nolfram futurum puto: ut
certos ia terminos drcufaibamus: quos in poeta interpretando egredi non
liceat. ES igitur cum id quod geffum Iit quxrimus: quam
hilforiamappelbnt/ut cum le gimus apud Matonem haud ptocul inde dtx Meda
indiue^ qoadrigxdiSa lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum litifed qua
ratione geSum nt:ut eS illud At tu didis albanemanetes. Nam eoloco
dcmonfhat propter eadifcerptu a quadrigis elTcalbanorum regem /quoniam
illein fide non manlilTet.hic gta&« dethimologiam dictuit. Quxrimus
et tertio in loco an ea qux dicantur pu^ gnantia inter fe lintr Alibi
enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego &pater Idem fumus.
Quapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec fediiridereo ()endamus.
Analogiam sequimur. Interpretamur postremo aliquod per allegoriam quod
tunc sit cum non qux uaba SIGNIFICANT INTELLIGIMUS sed quiddam ALIUD SUB
FIGURA OBSCURATUM. Scribunt poetx Amphionis lyra motos m lapides ut fua
fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper quod figmentu quid
aliud intelligimus:nili fapientillimi viri eloquentia esse dum eifer ut BOEZIO
populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi: K aduetfus oem
humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem
uenirentrac poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe
rubiicerct. Nos igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in
ipfa fola allegoria uet fabimur:ut quid per Troia(n: quidpCTxneam:quid
per ITALIA reliqua^ huiu& modifibiuelituideamus. froixigit"
oritur ENEA rperquautberedeut puo to prima bois asutem intelligemus.in
qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus fen fusregnat: At ipli
mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola fibi
proponut qux philofophi prima naturx appellat. Ni cu oe aial (ibi a
natura comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes
ita integras: ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi
(int: maxime autem uohi ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul
corpur^efTe intelligattat Utru faluum
efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam BOO dbm plane ilhcog Oolat minus
laboratsea autem quz corpori corporeilm uoiuptanBus conducunt/anxie
expetit. Sunt enimflbi abipfoortu iamnotissima. QuaptopteiT cum in hac
zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum adionum domini efTeualeamusmel
minimum uc omnino nullum uirtuduw do^ locum relinguamus:cum que agimus
eanccuoiuntariaflnt: neccum de ledu aliquo fiant. Ita in puero virtutem
e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro gtcflu ztatis rationis lumine aliquo
illufirari indpit mens noftra s tum demum tanm in nobis conlilii
apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus. Eft enim iam ad illud PITAGORICA
litterxbiuium pcrucntum/fic iatnuitzne Tciuseiton utcil apud P um. Deduxit
trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di fceflciimus nccefle efitut
uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam quz deinceps
agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit tutitfin
contra uitioadlcribuntur. Troiz igitur 8t Aeneas limul fit Parisa/un tur.
Verum alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante« poni
neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe ab
omni incendio explicat. Quod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui magno amore
inflammati ad uen cognitionem impclluntur omnia facile confer qui pofle.
Qua propter Venerem diuinum amorem rede interpretabimur. Sed tu LAVRENTl
ncfdo quid iam diu uclle dicere uiderisiCupio quidem inquit LAVRENTIVS t
Ni uerear perpetuum tux disputationis filum intec nimpae.lmmo potius iflo
modo inquit BAPTISTA: Nam cum uniuerfus hiefermo non ad oflentandum
ingenium neq; ad gloriam comparandam a nobis infticutus fit : fed ut
honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi quid in me dodrinx efi/id
libenter cfiFundam : interroga : inter peilaiobiice: confuta pro arbitrio
tuo.Hac enim uia id quod quxrimus verum dilucidius apparebit. Vtar quod mihi
permittis arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non tui confutandi sed mei
erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amorem interpreteris eum
prafertim amorem : qui non modo cadus verum etiam divinus fit. Ego enim Venerem
non folum apud poetas : fed etiam apud reliquos feriptoresita fumptam
uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^ coniundionem fignificarc
uelinr.hinc illud Terentianum, e Cerere fit Bac chouenaemfrigefceretEt
ipfc in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera. Quapropter fi uenerem pro
huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua dixidi/ea omnia inter fe pugnate
uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi< ili petfpicuum reddas
ego minime explicare ualeam. Qui enim fit ut cum duo fintuiri Aeneas at^
Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle fit ut una cum
Troia pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe reriomne
periculum incolumis cuadat. Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve nus
Paridi noccat:fi mala prqfit ENEA. Qux quidem dum cogito/in eorum potius
Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine ap
pellet'':flt ad ipfam bidoria referut: Putat enim qd* te no fugit/qua hora a
Troia ITALIA versus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu ucnetis
6ad nfm hoc hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui fuide
roniundam. Quibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per
muliere peruentufoioJo' uem enim regnU ptzeflc non ra odo OMERO
SIGNIFICAT qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit. Sed &
mathematici ide ditant. Salutareenini omnino Itduse Qsquonia inter Saturni
frigus K Marcis ardorem colloatu opti moeemperamento Iit: 8i propterea
eundis euentibus profpcrum. Nam cum ui tam noftram praxipue sol et luna
gubernet: iccirco lupitet omnium nobis fa luberrimus eihquia foli per
omnes numeros/iunzautem per plurimos coniuo dus eft. Refecunr etiam in
initio mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio tuncafcendcnte fui/Te.
Volunt illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam in egenos K
calamitate opprelTos. Veridicos homines fadt/& vere amicos fine
fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala
infert:hicaut tollit aut minuit. Quapropterfcite Petii us Satutnumip
grauem nolito loue frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene
habeaticum ille hominem for tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit
BAPTISTA. Sunt enim ex 15 ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer
accommodata. Verum cum omnis nofira difputatio nullam hilloriz ratione
habeat i Sed eam qui totiens gtzco uabo allegoriam nomino/exprimete
conetut/non uideo cur ea qua adhibui in terpretatio iure amitti non
pofiit : Si enim iis omilTis quz de ENEA deqj cztctis troianis prifei
faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz non modo finge te:fed SL
peruertere & addere & fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione
liabi ta id folum tentaret quo pado per ENEA cum nobis uirum informaret:
qui ta dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem
aliud ue numen pofuiflet. Sed cum ita poeticum figmentum profequi
inSituifiet: ut tamen ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe
& exilii ducem naviganti filio fc przQitilTe Vennem Icgil Tenfuit cx iis
quz aderant res perficiedat non autem nomina fingenda. Hoc enim plus
negocii poetz cll qua reliquis qui alio figmento rem obfcurateuolunc.
Illi enim ab omni hiftoria foluti pro arbitrio ea cominifcuntunquz magis
rei fuzjpromendz quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis
excmplicaula proponendum cenfeo. Placuitil I primo huius fabulz audori
ollendcrc quz in tempore ex materia gignuntur: ea omnia in interitum
cadae quatuor dutaxat clementis exceptis: quz principia (unt oibus rebus
generadis Duos igitut comentus ell deos Saturnii at Opima & illum
temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu nomen indicat. Chronos enim qui
Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro non
appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut
teropus: per Opim fiuerhcamterram intelligit. Addit deinde Saturnu pmnes
quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua
fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc elementa
tempore conteri: at in interitum deduci. Quorfum igitur hzc ne reliquum
fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro arbitrio
quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione sentiebat: commode
exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi propofuiflc.
Maroni autcih longe alia rado cfi: qui cum ENEA res io laudem' I II Litxr
tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus poeddsluminibasitluftrandum
fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria
porrigit banc fuprcmam ingemi fui laudem comparat . Mirus profedo uir qui
non ex op tads fed ex datis ha opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat
:pet eam rame illaedibili integumento humanam fcelicitatem
exprimatiHabcs^ut opinor^qua ratione uenaem pro diuino amore ponae coadus
iit. Quod ita tamen rede pro cedit < ut ni£ ab iniquis reprehendi non
poiTit. Videmus enim Platonem in eo fa mone quem phatdtum nominat :
Aphr^iten/quaic nos uenaem nuncupamus: oqn lafouololum sed & diuino
amori ptaxiTci Verum quam uenerem piatonie cua poeta Aenez matrem eife
uoluerit : faale intelligemus ii quzdam paulo altu uscx ipso PLATONE
repetamus. PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme morat/aketam
czlcfiem vulgarem alraam . prinum autem czio natam refert: cui nulla
mater iit. Quod cum lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me
te poiita amore ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam rapirur/quam
quo numprocula bomnifflaterizcon fortiolitiinc matre prodiidam dicit.
Secudam uao uenaem mundi animz tribuitiita ut patre loue : matre uero
Dione eam na» tam feribat. Manat enim ab ea ui quz in anima mundi eft :
& uim creat quz infe« hora bzc omnia gignat & mundi fyluam
fubeat: Vtra igitur fibi ingenito amo ce rapitur czlefiia ilU ad dei
pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul chritudinem e fylua
conforma. Sed hzc parum ad rem. Animus autem noda cum&ip Ge similes quafdamuires
habeat inteliigendi at y gignendi duas itidem ueiiera habaedicitur/quas
gemini comitentur cupidines. Cum enim corporea puichnmdo oculis nodtis
obiicitucrmcns noftra^quz piima uenus eft}eam non quia corporea litillcd
quia limulaaum divini decori admiratunar diligitiea quz ueluu uia quadam
ad czlos effenur: Gignendi aurem uis: quz fecunda uenus ell formam gignae
huic limilem concupifcir uapropter uterqi amor iure dicitur utaltcr
contemplandz altergignendz pulchficudinis defidcrium fit. Nemo igU tur
nifi totius rationis expas fit duos iflos amores damnare audebit t cum
uta qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp enim diu efremortalium genus
finefo bolis propagatione t neij ruifus beneefte fmcueri inuefligatione
potait. Prza ttantiuri igimr illa ucnae duce in italiam perucnire potuit
zneasi Ac dices cui hzc fecunda fi bonacfl paridi nocuit: quia illa male
ufuscfl. Vir
enimgignen di autdior quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet
occupatus /in Ibiis corporas uoluputibus meretur. Quo fit ut 6i primam
quz ad fummutn bonum dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur
: proptaearp in om nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata
mifaq^ efifedusin omne indignitatem dcfccndat Efi ut dixi diuious amor fi
Platoni credimus dcfideti« um redeundi a corporea pulchritudine ad
diuinam contemplandam: Non ta uencum diuinam defidetamus eam quz oculis pcrcipitur/contemnimus.Nam
qui aliquid appetit hunc illius quom rei : quam appetit imagine delcdari
ne« ceffe cfi. Verum funt quidam
ita hebeti ingenio: ut mentem a fcnfibus nullo modo feuocate poffint: hi
ueiam pulchritudinem non norunt. Huiufccmodi igitui amot adultctinus cfl
/ & a uao degenoans: quem lafduia ac pcocadtas frtnpff cotnit3tnr:quem
diffiniunt cupidinem eius uoluptatist que e cotpdo rea Forma percipitur
rrede qux dicunt cum ardorem animi in fuo cotporetnot tui in alieno
uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit J, I Plato ucio ait illum
natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum . At quis non uideat
illum nerp confilium in fe nc modum ullum habere. InefTci^ in
coiniurias/furpi# dones/ ac reliquas illas omnes peftes : quas fidelis
Feruus Terentiano phzdtix prudenter oftcndit. Habes(urputn^dupliccm
amorem verum illum fidiuino: de quo paulo ante dicebam /& hunc falfum
& adulterinum: & qui uetoamo ri talis fit qualem aut amico
adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus: cui quidem cum fe totum
dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. ENEA autem cz lelii illo duce
paulatim ex troiano incendio ideftex corporearum uoluputum ardore fe
expediens li non reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut nunquam
aut raro conceditur: ut eodem rempore licfiulcitiam exuat. &rapiens
efficiatur: tamen poft multos errores in luliamad ueram fapieutiam
pcrucnit. Quam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^ plcniliima
fit/nemouna quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem perferre
paratus fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem
offendit Eriximachi oratio omnium naturalium rerum creator effat feruator
: eo emn fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia
ttahuntur.Effitt dem omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut
artem inuenitiaut ab alio inurntam addifcit : nili inueftigationis
obiedatio/K difeendi cupido ia dtet uam quidem rem fi non apette offendit
: obfcudus tamen ut poeta rummos efl SIGNIFICAT noffer VIRGILIO. Cum enim
in georgicis fe uen cognidonem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem
ipfamfumma amoris ui fu peraturum his ueibis demonffrat. Me uero pnmum dulces ante omnia mulas Quarum sacra
fero ingenti pnculfus amore Accipiant . Ingenti ergoamotela« boies
fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum cognitione fubeuodi funt fe
laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui
Ia alia in re laborat t nihil tentat: nihil nititur /nili utiam corporex
pulcbritudinis afpedu concitus addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim
cor/ porcis tenebris demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt :
nifi umbris & simulacris quibuf damtqux fefenoffris lentibus obiidunt
. Q^uam quidem rem non folum exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi :
in quibus Pythagoram EMPEDOCLE DI GIRGENTI Heraclitum sed longe ante alios
Platonem enumerare poC fiim tSed Bi chrifhani ab eadem fententia minime
difcedunt: Nam & Paulus & qui Pauli auditor fuit Dionysius
areopagita cxleffuac diuina : qux in fetu fus non cadunt/pet ea qux
fenfibus percipiuntur /cerni uolunt. Inxc eff igu tur illa uera uenus:
qux mentem noffram ad diuina erigit: qua matre quisoc Idat natum xneam
nomen abeo quod effxneos id eff a laude dedudum. Vb rum enim ad omnia
magna dCexccIfa natum: quis non fummis laudibus proe fequaturf Verum &ipfea
uolunrate delinitusdrca Troiz defenfionem laborat Xioiamco impdiuatuturztin
quibus, voluptates corpotex plurimum uigent/ Liba totius
intoprctari licet : prima enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare
: ft fuas ui CCS EXPLICARE poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri
futuri funt uoluptate de mulcentur: prima naturas ueluri fumma
admirantur: di quoniam diuina qux fint nem nouaunt : beatiflimam eam
uitam putant: per quam uoluptate frui lice at * Hi igitur quid fummurn
bemum rit: nondum compei tum habent: Veni cum illius acquirendi fummo
ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi pri ma tiaturx aduca
momentaneai efle animaduertunt. Habet enim hanc irim ue tus amor : ut
paulo ante dixi ut mentem ucbementn
exacuat : magifterep illi re cum inuenieodarum paulatim fit t ut nibil
eam latae poflit. Qua propta egre ei llud qi £Ulete poifit atuanton :
Deinde cum nihil dfficik puta / modo re amata potiatur : omnes labores
tolaat: omnes difficultates fupetat . Hxc eff uenus illa non uulgaris ; qux
materix admixta utm haba gnendi/fed illa cxicflis ab omtii materia remota
: qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;& Iu* cem illi
liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita infritia
oflen dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem demonftrat:
admonet non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux necefle eft
ut pneat . Hxc eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum ab ipa
lacena id eft a feipfts/ut in beftema difputatione diximus cotrumpi: sed
ab lunone a Pallade at a exteris di is: Nam deos Troiam populati quis
ignoret f Divina enim omnia uoluptatibus aduafantuc. Sed in primis Pallas
. Hxc enim sapientix symbolum obtinet. Sapientia autem non folum uoluptates
contemnit: verum eriam (fummopae exhore ret. eft quod de lunone quifquam
dubita : qux quamuis regnomm dea ha be Oiiriproptaca in hxc caduca ac
mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen cumlidmmes imperandi aipiditate
nullum labotem pafetre recufent t omnibus uoluptatibus bellum indiaint:
modo eo perueniant unde poflint reliquis impe* ritare: Deos autem minime
uida ENEA dum pronoluptate pugnat . Nubium cni Biteilebtis cnnnis ei
ptorpedus eripitur . Sunt enim animi noftri ita a deo aea diutfuapte
natura facile omnem utritatem confequantur. Sed a materia corpo* ea quam
philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala proueniunt.llla enim tardat
heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at tenebris obfcutat. Sioiim ex in
fritia omnia uitia ptoueniunt: Quaproptcr & Chty lippus & reliqui
ftoici perturintiones omnes a fallis opinionibus oriri dicunt :(^uodtamai longe
ante feoferat MERCURIO ille: quem grxciob ingenii diuinitatem
Trimaxinnimappeihnt. Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt. Infrit ia
autem ex corpotea calu ginecft/ut PLATONE putat /erunt omnia uitia a
corpore. Quam caufam prxeipu* am fuH&idixerini / ut is quem paulo
ante nominaui Meteutius fyluam malignita temappella: fedderylua commodiordifputandi
locuspaulopoft dabitur. Pugnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat demerfus
deos uidae nequit. Verum cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri
inueftigandi valet ipfe amot mentem excitare: ut feco Uigens tenebras
difaitiat:flt uideat quibus numinibus Trcria cuertatur. Ducetp eodem amore pa medias
flammas at^ hoftes ita tutum anipit. Et profedo uolenti ad tes arduas
profleifri / hinc mira quxdam'uoluptatum : qux defoendx funt cupiditas ucluti
flamma quxdam illinc laborum difiS* cultatutntp terror / qui aduerfus
honeftatem afliduo pugnet fefe opponfit. Quz omnia ducente Venere Araex
cedunt. Nam niii amor abfit : netp ram blandas oo
luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates fuperare pofTemus. Venit igu tur domum ut familiam omnem componat
: at^ inde ex urbe proficifatur. Ridit enim in fe ipfum animus t omnef^ fuas
uires : at<p uirtutcs gux uariz funnad profcAionem / id enim eif ad
ueri cognitionem quam Troix nunquam afTeque^ retur: fuo ordine componit omnia^
(ibi ex uoto fuccederent: (1 pater filium fe qui uelit.Verum negat ANCHISE
fe ex Troia difcefTurum» Hoc ueroquid (ibi ue lit : (i me roges ego (ic
puto. ENEA huiufcemodi parentibus natus efi: ut Venus dea: ANCHISE
mortalis (it : homo enim ex animo qui immortalis diuinufip eftiK ex
corporemortali Kcito in interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam
femperfufpicit: ad eamcp redire cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus
au« tcm qui a corpore funt corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur
alTiduum atrox<^ certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut
noftti dicunt t cum mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC
fenfus in potefiatem tedige« re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat .
Contra uao fenfus feculcnto elementa rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione
grauati nihil nili caducum & tenenum cupi» unr ANCHISE igitur id efi
tenenus pata i 8 i ea qux a chrilHanis uabo parum tri» tofcnfualitas
appellatur 2 Troiam fedeferturum negat .Mauult enim perire fen» fus /
quam uoluptate priuari. Mox tamen cum filium omnemq; domum t id eft totum
hominem periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora moneatur 2 mutat
fententiam/ab ENEA^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc at« ^
eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius
inficr» tur . Hxc de ancbife j ENEA autem cum iam incendii 2 armorumcp
pericula eua» ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem
comitum afduxilfc nouo# rum inuenit ad miransnumaumtqui quidem undi^
conuenerant animis opi» buf^ parati in quafcunt^ uriit pelago deducere
tereas.t & rede quidem. Nani ca tandcmcferuitio incendioi uoluptatum
fumus liberatit e(f<^ iam animus redi uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx
animorum uires 2 quxhadenus ignauia torprbant :ucbementa excitantur2 8 C
bene in(fitutammentcra quocunt uocae uerit / fequuntur. Quo quidem
tempore ne a redo itinere omnino aberraret xneas / Iam iugis fummx
Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr uenerisfydust
quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum quas nolfri
aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem odo ac
quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex
& quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo
pcxcedit/ modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife
prifei crcdidcrunttpti mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo
apud grxeos unum depreben derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer
dicitur : uefperus autem cum fubfequi» tur . Rede autem lucifer prxuius
foli eff . Stella enim uennis/is enim amor efi ue ri inueniendi / ei
exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di em 2 nam
rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus.
Apparet autem a idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam
figaificat. Amor autem apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii
S , Quapropter in ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro
czcellen quztj boneiia rapit . Fertur igitur ENEA duce m are exui in alt
um incertus quo fata ferant ubi iiftae detur . Q uz omnia non fine fumma
fapientia a poeta ponuntur: facile enim cognofeit Troiam relinquendam : &
fummi boni princi' panun uoluptati minime esse tradendum. In qua autem re
fummum bonum coii tiatnondum cognofcit.lureigitur exui appellatur. Nam ab
eoquod habuit cie dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat
inuenit . Mari autem fermt quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia
re niii appetitu mouentur : qui quam fimilis mari iit paulo poft aperiam
ii pauca prius de appetitu dixeto^ft igi^ tur fenfus & uis quzdam in
animis nofiris t quam cogitandi nominant : cui bono tum malorum iudicium
a natura demandatum efi, Non nunquam autem ita iudicat buiufcemodi uis :
ut nihil prarter fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc« cebris
attrada & uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft
i{v fa hominis bonum decernat. Si autem eadem cogitandi uis falutari
rationis lumi ne illuftretur et eius norma dirigatur : non id bonum eife
iudicat / quo fenfus de mulcentur ; fed quod reda didat ratio: quod uemm
(implexi^ bonum cui iit ne« ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur
huiufcemodi uis bcx bonum illud ucro malum elfedeacuerit excitatur in
nobis alia quzdam uis quz ad bonum afei Icendum / malum^ declinandum
infurgat . Huncautem appetitum omnes ap« pellant . Sed &, eum duplicem
efle oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus fenlus fcdt femper
pendeat : nibil^ cum ratione expetat: alterum qui nihil omni no sequitur
t niii quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe
eundum uoluptatem nuncupamus. uaptopter erit appetitus quo animi honii
num ad bonum afdicendum maium declinandum moucantur redus quU
demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo enygmate diuinus
Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam ilii duofep
equos adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic animus ab
appetitu duatur. Fe.< mnt autem equi non fuo arbitrio : fed imperio
aurigz a quo reguntur eodem pa» do appetitus nihil ex fe agendum decernit
. Sed quod iam ab aii a ui deaetu m eli fequitur. Quarc autem equorum
alterum album pulchettimum^ i at^ hono« tis cupidum : Bi qui non minis
ui<^ / sed cohortatione ratione regatur. Alterum nigrum inglorium
& contumacem hnzerit ex iis quz paulo ante a me de duplici appetitu
dicebantur perfpicuum eft. ExprefVit enim per bonum rationalem : per B^um
ucro irrationalem appetitum quo animus fertur: at<^ hzc de appetitu :
quem quidem mari limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim mareftnuL»
lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin autem
diuerfistun datur uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates
infurgir : Sed hzc eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a
pcttutbationibust nihil ni fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer
uezari : quos iam ftudus quasuc procellas intuebere: Quapropter
illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc
occurren/ quod non bene iis quz diximus cohzrere uideatur : Nam fi
radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu g iiofatn
damnault t unde nunc illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ
quit . Q_uod enim odifle iatn coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR
fo letnus t Sed uoluic Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum
demoo' I firare . In quo cum temperati non dum fed continentes fimus :
agimus illud qui> I dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius
illecebris demulceamur t non nili zgte , ab ea diuellimur : imitemur^
fenes tioianos: qui cum ELENA ut grxconun tro> ianorumtp certamen
fpedarct mcenia confcendilTet admirabatur cum (hiporemu lieris
pulchritudinem t ea^ uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv rum
illam caufam eflie animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp
pter illam pereat Troia . Quod ut plaiuus intelligas. Qucmadmodnm tordnk
do uirtus eft / qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic
tempcran» tia aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum
contraximus li ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus.
Quod li habitus nem dum contratSus Iit: Si tamen illud idem efficere
tentamus t tandem^ effiamusfi nitimum quoddam 6C uiriuti proximum
nancifeimur ut nondum temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre
& non line luda: Quz contmenna di citur in qua li diu exerceamur :
paulatim temperantiam acquirimus: htij uirtus id quod hadenus uirtus non
erat : fed ingrelfus ad virtutem. Hoc igitut intcrcft
intcttempcrantiamfii contincntiam. Namquam uisutrai^ idem przdet:conti«
nens tamen eo detenor eft quia cum dolore ablhnetmec ctt fatis Armus
aduerfus uoluptates Tempuans uero bene uolens Iztufk^ abffinet.quod li
itidem de ineo Anente intemperantem inuelliges: facile ell uidere quanto
a temperantia condoe da fuperatur i tanto incontinmte ipfum intemperantem
pemitioliorem elfe: I na continens enim quia non dum in uitii habitu ell
rationem difeemit : prindpiui Knct:pugnatm aduerfus malum: fed tadem
magnitudine cupiditatis & fui animi imbecillitate uidusucluticmtiuus
in feruitutem rapitur . Vetum uc qua; uctbts adumbro ea exemplo
exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii ilTc DIDONE quz
quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo lunliter repua gnat/utmori
malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf redditui cum
fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim fortiufcula adhuc ita
pua gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino pugnando
fuccumbit.pua gnatenim incontinens/fedfupaatur. Intemperans autem in
habitu uitiiconftitutus omnem rationem amiDti ne pugnat aduerfuscupiditates:
quin illis uo» lens gaudmfqi obtemperat: quippe in quo adeo deprauamm Iit
iudidumtut qdf tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut iam ad inffitutum
redeamus : non dum tem' perantia munitus erat zneas: nuper enim ea ratio
in homine uluxcrat: ut uolupts tum fordes intueri poffet : nei^ rurfus
tempeians : aut incontinensinon enim io de fe expedilTet. Sed cum
hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti uui pulchritudo ad
omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a uoluptate cam
feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab ea diuelli.51i
da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus applaudit: ut etiam
gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter nos irrepit aut
totos pau lanm occupctt Smgjt igitm comn ucac ft guis lachiimaiu taincta littcin
tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO*iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p tdib ;iup» ib<# ico^ Jki» «0 lolf J0t 0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii
c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs fcd lema
reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio sapientem fingit:£C una
uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica» K
cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id
eft aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^
incontinen eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^
uincuntacuincunmr. eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn
quas mediae funtaffcdio nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad
has modo ad illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt
incohau potius quam pctfcda lepenas non nulli uittutes nominarent . Sed
profici fcatur iam no &r Acncastuerum quo tandem exui pn altum
feretur: Nempe in thraciamre^ gionem patrue fininmam/fiC terram Matd
confcaatamnnquanupn Polynco ftoc holpitem fuum POLIDORO ut auro potiretur
interemerati Erit autem aua titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft:
Fuge littus auarum . Vnum cum duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus
8C iis qui inde rapit unde minime con ucnitideis qui cui dandum eft ei minime
dat.primum illud genus perthraciam cxpdmimroi enim in illa Mars colitur -quisncldt
habendi cupi ditate plurima a mortalibus bella geri. Sed ne Polyneftor
borpitisintcrfedots6( Tuorum bo» Domm raptor quicquam expreftius quam
auaritiam rapinaft^ denoubit Cur igi tur prima inthraciam ENEA nauigatioeftrQ^uiacuma
uolupute difceftimus at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus
facile ex ilia in aliam cupidita« tcminadimusiinfurgitip habendi
libidoibeatilTimam enim uitam multi feade< ptos putantifi opibus
maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Qua cupidi tace inflammati
non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu lil^
refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo
profeda: qui & fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete
poiTit.Habet enim auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens
optauit. Nihil enim illa mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati
fubiiciatar. Quapropter rede Sa luftius auahtiam ita malis uenenis
imbutam dixittut animum cotpufij uirilc cf< foemineuquando quidem Si
ad omnem humilitatem infimaTqi fordes dcTcende tccogic:& inomnem crudelita
temproreuili(Iimainfurgete.lpra enim perfidia am pctiuriumip edocet:cot
fraudibus: linguam mendaciis:manum uenenis/fer.» to in aliorum pemitiem
inftruit. Apud eam quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu Polydori
exemplo docet poeta minime incolumes fint. Nemi nem tamen mirari oportet
fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime tamen ad buc fapiens in
huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu humana
Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis
admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^
ris ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus
ficfoc mm regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi
Si b^ ne numatum decorat fuadela Venus. Verum qui duce Venere fertur Si
tna gnarum rerum amore incenius cfi/pauladm errorem recognoliit.
uitiumip abominans Xfaradz auariflimutn lictas fugit, At^ cum iam fecundo
deceptus i deinceps turpi Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius
oracula ue riiTima e(Te audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex
illius dei ptxut pris uitam inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit.
Qua proptei naviga donem in delum fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid
aliud quam lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda
qux in lien fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus
eunda profpicete ua. leat uideamus reliquam eius plancta: naturam. Sed
illud in primis. Nam cum Heraclitus fontem caelefiis luds appellat. CICERONE
ueto ducem carterorum lu« minum ea ratione dixit: quoniam fui luminis
maiellate praecedit: dixh itidem ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita
eminet/ ut ptopterea quod buiut> modi folus appareat fol uodtetur :
curfus reliquorum recurfuf^ipre mode ramr. Nam certa fptii
diffinitio eS ad quod cum quaim erratica ftdia recc' deos a fole
peruenerit tanquam ultedus accedere prohioeatur agitur retro. Rurfus
autem cum certam partem recedendo attigerit : ad diredi curfuscon fueta
reuocatur.Q^uapropter non iniuria & mens mundi cor czliapri«
fcisdidus ell:Quz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^ tia reliquas
animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Quin etiam li uim huius
fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam ut a
Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe« mentiam
at^ calorem aedpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: & quod
loquimur atqi intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz ci
phyticon idcll gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus:
quod^ opinemur nobis prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S
ipfumnon nihil ad rem affert, grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim
quibus fapientia przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod autem
tot»> us infulz Anius imperet: qui & rex hominuni & deorum
facerdos iittnonca ret ratione : Sapientia enim humanarum rerum
cognitionem continet. Qua ptopternihilnouum fapienti accidere poteft:
quippe qui omnia iam percepo> rit : quam quidem rem nomen regis
oftendit. Anius enim didtut quali id elf (inc nouo . Hic igitur
hofpitio Aeneam fufdpit: SC pio* fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur
. Veneratur autem templa : at^ ea retn pia quz faxo uetullo conftuida
fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im* mobiliufi^ : aut antiquius
ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus ille omnium bebrzorum
S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula aea ta effe uerilfime
didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non polfum inquit
LAVRENTIVS dodillimorum uirotum ingenia non admirati lztuf(|:quz a
principio de hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis enim non
obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri
umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua nullum animal
facrifi atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe fetunt :
legiffct eti^ am Sc apud Epaphum : Delon ne antea nem pofiea tettz motu
uexatam: femper eodem manere luo legiifet: & apud Thucydidem non
mirum esse fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia
locotumfibi acccficrit Liber tertius coBtltiuafax Ieiurdetn
firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem tempore ex
antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis przcibui deum
uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum ponit fimul ea
affert quz PER ALLEGORIAM Tapientiz conueniant. Dices quid in cacteris :
hoc idem. Sed nefdoquo pado hic me locus in quo hifioria non minus qua
allegoria latet:mul to magis mouinSed perge obTcaomolo enim mea
interpellatione mihi ipfi audi endi cupidiffimo moleftiam ex mora
afferre. Datur igitur ab Apolline oraculu inquit BAPTISTA z Dardanidx
duri quz uos a fiirpe parentumzPrima tulit tel^ Ius eadem uos ubere Izto
Accipiet reduces:antiquam exquirite matremz Hic do# mus znez eundis
dominabitur oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab illis. Q_uo quidem
oraculo quid diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid enim faomini salutarius:
quid conducibiliusefi: qu3 originem Tuam noffexin quam cu redire potuerit
/tum demum fit futurus beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a poeta
difcederet Maroxquod grzci duobus tm uerbis expediutx qui omnium ora#
culorum quz Apollini tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V
nofceteipfumx Verum ut haxea nobis planius explicenturx Omnesquicuh^un#
quam de fummo bono ferip Terunt philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con
Ira Teruntxutbenebeate^ uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t
Verum ubicoiamdeuenturn efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc
innumerabi# les pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum
ui ignorata plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo
corpore^ conflare bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^
facile in interitum pronuma Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft
fitxpaud omnino ita mentem a fcnfi# busfeuocat: ut feanimi nobilitate
imniortales cogoofcant: corpufcp in nulla pene parte habendum
cenTeant.praedpitur ergo Troianis ut eo reuertantur de originem ducunt .
Duplex autem illis origo efi.Nam Teucer Scamandri cu# iufdam filius
profedus ex creta infula in Phrygiam uenit; 62 una cum Dardano Kgnau:t ;
Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam ueneratatnon ex creta: ut ille fed
ex italia: nec mortali patre natusxfed ex deo loue. Veniunt igitur am# bo
in Phrygiam id efl in uitam: & pnmam ztatem quam perTroiam fignificari
di ximusxfed hic a czlo ille a mortali. Ad huius enim animantis quem
hominem dicimus compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre
prouenit.Qua propter cum primam nofiram onginem inquirere nos Apollo
iubeticuius ora# culum efl Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue
illi conducat inuefiiga# re iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado
fecundum animi natutam uiuere fodi ces effepoflimus inquirendum
mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius fignifi caietannquam didtxEfi enim
animus fi non tempore/ut Platonid uolunt digni tate Tua at(^ excellentia
prior: Optimum igitur oraculum: Sed quid prodeft fi illud male
interpretatur ANCHISE . Hic mortalis Aenez parens omnia ad lenfns
referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima corporis origo fit. quafl
prima naturz non animi fed corporis fpedanda fint t Quaraobrem non ia
Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua in infula multa mala
Tubi# bui fint Ttoiani. Nam cum (ummum bonum non iis quae animum: fed
quaa In.P,Vtrg. M.AlIego. corpus fpcdcnt natura noftra
ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa pati> io po(Hnpe(lem/ac
demum in interitum cafuraiint/ut non bearirredmiferi fiu turi
(imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui in italiam nauiga»
te iulTi actam ptticrint. Si enim in italiam.i.in originem animi redeant
Troiam percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola flabiles &
manfuras feda inueniuBt ; Hic enim domus Aenea; eundis dominabitur
oris:Et nati rutorum & qui nafeantur ab illis . In aeta enim nullum
e(l Aenex imperium. Na corpus ne^ fe nerp aliud mouet:fed iners brutum:
8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii ne animi auxilio ualet.ln italia
uero imperium latepatet.Corports enim domina tor & redor eft
animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda autem fue cognitioni
rabiiciu Se enim pafe uideticum autem deum cognofccie tem/ ptat fuz
menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia fpedat: Rimatut
occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas mundi oras
anv bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum . Adxret deo: in quo efl
patria fua:Et ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta
eius imperiu eft aeterna: ixcaprincipioqua uisdiuiniscflentmomtiprxcepris
cognoicere no potuerat Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt. Epimetheo
quidem ferius: Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua
profequaturt. Cum pefie labo rarent Troiani danmatfuam oraculi
interpretationem Anchifes.Nam poftqui diutius debaccliatus eft homo dum
fenfibus obtemperans omnem fpem in rebus caducis reponit/tandem ufu Si
experientia dodior redditus animadueftit no fua« fifle acta Apollincm.i.nunqua
pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia fntt Cenfaigimr alibi
quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris arie ualenut qua inrcconliftat
discernerc poiritr Na humiproftratusanimus/St fieri gi nitatur tamen
corpote'obrutus qu x in/cxcclfo collocata funt non nili poft mui tum
tempus difeemit: At dii penates eadem dicent qux didurus efliet ApolIotPu
tabantenim antiqui deos penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari
ilhi^ ftref(^ multis egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos
domcfticos: Ergo Si hos animoru noftro excellentiores uires
intapretabimur:quales funt ratio intelle# dus atqr intelligentia. Qux
hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co plentibus nihil
fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu pertus eft homo
fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo &oc
cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante
nomii> nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu
dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam
ufus at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne
deaeucrintrfc a tumulm colligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma ( contentioeruftitix
nebulis fua luce fugatis mentem ab iniquiffimo fenfuum iudido prouocauit
ita a aetenfi domicilio abfoluunt : ut tamen italicam profedionem fuo
dcacto 'edicant, ii dunt^ proptnea fux fententix ftandum: quoniam eadem iubeant
quxipfe Apollo a quo mittuntur didurus fit: Et profcdomcns nostra multatum
rerum usu iam dodior reddita multa, ex fe cognofdt: qux fapientia
ptxdpere con sueuitt Nec ucto quempiam moveatli deorum pcnatii oratione
pct fu ad catut
Andrifas I t ( II P nudfi D B B< P> h Jrj-B
SNitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitun MuItS iatn
profeoe nintdii pcnatess quiquz obfcunus Apollo SIGNIFICAT prrfpicue
enodaruntt docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle:
Beatus profedo ENEA (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id
ita mordicus arriperet ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a
redo curfu deiicere^ s Veru non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in
hisobdurauerit:& per (uma t& perantiam a rerum moruliu
cupiditatibus sit penitus purgatustfed inter contine tia; at(^
incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium fuo
uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is
gubernator clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam
tempeftatetn fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra
caputaftiiit imber nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris
: poftquam conti» nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz
fequuntur.ipfe diem nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz:
Diximus a ptindpio foloap petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem
e(Te appetitum alterum qui a fblis feniibus ex dtetutitationi^
aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione pareat:uoluntaf(^iure nuncupetur.
Qui quidem sinauiprzfuifTetiporerat ea am aduafantibus uentis iter redum
tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij
aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui
in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus
pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus uelutitcncbiis animuminuoluetibuscum
ipfenulla rationis luce illuRracus (it dicsano dibus ideft ucrumafairodifcerncrenrgat.
Magna profedo hominum ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi
aduerfanturi ut quauisil la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria
tyrannide feruituteq; eripiattipfa uclutiiulbirima regina ueramuelit
inducere libertatemitamen cum nondum uiresfuasrecupetaueritm Dpercp a
diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin cognofeatur fzpe antea qua
dus regni quod (ibi iure dcbctur polfeinonem recu» peret ab lilis
repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni
largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur
malit io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate
laborare. uamob» temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic
fzpeuida ratio, lllicnim parere rccuCiDS Palinurus nihil sanum fentit :
Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate cd» mittirurtuc dedituto curfu t quem
penates dii prasceperantin (Itophadas infu» lasdeclinetur. Hunc autem
locum nos ni fallor auaritizuitium redeinterprzta bimur/non illud tamen
quo inde rapimus tunde minime conuenitiid enim nobis Thrada ddignauit.
Verum aliud quod tunc patratur: cum ex iis qux iam peperimus minime illis
(ubuenimus : quibus tus naturacp ac humanz fo detatis uinculum
fubueniendum poftulat . Oodus enim'iam Fragilitate rerum buroanarum
Aeneas ad diuina ratione id efflagitante ferebatur. Sed appetitus aduerfus
illam adhuc contumax ftaredeaetis non potuit. Verum ad ea quae uulgus
admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*
fiuufcritateitniautufuctaUndui nc rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd
In.P.Vitg.M.AIIego. per (oBUS fordes plus qustn psr eft
parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei DC(p (ibi nc(^ Tuis
beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn
prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon
io« iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim
pudorcmimodtfHaou robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu
ucntris ptoluuies fcedifli< tna eft.Q_uisenim
po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di uitis eiufdemtp
tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene As
manifefta At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu
des palidafcmperc fame & macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta •
locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^
fameconAdturiNam ut cumulus diuitiarum acrcatiprcinterim ruum/utillete« .
centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti: Quod autem
ua ds Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel
ctpe> nntauarii Q_uinfunt adeoperaino A auarinxundiut hominem ad dtuma
qua dam natum ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide
czioin terras K e lucidis fjderibus in profudilTima tartara trudant.
Auertit enim nos at^ feuo« cat habendi cupiditas a cognitione carum reru
quibus folis Axiiz animus ciTe po( At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus
baudillis mdiltunec fzuior ulla peAisidtjia deum ftygiis fefe extulit
undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut ex Thau« inante patre: matre
Helcdraoceani Alia natas harpyas fabulentur.Thauroan« tem tede
admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu cnimobfumma fiultitiam
diuicias maxima bona putemus cum aut bona non Antaut minima
bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione cupiditas habendi
nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv nit.Suntautem ex
eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn diligentius
conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in afli' duo
motu cAicundac^ inco facilem ifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf
opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzui Aima bella inde
ezota tur. Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant : nihil inde
Abi ad ncccAiu tem fumunt. nihil aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^
regenereaua tinz quando^ explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin
querat olim uo luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium
confuliti A quo accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus
refcrctrquz de ani tno przcipiebanturicauturqi ruo damno fadus errorem
cognofat: con Alium inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus
perturbationibus uexatus animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad
eas quas rapinis ut hadeoust fed quas nimis fordida pat Amonia comparet:
Sed & boc quo<^ uinum effc cognofccns / proptetea^ damnans < ad
Helenum per hoftcsproAafatui. bes igitur quare in harpyarum infulam
delatum mixcrit Aeneam y?^uod ue^ IO ab ip As uefd prohiberetur iam
parariscpulis inde efliqnia eam uim habet auarina/ ut qui etiam dinflimi
Antfame penrequamuci minimam acerui par« Aculam imminuae malint JAcmis
tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua AAacxifflbcdllitateat^ builitate
animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«' i-% « % % t ik tltl
I- 1 II- 1- i j mii oa* iff Liber
toriiu <aIcgux'tninori animo runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle
pellitur fi foitemgcn ercfum^ fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus
a;neas t fed non prius quam cnfle a ccleno oraculum aedpiat < mendax
omnino uates Bc in E s fubdola } & quz uctborum firepitu
honorem inde incutere uelit unde ni timendum : bed profedo hoc morbo
laborant auari i Nam fi quando ho« ncOa quzdam SC una ratio lilos ad divina
exploranda erigat < propterea^ huma na bzcfiC mortalia
negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus si rem noftram
familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum x Sed ne«
fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i quam facile t
quam minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem fames iis timenda
qui in anesqui infinitas cupiditates & quz ne^ neceifariz ne<^
naturales lint fibi exple das propofuaint quorum uotago um lata tam
profunda efi : ut nulla auri ui t nullo gemmatum iapillorumtp cumulo
repleri queat . Qui autem ita uitam ia* fiituerunt > ut fola fe
uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^ ponant : his omnia
femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia* nius exprimam : at^
adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^ mz quidem
fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros Alexadrum macedonumte gem/&
Cynicum Liogenem utrum ditiorem iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi
Alexandro thc Ciuri erant plurimi tobu Riflimi^ exerdtus (ibi militabant :
Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz pene nationes acpopuli ex Europa
A(ia* ^uedigales huic erant.Diogene autem quid potcftangu (liusexcogitari:
qui prz tet rimofum illud uas e figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e
frigore calorctp tuf tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem
panno in utroi^ folftirio obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam
nullo file alperfa beati (limorum re gum dapes fuperarent. Vttum igitur
horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q dem inquit LAVRENTlVS h a
deptauatilTima confuetudine : quz altera pene in nobis natura cfl dirce{l'eto/&
rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno» lixndam tradam
beablfimum Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no dubitabo .
Vehementer enim iis aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non quam tum
tuii^ adiit : fed quam abunde id quod adeft fibi futurum (it
animaduerien» dum cenfent.Si emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo
fatis fupercp fadum (it ut nihil pczterea defidcret quis Diogene ditior
:qui cum (lue pafiurem (iue arato rem quendam cauis manibus aquam e fonte
ad potum haurientem uidiifet : po culum quod ad eundem ufum hdile gerebat
ueluti fuperuacaneum abnaedum putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior :
qui podquam a Democrito ut p\i to PHILOSOPHO plureselfe mundos audiuaat :
lamentari non crilauit tanquam nulla ratione diues effici poffet nili
illos prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau tenti de utro^fentis
inquit BAPTISTA. Q^uamobtem cum idem rex motus animi tranquilliute quam
in Cynico cognouerat ita pronuciaiTcticupcrem Diogenes e(Te nifi cifem
Alexander : magna ex parte fiultitiam fuam indicauit : cum in fummis
opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeae mallet . Quamobte difeant
homines quam paucis natura contenta fic s quod cum didicennttoracu# ium a
Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem
faciat diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi Pbccbus Apollo pn« dixit . Natn rempn
auari qui funt : uiriutn quo laborant fallis uirtutum limula» cbtis
tegere conantur. NatnquzmoEraauaritia eftream patlimoniatn uocants &
aut deorum t aut maximorum uirorum audoritate famem timendam pctfua» dete
conantur. Oolofa profedo cupiditas et quz cos etiam quos prudendotes
putamus fzpe decipiat . Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium cft
nof fe ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria
putabnoa modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam
exiiiae. Deferens igitur Harpyarum infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll
au» tem Helenus 8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus
ingeni» tam nobis rationem & ueri lumen quod natura in nobis
refulget,: quod nos fallis bonis decepti confulhnus ut in redam uiam ab
erroribus reducat» Ipfe autem uates uera przdicere poteft : fed ditfidle
eft ad illum petuenitei cum Iit itet pn medios hoftes tenendum : Nam 8i
fenfus omnes 8i apped» tus fenlibus obtempetans uolentibus nobis in uetum
iudidum delcendcrc (em» per aduerfantur:,At(p adeo nobis confultantibus
obfirepunt: ut uix radonem adire & uera bona a fallis fecetnerc
poflimus. Verum cum ad Helenum perucne rimus iuuat cualilfe tot urbes
argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe» rads emm
perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd tans
lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali»
am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi: multum^ matis
ef fedreueundumi & ad inferos defeendendum antea quam quietas in
Italia fedu collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur ; faulius
cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus non dico
profligatis /fed magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut diximus
hoftes in lumen luz luca defeeudit Itum demum aduertitfummum bonum: quod
in propinquo coUo« catum habemus putabat poculabclleioporterei^ nos amplo
dreuitu Mariamo ftris obfelfa peraauigare : Nam inter ipfam
contemplationem: hanc quam ui uimus uiuminteriacet is quem iam totiens
appetitum nomino uelutiturbulcn liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp
pernitiofiirima monlha infeftum red» dant: Si tamen eft pei hzc loca
enauigandum li IN ITALIAM VENIRE nolumus : Oi» ximus enim a principio (i
rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motuti .Sed quoniam de duobus
iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis quid fibi
uelit coniedari. Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf
proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates
dice» mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat .
Scjlla e^o s glauco adamata ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus
nofttis fio» rcndbus uigent: Nam quod eius uniunia pubes m canes
latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle eft cognofccre.
Chanbdim ueroipli quof Icrculiboucs quondam fubripereaufam quis non
intelligat limulai tum nobis auandz refene : 8I qnoniam ab ca non ita in rebus
fxliatei fuccedenubus ut gemur quemadmodum a libidine. Sed tunc potius
cumnimi sanguftiis diuida nun terminis incluli uidemur: ac ob eam oufam
minime nobis noUxa placent
ii •p. a MI ia Bi itk iw “!f
lab ipoK imi». okib! abii
l{DKd biW uocA \^2Dli
.qmX (uitbi SUID* jniisi^uin®^ iCID# aajb crlb<
jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfia eKccT^ eflcopinaiaut t
iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi dcri Mato dixit
(quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis quibus
uebcmenter dele Aamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct : at^
refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam
magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa tnagis
deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»
donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia
potius : At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter
uideamr/ planius heri cupio . Odenderas a principio ea ratione politum
ellc a Marone Troiam zneam cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas
uoluptates contempriflet t per thraci» amuero at^ dropbadas utrun^
auaridx genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi» tur (i buiufccmodi iam
uitia exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno monetur C
Dcle&at me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden» dit
cnimmaion quodam iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6
fideralTe: Veium quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a
Virglio [VIRGILIO] produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus
fit. fcdqui pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta
difficultate per continen dam uincat : nonnunquam etiam uelud
incondnensuincatur.Q^ui ueroin Ita liam id enim ed ad diurnarum retum
inueibgarionem uentuius ed/ huic non fa dsed : ut continens fit . Nam
quamuis condnentia a cupiditatibus arceatitamen S uoniam in affiduo
certamine uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil
tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed Quimobrcm egenus ipfa
temperantia uirrute undi^abfoluta: & in ipfo pene cerdo uirtutum
ordine corroborata qua qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue»
lum edam illatum penitus obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo mortalium
fe corroboratum in confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum
co fequendum fe exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo
effici nem poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice
quidem fed opd me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras
ludrare pachtnni. Ceffan tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem
moneat ut eo quem dixi ha» bieurn fe con firmet xneas uerfus unus indicio
elTe pet^d . Adiungit enim quam fcmel informem uadouidilfefub antro
rcy1lam. Quamobrem icdiflime uni» uerfum locum concludemus neminem
poffeipram dminitatem attingere : nili perlongum prius intefuallumeuih:
quem dixi habitum ita contraxerit: ut non modo non rapiatur a fcjlla :
fed ne femel quidem ipfam uideat . uod quid ali nd fibi nuit : nili
ita obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con ipedum
fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum
quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir tutnm
non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz pe
alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura
linOiui» nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas
exteri pofuilTet:ita sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue
generibus didinguit :.ut alia qua dam ratione ab iis illas coli odendat :
qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia h ii i I
qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii •d
fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni
iamc6« tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles
dixir/fecundas pw gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex
hominum rcAe & ex ratitv oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft
eoru qui io fudali acciuili uita dt gentes rerum publicarum
adminiftrationem fufcipiut.His {iximi fed m ercdioti gradu confiituti ii
funtiqui a publicis adionibus ueluti tepcftuoflsiac procellolis Kin qbus
fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot
& a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd
adhne tefictaduerfus quod Iudadumlit. Supremo autIocoeoscerncsqui penitusa
re« rum humanatu concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum sit
/c& mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure
ciida ad boni redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili
cupiditaribusiac pturbationibus omnia tumultuant hifip non oiu xgre
refifti^ rdicunt in ea hoium genere uiitm tesi Dcohataspotiusqabfolutast
Quaproptetidinill bptadcntiac6tendit/utm bil agatuticuius non
polTit ratio (^tem probabilis reddi i Fortitudo uero animd fupra omne
piculum at<p moetum affett : & nihil nifi turpia timenda admonet.
Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in re moderationis
legnn excellcdamioea cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni:
ut unicuimruumredd»’' iutx quoiureoesuiuant .lnrccudoautilioh>iumgene
tctqui ea it ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum
diuinaium conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus
mortalibus rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura
omnim cogitatione ad diuina copuertat" . Temperitia autem cum ea
folum nobis cdce(Utit/bne qui* busferuari uita non polTiticaitera omnia
fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii datp pronuciabit. Sed necaberit
fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo moduminullumlaboreminullu
periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w petuo^uti**' - j 1 n- ». tuo^ut
ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q d
luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi
ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit fcd fadiius
fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt. Quapropter uirtutes ipCrin illis
purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota
animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam
exered/non ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed iit illa
fola nofcantifuU J ueluti nibil aliud At intueantur. Adhibent autem
temperantura non ut cupitates coberceatifed lilas penitus ignorent.Eadem ratio
erit fortitudinis.llla eni pernitbariones non uincicifed ignorati Quin
opubic dura at^ horreuda Abi of ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in
eorum obliuione perpetua riimiuts 'ifidiligentetinfpides/ fadiecognofcesidabhelenoadmo
petduret. Quxomniaf ^ neri xneam
non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad
boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus: nonne
Troiam deftrueiatjacthradam ftrophadefipteliquerat. Defenieiatquidemjred
nondum $mca uitia fugiflct illa dcdilutc poterat Jiunc autem non ut
Moliirnt^iP Liber tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam
feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK tuooi roaadntut nunquam
eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni bus rcbua iterum at(p iterum
1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua •imte Italiam nunqua podturua
(itmdnc nobis documentum eftroaximum nui Ium ex innumeris uahif^ uitus
eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu lur t scgriiu liberetur
quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd temnere uoluptatesa
qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie maximorum
bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle tianimo
negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi' lens
quodda & eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici
ztu* mum etiam excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii
deo red deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle
qua dandis bc ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma
reru poteftate coo flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut
reliquos antecedat: Eft enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus
oibus euadere cupiamusi Ce dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz
quidem naturalis cupv» ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac
pofttcmo in tyrannide nos rapit: in qua muka aduerius humanitatem audelia
tetra nefariaip comitthnus : cu natura ipla nifi deprauata fuerit
ad magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam ft dominatum omnia rapimus.Hinc
fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania
fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima
monfiu conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht Dti
dedudt diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam & cxccifa petuntten
nulla certaratio anima reganfefe falli & pro animi magnitudine in
imanitaicla bi.Scd hzcquocp loca miferia ad fc fugientis uiri admonitus
qua primu cifugit ENEA. Quid enim aliud nobis cxprciTius
cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar oculis fubuccrc potcfi ambitio larofiC fumma
efferitate deteflandam 1)^300103 uitam quam cyciops Polipbemu$:qui procul
ab omni hominum confortio hu manis carnibus paicatur^^ inter luflra
feraru fola uita agat . Nonne enim iure Andropophagos tfic enim eos
appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui
carentia iam anima corpora id enim multo ma gnto Uerandumefiiinfuas
epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu» oatibuscrudelil Timc
exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd paratamtut cnturioptimum
queipuirum & iufhzqui ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui
utfcelerariirimi uori compotcsc £ Ficiantut:aonmo do fingulos homines
ttuddanttfed totam urbem:ne^ folum totam urbemifed integras nationes
ferroigni fameij populantuncun^ libidini militari fubiid imttQ_ui nc^
agris cultoribus fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi gete uomturiqui
pueros tcncraf uirgines ex parentum complexu aut ad mor tcmautad libidinemrapiunnqui
caftarum mationara pudicitiam expugnat: qui publica acpriuata faaa
ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo in florcnrifiinu re
publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob tincbantitot
nunc oibux foituius lpoliatos mmiraritni feruttutc abducunu V'
I.4 In.P .Virg-M.AIIego. uos igitur cydo^quos leftrigonas cum
iftorum imani fcttida cofErcnaif Quimobrtm uir iummi boni cupidus qui
antea non bene infttcuta animi (oi magnitudine quacun^ uia ad honores
imperia^ nitebaturmunc demum tam nefariam crudelitatem quam primum eam
nouit deteftatunnouit autem a ma dlenta rqualenci<| achemenide forma
per quii lapiens poeU omnes calatnittla quz ex tyrannide generi humano
perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues paulo ante omnibus
ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino piam cxtremai^
famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t Rclida
enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Qua:
quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non
poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummul tyrannidis odium
no impelli*Q_udigitur Maronis fapiendam noniureadmiretun qui uirumm
ita liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla
ita caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis
perueniat un de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui
fe ab omni ii auari» dxfpcde cxpediucntomnemip iniuditiaatipei Fentate exuedtiadreru
magnis rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut
Sidlia nue in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit
medio in pontus K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes
littore didudas angudo interluit zdu.lta enim abimortali
deoapnndpioaeataed diuinitas animoti nodrorumiut una cademi^ dt pars infedot
rdniside qua paulo pod ent didin^ dius difputandum di parte rupertori.Scd
quoniaipfa ,in agendis rebua uerfaf drea ea quz loco 6i tempore
citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit ut interucnientibus Uanis
pettutbadonibusi quibus prudenda decepta (xpe pto bonis mala cligitiratio
ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO
percu(riabitaliatandem diuellacur:6 (aruperiodradonead appedtum defid>
at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad
eo»' teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione
inferiod quz per Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato
patenteique nos mol bticm quanda eneruata homini a fenfibus
prouenienteinterpraetati fumus.NS quam enim ad ueram contemplationem deuenicmusinifi
pdus ipafut ebddia notum uerbo utar)fenfualitasnon modo earinda uerii
eria penitus fepulta in nobis fuerit. Q_uapropterli rede animaduerds de
Anchife mocte meminit poeta de fepultura non meminittno enim in iuliam ed
uenturus.ln quinto ueto libto celebratur funusiut demu fepuito Anchife in
italiam cotenderc lice «.Apparatis itai^ rebus oibus Aeneas ex
dciliafoluens paulo pod italix pot/ tus fubite fperat.Ne(p fuilfet a fua
fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam . bi dea ex Heleni przcepto antea
placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa honopi impcriiij cupiditate
expnmeredn qua quidc « fi Aeneas ita fe geiatiut nihil iniude/nihil
audeliter in reru adminidtadone aduius fit.faocenima Po lyphemo fuga
indicauit nihilominus cum in confpedu Italix iam fiti& in li nunc
pene fpeculandi conditurus: Animadueitat^ non poife in rerum diuiu
nuncognidonedcucnidsnifi humana haec omnia cotenat/nidtut ille quidf Liber
tettiiu rem perficere . Std appetitus qui nou dum ratione fubiedus
fit omnino ro> pugaat: faKU 9 argumentationibus perfuadet
noncireaurneg]igendoihono« tes/autimpia relinquenda .Percomodeo tnqiUate
inquit LAVRENTfVS tC ad rem uehementer appofitx.Sed unum efl de quo SC fi
fortafTe confentanea fu fpicer > tamen fentendam tuam uehementer
cupiam.Na quid fibi obfecro uult ^fficilis ilia & apprime moiofa dea
luno. Si enim manentibus TroixTtoianis iiafcebaturscur deinceps iifdem
illis in italiam enauigatibus adeo boftili animo aductlatunan
fortaiTequiautracp uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et. ifibne ipfum
inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun
quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus
ira fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales
in admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que
primum gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia
quxrin mi rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in
altum Veb dabant Ixd j K fpumas falis xre ruebant. Cum luno xtemum
feruaru fub pedore uulnus: quae deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux
honoribus inferuit cum animadueitatfc ab Aenea deferiia quo olimquo^cu
ille uoluptatemtociu amaret negleda fuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi
ROMANUM IMPERIUM ed fhtuutur foreiut fua Carthago ruituta Et: Quisenimnon
intelligat E ad c6tcplationem:qui ptxftanti ingenio funt uiti
accefferint/ illos ciuiles actio.* nes ccdercrturos. Oolet igitur St
pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt. Manet enim alta mente
repoEum ludicium paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum
& RATTO GANIMEDE ONORE. Qux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil
aliud nobis prader de* ditauoluptanbusuitam referct: Nam Paridis ludicium
in quo lunonl Venus prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide
molle enetuata^ 8 (uo luptatibusaddidam prxponi: Genus autc
inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri' um:acpoSremo RATTO GANIMEDE nemo modo
mediocriter eruditus Et alia traduccuHisigituraccenla luno naufragio
Troianos perdere tentat. Verunx ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis
Egmento recondita funt ulla ex pattelateant: neuequidluno: quidxolusiquid
neptunnus Ebi uelit incogni' tum relinquatur:pauca de animorum noEroruui
at<^ natura repetenda funt. Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad
multos locos enodandos adhiben da Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris
deiceps in locis ueluti ia cognita file tioptacanc luideo me qd* fumopete
cupio breuitati inferulturu.Sed rurfus cu eodieteprKc/E Ecagamus/duplextibionusipo
Eturus Emieritenim eode tpe 8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K
quod interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla
inteccapedine:percipiendum malo loquacior etk/q oomittere ne ingeniu
eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima difpu lationis paidcula
incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id quod pro Ia.P. VIRGILIO M^IIfgo* tPrn/f
<«•’<»' «*• 'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz
onginls diuimtate traximus t id eSsdt» tiocinandum/ad concemplandum/ad
intelligendum mgitDut:eam animi pai> tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem
nuncupamus. Verum hae mutiifed przcipuc Platonici chriffiani
FILOSOFI duplicem elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem
appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro TIfct. qu- i
4eIIedumnuncupant.QU3propterfapienter Auicena animos noftroi ur t alterum
lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia r .na
altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales &
adioneshua manas per prudentiam adminifhemus. Diuiditur igitur mens in duo
rurfum in tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum
ratio qua iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit ®at:Mulier
inferior 8l regatUR Quapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui
mulier bencfadensrnd ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari
muliebri: Sed commode exprimitut I 'tedius eum
agereiquideiideriorerumczieftium raptus plurima corporis &fo cialis
uitz commoda negligat: quz res uideturiniquatquam eum : qui ut nuW Ium uitae
ciuilis officium deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura ita
(intiuideamus quz a Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus
uentostquoslouis iulTu regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui
poterant Troiani nili illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui
tz ciuilis cupiditas (it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu«
periorem hominis rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono»
rumae imperii ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo
gradu deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC>
TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege
ualc4 at. Quamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos:
K teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc
fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrd Ot&infiituti funt
animi noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars
quz ad tes afeifeendas fugiendaf^ inlurgit: przponatur libi ea rationis
particula : quz infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat.
Ratio auum - Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd
aloue.Hzciguurdumfuo co ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil
humile cogitat: fed quztp aigre^ gia: attp excelfa meditatur : teneti^
fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein habet: mollit^ animos /&
temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii tum cohercet : at^ inna
modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>' ditiis
demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena rum
cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo
uisuentos/hi enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem
apped<> tum cflic diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus
ferientes bor« tendas tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem
honorum cupidi tatesrquz uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non
difccrnitiip fumcp appedmm : qui a fenfibus originem dudt: non modo non
refhnguit ardaemractum ultro inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft
mens no / » Liba totius Itlbullu Qanitn rnunicotit^tm:diuinatuin
autftn cupida/mratiis perturbati poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad
lunonemillla enim cum tecencitiiuriaanti / MUm (H)i uulnus refrkafictiira
plena in zoiiatn tendit. Kimbofum in patriam loca fceta furentibus
auibis. Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda
fibi deligat nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum
cogniti onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in
appeti tum p tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis
iuflli hoc regnum zoio commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa
obtemperabit appeti tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro
legem deum ellr : malo autem bbidincm: Quaobrem huiulcemodi
rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue iuriti qui caufz (iiz
diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadae/& largitionibus cor tumpae
iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc
4tillc gentem fibi INIMICAM ITALIAM attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^
cn da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a
iu BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum
terrenaruiatrp illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere
uita nofira impio ratio tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio
fatetur ueluriquz(^nifi pturba lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum
impium exerceatrac decepta cupiditate ea tum raum quas magnas putatmentis
habenas remittit/ac mare perturbattquoni •tUturbulemimis cupiditatibus
appetitum codut.Quibuszneasqui ad cxle^ Bium rerum contcplarioncm
tedit/adeo labo paiculorut^ magnitudine infrio giturtuta
jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus moueturr
ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima
iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis .
Na qui paulo ante tranqllo appetitu adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspaturi
Mtionibus adeo illis oixzcant" :ut quicqd luminis a
rdnepueniebat/peniti» tollat tVnde fit ut nox atra ponto incubet.
Appetitus enim qui hadenus luce rationis illul habac nuc illa amilTa in
tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim
elatio quzdam elliquz a rebus fecundis profluit. Alii in fummo fludu
pendentmam fupra fuas uires difficilia ardua^ aggrediens tes amdi
foliciti perpaua expedatione pendet. Alii terram inter fludus tangens
tcsabipfa fortuna dnedi mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in
fas alatcntiacontorqurantur. Nam multi cum impetu perturbationum ad huiuf^
cemodi cupiditates explendas ternae ferunturiin uariatp pericula fibi
improuifa inddunt. Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes
ttahat.Nam quis non uis daefle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre
omnino apparent rari nan tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium
turbaiquos perturbationum p cclh]dcmagit: paud emagae ualentiFado enim
habitu pauci ad portum enare pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a
temone tcuulfus imo in przceptls deie dus in profundum ruitiCum enim ea
animi pars quz uitz regedz przpolita eft fuaiicde deiidtur/adum iam de
uniuafa te cite quis non putarHzc autem otns Iliacum lunonis zoli^ culpa
acddiftenttinterim Neptunnus commotus graui* i In. P.VIRGILIO M.
AIlego. tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda
cxtuIk. N(ptaliutn mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia
alia quo^smaf^o» mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui
prxfantimouet' enimilfe iudit» fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum
tamen impium fupioii ronirefenu tur. haec igif r^tio quam nuc neptrai
nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba« tionibus rapi uexariip
uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde ipfius appetitus
fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum rapi
cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta tam
intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw
ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non
cohi> buerit: fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi
uni affecat cuje zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer
increpariqui impio titanum fanguineorti/deo^i regnum
infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd filios fuilTei Aftreum aut
unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad« uerfus deos
imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>
periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali
ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui
dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi
demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund
ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic'
uentM c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario
fempi&nalurc repu gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus
comittunt perturbationes i qux flultitia 6i temeritate humana gente
appetitum diuinitatis nolhx id eft tonis itm perio fubiedum turbare
audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues ti:fu(lcc^ impium pelagi
fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw iufcrmodi illud e(fc
oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi igitur fentemiam
commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui. Qod (1 qua in parte
fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius IcKo
quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore
impe< diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori
animo refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp
eft etiam quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos
ex iis qui & ha bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam
indodilTimi hominis in at rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo
ingenio tam diuturno nunquatD tempore hadenus uenerant.Ego inquit
Laurentius quid aliis euenerit ncfaoiiiu hi tamen nunq tantum arrogabo.
Verum quia accidere in tanta rerum copia at^ uirictatc dodilTimis
quibufc^ folet/ut cum plurima eodem tempore fefe med of ferant: nonnulla
fint:qux fic fi non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimilitudine
percipi pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp
ediflicrae turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime
confequant":utar ea quam mi hi pamittis licentia:& quoniam de
confugio xoIi:at(^ deiopex nihil a te didum cftipetam nifi id omnino
inutile ducas:ut fi quid ea in fabella fitiquod ad rcno< fisata
confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m mentem uenit i ac
edam Liber tertiuf nthinu Horib^tne(!erat!ges« Vcnicqdetn. Kamaiffi
nKo adiuiDis ad humana abducenda cftinullum pene maius przmium proponi
pote(l:g pulchrum cafiu m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz
eft coniundionis maris SC fttminaeezpIetur. Lndefoboliseft |> pagatio:quxquidem
non fotum uoluptatiii tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati
confulit/ut etia morrui aliquo mo do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit
BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH oni rationem habcas quicq eft
prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi amiquod alio paulo pofi
foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura
fcii» pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci
mithicon nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec rent:
Alterum nata rale/idenimeft phy ficonrper quod comode
uimnaturxexprimuntiut cum per iatumumhlios omnes przter illos
quatuoruorantem tempus nebis denotant: itodii quatuor elementa
ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero iccirco
ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur
Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita
confundere:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore
& aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina
alantiac nos adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum deducant:
Nos aur quo ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis
operofum ne godum |poni uidebat" duobus primis generibus obmiiTis
intra ciuilis generis ca cellos difputationem noAram mcluAmus.Q_uapropter
illud paululumtqd mo* do de fabula decerpferas/noftro operi conducet: Nam
reliqua phy Acen fpedanr. Dicunt enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe
eafcp lunoni nymphas attributas exiliorum enim intcrptatione luno aer cA*
Aeri autem feptem quzdam attributa fuiit.Septem itidem in aere ignum''. Quz
omnia ipAus folis tunc maxime cum in noftro hcmifpcrio ueriat :opera
proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica tur eft aeris ut leuisAt:ut
mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitum P Utlpirabilisxbasigic
ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz in aere gignunt pi
imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu li minittras
pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo Dat :fcd
eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^
us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a
ter<« tia niger color perucnitx Contra ucro partes quz in ca purz funt
croceumiquz ue ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem
remittuntibzc igi tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex
fequutur phy thon come.* ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac
tcrremotustdeqbusfuo ordine difpacarc no grauereniuriniii ex tnbus illis
quz dixi generibus ciuile folum profequi conftitu il Temus: Vaum cum
uoies bzc probe & quid qua ratione gignantur:
faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele quidem
pr acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod
autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no
carenEft enim ca in aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io
cu pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ;
p 1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita
perplacentuit nihil in iis prxt» rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de
ratione appetitu^ diziftitfed uide at pugnantia
Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu
netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic
impetiutn fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non
conoe datur:ut mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat
aut fcdett No co inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem
rationrmiut cum deage dis rebus iudicium habeat/ipfa appetitum & ad
raquz afeifeenda funtimpellati & ab iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum
quemadmodum in bene inlhtutare publica fupremus quidam
magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t alii tamen aifunt
minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili totius uitz
imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic ge
propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum
humanatum decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft
fupremus ille magifha* tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede
faipcura eil zoium no niii clau fo carcere regnare: quoniam in uita hac
communi ac ciuili potius cohibetur appe titus ui quadam rationistquam
quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo nas affcdionesconucrtuntur:red
potius moderatione cohercenturjRatio autm fuperior cum caput ex undis
exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun da in tranquillitatem
redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea mo letqua hadenus
obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe excitaUat^afeniibus fe uocattquo
tempore non folum cognofeit qua hieme opprimatur zneasne in Ita liam
tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam lunonem id eft rerum bu
manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem uentos qprimumanutire*
mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus rationi obtemperantior reddi
tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi daturos minitatur: quam illi
ab Aenea acceperint: nec iniuria . Nam appetitus a perturbationibus
inuafusad tempus uexatur « Intelligentia autem illa fuprrma fi imperium
fibi uendicae tit/ quoniam fummo lumine animus illufiratus nunquam
deinceps nec ded pitut:nec labitur : neccfle eft ut perturbationes:
quarum genitrix falfa opinio fuerat in nobis penitus fepultz reddantur.
Q_uapropter non fimili pasnaco milTa uenti Neptuno luent. Sed undz quz
fequantur . Remotis uentis ou bes dirperfas in unum colligit Neptunnus: at«^
colledas fugat: Efi enimboc intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas
opiniones profequatur : in unum congerat : atq^ demum confutet: quibus
confutatis tum demum folis lUe ce: ea enim efi ueri cognitio eunda
iiluftrantur. Q^uio 81 dmothoe & totos naues a fcopulis abducunt.
Cimothoe per undas currens fi gtzcum uerbum aduertas faale interpretatur.
Triton autem neptunni tubicen babetur. Iftaigi tur duo numina afcopulis
cupiditatum naues reducuntr quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus.
Scientiam autem autnofiro ingenio al Tequimun cum id fua uclodtatc pet
eunda difeunat t aut dodtina aliunde accepta pd«' IIs I a :v t Ii* :lil i i M d nit ai fli iib idi &bi m Ml ItM
IS it alti nbi lii» IStl' uti
«m 110 0» 1» ufl «I (i ‘i? iit tf tnumilludd
motlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut Cubidaes fuo
przconio mandata prindpis manifcfti Qtidc dodrina quid ucriras
4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus
fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus
ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc
ad reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti
Troiani cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere
pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum
carebam ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam
fpecu!ationis:cartha ginem adionis figuram habere. Quapropter id nunc
exprimit poeta quod in humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim
multi:qui cum ne in uoi luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in honoribus
fummum bonum inueni^ ant ad ueri cognitionem fefe conferant; Verum cum fe
humana omnia Facile poircconcemncrci& reorfum ab hominum coctu
contemplationi incumbere cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam
reliquerunt cum tantum relidam tum rerum defiderium infurgitiadeo ex
recordatione tantarum illecebrarum cffeminanrur: utrurfusin fumma spcrruibationes
incidant : qux quauts tan« dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi
defacigatit^ relinquuntur ant mi nodriteum non fine difficultate tam
horrendam tcmpdiatem euaferintiut latis fupert^egiffe putent fi
focietatem humanam incolentes qux immania 8i humano generi pernitiofa
funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas
tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in ucnfpeculatione pofitaefideccrreantut:animaduettantqux
hutufccmodi ui^ tz genus humanam pene imbecillitatem excedere cum
Arifioteles maius aliV quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet
fecum fic ratiocinantur.Non- parum erit uoluptatum incendia euafiffe :
Thracenfium rapinas euicaffe : hac harpyarum fordes & Cyclopum
immanitatem refugiffe . Nunc ucro fi id non. pofiumus: quod diuinitatis
potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis reprehendet ut in hominum
locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam ^ nati fumustuerfati
prudenter iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa rati pro pania
ac parentibus nullum laboreminullum periculum deuicemus.. In omnes qui
nobis fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus nofiris aut egenis
liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo- firemusiaut
iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate noffra fub«'
leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp
inipfam fenedutem: quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf
uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt
am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe
confidunt: Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad
meditandum in agrum inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a
corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia
inclinata iam die/ id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis
ceffante.Conanr prztereii Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio
corroborareiqui ufutn potius lQ. P.Virg.M.AIIcgo< triqaam
aufamunde bonum (it confidcrantesadionem contemplationi aiw teponunt.
Pcxfcrtim in uiridiori aetate: in qua philofophum agere, dicere rem
publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon ip
tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : & (iudia in Dione
exerciM retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione
quieuilTe: Xen ophi» tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere
laudant:Srn:m ueto in fpcculatione admirantur: & beatum propter odum
putant: Q_ui n etiam mub tos ut fapiendorex fierent plurimos populos
paagrafle oftedunt : Q^iuproptct K Homerus Vlyxem fapientem propterea
dicit:quod multorum hominum ut bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac
plura alia in unum collig^es/qux tu fummo artificio ac prudentia nudius
tertius cum hoc genus uiucdi laudibus efferes enumerabas fpeculandi
propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^ ad res ciuilcs agendas
interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui tuperabit/is profedo
iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt enim fua (ibi
qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu
gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad
imbedllitai bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine
fumma ratione tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore
defcribituricuius formam li< tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in
fece(fu longo locus:quem infula portum ef&datiMortalium enim uita
continentem: ea enim terra eft quz marU nis fludibus minus e(f expolita
nufquam hibct.lnfulam autem habet zfiuinti busafliduofurentibafip undis
undu^perculVam.Sed quz tamen ita fua mole beteat: ut aduerfus omnem
uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr obduret : Nam cum hzc quz
momentanea funt: & tamen (f ultitia humana bo na putantur fortunz
temeritad fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in Cendant
conficerent profedo nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis
unditp mari mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in
16 gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus
procul a perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum
repelluntur. Cu hin: fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia
aduerfus res fecundas opponar i rede^ uafte rupes appellantur. Virtus
enim in diffidli luco polita etf.Aode qtf ita medium tenet:ut quocunt^ te
inde araoueas:ad extrema peiuemi ndutn liu unde tanquie piti rupe labatis
gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam non folum noUra prudentia freti res
magnas aggredimur. Vei um multo magu
diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota tuta
li(ere. Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba
tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus
horrenti umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti'
am inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem
tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz
nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef
fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz
dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum
fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo
beata omntae e quieta tamen 'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum
Tubcunt: qui fuprema diu fedati ac poRrrmo difficultate deteriti fe in
uitam focialc contccucnin qua ciuilibus uirtutibua exculticuinuerrentuc
laudem non medioaem reportanti longe ta« en ab ea diuinitate qua quairimus
abfunt. Quod aute feptem nauibus huc iubicritiquodi^ reliquos c (copulo
profpiciens requirerenquod detnu focioru inopiam raritu uinoij
rublenaunic buc pertinent ut intclligamus eu qui rc pu«
bJicamadminiflrandam fumat oes labores omnia incdmodafubire oportera ut
illoru quz fuz fidei cdmifTi funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter
fit Acate$(^ea enim principis cura efl^ igneexcitabit/ id eft dcfides ad
tes agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit
fcopulos Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui
afTunt confulitiillo tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione
confolabituc:optimif(^ pcepds ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi
hoc uitz genus ut m eo fedes & gere uelimusiSed effe omnes labores ac
difFiculutes fuperandas /ut in italia per ucniamusiubi demum fedes
quietas muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu
uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderat uoluptas iquza fenfibusprofeda cor
porca edet fit caduca: fit qua (latim poenitentia fequebatur.In italia autem
uolua ptasfuma prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp
fituo luptas quz perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc
enim opti tni principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione
humanz indigencizt non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita
in illa uerfabic :utcu quz ad mottaliu inopiineceflaria funt
uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt iubebit^ eos
aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus fecundisquas in latio inucniet
feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter ratidimos uitos omnino ex
cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non chridianus omnia tamc chri
dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege apodolu Paulu. libet
enim unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput nominareiqui
uitam hu manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne^ corporis necedatia
fubtrahen da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid enim ille
fufe late de Cmbinquod hic poeticis an gudiis non coardetiMiraprofedo
restut fingula pe ne uerba longidimas e platonicaiaridotelicac^ re
publica:fentetias ampledi ua IcantiSed nolo quod quidem hadenusnur quainfeci:itaexade
hunc IcKum profequi:ut reliqua deinceps aut omittenda:aut ea celeritate
przteruolanda fintiut idem nobis eueniatiquod longam piduram in
citatiiTimo curfu per« (piciennbus euenire folet.Ii enim in puado
teraporisicum id etiam magnope tecontendanticolorcs notare uix
poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu Iaera fit quam grzci fjmettiam
nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu quaadtnaiusocium
differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo« uisad Venerem meram
textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia poetico f)gmento:ita
tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro: fit unde luboyt
familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu laudet.Nam quz ad
allegori am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda cefeo unde duc^.fiu
fpote fcquanf In. P. Virg.M. AIItgo. Sin 3utc ui
ingenii inuitamuntur/twtu de grauitateruaamittunttatridtada pene
reddaqtuttluc^ omittamus anxias interprxtationes:ea(p folumaflim»
tnus/quz non modo in abdico non latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant.
Quod autem paulo ante ad mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc
temporu anguSiz ferebat no oino obfcurz in principio expolitu clTe
puto.Ita^ teuertor ad Acnea^lc enim per node plurima mete repeti ftatuit
ut prima illa ccfceret loco^t natura diUgctius exploraretSt hoics ne an
ferz teneit inucdigarc. Q_uibus untibus qualem oporteat eife rei publicz
adminiftratorem egregie, a {timit. At^ in primis illud bomericd
approbat. Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi Iit uu'
uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum omnes
fatebuntunEft cnim’optimi principis uel praecipuum munus cum loca inculta
uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum proponat. Na qui
uitam ciuilem diligenter intueturmaria hominum ingenia;uaria fiudia
uario^ q motes inueniet. Sunt enim qui redo honefto^
r(mperincubant:ciuili con cordiz faueancsLibertatem (aluam
eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui blia ualete uelint.Iniuria
oppreflbs fubleuent. Superbiam fcditiolorumciuid deiedam cupiant.
Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de« ni^iac iufticia
omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari polTunt: quoniam
humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos repeti as/quotum
pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum relinquat: pluri mos qui
fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut ueluti uulpeculz do
lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum iTnt opibus quo
fit honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute longe
fintintetioress buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis
effigiem mebra:^ humana retineant/tamen quoniam mores ferinos induerunt/no
amplius hominesifed immaniffimz ferz putandi funt.Q^uapropter in humanis
coetibus longe plura funt illa;quz uitiorum uepretis at<^ fenticetis unq
inculu hortent: quam ea quz ingenuis artibus prxclarifd^ uirtutibus
exculta nitefeant: progreditur igif Aeneas ut fingula diligenter
exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima comitem fecum ducit:8(
armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re publicam
admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut for
tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac au
tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu relinqua
turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis propoiito
adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum elaboridd/opus
eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote catum reru quz
age dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios labores
obtorpeatnc.> ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen cofeffa
dea/qualif(^ uideri czlieo lis & quanta foletiEam enim fe tuc
offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab ducebat/ut ad fumu
tenderct:Q_uo tempore oportebat ed inflamari amote di uinaru rerutqui
& ipfe diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit. Hic adt catum
reru amote incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte
mataiademafz Liber lotiui
li io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt
s'4U *. utii at». ia? r i*f
a O liii ga< 'fb fihhQuapro{iter non deam
confcf Taafed humana fotma di RiffluTata
fefe filio offcit:ftin (yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu
planius uobis nf primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt
prius de fylua rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere
: Trifmegiftus Homerus ac PLATONE oftenderunt: Atm ut quot fentirent
dilucidius exprimeret au ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem
demitti finxeruntiqua fa> is gradibus eunda connedanturteuius origo
cifentia dei cum (it eo ordiue proce ditut ut fecundo in loco
potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t bxc fequitur
fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit
xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by
le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refideti Poifem fingula non fine
fum< mo ufu atip voluptate oratione mea profequi. Sed quoniam
difputatidi noftrx neceflarianon funt brcuitaticonfuIam. Quamobrem
exteris obmiffis deu prin apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil
igitur deo fuperius . Nihil fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil
illa uilius . Media uero inferiora fupe« nntta fupetioribusuincuntur. Eft
igitur deus & fyluathxc autem niatetia efttex qua omnia corpora funt
. Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet .
Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi
facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas
illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for
masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam
infpicias formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi
recipiendi faculta te t & ut ita loquar confufe omnes continere
uidetur. Materiam uero quia matet fit didtur. Ceus autem pater: forma
uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma nafeitur . Q^uapropter rede
Trifmegifhis patrem matremtp xtemos: pro lem uero mortalem didt . Mater
cfi materia quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C oeat : ac fua quidem ui
. fila autem ex alterius immiztione condpit .Condpit au teminfufione
fpiritus diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus t Q_ux res eum
mouet: ut deo ofiidum patris tribuat : quoniam infundit: SyU ux uero
mattis t quia a deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb>
bere dicit : quia a deo ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima
nomi aatquibus uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim nihil ad hxcqux
agi« mus: Sxpe umen totam materiam appellat malignitatem :ne«
iniuria.lpfa eni Iblacau Qefitutresmintentumcadant. Namquod a materia
feparatum efit id nunquam interit: Nunquam enim quod fibi contrarium fit
capiti fed illud fu« gitat femper at^ declinat: Quod vero fylux gremio
continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam fylua/cum ad omnes quas
qualitates appellant xque lebabeatcuenittutuelutialtera Helenaintra teda
uocet Menelaum:ac limina pandat. Num dum foimas illis quas hadenus
receperat contrarias admittit: fc« cile fit ut cxtemx irrumpentes
domefticasextinguant.Q^uapropter quis illam malignam non dixerit t qux
familiares fotmas prodatiignotas admittat: K uelu ti fufiepri iam in fuam
fide m clientis caufam deferens : aduerfariiqi fufcipies per timtnam
perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat etiam & perturbat noftras
mctesfyb k rn.P.Virg. M.AIIego « Ui t omae ab ea
uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St At ignorationem
ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire & Plato S plaeri^
cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs funt.Huiurcemedi igi tur
rationcmotus diuinus Maro cum rerum humaiurum:8;qua; corpore no a
rent:proptrrca^ in uariis erroribus uerrenmr:amore inflametui is qui in re
pu> blica princeps effe cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in
tpia lylua:guo niam eunda quz agimus in materia demerla funt illam
ponit.Nec temere umv tricis habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo
ante dizimus fibi infedai das proponiuquifuis cibus
rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir nitatisin ea etiam iic
diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum temperatocai circa humanas
adiones uerfenturuamen quoniam honelhim redum^ tuentor eodem illo
amoroquo hzc caduca appetimus / originem nollram diuinam eflie
fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam: cum animi magnitudinem atb
amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones .Sed tamen quis non uideat
illa a diuinitate proiteifei C Eft tamen oratio uenetis non ut dcz : fcd
ut hominb: K tamen nefeio quam diuinitatem redolens : Nam cum Carthaginem
proficiid lii adeat:argumentationibusab humana prudentia profedis utitur:
Nam K quz de hilioria Didonis eruit : ea omnia falutis fpem afferunt : Si
cum aliquid funp rum przdicitmon ut deaifcd ut augut ex cygnorum uolatu
przdicit . Illud aute fumma fapientia czcogitauit poeta : ut in orationis
fine fe deam manifeftatet Ve nus : Nam cum in uita ciuili quz reda Si
honefta funt diu coluerimus ez illotn pulchritudine ad diuina quotum hzc
ueluti (imulaaa funt erigimur.His igitur rationibus a matre perfuafus
Carthaginem tendit oblitus tamen tenebris : ne illi us conatus aliquis
impediret . Et profedo fic fe res habet . Nam qui magna pru< dentia
przditi funt uiri cztnam multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad
redum honefl um^ trahunt : ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q> dem
fi palam facerent autzmulor uminuidia: aut dulcorum infcicia impediti
illa ad ezitum minime perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv
tum libido nihil falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes
fimutan^ do aut dilTimulando fua conlilia occulcant . Nam ut cztera
obmittam nonne qui leges tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua
conlilia alicui deo actnbu^ erunt fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis
Numa Pompilius facere finiu labatilusciuile Spatthanorumez Apollinis
fententia faiplifife iinzit Licurgust Q uicquid Zautrades apud Atimafpos
conltituitid a bono numine accepilTedi cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis
tradiditiin Vedam reculitxNam q mul ta q difBdlia inter tumultus
militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii la a Diana per
ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna nifeda:
Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^ tertius
difputatum ed nuquam optimis indituris Si
legibus temperata erit res pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut
przcipiunt aut prohibent ad eotu qax per rerum magnatum speculation emuideritu
regulam ac normam sapiennllb tne diligant. Cum autem Carthaginen lium
operam indudriam circa urbem difiandam dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug
onuiia colligit: quae^iia9 c*\Ili «f m ii m ta ai l
U U Kl ii M ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^ F! jpb (f ob 09 0* xb s 3 ib <1 Liber'tertiui edam
(apfari( Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i pluribus libris exprimuntur tamum enim ea
parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt: uibus V^^fe contra
czliiniurias priuatisx difidisfedefenduntiHzcenim duoprx^ fiant ut duitas
efle pofiit.Poft bzc uero ad iura & magilhatus fe conuertunt : ut
nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^ e/Teualeant:
Quoniam autem ad magnificentiam & ad liberaliutem &ad uim propulfan^dam
publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio habetur
t Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi & corpora
ad ualitudi nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^
negodis defatigatiihonefii/Ti* mis ludis relaxati pofiint: Qua autem
mente & quo confilio illos apibus com« paraucrit : quzfo diligentius
animaduertite t Si enim huius inferti naturam con fideretis nihil illo
aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius
(eperietis Ouccm in primis habent quem fequanturt cuius impenum nuquam
contemnannlabores inter fefumma zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C
opera fua fadunt & boftes arcent. Quicquid quzrituriid omne in comune
qux iituri Quz quidem omnia fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam
ciuitate cxmfiitues. Erat autem in media urbe templum lunoni facrumiut
ofiendatur ni bil oportere in re pub.antiquius religione eife • Et
quoniam primx in uita cluili przces funt/utimperium non folum
conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab re templum ipfum lunoniiqux
imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare longior fim:at<p etiam
minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in templo depida erantiquz
a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU
fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at Didonis orationecontinentur:plu«
ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in coiimdione hofpitalitacis
deprz hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis expnmituriQ^uoniam uero nouerat
fapictif fimus uatrs primordia rerum pub.& imperiorum uirtutibus
niti: Veriiep effe Sa« lufiianum illud fi imperia iifdem artibus
retineientur/quibus acquirunturind ef fe tot mutationes habituras res
humanastiedreo primum regis reginzq; congref fum ateligione/a
bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita paulatim in
deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re pub.ad«
minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip labat ui«
bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz mentis a labore in
libi« dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu fodali potius
inchoatz q ab Iblutz funtiHic autem ita de uita duili agituriut uelit
exprimere quod paulo an te dicebam fundameta rerum.p.qux ex paruis
aefeunt/habere meliora initia / q exitus; iccirco reginam a prindpio in
omni re temperatam pofuit:paulo uero po fiea amote infutgente paulatim ex
temperantia in continentiam labitur: pofire» mouida amore incontinens iu
redditur:ut demum in fummam intemperaiui» aminddat, Moueturautemaprindpio
Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita cotemplationi dedita
intuemur:Sed iis qux humanis cm tibus non folum bona uerum etiam fumma
bona babentunC^uis enim in ge« neris nobiliutemiquis formx dignitatemiat^
excellentiamrquis deni^ multo ornatu infignetn orationem inter fumma non
enumaetiCurn in foro/cum in fe t lo P. Virg.M. Allego oituhzc
BOB fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia utro ta
uica comuni pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris. Muiti cnitn aut
tnalo exrinplo motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui
n ad praua raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici
fadam inducat. Mifere enim amis mulier plurimu iam de eo animi robore rt*
mittens: quod inteperata hadenus apparueratcontinctem in primis uabis qux
ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem fed
tameilli reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif i Non
enim ex philo fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate
ppoiitasaut ihcetu earu te* rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc
nec firma necfolidapror pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip
fpem det dubiz meri: foluat qi pudorem. Qua quidem re acciditi ut uidam
in incotinentiam probbertt:ln ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica
confuetudine eo redada eftsut nulla amplius obflantr pudore furriuum
amorem minime mediteturifed impudenUi ma tffeda turpem libidinem honefto
nomine appellet: In qbus omnibus quid aliud teneat/quid conat' diuinius
poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex cmplar ^ponat/quatum detrimetum
iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin cipum mentes pro induftria
ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua: paulo ante
extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu alloqueba
tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in hofpites/cofilium in urbis ex
*dv ficmone/iuftitia in fuos ad czlum ferebat ;qu* in publico nili aut
diuiu* aut pu blicz rei caufa cofpici nefariu facinus putabat. Cuius aius
pudore munitus aboi pturbatione liber pfcuerabatmuc eo furore agitat ut
tota urbe ames uaget :aut li domi fine amato fecorineat ucluti li fola
fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro* letabefcat. Publica aut opa ita
negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip fupnbust quz fuoyt ciuium labore
ac (ludio fumma cum celeritate erigebant iniicimperfe da interruptatp
pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam fibi propofuerat/ue* tum
difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut illic fcdes ponereufed ut
claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris Didonis illedus fipofuum
^fiafcmdi abiiat:Nec deefl I uno.Qu ne res tomanz oriantur/ Aenez
Didonifi^ coniugi um Carthagine facicdum curet. Verum cum id fine uenais
opera pfia nonpop (et: Venus aut filium non Carthagine uerfari:(ed in
Italiam enauigare cupetihac deam dolis aggtedif lunoiut quz Catthaginen fiom
caula faceret: eaoia Aenez beneficio fieri uiderent .Q_uz cum dicit Maro
diuina pene lapientia uitam foa alrmdepingitiinquacumita quidam
excelfoanimoucrfenfiut humana cotem nentes ex hoc primo uirtutum genere
paulo pofl in eas uenturi fmtiquas purgatorias appellatiat^ inde ad illas
tandem quz funt animi purgati puenire conten dantitn illecebris rerum
terrenaru ita molliunt" lutczlefhum quas fibi folasppo
fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi ENEA Didoni coniugete: id
aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem pficere non ualct nifi
alfeotv atur eius amor: Amor autem aiaduertit huiuiccmodi coniudione no
Aenez/ftd Didoni cofuli /no enim animis hotum ad maiota natistfed ipfi
impio condodt» ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn ^ ficild/quam in adioni^
uciDwfcd - Liber tertius cetum sdtnitiiftratioa
(apientibusii deferatur adum iit de rebus hutnatirs opor trtifta quauis
falia e(recogoofcat:quae libido regnandi perfuadet tjmen ailin titur;iiuc
iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus confulendum cft mifaicordia motus
sCcldiratur autem huiufcemodi matamonium in venatione: de qua quid
femiremptulo ante latis ut opinor uobisdiludde explicaui: Quodaute in
fpelunca loco fubtercaneo conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/
nifi cos qui honores/qui opes/qui imperia quzrunt intra corporeas
caducafc^ tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem
&lunonem;prxtet nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum
afiFuilTe: Q^uz omnia iis quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus
igitur Didonis amo K Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam
longa eft in fummo lu<» zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi
aliud uult nili egregios quo<^ uiros interdum a redo curfu ambitione
aduerti:& honorum imperii^ uoluptate de« linitos hiemis
afperitatem& enauigandi in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc»
Q^uapropter nili diuinitusfubuentum Iit excellentilfimzatc^ immortales
bo^ mmumuirtutes tam pemiriofapefte pereunt; Id ingenii at<^
beneiiciiin Circe fuilTe fcruntxut Vlyxis fodos in uana monllra
tranlFormaret: Illam tamen ica in luam potclhtem ttaduxifle Vlyxem
audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*' ta.Neccgoid admiratus
fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas Iibidi^ ties fadle
contcnunt; Quin & cos qui illis dediti funt rede monendo a tanra fer
uitute in libertatem uendicant. At lu Donemfuperare ranOimi mortales
potuco tunt:Nam qui imperandi cupiditate non tangiturxeum omnem iam
humanitas tem ruperalfe &ad dioinitatem proxime accemfTe
crediderim:Q_^uapropter ena quos in fumma admiratione habemus: cos ita
frangi huiufcemodi cupiditate ui
demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle
enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum
cotenere: At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum
macedonemtautlulmcz*' larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum a
uero cedo^ difcedcre fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud
ex Euryde impium oma nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum
approbare non dubitemus; putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$
uiolet : Q_uz quide res una mouit poctas/ut Herculem quem fapiente
ferunt:&; rebus a fe przclanl Time ge ftisczlumafile daircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua
lunouis fzuitu amfuperal Telingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima
nouerca magnord uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^
credunt } fed czleftiu rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad
fummum bonum peruenire licet: (^uor^uide nili placata prius iunone id
autem intelligjmus aid fedara ambi dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis igitur
hoc Aenz non condonaueritxac potius quis illius no comifercanli Dondu in
italiaexillensxtis eoimeft fumaru uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo
ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno nis dolis apiat"' :uc
matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis cocel&s ppch»
nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s fudaretac teda nouare iftituac
t pur^ puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu impetti Uignia funt gelbrc gaudeat: In. P.Virg.M.AlIego*Non
eft o LAVRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti «qua tamen condmo no Ora arduum-.tatntp
«xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui*
difpuututui uidaetut Mani^ hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio
in iis qu* hai^u* dida effcni civ fum^oitum ex multitudine eorum qux
adhuc dicenda quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in
colligens non pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual. tudinem<jno
(bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris: mibiomnid.ligentu«nfuJ endi^!^ difputatio
longius ptoducaturi Atquiegoitidm. nqmtLAVK£NW^ idem cenfebaraifed
ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^ diebar prxfenim cu
te o Manotte tuas partes fuo tepore equide mquit MariottusiK fimul fua
lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap prehendem/nos ad cellulas ubi menfx
paratx erant reduxu. R URISrOPHORI L. FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM
niivTASvM laVSTREMFEDERlCVM
VRBINA- jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VIRGILIO
MARONIS allegorias incipit feliciter, S Eruenerat iam
fuperior libet Inclyte ac Inuii Si^me Fedence in quotundaro hominum
manus 1 qui cum dofli linti dry aiffimi quocp & haberi 8£ dici
uolunti Qui quidem quauis 'de Maronis Aeneide antehac longe aliter dC
fenfiffent/8: pri* 'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus :
qux I nobis in probamio illius libri expofitx fuerantimulta in eo
F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea huiufcemodi el
fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione difputauimus s fed a
J IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued defendere cupiunt
probandum fcriptoresqui paulo antenoararoxtatcm fueiut minime
illiiteratosiqui non J L/indel Mos« acute & doaeinmpretati naturam
tetum il is exponi conttn los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut
multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm
nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£ A Fmmffeuteademilla
& aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad wriuruoluputtm f
eferantur.Verum cum confilium mettmij
tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper ipfo
hn«qu3nf.bie.ration. fcriptotpropomt: ^um fipttahuj omnuiniiri ludingttut»
ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-« .
Libet ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit quis non uideat ea quae
ille ttadiutamdegett» M damt& ad fununum bonum acquirendum
(^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC' B Cuquo naturz uim ezprimeret.Sed
contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus & uitia
damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue I»
riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi
cao Ia b qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter
fe t fed eoru li quae dixi caula confaipfetit equis non uidet id
fulcepti operis primum efle feu ^ malis ultimum dicere > quod nos
hefiemo fermone perpetuo quodam filo ita ia intezuimusrut
nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci Sh pio przpofituffi
cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe menta cobzTcnt:Q_uapropta
quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby fictnrclata funtminime
damno. Nam quauisca ne multa fmtine^intafc haaliud cz alio pendat > ut
non potius membra quzdam diuulfaequam integrn corpus uideantur t tamen
non incommode traducuntur : ne<j fententiz nofoz ccpognantiScd fac
repugnare an plus apud me reda rado qua iliorum audori^ tas
ualebitrprzferdmcumfi audoriute certandum fit eos proferte poifimus/
quorum fplendoteiiti uclud folis luce noduz hebetentur : Nam ut omicta
eos quos diligendilimus omnium grammadeorum Seruius fingulos libros in
fiogu los huius poctz locos commemorat: ut taceam quzaMacrobio exceliend
inta platonicos phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuo Hieronymo
& a di. uo Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur :
nonne e noftris Oantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem
faabe« mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad
fuprzmum ufi^ czhimpcragcatiine olibiillum ducem fingit/in quofummum
hominis bona paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam
proponiciut cu paua omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i
diligentius infpicie . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio
ea quz de medio ztatis tem ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus
ferisrquz de montis fublimiiam folis radiis il uftntoconfa ipfit:binc
omnia funt. Mitto caetera: quz ita abdita in Oantfais poemate funt:ut non
nili a paucis iifdem^ dodiffimis
dcptzhendi pofiint. przponit igitur libi ducem Maronem in u re quz ad
fummum bonum.non au tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo
fuilfe : quod paruo omnino nodo confutari poterat. Quapropter ego
inilitutum repetam. Tu autem indyte atip inuidilTime Fedence ut cztera
fuperiora fic Si ilh quz in ultima quaru diei duputationc
continentur/diligentillime leges . Multa enim illic inuenies propta quz
te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo» pae
lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia
bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto
ta dic tua ztas grauior fitttanto ardentius illis incumbastnam quod
reliqui prin» dpes apprime regium ducunt:ut aut multo odo uanifip ludis
mircelcit:aut au cupiis ucnarionibuf^ oe tempus tcrant:tu ne libero quide
homine nili relaxan dimtaduai aula dignu efle duxiflitred oportac eum qui
aliis imperaturus fit nWB omni dodrina excultu itddaaquq no fibi folatfed
& iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu mifll rantjK
dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo limum prodifft
po(Tit. Qui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu cus
inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro
hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere
curcts Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. A FILOSOFIA enim
habrmuatui pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni
fcelereabibneaniust b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a FILOSOFIA
afleculum efle/ Ut ea beneuolens/ cumuolupute
ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex
deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi Igitur fludia teita
exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod
crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi
finequibus nemoun quamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa quibus
ex mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit to> Ptxcipuam
autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate tacinii prxterire
nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure omnibus prx ferri
poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel
phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft tot fiecula
florentit fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in eo rege
iuftina mitabilifip cie mentia.In te autem militarimec uirtus illi/nec
fortuna unquam drfuinSed nb bil in fuis omnibus
aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum fuM libera liffimu oibus litteratis
hofpitiu efle uoluerit . Tantu autem iis qui aliquid fcripfif (ent debere
putauittut Demetrio phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed oratori
copiofilTimo negocium dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia librorum in
fuam bibliothecam congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos furoptus fe
cetitttunc optime conieiSati poterimustcum uidetimus quantu in fola
mofaya lege elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam linguam
conuenendam abhebrxisinterprctatetur. Primo enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti
in fuo regno fetuirent diligmter inudligandosiat tingulos uicrnis drachmu
redimendos/& in patriam incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus
adeo ingens fuinut foluta fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia.
Dtf inde legatos ad Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis
mifit Arifteaside quo paulo ante dixi & Andtea
prxfcdumfuuiMifitptxterea men< hm auteam/craterefej ac phialas donaria
in hierofolymitano templo ponendi. Mateiia uero hoium uaforum fuit auri
quinquagintatargenti uetofeptuaginta ulenuigemmatum autem atqj lapillotum
quibus uafa omab dilUnctatp funt/ ad quinm milia adhibuit/qui omnes mira
elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo accepta gratacp Eleazaro fuittut duos
ac feptuaginu ftatim ad regem mi' fent i non plxbeos illos quidem/fed ex
principibus dodiflimis ita elrdos/ut ex fingulis tribus fenos fumeret s
qui legem dei in grxeam linguam Ptolotnxo conuerterent. Q^uorfum igitur
hxef Nempe ut intelligant qui diligennus rem confiderauennt Magnificentiam
tuam erga dodrinas noOra tempelb' tt non minorem efle / quam oLm Ptolomxi
fuerit s Hoc enim folis luce cla/ liua apparebit ; Si Imperium
Imperio 1 Si Sumptus Sumptibus conferantur. Libtt guattui
nfeaumnonfdl amutiiuerrz xgyptiopulentiitiimum regnum poHidebat/un^
dcaurt argenti^ inaedibilisuis proue Diretired Tyriz quo^ ac phcnictz
tnaxi^ mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo ignorat. Adde
quod quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at Europa prineipes
habuit • qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui hiftoricos benore
opibufi^ bone rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa faceret magna
tamen cx parte emulatione quadam excitari uidereturme quos opibus
uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero
benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi* tilbmafittfacile czterorumprincipum
auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla omnino eorum munerum quz in mulas
con fers/gratia noftro fzculo eft bahim' daxinquo neminem reperias ex iis
qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof» lis.Sed quicqd estes
autemres omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3 innata humanitate cs.Nam
ab aliorum moribus procul dircedens/unieum te exemplar ofiFersrquem &
ad fummam liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid aes/&ad ueri
inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut illam non
glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut qud admodum
umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non quzrarxHc < ua
pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata quzdam & inanisiTed
foli da cxprclTa^ gloria fcquatutx Scd res polhilatxutiam ad noftriim
heroa rrutrra^ murxin cuius adionibus tu mores tuos ac uitx inlliiutum
facile recognofces. Co ucneramus igitur eodem in loco bene mane quarta
huius difputationis dic. AN ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem
expetere uultu gcftucp fignificarcm^ illexurquz explicaturus eilet iis
quziamdida fuerant commodius annedrrrt: buiuiinodi difputatiotii fux
prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi uiri qua piudmiia ac animi
magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^ ueniunt fc explicauerit
zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe nitusobruerctucmon
dubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata ferret: pod hzc
thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate effugit. Ar« ^
mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir : deceptufi]^ Anchife
interprz tatione.Namquz a corpore funt facile corporea fequunuir.uitam
duilem in Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit errore cognito uela uentis
iam tertio dare .Delatu!^ mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus
pugnauit. Nec per medios hoftes ad Helenum enauigare foimidauit:
Prztereoqua prudentia qua animi przdantia iam ab hcleno dodior reddirus
immanitatem cyciopu de<< ciinauem : qua indudria ac celeritate
fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo fiudio atramentis ardore defundo
iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam rufeeperit. Verum cum
lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis fc non pollet:
celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm
pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id
edap> petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet Verum in
ditione aduerlilTimz dezconditutus : & amore Didonis delinitus/Vide
quid pTolfit ambitio: quantu ^ ad mentes maximorum etiam uirorum
euertendas ual eat / regnandi i nquam cupiditate dclmitus is qui reliquos
iam perturbationes ac uirufupctauerant di<« In.P.
Virg.M.Allego. uinil Tifflumcoafiliatnio Italiam enauigandiomiiTtttotum^rein
eo dednatt ut regnum carthaginmfium coSabiliret : perrcueraflctcp in
errore ni(i acczpifb a Mercurio non placere loui ur pulchram urbem
uxorius extruat . Regni autem & rerum Tuarum obliuifcatur :
Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu« am originem
rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv rum uirorum
uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur ar«
guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita
adminifbatio nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis
qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut
Ii tantarum rerum gloria ip fum non mouet i Afcanio Taltem
tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum lulia; t ac romana tellus
debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram ztemami^
uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit. Nam li dum intra bzccorpu Tculauer
Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii illecebris demulcenturiut
carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in futuram uitam
uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti migraaerint foce ut
nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter regnabit
Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur i futura
enim uita ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni dicitur
: ab eadem^ li focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto bono
denaudatur. Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam Hic
domus xnez totis dominabitur oris. Et nati natorum & qui
nafcentur ab illo: Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas: quid
mirum li uehementercom< motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa
Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem excitas cupit qptimum abire: &
terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim poteftatibus at^ imperio
uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit. Sed cum ucrum
bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv
tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem
inla« lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam
illum diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum
abduce re uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam
illis uela in Ita Itam facienda: Talia enim bzc Tunttut quanto blandius
ea appellemus : quato^ familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia
aduerTcntur . Sentit tamen d(v los regina :&iniquo animo fert uita
ciuilis a uiro excellenti deTeritpradcrtitn li non fit alius Tapiens/qui
Icxro illius Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca
robolcmfuperciTe. Quamobrem ratio inferior quam mulierem appellari diximus
huiuTcemodi argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt a
speculandi propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat
quo modo eam deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim
ucbementer virum excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non
modo paran tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec
illud retinet non Tet' uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi
iam totum Te adminiHtarioni dederat zneasi Quio di Te moritiuam Tidc Teipture docet;
Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi ns
ilii ntoi iU IIlBl' lO* loli
niii jA«< Dlli
tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to alito
eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle
cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut
labores ma^ jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri
fumus.pofiremo in hoc uche>< mentet mlifiit/li reuotetetur ad
Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen illi efle concedendum: ut
honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t
nondum enim nouerat Ipeculandi uitam. Dcmum ad
c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad
memoriam reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne
domum labent em dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora
ingcniaicuia parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum
patM ne dcfci' ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum
uer^umfitineim perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis
auaritiaiaut larbc tyram*de in« uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius
(apies qui (ibi fucceclat no telin quaf sQuz quidem omnia cum rerum
agedatum rado animis noSris obiidatr non pollumus non uebemeto
comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo quttum generi humano debramus
/grauifiimeadmonetiut humanitate eruere uideamur/fi humani
focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men tem fola eficiqua
boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis
pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut
quo|> pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe
reginam. Quis enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK
uitx genere fue* nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus
hos reget attus: Nam eu derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in
fpecmadone dum uiuit uetfef : ut uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no
fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu ea no cotraxerat
matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur: illif{^
coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd
damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine
deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit
fuperi^ ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem
fentendam trilTa^ ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto
qux ad plurimos uerfus dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum
amorem detefienf :at^ tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam
mrpem/tam pctnitio.« (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in
platonis fympofio de tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex
quibus pauca qux a nobis cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria
(i repeteris intelligeris umSu mum effe Ptoperrianum illudi Durius in
terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d* autem magno pedore curas
pcrCmfcrit xneas: fit tamen mens immota man ferit/ oftendic uirum qui
deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in quam Didonis
illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore
urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus
nobis pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a
fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium
furorem cxtrcmainij de* f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus.
Aeneas igitur deorum admi}« 1 ti In. P.Virg M. Allego»
nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis
gubertia tor negat ea tcpeftate Italiam pe Q poiTc.anenticur zneasiut in
Sidliam in qua in fula extindus parens nondum debitis exequi is
oraatusiacebat/dcfledat. ^uo in loco quid fibi palinurusuelitline
ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’ fi cogDolcerepotcttsicum enim
huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob tuar' inon modo a tedo cuifu
auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft} pctixpc infuam
femetiam trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama corpore
cotrahit aius iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de
fundum redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam diximux
non ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima (it in
lulia nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut grauiffimas res
j>ferat:fedil Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum
rerum comites penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu
adminiriobantut abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct
foluturus.luno uerocui^in troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis
diuturnitas explere poterat : qa quo illosltaliz
j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet' oblatam occafionem non 5
rztermittit:Cum enim feorfum a uiris imbecille mulierum genus deliderio
ta< em quiefcedi mcedius cofpicare^ pa irim illis ut naucs incedat
pfuaden Q_uz qdem (ic accipiteirerum terrenarum cupiditas no uiros/nam
pars fupior rationis non facile his rebus frangit':fed ipfam inferiotenr
tonem a fupiori dUluudam p fuadetiut rerum magnatum ^poficotcicdo tedium
longioris nauigationisrefii giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus
inglorium odumlongccarius (iu q honelius labor prijtiio ambiguz
miferuminter amorem pizfenris tertz fatifq| uocatia regni malignis mare
oculis ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe* tiocipfuaU illam ad quxqj
xgregij Tequit' nuceaabfente paularimfenfuumiiiei cebris cncruac' idoncc
tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^ mulieres inwcn dioafrumei
caduriunt. Hoccumdicicportauolutatcquz ad res magnas, ferebatur
incendiocupidiutum perire o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci Ius
piculum (fatim ad zn eam reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu
fiodiam telidusiNam huic parti inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz
remoc fus/cui bonaceda^ cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis
didturuis (.nobis ingenita qua animus Sc ad bonefta crigiturtK a turpibus
tefugit»Hacau lem nomen ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni cura
facir leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere
temaduitutefcrt:Q_uo nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas
aduolat: ASCANIO autem celer robuduli^ magno animo prxditus Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc
tari licet uigotem quendam ex ip(j mente natum: Hic autem nullo tenore
pto liibemr qum contra pericula pnmus feratur: Sequuntur reliqui t fed io
primis zncas: At mulieres uiris cogitis incoepti poenicet t A uiro enim
feiunda muli* er aduerfus appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus
uiro coniungattirt iam robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum
demum acata iam cetatt/Sl a lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen
incendium facile tolli^a Nam optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut
uoluntatcmsquae, nobis ad (uo»; tti «di r S 5 1? S B jr 3 .te
e Liber quarttu inutn bonum euehit/omnino perdat: fir^ mifera
in bomine diftradio t eu atio ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in
loco cum mms noRra fe tanto cer« tamini imparem cognofcattnititur illa
quidem fuis uinbus/fed limul etiam di uinum auxilium implorat id autem
impetrare meretur. Nam qui ita deu prae atur/utiaterimipfe quoad ualeat
libi non delinis adeo minime derenc. Nam
quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis mulieribus auxilia deo«
cum pararitrededidumell. Non enim inerti ac delidi/ K qui in fummam rr^
tum defperationem prolapfus nihil contra pericula parat auxiliatur deus.
At qui magno aduetfus difih^ltatea animo infurgit:qui nihil inaufum:
nihil in« tentatumrelinquitiquincc periculis terreturmec laboribus
torpelattis profo* do fe dignum f^tcuius S dii d homines commirereantur. Q_uapropter
fapi« enter Aeneas ciun nec uires beroumtnec aquarum uis infufa
prodelTrt: ad prx* cesconucrtiturtauxilio impetratotcum iam quatuor
naufsai Tumpraeeirentt teliquz ab incendio feruantun Cum autem naurs ad
totam turbam tranfuehen dam deeflimt terat fenis nautz
conliliumutimbeallior turba in Sicilia reiin' quctctursutbfm illis
habitanda conderctur:hoc confilium oraculum paternum louis enim iulfu
locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^ rcddidit:Q_ue iocum nili uos
aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum rerum fpecuo lationem
fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta acceditiReliquzenim animi
uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune uoluntas/quibus illuc
ucbantur incendio amifcrc: Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau
tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagi Rra Pallas fueritteR enim a
fapi entu dodus: Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a
ra« bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm
lo> ue iu iubencct conuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa
etiam fupeno remlocumarcendensaf Ficiacurintellcdus: llleautem£(iprein
altiorem gradu cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum
comutatur . Hmuic&> modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non
tamen prius e lidlia foluict qua lacta pie tite faaatinorat enim qua
laboriofitquiip periculis plena lic h\u iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz
molis erat romanam condere gentetSed nec Venus quicqui interea
remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia drcufpiciat.ln primis
autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa amor quo ad fummum
bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta tur/ut appetitum m fua
poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol bcctuciNihii enim
denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell ptocula
ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne« ptuncu regnum
marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc czii uitilia
lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte« ma ergo
ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,
re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca
dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem
oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no
ne cz oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam
tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut appetitus /qiii a folofenAi
profedustulul altum (iifpic^ Quapropter rquadiu claiG prxfuitinunquam
ttaliam tangere potuerunt Tnv unuSedundema Tomno opptcfTus mari
cztinguitur.Nam poftquam rado acarime ad contemplationem
conuettitur:& caducorum curam reliquit: Nt< hil ex iis qux fenTum petmuicere
pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi» tuspaulatimiapituctac
fopmisezdnguitur: Cial Csautcmcnamline fuoguber tutore tuta fcrtuc
Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi autem fluitate
ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem in undis noAur« nistezitiNam
animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/ donec in
uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem capiat oportet ap pedtus tationalis
Tquiaduerfantibus uoluptatibuscaiitra obflfism Eztmdoigw cur Palinuro
Aeneas tandem poli diuturnos enores euboids allabitur oris .In iuliam enim
ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro nunquam perueiuflet 1 ingrefli
funt Jn quo non idem curnit quod in cartbagine Aeneasslam portum
ingrefli funt :In quo non idem curnit quod in cartbagine a portu
euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli procul a rabiat fluduum in
tranquillo efle uideremurmulla tamc nant anchora alligatx. Quapropter qua
quam non omnino ucxabantuRin aliquo tamen erant motu.1^ autem anebo ra
fundabat naucs: quo oflenditur eas ueluti fundamento nhex lint flabiles
hx« rcrcoportere.Summum enim illud bonum:quod in negociola &
duiliuita a philoiophis ponitur: 8t
flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu nx procellis uirtutum
benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la« bcfadan
poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU timum
propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di
tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um
con<< tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame
earum uit tutumtquxfuntanimiiampurgatit Namnihil fibi diffidle iam
proponeretur/ fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum
iam conflabis litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor
rd aggrediendx. Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus
emicat ardens Lic tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires
cocurreretqux e me« dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro
fubieceranti quod autem ardens fit concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te
efl quod fit manus iuucnum.Ofle dit enim animi bene affedi uires nnllo
fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam
aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in
corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^ dati non potefl
tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo luptatem fenfus:
fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi nafiamis ObfttuIainuenisfilicupatsdela
feratu Teda rapit filuasinucta^ flu mina moftratiinferiorcs igitur animi
uires bxcagut. ENEA aut quo nobis m& exprimit" i Arces quibus
altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta fybil» kc: Antru imane
petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na qui aliquid figurarum
inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu loca aprimBt. yadc
illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj K n n i»
la Ap OL ttl d bt ttn
lut % dt.QURI bii iO ni£ fid «w
Ots sed| iae N «I K Liber quartus Nam cum in ui^tum
in contemplatione pofitarum finis uerum fit/ quo fapi^ Clite
efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi mopolicumeflediiitNa ut
nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol ueriratcm fignificat: Cuius
exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab ignorarione rerum ad ue- ri
cognitionem progrefiiim ponit fe ez node filua<]^egreflum montem cuius
iu ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur. Addit pratterea antrum ibi
efle Sybii« be magnam cui mentem animum^ Delius infpitac uates aperitrp
futura. (^u£ quidem locum ut diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla
percurr^mt mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud
grzcoseas mu» iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura
praedicerent t Eft autem Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam
dei conlilium fitn tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem
reliqui graeci nomnantt Quanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos
bocno mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz
linn faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego
omnes fi quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non
grauarenSed ut ui> ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis
fuerit uidifle Sybil lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc
autem nobis ca qux Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam
fapientiam uericatcmtp ape» m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m
obfcuto latete . Nrtpreme» tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna
enim corpulenta uebementei cflifiC reliquis lyderibus inferior .
Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis longe inferiores funt/figuram iutc
habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au» tcmhumanzin fylua
obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie lumen recipit t
ita Si ipfz quiequid habent a diuinis habent . Collige ergo cu lapientia
non modo diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re» de Apollinis
templo Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua macenanotat.Templum
laoius zdiheium deo (aaumiin quo res fdlasdiuinasagimustab reliquis
abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi» muria negoaisceflamustfiC foli
contemplationi incumbimus.Trmplum aute a Ozdalo conditum ponit t Q^uid
igitui aliud efl zdilicare templum Apollini nifi reddere fe idoneum ad
fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^ fadmusicum ab omni corporea
labe purum animum ad contemplanda diuina tranfferimus.hocautem
Ozdalusuiromnibus optimisaitibusinflrudus fa» cuepotefliin quo tantum ingenium
fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus dzdala a poetis tunc maxime
dicatuticum maximum ingenium oflendercuolunt.Ve» tutantem non
mariinontetrainec ad meridiem infimam nobis mudi panemt fcd per fublimem
acrem ad reptetrionemiNibil enim humileinihil terrenum fit in camente/quz
ad fpecuUtionem fertur I fed ad fublimia czlefliai]p engaturt Efl autem
primus fpeculandi ingteiTus a uitiis. primam enim cogniuonem efie oportet
circa mali naturam /ut ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex» piati a
uitiis fuerimus i nunquam diuina attingemus t Vt enim idem fiepu ut
icfctam/ negat Dauid quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi
Ia.P.Virg-M.AlIfgo. cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo
corde:(^uapp in foribus per qmt etat in templum aditus homicidiu
Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus i|>onic .Hzc ergo a
principio fpeculatur Aeneas.In uitiorutn autem cognitione 'non cft
diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: & ftatim a noris dilco
dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef Acne
asine in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores quoep uiri
uad is uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC Ihidio eam
elTent adrpd dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac temporis:quod
humanz ra dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis rebus conterendii
ducamus.Hocau tem inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li
femel labatur/non facile furiet Altet liquonia corpore uac
animuspauluquandotpeuia deflexerit/ flattm adeft ab Achate accerlita fjbillatquzad
redudeducattledmira profedo poetz ingeniu:qui fapientiamipGm Tua
fapientia nos edocettprima ita<^ dodri na ea efl ut purgati mundicp
templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis mens nollra quzdam Tua SC a
fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai tionem tamen diuinarum
retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu
.tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz
cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem hoftiastquonii
Teptenarium numerum multi pnilofophorum perfediflimum putauenmttpro
ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac pallas appellatur: Sacrificat igitur
fepte qmrapientiioptat: Ne(p temere didum efl quo late ducut aditus
cctu:hoftiace tum:per aditas enim multiplicem uariamt^ dodrinam
expim!t:quaad fapien riam ducamuriHoQiiueroquz quidem uenientibus:refe
opponunt non pat uam in re difficultatem oflenduntiHateautem non ante
patebut : quam id prz dbus ab imo pedore fufls impetrauerimus.Sumo enim
animi ardore & mente illi penitus deuota fapientia acquiritur: Vt
aute Gpientiam aflequamuri promit tit le templu Pbcebo & Dianz
fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue to quare illud de folido
mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus expediam: marmor res dura ell:ac
mirus in eo 6i candor & fplrndor apparet: Vnde ab eo quod gratei
fplendere dicunt nomen fumpflt: C^uz omnia in ea mente/quz ad
Ipcculationem erigitur infint nrcefle eft:Brit cn m folida ut quemadmodum
inunis fludibus fua duririz ita obfllHt feopu^ lusutipfe integer
maneat/illi ucto illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui lis
perturbation bus frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez
fo lido marmore clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed
tota cx tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle
oportetiut no figna quzdam quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota
exardefcensilli fetn per incumbanErit itidem fummo candore nitens: ut
nulla fit corporea labe polluta.Q_uo enim padofplendore carere poflit ea
meos cum fapimtiam na qua perceptura fit:nifi prius multis dodrinis
illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia nzip ponir:qa^ut mo diceba ^ &
diuinayt & buanape reru cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli Apollini
illituit:qauenis cultus foKs diuinis debctur.polfi ctt & S jbilJz
penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct
giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa;
alHduo labonbimus:ne<p unquam pcrforarum uas adimplere
uaI(bimus:Q_uapr(v pter 6C uiri ledi fortibus przponendi funt t Nam
excellentes funt uires animi ad bbendx : quibusiqux didicerimus optime
mandentur : Curadum autem in pri Inis ne refponla frondibus (dipta
tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim JibcUisfiCcommcnUrioIi SCT edmdafuntquzaddircimus:
fed menti: Ne^ ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ quaerenda dodrina
ueluti qui in dialedicorum fuperfluis apdunculis/ac uanis
amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e tempusterunt: Vereautem
illud didumeftfybillam circa principiuih nondum pbcebi padentem eflie :
Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea enim quz cognitu
difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec Apollonis
enim eff neritas nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia redo
•duntut : Sed audi quid dicat Ijbilla . O tandem magnis pelagi defunde
periclis: Sed toris grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius: Qui
enim omiffa ciuili uitaad eam peruenitiquz in contemplandis
rebuspolitaeffiille relido pelago^ io contipentem fefe recepit : Vita
enim quz in adionibus uerfatur: fluduati ma ti fimiliima eff : Videmus
enim omnia quz in ea aguntur : fottunz procellis ezo polita effe :
Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz eodem femper fe mo do habent:
ne^ in intoitum cadunt in folido hzret: Magnis itacp pelagi pericuo
lisiadatus eft zneas prius quam longis erroribus circumadus diuerfa
horrendao ^ maris monffra uitare potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum
incendium ino columis ruaderet : laborioTum ut audelitate atep auaritia
deterritus e tbracia abi ret : In commodum ut ambiguitate oraculi
deceptus in trinacenfem pedem incio deret . Q_uisautem barpyarum foedam
illuuiem non abhomineturrQ_uamuis iter ad Helenum per medios hofies non
formidet . Q_uh cyclopum immanitao tenonconffematurrMariaautemlicula ita
caute obire: utneue Ttyllam neue •baiybdim conrpidati^^ tempeftati a
lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne nau &agium faciat non hominis
fed herois eff . prztereo quz in fodis in africano Kt« tore paffus eff :
quas ilh fraudes luno parauerit : quo amoris uinculo Dido illiga •erit :
prztereo quz in Sidlia ex incendio nauium damna acczperit: uz om«
nia gtauia ac tunc periculis plena cum perpeffus fuerit: quo nammodoin
Italia duriora paffurus eff : Non tamen procul a uero aberat fybilla :
Cum enim a com muniuitaac hominum coetu te in folitudinem ucndicaueris :
tunc acriores quaf dam uduti faces carum rcrum/quas rcliquiffi memoria
admouet : & illarum de Gdepo acenimi infurgunt morius : At^ cum
obliuioni iam eam mandaffe puta tnus : tum maxime illuum ingeminant curz
: rurfufip refurgens fzuit amor':ut nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur
in Afncamrenaaigaturuve Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde
difccderc: tamen ceffat ccr« tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud
przfens confiliumfuadeat. Ve» tutin Italiam Aeneas:uenim eo
uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur a quibus antea quam penitus expiau
fit mens necefle eff ut acerrimum beliu quc« adsetidum nofftt aiunt
fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam quanto magis hzc l^ta humanam
imbedllitatem funt: tantnniainri pcriculoaggtcdimUC.Hu<i
tn la. P.Virg. M^Ahcg Of inaHani enim rodctitemcum
deferimus/aut in ferinam lutam per tninian U atram bilem degeneramuc/aut
heroico robore fupra hominem erigiimjt. Qua propter intenogatus quidam qui
in littore folusuagabaturquicum loquerctot rcrpondi(Tet<p mecuni
loquor* Atqui uide inquit ille ut cum bono homine 1» quaris/& rede
quidem t Non enhn facile SCIPIONE inueniaaqui nunquam mi nus folua elTet
quam cum folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah Sj>
bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii funt /
nolA uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK
lunonemaquV bus non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in
lunone ita ia bello cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; &
uoluptati aduerfabatui i fic & fpc culationi quam fibi przfcrri egre
patitur aduerfabitur : Eft autem ex dea natui achillcs / quia diuiiu qux damgenerolitas
in animis noftnsiolita eft t qiuenctni ni parere i omnibus autem imperare
uclit > Hzc ft reda ratione excolatur/ueram fortitudinem parit i lin
autem contra rationem elata omnia in fuam libidinem coouertere
tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt ft
uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem
du.itsNd autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain
tantorum malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz:
lic ft in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t
coniungitur cztemz mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis
deledatur . Q^uapio* pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia
uero cum nondum cupidiutem tc rum humanarum deponere ualeat animus bella
excitantur afpcta illa quidem / fed non in quibus ueluti apud troiam
ruocumbatt fed unde uidor triumphafiy parto regno redeat . Accommodate ut
mihi uidentur omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt
non intelligo.NI (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam
propolito ce oportet cur illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim
infiaot uirum etiam grauem in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe
morfu affici : non tamen ita magnoaf fici puto ut ad pmnitentiam
redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per quandam hipctbolcm
t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere ut ex iis
unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>
ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus
qd rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper
obfer^ uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo
omnia euoi uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium
przbenr/ut antea qui ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne
tantum Izdant prouideri : Cum animus ipfefuasuires colligens
tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme admodum ii boftes
incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv co & numero
auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo* piz ii
fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB
pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis
multa per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM
femine oetoa atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t
nullis
difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber
quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in
originem fuam redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus .
Ha»; fecum cu iam diumcditatus effetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum
in limine contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in
loco quid G* bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i
Si pnus quid infer bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter
demonfhaueto : Infemiim igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no
folumhebrziuerum etiam cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu
noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos
nocentutn animz luunt / af> firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor
accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu mentis mandata funt ea primus ad
grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu« is figmentis auxerut plaui^ ez
grzcorum poetis / quorum principes Homerum H^odumtEurypidem t
Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e nofirisfuntptzter
Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa» piniusacLucanus :
&quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm
ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe ta
infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx
hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu
liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica
re< gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius
profundiifimo antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile
fuit uulgo petfuadere inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in
epiro no procul ab beraclea abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per
quam cerberum tricipitem Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit
antiquitas : Nam de auemo lz> cu nihil efi quod referam:
uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe tishadmus . Plato
uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula
ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam
cor» pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo
deo ae* atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum
conuer tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum
pollit non re uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem
huc^ut ita loquar^ tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz
naturz impulfu ad fuperi ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius
radiis ita illuflrantur ut ubi hade nus eorum efientia per fe ueluti
informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' : fit 9 miro quodam modo ut
intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^ terna quzclam Si
aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob
foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac
nattis talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz
infra fe ezi ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum
uero Si aav> ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim
fi iamconnamra« le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo
continget : I d tamen men ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti
fcintillam deo propinquior fz> da aliud accipit lumen & clarius
quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~ f l Ia.
P. Virg.M. Allego. nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te
LAVRENTI latere mmitne puto: Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd
omnino dilucide a Marfilio noftro in iis dialogis explicata : quos ille
in Platonis rympolium confaiptos fub tuo no mine zdidit : Q^uos quidem
cum quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri mis acfeledilTimis rebus
abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi quidem inquit Verum
przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin quo geminum in nobis lumen
elucere demofttat : naturale unum & ingenitum ut dicebas : diuinum
alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu ti geminis
fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li
diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic
tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat
efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p
pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero
(bIo:propte rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s
uirefi^ fuas : quz ad fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad
przfensomiflblolum confide.' tet : illafcp in corpore conflruendo
exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in
czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.< demus animus noder
ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il la quam dicebas
cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe» ra
defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia
Plato nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio
cdtnoscam boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis
congruam putamust & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur
bipartitum mundum ponunt. Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur
dellis^ut cd apud poeta^ardetibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt
:eofq) campos elyfios ac beato Tum infulas nominarunt : Saturni uero
fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut fufep quicquid fpatii inter
lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^ tribuerunt : Altiffima
igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne dar uocatur i
di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni num pomm
dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim ho minum
porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz elcmctorum ma^
terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate degrauata&
ueluri temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^ rerum
cupiditate ilie« da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis
czlotum ordinibus aliquem cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin
corporibus acquirat:Nam ab ea quam faturniamdellam nominant
ratioanandi& intelligendia loue agendi a marte audendi uim abducit :
fol uero ut fciat ut etiam opinetur illi cocedittMox a Venere excepta
defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii ac lunz czlos de fcendens ab
illo pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi & augendi uires
acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia omnia
feruntur delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda
iurc apud inferos relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in
fepulchto demerfar non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur :
licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius
diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat artus moribunda^
metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu tcnt:& quem
animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^ lanturpoetzea
omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam enim protrada
nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema gaturtFIumen
autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj giam paludem
deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu> tenitMateriz
enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur. Quaproptaiure
lethzum nomen ab eo quod elt. ficenimobbuifei grzd dicunt potare
finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma« nat: quzrcs gaudii priuationem
denotat: quafi Nam quod in dd contemplatione purus exiflens animus
gaudium aedpiebattidom ne ex obliuione amitdttquo quidem amiflbt flyx
quamfadletriflitiam intere pretaberis exonaturneccite
efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.< dunb Quis enim ex
triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz cos dicere: quod
latini lugae interpretantur. Ex diu tumo autem ludu in furoris infaniz^
ardorem inddere roIemustquemphe. gethontem nominant. Ex hyle igitur unico
flumine mala hzcomnja eueniV unt: Quapropternon fine fummadodrina ex
letham reliqua fluenta deriua ci finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate
latius explicantur : N obis autem de multis puea ad bunclocumtranffnenda
fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen fus ad inferos ex Platonis fententia
perfpicuus redderetur: Noflri autem qui ita a deo animas aeari redifljme
fentiunt: ut eodem momento & creentur fi; fuis corporibus
infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut: ut commifla
purgarent: Quid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus peccare potuaunnfedutfuisrcdis
adionibus: quas omnino liberas habent cz« Io aliquando frui mererentur .
Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii' bere utaemur:non ut
per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem fi; iuflitiam nobis
fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam fiultiriam illud negligcntes
corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua nilc fceleribus
coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf cemodi
animz fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo cum arca terrz
centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus ani ma mea
de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe triduo in
corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim
eflcctro infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio
animante cor efle uide musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a
luce remotiflimz fint:fi; de tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc
defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur in terrz cerro infernus:fed ita
erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio colli gunc ad aere uflp
huc ex terrz fi; aquz caligine cralTioreptcdat^.Acrp deiferno hadenus ad
illu aut aias defcedere oe fere hominu genus dixit. Sed tn aliud alii
fentiut.Na przdpitatio illaaioru afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de
fccofuscdea Platone acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc
fuiscoipotL In.P.Vtrg.M. Allego. busad inferos trahi admonent.
Dicimus itidem uiuentes homines cuminid tialabuntur/ad inferos rueret
Sunt quoc^ qui credant magicis artibus 6: cat minibus fieri uelutidefcenfus
quidam/ut inde euocarianimx poflint. Verum praeter bos
quatuordefccfusqnrus quicftnonuideir omittendus: Na £( ad in« feros
tendimus/cum lumen rationis noftrx ac induihiam in mali ac omnium
oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego igitur libenter de te
feifeitoro Laurenti cum haec omnia perceperis quid putes hoc
Aenezdetcenfu Virgilu um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas uideo o
Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo: Quis enim non
uideatuni. Uetfamhanc difpuutionem nonfolum meisptzabusdatam/uerum etiam
a me fratremij meum erudiendum elaboratam : 'Nam fiCli caeteri t qui
afTunt omnes mirifice tua otatione deledcnturt tamen eft eorum ztas ac
dodrina huiufcemodi t ut etiam fine duceipfi per fe hzc omnia cognofeere
ualeant. Hos igitur duos erudiendos cum fuiceperis : propterea^ rede
netan fecus quz hadenus difputafii teneamus / nofie cupias fine ulla
cundationequaxd. rogaueris / cerpondebo: fic enim & errata facile
emendare poteris : 8i fiqd rede teneo id tuoiudicio confirmatum firmius
hzrebit. Petit igitur afybilla quam tu iam dodrinam interprztatus es/ut
ad inferos K ad parentem dedo.> cat: Q_uod cum petit oftendit mentem
przmonfitante ipfa dodtina in fem fualitatem defcendece . Vult enim nitia
quz ab ea funt penitus cognofeere: fed uide quantum tibi ex hac
difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut hzc a Marone
diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia quidfibi
nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias: Tu ueto fi
placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit Baptifiainterprztaris; Me
autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere deledant: Verum
audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum ad infetosnul'.
lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua pateat : Q^uod
pro fedo nimis etiam q utilem uerum efi: Naracum procliues ut fenexquo<^Te
rentianus conquzritur a labore ad libidinem fimus / facile in uitium
labimur. RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime quo^ 6i illud
uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue delinquendo in uitia labimur
? [uoniam id per llultitiam fit: llultitia autem rariflimi carent; quid
obfccrote acilius inuenies : fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio
: quorum pro cliuitas pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur :
quis non uidet . Mentem ipfam ac rationem facile in cognitionem fcnfuum
dcfcendcre.Ma ximum autem fit periculum ne dum cicca lingulas corporis
uoluptates uer.> famur / ita illarum illecebris demulceamur / ut
irretiti hzreamus : Facile igi.> tur fenfus defeendit mens / non autem
facile a fenfibus rcuocatur.Id enim eftab inferis redite: pauci enim quos
zquus amauit lupiter: aut ardens euexitad ztheca uirtus diis geniti
pomere : Tria ut uides hominum gene<a ra ponit quibus liceat ad
fuperos reuerti: Sed nos prius de duobus pofirei> mis dicemus : cenfet
Plato quod paulo fupta explicatiur demonfirauimus animos nofitos rerum
terrenarum cupiditate degrauatos incorpora dcfixt> Liber
giiaituf Jcre : (Quapropter qui prius imbroda nedare<p
ueTccbantunid enim eft deo 'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat
t nunc letheum rpoti in re» lum omnium obliuione mnli Tunt.CQuod (i intra
corpus conftitutus ani^ musillius cogitatione ac fordibus
inquineturttamdeoiis tenebris obducitur/ utnulla deinceps fpes (it ad
Tuperiorem lucem redeundi: Sin autem TcipTuni infccoIKgms integre cafte^
degat: 6ecorporis quoad potedeonfotrium de* clinet ipauladmcz illa
obliuione qua ueluti crapubuino(p opprtlTus obdor» tniTccbat
Teexatansualet libi geminas illas quas iam totiens nomino alascom patate.
Illis autem fuffultus facile ex inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii
re gionemfuam reuolattper duas igitur alas totidem uittutum genera
intclligi mus /& eas quz uitx adiones emendant: quas uno nomine
iuftitiam nun» cupatt&eas quibus in ueri cognitionem ducimur: quas
iure optimo religio» nem nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit
ad aethera uinus:alam primam exprimit : & uittutes qux de uita &
motibus Tunt intelligit: cumde indeaddit diis geniti potuere SIGNIFICAT alam
secundam :at<pipfam rrligionem quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt
conftare uul: Placo : Hxc itaip auntopbilofopho mutuatur Maro cuius
quidem dodrinx non nihil ex ma» thematicorum fcntentia ita addidit : ut
nei^ ius Tuum ac libertatem animis adi merctmeip cxleftia corpora fuaui
priuaret:Nam li animis nolitis uimnecef» Utatcmqi f/dera afferre
dicamus/non modo id in religione noflra impium eiitr fed 6t a Tummorum FILOSOFI
dodrina abhorrens : Verum ut intelli» gas ntip hoc a Platonico dogmate
alienum elfe / refert ille in Thimxo ratio» naiis animi effedionem nulli
nili deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac ^ rationem animorum
noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par» tcstuteaeffqux concupifeit
flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie Q_uapco{aer St li mens ipTa
nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen quia nullam adionrm ex
iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap» petitum exercet:
Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»
dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur
quo fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores
pertinere diximusr ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm refpiciunn
Nam li on» nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a corpore
eritrquod alii inge» nioiudicio ac memoria excellentilTimir xillanttln
aliis hxcnulla appareanc: cu autem omnis nofira cognitio ab iis qux
efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux loco 8C tempore nrcufcribu Dtur
ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif» licultas animis noftristut
intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt cumuircsillx:qux
paulo ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru» mentis utuntur
deprauatione bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi» lurapud
Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas alas recuperemus ad Superos
redite non poffe : Cum itidem illarum recuperationem a fyderibus caquam
oilendi ratione impediri aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur opus ciTe
ofiendit . Hoc autem nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad
icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1 In.P. Virg-
M. Allego. Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in fuo
ortu benigfle a(^e dt illi ad iuftitiam ac religionem proni reddinturrita
ut ad eas quas diximus alas recuperandas impelbtr colligamusigiturnetnincmabinferis
rcmeate/nili al^s recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui
benignitateiiderum adfupera eti guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens
clanculum rubmurmuraftit Nempe id Tolum refpondit.L.quod paucis ante
diebus cum T imxum Platonis in maoi bus babetet:mibi de anima mundi
dixerat Marlilius > Cautius inquit.B. mihi progrediendum elTe
uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum etiam cum mcmoriolo
litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic lo> co
apprime quadrat : cenfet enim PLATONE rationis fementem a deo
fadamianitnof ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz ueltiendos
corpore traditos: ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus
informarentur: Aequum enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^
appetitus (alutis corporis gra na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos
corporibus inclulilfct: Vetumquia faz partes lubricz funtipat fuit: ut
qui nobis illasin deterius facile labeutcs dedif fet idem ipfe aliqua ex
parte aberrotibustueretur: labenter<jfubdetatct.Q_u3' propter iuflit
illi fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl
obiiuionisptzditiir<t:quoniam luteo corpore circundederit hominibus
fulgo, rcmueriutis infunderet. Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans
mundi animus eos omnes quibus zquus ell/aut fomniis oraculis &
portentis autio. terao quodam motu Si ad futuri prouirionrm:6t ad diuinz
legis cognido. nem perducit : ut eo duce alas
recupctcmus.Huncautemmundianimumue tetes theologia qui illos fccuti funt
Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc pbcus lupitet inquit pnmogenitus
eft: Iupiter nouiflimus; lupiter capui:Iupb ter mediu.Vniuctfa autem e
loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. uides quodeun^ moueris i
Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io. uis omnia plena. Sunt enim
omnia plena animo munducum ijle ita totus in to to mundo fl£ in qualibet
parte totus : ubi uigeantutnoftrianimiin fuison. pufculis : Hic deniip
czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex di uerforum czlorum
fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz dicuntur eiremufz:Q_uantam
igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/ facili, tis mente concipio
: quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci quos zquus amauitlupiter: aut
ardens euexit adzthera uictus. RedefiC illud tenent nia liluz: Ab hyle
enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis nodra duldtia & omnibus
ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos redeant. Ve tum de
remeandi difficultatibus badenus: Deinceps nero eas exponit rationa
quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures autem
lamusfapientiam nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum
agendarum^ rerum iu dex . Ne mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc
poetam obtinere cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens
aurum & multitudo gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim
eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in
rebus entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd: od Nx m HC pn ioqi iHgg imcttdi di
dux BOC (jB) da. Bidi BUi liuBi
Btit imt « D! feuii Uni
OlC Wl D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum:
Nulla rea imminuit fapietitiam t Nullis lordibu saurum coinquinatur t
Nullis maculis Tapicntia deturpatur t Sed latet arbore opaca: mulus cnim
ac uariisinfeitiz tenebris ita obruitur uerumft luco ca cnimcorpons^uc
ita ioquar^bebetudo eft ita tegitur t ut difficile omnino (it illud erueretScite
enim Si a Ocmocrito ufurpabatur natur^n in profundo ueri^ tatem
demer(i(fe : Non tamen prius in hanc contemplationem defeendere uaW mus :
quam aureum ramum deccrpfciimus . Proferpina enim ad fe ire quempi^ am
(ine huiuCcemodi munere uetat . Efi enim profeipina ipfa animi pars quz
ni bil przter lenfus contina : ad quam (i (ine fapientia accederemus
nullum przte» rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum ei Tet.llla enim
irretiti nulla unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo
non deficit alter au« reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p
cuenit inueffigando/ut aliud uerum ali< ud aperiat: nec quicquam
percipiatur: quod ubi perceptum (it ad aliud percipi* endum non diKat :
Illud autem quis non uideat de uero uenifime didum elTe . Nam alte
inuefliganduse(l.diuina enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^ non
infima hzc at^ aduca infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex
iis efi: quz nullis terminis circunictipta funt&in interitum non
cadunt:lubet ptzterea iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem
ita iubet . Nam nili cer* so quodam otdine pergamus/nibil unquam
proficiemus; Addit enim poffremu illum facile te fecututum i (i a fatis
uoceris : fin autem non uoceris : nec uiribus tunc nec duro ferro
polfeconuelli.Virtutibus enim quz mores corrigunt Si quz tedum zquumij
relpiciunt ualct omnes ira animum a fordibus purgareiut mu di e corporis
migrent : Ad fupremam autem illam rerum cognitione uenire pau ds ommno
datur : at^ iis (blis qui a facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata
uocant : Q^uod tamen ut planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe
ip* fum cognolcere . Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea
eunda effice lequz cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus
a prima depen* det . Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem
nulla alia ratione : nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur .
Huiufcemodi itaip ordine rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam :
Secundam prouidentia : Ter* tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec
eadem (nt fallor^fentiant:Fa ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia
Platoni irafcanturifed cum uidif fent clfe quafdam in pbilofophia familias
: quz eam fato necelTitatem imponat: ut nullam io adionibus nobis
decernendi libertatem relinquant fati nome odif fe uidentur. At nos eum
quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de* um retum caufas id
cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni ^ gubematiunem
rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia excquitut ut
nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt: Q_uod fi ita
eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam ita mente dd
prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore dteuioi* pds
fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens fadiifcp feque^
c Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem munere ab ipfa dei
proui dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini efirReduscoim dotdnus
& reda Jn.P. Virg. M.AIIfgO* confiliacius t fed
qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis rniffl adeo
temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu caapcruc«
rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina illuftratis
detegere coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes qui in
aliquo dodrinz gene te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum multa
eodem (ludio dagrauerint t eatu dem^ operam ac laborem impenderint alii
fummum in eaatte attigerint: aliis autem uix in poftiemis confidere
licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb cio fibi uelit : Q^uod autrm
ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia us rede
interpietatur . Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim
fummo odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat
glo> tia . Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui
in uita ct» Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt.
Hi cn<m non redi honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam
dum aSequi cupitmuS rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium
incidunt: Egregie igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam
uirtutts. Huiurccmodiigb' tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi
in litam/(iue indudna/atcp exetaca Cone comparatam penitus corrumpunt.
Non enim uirtutera ammt.^cd uita tutis infignia i qua; fzpius malis quam
bonis exhibentur . inanis igitur atip ad» umbrata gloria in rerum
publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada hatret . Q_
uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim caritate
patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa
(Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum
fpe culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts
hu.ufcimodi gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore
roifcrnus extinguitut quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium
enim ueri inuedigandi a onlctni m tcritu optime funiitiir : Ncc tamen
fatis fuerat illum extingui :nift etiam fepelu tur : ut nufq jam urdigium
illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au tem illum tubicine
fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni« num : ut rrs
a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle dant :
Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne
gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem
glo riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur
. Rede Si nlud quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp
accendere cantu.Q_^uid eni aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de
innumeris aflaticis regibus te feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non
contenti patriis Enibus multis popu/ lis ac nationibus beilum inferrent ;
Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo' fescxcitauit ut magnam Aftx
partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni' bali ruafit ut bifpaousgalliift^
fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium:
Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC'' ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium
eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam
famz cupiditas. Cum gloriam miis rebus quzrerent: quz dolidil Timum
uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn Us autem ad iuihfumam
indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi d DCt
BIB I» '1 ip» a» K*» , tUH cnu
cpi)iii 100 ad siil itd
id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber
guartui mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed
quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti
ptomptiilimi prz ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem
ruebant igloriz quoq; cu piditate extremum cafum zquiore animo ferebant :
uis enim ftbi perfuadeat aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali
prziio apud Salamina gcflu t aut Epa« minundamin ea uidoria qua de
Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo eidam in tbctmopylisuirilitcr
pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim oet^ Brutum lingulari
certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne a Sczuolam tanti
animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co jf^ifimos
hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz nitz
prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*
dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur.
Ita« ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute
demens appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a
caducis ac cito perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft
& a diuinis rebus proficifeitur E fumtnam temeritatem
zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed cad rem noftiamtReliqua
autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp aurium uoluptati
concedantur . Geminas autem columbas geminas illas alas qs d o
fupra diximus intellige . Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit
: t autem uoluaes ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec
iniu tia matrem inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor
facile fugiut ho mines < Illz autem non femel aut uno impetu/fed
paulatim uolando ad locu du eunt : Non enim hominis ell omnia momento
uidete : fed ratiocinando gtada« timacognitisad incognita uenire:Seduidcquidfequatur:inde
ubiuenere ad fauces graue olentis aueroi. Tollunt fe celeres
liquidum^ per aera lapfz: Sedibus oputis geminz fuper arbore
fidunt: Nam quz ad cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas
rerum terrena^ tum contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo
uolatu effugere opor« tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem
ducit: quam fine mora ra.> pit zneas / ut eius luce ea quz per
infernum obrcutiffima funt cernere pofTit.De ioiprio ucro auerni naturalem
lod litu demonftrat. Ne efl quod faaa ab znea petada in feriem noflrz
fentenriz digerere laboremus . Inferuiens enim fuo ar.> gumento poeta
eorum lacrorum quz ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli cat. Q_^um
autem zneas nudo enfe Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris
obferuare confucuerint : tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam
acediatur . Aeneas ita^ ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam
quis non uideat : quod dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime
quam oiligentillime effe arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel
quia ut dixi ue ritatem in obfcuto ab&rufit natura : uel quia
uitiorum fedes procul a luce funt: Q_ui enim rationis lumine illuflratut
: is & uerum cognofeit /dc rede agit: illam autem qui amiferint fua
natura ignorata in ultia Incidunt • Appellat przterea do plutonis uacuas
& inania regna . Q^uo quid ucrius dici poteftfEfi enim u
ii 1 1 I!’,! i;l I * i'i In. P.Vir g.M,
Allego. nudiuftertius manifeiHs rationibus ronuidum mala uitiatp
nihil omnino ef fe; quando quidem nihil afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc
cum prudens ue hemenf^ uates Perfius intelligeTctrgrauilTime in eam
exclamationem proru/ pit/O curas hominum /O quantum eft in rebus inane
:Vt autem quale eflet ad uin'a initium expreflius poneret oftendit in
tantis tenebris non nihil tamen lucis apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate
in uitium labamur a tamen circa principia non omne penitus lumen
tollitur: Prius enim incontinentes cAicif mur quam intemperantiam
cadamns.Miro autem iudidoquz fequunturin inferorum ingreAii ponit: Si enim
exfententia eius quem fequitur Platonis deicenfum animorum in fua corpora
defaibit / manifcAum eA animum qui badenus omnium horum malorum expers
fuerat in ea nunc omnia corporis contagione incidere : Omnes enim
perturbationes inde fentit: Luduenimea riA^ angitur. Impendentia timet
imotbos laboreAp experitur : fame anp ege^ ftate urgetur : omnibus denitp
quas ille enumerat calamitatibus prxmitur : quas a corpore liber expertus
unquam fuerat. Sin autem prolapfum animor rum in uitia huiufcemodi defcenfu
interpretari uolumus non multum diuer fa ratio erit : Q_ua; enim res
tanta ucloatate commilTum facinus confequb tur quam fadi pernitentia .
Q_u.r autem pernitet is Ane ludu effe non po# teA . Adde quod confeientix
Aim ulis affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim illum a Aidux curx :
qux ueluti ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune extinguunt: uod
quam dode quam eleganter quam expteAe pofuetit lu' urnalis quxfo
recordamini . Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn* mittitur ipA
difplicct autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens abfoluitur.
Ac paulo poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt crimen
habet. cedo A conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef fat .
lure igitur ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU
lentes habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^
mus. Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit
ut illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac
huic inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare
cd turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam
ue» luti cum fanguis in corpore corruptus eA: aut pituitabilis uere
redundat morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum
diAotunta animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex
perturbationibus ue» ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde
xgrotationes qux appellantur. Quapropter perturbatio quia
inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam
huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan quam in
uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na cum ex
falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum At pecuniarum
cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati» a quxdam
medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit» ^ cum
morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber
quartus ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad
locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui:
Sed & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime
morbos di« eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene
Autem reAe refe ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti
iuuentutem admireritt& ignauia ac torpore quodam ueluti fenio
tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem motsanimotum eS/ eum adere uidemus
. Mala autem fuada fames quidnam aliud quaauaritiadefignat: qua homines
ad omne facinus impelluntur.' Q_ua; nam enim res alia nobis fuadet aut
iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef (iere I aut caidesiK rapinas
exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa« rate: aut fidem
fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf Quod quidem
fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii cnim
homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk mam
putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui Ius
pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt
tembile suifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer fiintur: nihil
praeter defidio fumooum quaerunt: Nec meminerunt homines adagendum ati^
fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^ dadiunAusfitelfe
fugiendum: De lato ucto fic accipe. Philosophi qui dt« ca prudentis
acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem agendam
afiumatut maximo fibi eflie impedimento: Sensus cnim qui a.cor< pore
funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his rebus iudiute uale«
ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum
utatnrtfzpe dedpiatur:& illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat .
Q_uapropter mentem quam maxime pofliint a fenfibus: BC a corpore
feuocant. Aic cnim in eo qui phe don inferibitut Plato nos tum denii^
beatos futuros fi a corporeis abfirahamur: ac deo fimiles reddamur . Hoc
autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua propter fijhuiufcemodi uiri
dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor tem illos trepidaturos
cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut: iniquifiimo
animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi* no Plato
[PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia
ca probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri
terribiles dixit.Re fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis
gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^
uel mediocri ingenio uir fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is
tanquun fomnolentus ad omnem honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam
uoluptatem nifide rebus turpi.» bus capit . bellum autem ac difeordiam
non modo cum aliis : fed fecum geritt cum aliud libido aliud auatitia
fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero ad labores aduocet.Q_ua
animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au tem deferiptione
idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om nino poetico
figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat: fhiAaautnulluprzbctifedfola
umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no« bisonditiquz nihil folidi
habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut phip
Ia.P.Virg.M.Mlego. gii zfopi ncmplo telido corpore umbram fedemur
> Q^uod eo quo^ ezprcC> fius notat ciun addat in Hngulis frondibus
(Togula inlidere fomnia: at^ ea quidem uana: Nihil leuius/nihil
mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui< bus fummum bonum reponunt
ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul taipalia flagitia patrant:
ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua fot tunastemeriute
pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft qui ignoret: Q_uz
etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem in loco plurima
monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus qux przternaturx
legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra appellax buntur / cum
pmer rationis legem qua lola homines fumus exoriantur.Me fito autem
Ixionis filii putantur centauri : nam ille contempta iuftitia abm« pto^ humanitatis
uinculo populos libetos iugo tyrannidis oppre(Tu:Q_ua^ propter eius
cogitationes apnneipio aliquid humanitatis przferentes inim« manitatemat^
eficriutemquandam tandem degenerant: Non infdte igitur Plutarchus
dimonflrat / huiufcemodi homines tanquam fimulachro uirtu» tis
adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed mixta omnia at<p nota face*
re: Cum fuam quif^ uoluptatem fequatur/fummis petturbationibus ad fu* os
impetus delatus: Prolixior limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^
fcyllam profequar:in iift^ nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy*
dra ad dolos fraudefi^ referti facile potcft.Fuit enim Hydra Platone
tcllefo* phiflaalidillimus: nam cuueri inuelligandi duplex modus
fitpetuetas alter alter pa fophiftiasrationeshydracauillofasatq}
deceptricesargumentationes ponimus: Cuius uno capite czfo plura
renafeantur . Nam una confutata r»> tione ille fuis argutiis plurimos
fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl ingenii feruore extinguit.Nei^
eft quod & hoc inter monftra enumerandum negesi Namut uera dialedica
ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap probata eft t lic hanc captiofam
grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi * meram aut ad iracundiam
iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus ftul* d in faxum conuati
iccirco dicuntur / quia nimis illas obftupefcunt.Prudca tes uero &
Palladis zgide 8i Mercurii gladio facile interimunt refetn quis no uideat
: Briarei autem ac reliquorum qui aduetfus deos bella gelferunt / fabu
lamrcdilfime interpretatur Cicero /cum id nihil aliud lic qua bene
monenti naturz repugnate : Gerion uero 11 grzcum nomen interpreteris /
terrz litem exprimet . Lis autem zterna eft terrz id eft corporis
aduerfus fpiritum.Ecitita ^ Gerion pars elfccminatior animi a fenfibus
ptofeda : quz in homine uitio fo uniuerfz animz imperat. Q_uaproptet
quoniam funt ttes animz par** tes / tribus illum infulis impcralfe
fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit quia cupidiute llmul &
timore laborat . His igitur monftris pettenefa* dus ENEA uim parabat. At
Sybilla hominem cotnmouefadens ea omnia fimulachrauanacfleoftendit: llIa^
non ui fupcranda/fed radone cognolizn da: cognita^ fugienda iubet. Poft
huiufcemodi monftra ad Acherontem Si cocytum deuenitunde quibus
fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame alia quadi tone
ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat aqua: que ttygnu
palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit cogrtatio/drnide
adioquapeccamus: Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain per cum tt*
ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem excitatunNrqt prerer
rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca dicat: Non entm
poteft animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in facinus
ferti:Q^uoniam autem fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas in
uitium traniitsiccirco in hoc flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero
buiufcemodi tranlltum id au tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem
refert ipfa flyx.pollrrmo maior ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur
ante oculos illa^ut ita loquar} grada^ tioiprimolocoeliconfcientiz
motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit poft hanc maeror ac demum
maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi» cat/fecundum
Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc
inquit LAVRENTlVS.nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad
piares rationes ttanfFeras. Videmus enim & grauiflimosin nollra theologia
lo cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari. Habes igiturdrfluminibus
in quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu
cenfeorNara portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili
fqualote charonicui plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo
ordine progrediatur/ non nautam folum: fed £Cniuem limul
intcrprerabimurtSit igitur nauis uolu>
tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis lurfus cocoinfuum cu fumdi
ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim eiedionc libetum aibitrium uolun
tatem dirigit t Q_oin U per uela eziefles incliuadones non erit abfurdum
incel Iigere: Nam quo czii inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe
ratio opponat: cuius tanta uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata
hzc funt quz dicis inquit LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma
retinere: ut tamen mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex
cll chaio inquit bA PTlSTA tqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic
poeta/uolut dignitate faltem & origine prior cil corpore. Adde
qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu
libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^ fc ncdustqanuquamdeficit.Ellaut
terribili fqualore &ex humeris fordidustili amidusdepcndet.Q_uz omnia
ad corpus tediflime ni fallor referuncut : cor« pus enim ucluti
ueltimemum ellanimz: quod alfiduo mutatur ueterafeit: actz dem
tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta
ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere
au tcmncc tine exadilTima quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon:
Ce£ Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz
abinfeinapro iieniut/nulla erit cofultatioe opus:mens enim fumu bonu
perfpicue nofccrcta &in illud line ulla dubitatione ferret .nuquam
enim eligimus nccelTatia/ac fub lata dubitatide ois confultatio celTat
:Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea &erefunt:quas purgati
animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc' t led przter ea quz
lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus igi tur.quud uerbu
grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi opponit Utopuslit
cofuitatioci (^uoniauao Cutmdd Keba}acmodeacccllarii&cota la .P.Virg.M.AIlego»
fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam clTerut aut de plutibua
unum/aut de uno <tt ne agendum pro fuo arbitrio deccrtut. Hoc (i
itaefta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius cft gratia cum fua
fponteproueniattnon autem a cuiufquam merito debcatur.Q_uaproptei cogi
nullo pado uultsat(^ ea de au« fa cum Aeneam pet tacitum nemus ucnite
uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit cs armatus qui noiha ad iimina
tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime grclTum>Nam cum etiam
rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non ante illam admiaere
uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Q^ua» ptopter
addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte lacu > quu ne ad
uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum antea confultat i Et
pofi confultarionem deledum adhibet. Quam quidem rem animaduettensff
billa; (Luimrubiicin Nuilxbci Dndiznccuimtelaferunt;&: ut appareat
illum con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum
oftcndittllleaute ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura
hadenus.Nauis uero a czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp
conEcitur.Conteplator enim inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non
enim mouetur quifpiam ad in» ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum
omnia in ea re uidcrit definit fpe culari. Eadem fere ranone futilis
hngitunperceptis enim percipienda adneditt Si autem futilis &,
timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/ non ctit ita
perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas uao quas ut
Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio ni
aduerlantur interpretandas opinor. Sed uos fortafie nimis cutiofam
nimir(^ ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute
etiam tni nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit
LAVRENTlVS: quxetiamli nimis ingeniofe elicienda el Tentidigna tamen funt io
qui» buscJaboresi Nuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietr Q^uin
igitur ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in
pnmis quid libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba
gemuetitifiCquodrimofa inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter
fentias fic accipio/ut in altero fpeca lationis diificultatemiin altero
terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim dum uitia fpeculamut
interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immortalem deum ingenium/^ ad omnia
uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia
meintapretari potuiflie fateor: Ad cer betu autem de quo audire cupis
/paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(< fafunt/percutramus: Ad
nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx tranl Huuiumpottariitelt dunt^
manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con» curfushocut puto
fignificatomnes natura fdre. cupimus: natura autem non omnes admittit:
quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe adtmttit : nam
quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf* ptiorumconfuctudinc
tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem deinde Orpheus^ad
inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum a fybilla feuere
calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio» bem
ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Aenca;^ at at 0
jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf
tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft
diutumu catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in
loroaio^ uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens
latratu regna tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd
animaduerte qua par» 1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam
enim latranri cani porngit Qua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet
occupat zneas aditum cufto« de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe
ratione tridpitem poetae tradideruttguo* biam illum terram gux trifanam
diuiditur /interpretantur. dicuntcp grzce quali Omnia enim corpora
uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus :
quis non uideat porta noflrum per cciberi latratus noftri corporis
indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu enim ad rerum magnarum cognitionem
eriginiunhoc profedo agimustut men tem quoad dus fieri potefi a fenfibus
reucKemusremoritp dircamustnon tamen ex buiulcemodi mortis comentarione
intereat corpus neerfle putestred cft illius ratio babenda.Reclamat enim
ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar ttam.Tribus enim rebus
indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no bis fiat adeo
obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat. Cuamobrem nullo par
donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino
fobrie/re fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu
contumax adr uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft :
at<p ea huiufcer modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile comparentur.
Nam ne fortafte ad ea re me te reuocare ardas quibus Ginicus
cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas
prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta* tum patronus Epicurus acquiefdt
:Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut purpurea aut ccKdna ucfte a
frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete 11
uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu
tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu
aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP
ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par
Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum
tempope ccenisdeteiiaturt&nosno ftratempeftatein romanorum przfulum
dipibus fir nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti
pemitiofilTi mamonftra exhorrebat: Qua quidem in te ego terni LAVRENTI
ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter
id quod plu timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum
non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium
affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus
lautiflimir^proptaalTiduashofpita liutcs BC aebra fodalitia tuz domus
conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex ac populare fumas: Q_uzdum
cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo quzdeFederico Vrbinatumprindpcnon
folum audiui:fed etiam propter antir quumhofpitiumfl Cueteremamidtia
fzpiflimeuidi:Inquoduce & fiplurimz aliz^ ea magnitudine uirtutes
elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera Oiancfcunt t ita hzc
illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta Id.P. Virg.M.AlIego;
tiu Meorinaum acrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt Wtn
f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^«
, elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana
fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc
difcubent* illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho &
oraton ocw relin^ tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus
fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud
omiferit/nemo eQ qm communioni epulis/nerao qui fimplidoribus
uefcatur/quibus dum corpons U.TO r fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii
dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos
aumnmos Sfugiensadillum diuertor:uidearmihia Sardanapall.c«rn.sm AIano.conu.-
uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc*
con. tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum
qui rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam
phtent luxm lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip
noftroju «orumm m totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra
religione maximaij dodnia nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos
elTe non negaueom/iis homu nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego
tunc demum fenatorium ordi. nem romx iure obtinere cenferem/li
Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim peraret. Verum cu hxcme alio in
loco deploralTe meminenm agamus quod iltat. AtcB naturam noftram minimis
cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere cupet Maro Sybillam quxueradodhinaeft
inducit offam in qua & andu 8Cb^ mefcens fimul alimetum fit/Cerbero
porrigetem/qua faale & fihm? I*' det:& in fomnu
inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis corpori
indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu
max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit .
Upt^ quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon
idem TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem
inducit/ut non egredi fed ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem
rei rationem optime a te ex Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi
corporis indigentia non iis allatrat qui corpus curadum redeutifed iis
qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^ ItacK ut dixi ego qd Maro
fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud Heli» dum poetam ut te non
fugit nobiliflimum legerim Cerberum uenieti busauda auribufm
blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua extra
ianuam offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi no
inter fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum um Maro
exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ® dit enim ad infaos
xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™ enti
aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu no ut imU nan^
cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i cauda bladiet
Cnbe^ qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt' iquid aliud
conant perd» boies nifi ut tridpitisbelluac non folii indigeti*
fatiffadatifed oes uoluptates plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita uita
reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»
tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut
dubitatio orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille
(imp KnlTtnis rpuHs arquieuits Acneasautnn celer ripam cuaditsNon enim
lente K cum fegritie bacc adtunda funcfcd omni contentione at<]t
ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or* do in rebus huiufccmodi cft ut primo
uitia cognolcanf. Cognita deinde effuga» lunut pofirtmo illis purgati
rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con fidit idonei contemplatores
eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn< te repetendus/ut
peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no biliore
fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum
uoluptatib? fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf. Earo
enim uir tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus
exuti nudelilTimis fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era
aduerfa/qux innumera quoti« die aeddunt omittam /mortem ipfara qux
lingulis borarum momentis impedet uelub lummum omnium maloium
rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui la alia ptutbanone adiaans ipfe
unus nos nunq refpirare linit.Q_uaprnpter hac iirpeipfosmfantesin pnmo
uitz limine petere oftedit.Hac & in fontibus p uim mferri edocet. Hac
& libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo fimt/ut
grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia
diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«
fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc
ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed
contra fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira
rcdeam5’. Qua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu
illis efle adum qui antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in
casinciderint diuind omni nomunus illudincIcobim/ttbito Dcalunonecollatumtquipfofuma
in ipfam deam arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus
natienb bus ac populis fapietiotescl Te traufosputabimus/ii enim populi
in thracia funt qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus
excipiunttquot mala il« hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero
omni genere lattitix ^ fcquua tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip
fortunx cafibus morte libera ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus
paulanm xneas moetum mortis deponit: Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum
uiium fupplicio morte ue per fummaiiv iuiiam peti uidcbit non duliilHme
ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc cucnitetdicet.Scd quod
uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi« ne nifi a fe ipfo
quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac in malis
cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue
fiecrudeliterip in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos
autem omni odio infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura
itaro* bulium/ut humana omnia contencre polTit adeo fua ftulttria
enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum reddittut famineo amore
incefus in eum pau» tim furorem ptolapfus fittut fibi ipfc manus
atruleritiK morte q fummum tC> fetnalum putabatiid quo urgebatur malum
effugere tentauerit . Q_ua quidem in te pnmum ignauiam ai<f incttiam
cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt o ii
In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani»
morbis natum affirmat: quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno
dediti: et diuinitate fua quam aroris denlis tenebris obrui pemuferut
penitus obliti nihil praeter caduca : & aut morbo aut aetate cito
perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis pcccant.Nam 8C a
principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l ut in rem
follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn dum
diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in
coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii
bax extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam
intrati/ quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac
impietate pa cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb
iniuria affedi ipfi ul tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude
nihil tale merentes laceiletut/ aut ipii lacelTiti nihil de iure quod
hominis pprium eft difeeptantes ad uim qux faamm ed fe contulerunt: Hinc
genus humanum cui pa edeordiam in fummo odo uiuere licuaat affiduo
mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula dones fiC infinito;:
mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^ nobis calamitates
eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.> ueniat :
Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur .
quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit po£
fint etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum
autea Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda
offerut / quz aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelae folam
uittutem continet du plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram
ad ui tia defledaturcAltera uf to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt
inquit LAVRENTIVS fitPytba goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui
littaam yadinuenit.Q_uod no latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz
nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola incompita mentes» Ifrhuc ipfum
inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata
uidet triplid circudata muto, fetifica p/ fcdu tartarotum
defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/ ta puniantut. Hzc
grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p
turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris
meo» tem tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid
uia fcd tri plia peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata
uoldtatc fce Ius condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui
podtetno iteeum at/ iterum muItoticnf(^ repetitus habitum
obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat taris iure expreflit poaa quz procul a
uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid uates.Ille enim fiatim a
principio dc ordif. Beatus uir/qui non abiit in condlio i
piotum.Videsiammotum primumanimi adrcclus.Ocindc fit in uia pacatora non
dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am
piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in habitu iam
coadabilito. Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod autem
flammifluo phlege thontbis flumine tartara ambiant" :minimc abfurde
dixit . Odendit enim aidp/ cem itacundiz: fit arumotum zdus quibus id
hominum genus alGduo torretuta Tantum fnim tH uittoruu odium/ut & qui
illis delcdati lutif tandftn pcraitoi tiamdcdudi
uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia aetnime
iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn palufttttn:Ca
ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^
exeduntur. Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t
Tartareus phlegethon. Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis
exxfluat quam feeleratorum mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt
quam graues quam molefli flnt buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit
ad ba;c portam munitifilma fit foli do adamante columnas: quibus locum
ita munitum redditiut net^uirorumne ^ czluolarum ui efitingi poflit. Quid
ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe hoc ut puto uiros flagitiofos ac
permtos cum in tartara deuenerint. Id autem eft cutn longo habitu fcclaum
mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisi nullis diuinis ptxccptiss nulla
deniipfyderum clemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs' pter iute tales homines
fit larini perditos it grxd afotos appellant.Erit igitur in quit LAVRENTl
VS amifliim in illis liberum mentis arbitrium / ut fit fl uelint
aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit
BAPTi bTA . Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli : quz a
grauiflimis phr lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent . ua
quidem in re no folum ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter
approbo .Nam cum multa liefe tibi offerant tquzfloc cuiufquam auxilio
ipfe tibi foluere polTis/ea tamen ab alio dici mauis/ut fit raodeftizquod
nihil tibi arroges: fit igmiiquod prudenter interroges flmul laudem feras
. Verum facile ita huic loco occurretur li dicemus non uoluiife poetam
ineuitabilem neceflitatrm/red eam difficultate quz impoflibilitati
proxima (it demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex cidendi
facultatem adimere . Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^
uoluntariacffe.quando illorum principium uoluntaiium ruit . Nouitenimin#
continens peccate curo adulterium committit: potefl^abflinerefi uult.
Peccat igitur uolcDS donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo
perueniat/ut contrada iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non
poffit/non tamen inui.' tus dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam
licuerat a principio/modo uo luiffet in firmum illum intemperantiz
habitum non deuenireK^ uaproprer no magis inuituspeccaffe dicetur/q qui
fua fponte in quempiam lapidem iaciat de^ inde
pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur quoni
amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a
fua uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus
difputata inuenies . Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non
ihgredit . Nam qui uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia
.lllorumuerouimat^ naturam a S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus
intelligit . Procul tamen in limi ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias
in limine tartari/de quib^plzra<]p quz a poetis finguntur
uelutinotiffima omittam . Plane aurem conflat placuiffe pri (as
foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in
Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri
tount furiz : nifi inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif
In.P.Virg.M.AUego. Narorima hxttd uluo quod fe ludia
neroonoanaabfolmtur. VtminU cts/ut mdida/ ut d«d<cus/ ut infamiam
effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc Q uitcftisdtaripolTitadcfttamen
Sp& confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit . |au.ff.mum tcftimonium dior i
comnncjt ^am «jb cod*,; U^uenaled.fc^^ ilU flacellai hi
fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de tun t S aurem
Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio enumexat . Impietatem
in S in homincs.Nam & tianiam prolem flurni naulo ante
dicebam / confaentix cruciatum dodioreinterpretantu^ ?e enm ueluti
Ceuiffmus fcelcrum uindearqux flagitio obnoxujU^ i^ na affiduo nmarur :
& dum commilli in mentem dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec
eefpirandi fpanum ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo*
Upfura cadenti imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod
& Dionyfius ille iyracufanus Uamodi tamilun L illum beanffimum
putanti probe oftendit / cum illam ita int« ^s epulas ac pretiofa
unguenta coliocaflct /ur umen metu fupta caput equina feta
pendentis nulla poffet uoluptate a la . mSlto rnelius\ofcunt h^ines
quam detur modo impeni acquirendi fa tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft
intelligne quid ftbi te ora paratx regifico luxu; cur furiatum
maxima luxta ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq,
«prelf.us Le potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut
cumpluniM^ geffeS/tum maxime fame per, re malint quam
congefta fe & pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud
in miiima aquarum pomotumtp copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em
am^ illud tCongefiis undiq, Ciccis indormis inhians & tanq^uain
SI coceti* j pidi» unquam gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn
da qw non norunt harum rerum poffelTioncm non propter fe ntef
illatum ufum.6 uapropttrbonailia nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu
quando multis iamin locis de auanua diximus /i «deliqua uidcamu* : Saxum
enim ingens ii uoluum i. Quotum uiu per Itm mam mftriamin eo
uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir ««/qux aut nativam aut fortunam suam
confbtuu efficere nequeant i o^el^ eoii« conatus irtiti mefficacefij
fint.Rourum uao udus dettndi pendere nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM)
ptzuidcnteiinihil P‘“^, deo fe fortunx conimittilnt/ut eius
cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw affiduo totentur.ne« uittutem ullam
habent in quatn ueluu in tutum ttanq him potturo W^tteapoepofli Bu Huiufcemodiigitutu
Ut tactchqnaquxpItt r- Liber guaitiu rimi uaria^ fuot edocet
Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis «pii> ct admonet : ut punis
campos clyfios ingredi poflit . ms igitur Matontm a Platonis dogmate
difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in di' uinarumtetum cognitione
pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium gr^ nete excellere cum opottae :
qui cum Iit futurus beatus / tamen ab iis in< dpiendum cITc oftcndit
qua: Ant in uiu & moribus poliiz . Cum enim dv uioa / quae puriflima
6i ab omni labe corporea impolluta lunt impurus nr-< mo attingere
ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur neccire cU/ illis ctjita tL
uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat puiilliau ndiu i.xlo^ fiia
ac immortalia egredi poAumusiHac igitur ratione iinpuilus Maio cum ad
tummum bonum perducae honunem uelitt ira Acnram iiiflicuendum curati ut
primo uitia omnia edoceat/ deinde illis cum opiaium ad campos clyAos
perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine totum odium Boa inepuiquz
quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim ad il« km/cA,ut fiulritia
careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus tecum animo ooluisiifibuc ipfnm
inquit LAVRENT1VS. Stduide.quantum tibi extua diTputationc debeam. Dum
cnim mihi planum icddeie Maronem ttnusi id^ efficis eodem tempore in
noAri duis diuinum poema induds . Nunc cnim demum pcrfpido quid Abi uclit
Oanihcs / qui piimum ad inferos de< (cendattat^ inde emergens, nullam
aliam uiamniA pcrpurgato iialocaadca; Ium inucniat : Made uiitutis
adolcfccns inquit liAPTlSTAi qui non ea ib lumquz dicam Si A diffidlia
Ant facile acapias. Seu quadam Aaulitudiueou dusinde ad alia accedas/ut
cum ilk maximam laudem ex diiigcntiilin<a qua « dam ingenii atrihd^
plena imitatione alVccutus At : tu quoqi uuuciedio<> acm laudem
mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr dilliuiuJata lint in illo
poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum cx huc merear ipfciu«
dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus noAiutnlioc ingcnk um
longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A alicnuni a ptopolito fcf<t
mone uideatur/non omittam .Tu autem quod dicam ea laiiunc amc dida aedas
ueliin / non ut meum ueluti decretum in tanta icponam / fed ut iudtci'
iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu uerbis elici am •
Ego a prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio adeo famibate uni
uctfum opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod
quos ego Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non
fa« cilc ad uubum exprimerem. Sed quid poteram puer ex um dtumo uacc ptet
maa uerba pcteipcre.Nunc autem cum uniuetfum rci argurocniu mciice peu
curro tumma admirauone cius uiii ingenium ptofequor.Na oi lu upexe fuo te
xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu teia mutuari uideac ttameii mde oia
pe ne Ant.l uiobtcmnuncnd demum inteiligo/quod nos cx Cict-roms
peepto IzpenufflccoLidinus admonete folct cc in aliquo imitadu diligctcm
oino u* dooe adhibcnda.Nci^ enim id agendum uri idem funus qui fuut
miquos imi tamut.Scd cotum ita iimilcs : ut ipla Amilitudo uix illa
quidem neq oiA a do dia iatcUigauit.Sed tu A uidetut ad inceptum tedi.
Cum igitut inquit. & la.P .Virg.M.Allcgo. omnibus iam
uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum cognitionem Mato deduAurus elTettqua;
in casiis funt noncxlum fed elyfios ampos nominat. Miro profedo ingenio
u3tes/& qui eodem tempore & figmento fu o Kuerita
tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more heroas relcgalTct i
tamen nt hzc omnia de czio ilium fentire animaduertamus largiorem ztherem
: ac fuum folem fua^ fydera illis tribuit / ut cum a figmento nufquam
difcedat philofophizumen ucritatem profequatur . Nos autem (i quos
uirosilleincz ios reponat diligentius confiderabimusiea omnia quz primo
difputationis die de utroi^uitz genere a nobis erporiiafunt acubflime
ilium elTe complexum animaduertemus / ut K qui in rerum cognitione
reIigiofe/8; qui in adionu bus ac uitaduiliiufte uafati Hnt digni omnino
exiftant: qui in czlumuelu« ti in originem fuam redeant i Q_uapropter BC
Orpheum Si Mufeum ac reli> quos qui cafti fuerunt facerdotes : qui
phoebo digna locuti uerum reliquis ape rite potueruntsqui uaharum aitiu
inuentioneuitam cxcultiorem reddiderunt tanquam fpeculatores cotnmemorat.
Nei^ tamen eosobmittit qui aut piisar< mis aut confilio opera
induftriaat^ audoritate rem publicam dcfendcruntiK in duiliacfocialiuita
ueifati funt.Huiufcemodi ita<^ animos ab omni cor« porea contagione
expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino incorporez naturas fint : SC
maximarum rerum capaces exiftant mullis locorum anguftiis arcuferi ptos
nullis regionum terminis inclufos eum animaduettac / fcd liberrime per
omnes mundi oras uagareuideat: ita Mufeum loquentem indudt: ut often. dat
nulli e(fe certam domum Quin & cum ita fenoit quz gratia cunumiarmo
rum^uiuis fuit quz cura nitentes pafcere equus eadem fequitur tellure
repo* flos, demonfkat non clTe fcimroemoremeotu quz et divinus Plato t
placo, nicus CICERONE de animis noftrisfentit.Cenfent emm adminift
ratores terum.p. cum in czium recepti fuerint regendorum hominum curam non
deponere. Net^folumii quiiuflepieqt uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis
detinen. tur corpore exuti t quibus dum uita manebat deledabantur: Verum
llagttio. forum quotp animi quoniam multum ex fordibus quibus intta
corpora fe fadauerunt/ fecum inde trahunt a prilhnis curis difcederc
nequeunt. Vidt« ftis ni fallor longum quidem iter ac difficultatibus
erroribufi^ plenum: fed quo tandem uir uirtutis amator finem diu
concupitum attigent. Per uari. 05 enimcafus pertot diferimina rerum
initaliam tendam s OC in quietas f&. des deuenit Aeneas. Quem quidem
fi imitabimur nos corporeis pedibus liberati / SC nitido uirtutum fonte
irrigari eodem uitz genere SC dum intra hzc corpora uerfabuntur animi
nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint innoftram originem reuerfi
zterno zuo fruemur. Q uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt : ut difputationi
finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn inquit LAVRENTIVS in ram longo
fetmone defiderare.Nam a principio ad hunc uf^ locum ita perpetuo tenore
difputatio perduda edtut nihil aut inter* niptu/aut diuulfum/aut
ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif fum ue fit qri
poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut ni hil
inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil addi qrf J
M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt quidem 6 ab/it
/multopere requlreudu uideat’. Ignoscens tamen nimiz cupidi tari
no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi planum reddi cupii
idne^badcnusateez porituintclligisnc locuinquo deinceps exponi poflit
teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo uerum etiam anxio animo
quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo ordine pandit. T u ueto
dum rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods difiribuis/illa no ueluti
familiaria io iufteeiedarfcdtanqua aliena rine ulla iniuria czclufa
procul a tua difputatione amouifti . Qua propter incertus fum quid
agam:Nam ne<^ audeo te longa ora rione defatigatum
quicquaprztercarogareme is quz fcire cupio zquo aiu^ mopoilu carere. Hic
arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet o Lau miri nos huiufcemodi
terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz ambagibus
quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro
poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr.
Ego tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo Ium
enumerem t Sed prauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo :
Id igitur quod Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes. Lucentenv
^globum lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora
de diis opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philofo«
photum de diis immortalibus fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx
ta^ inter fe aduerfz funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui
feri pfciuntcapita: Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias
excogitari. Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa
diffentiunt. Verum ut reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz
przfenti inquifitioni confentanca funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed
przfertim eorum princeps Zeno uniuer« fum mundi globum mentem &
ratione &fummafapientiaprzdita habere ae« didaunt /eam^ effe ignem
quendam purissimum ac tenuimmu . At ueluti ani mi noftri per fui corporis
particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me bta ueluti geniule
femen unde eunda procreantur penetrarciquippe qoi uigot fcmeni^ fit omniu
procreandorum. Virgilius igitur qua uis ui reliquis a Platone fuo nunqua
difcedat tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic
libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari ut ide
prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis
(loici fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe
cupiebat diftiml> Iis putaretur ipse PORTICUM fulcire ac floicis
adhauere.Na Platonis longe alia fententia eff. Ponit enim deu penitus
incorporeum:at^ extia omnem materia omnem mundum inipfoczlidorfo exiflentem.
Qua propteeillu hypcrcof mlon appellatiquoniam eifentia sua supra cxli
uerricem mancaticum tamen ui ac providentia nufquam abfit.fed omnia
circufpiciens etiam minima curet.In phzdro enim ait. Magnus in czio
lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua exoinanscunda.Eodem^ in libro
demonftrat locum illum neminem adhuc laudaiTe poetaiummec unquam pro
dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum Platonici deum eztta mundum
ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt Stoici aut illu per omne
ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgilium /i in. P. Virg.
W. AII fgo. cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcriplii Tcnnimorip
noftros illius partica bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem
prouidcntiam dci multis in loas prafe quatutinufquara a Phtune
difcedit.Non enim idem omnes rendum.Quzras fottaUe quid de mundo sentiat PLATO
[PLATONE]. Ccufet quidem animam eu babcrc/a qua reliquorum animantium
animz (int. bominum autem animos abeo deo que paulo ante dixi creah:££
ratione exornari uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione
mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi elTe (ai bit.EQ enim lile dei
uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda denudata Imltai^ illi uita
moturai prxbet/non fuaui autfacultate ledquicquidagitid uelun dei
in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat a Pia/ tonefuo discedit.
Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi totus
adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt bus omnia
ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in sententia Leucippum
abdaitem/eiufe conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S Theodorum ac Epicurum
repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita odofum deu ponauut nibil
omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu nz orbem
dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper tingere illam uelint
maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli gere opinent. At
Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti mau Atipbzcdedeo.Otbeucto
quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc pustat inde rurfus ad inferos
tranfirefaibit ab academia cftc non negamus: Verum si latius de re
buiufccmodi dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo diuiniota quz a tato
philosopho de aiope corpore difcclTu pferre poiTimustSed difficile oino
eff um breui tempore res arduas longa diligende otadone explicandas
bisanguftiis includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur
apud Platonicos cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad
corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere
do nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu
extChmat.Na eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu
demu purgatos/in fuam origine et adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis
fuerit qui pbilofophiz fe dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei
poft tria annopt milia ad fupe ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino
uixeritieu ante mille annos H purga/ ti/S purgatu (fatim in fua origine
redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/ ]at:quc cuc finiri aedunt cum
fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel lis ad eade zodiaci
parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru
de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi ci
plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi
tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro
perapi cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec
adhuc edidit. Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu
incides aperui locof quofdam fuma cum
uoluptate percurri. Res omnino magna eff LA V/ tcd/fl( magnis
ingcniuinbus ttadata Sprotfus digna in qua labores. Poterit nitn no tolum
maxima ac pulcherrima et homini fe ipfum noffc cupiend per
quartus aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo admirationem rapere.
Scnbit enim non phyticcCut plxri solent sed metaphyiicc de animoru
noftroru immorta litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem
amouere. Quem librum cu Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^
alia quz nos paulo antediuinif fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces.
Qux quidem res facit ut in iis quzpo (hilafiibre uiorquelles /forta(»fuerim.l^hil
tamen eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius
difputationis quam pepige camus cancellis includerentur/poteram illa meo
iurefilentio przterire. Itacpid facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos
vero dodif Timi viri quomodome purgem non invenio.Video enim dum
pofiulanti LAVRENTIO nihil d&> ncgo/duplids errati culpam
inddifle.Nam quid me aut loquadus fingi poteft/ qui quarto iam die ea
eruditifiimis aunbus uefiris inculcare non delinam : quae quadodrina
efiis/uobisqua mihi notiora fint: aut aud adusex cogitari quiim
praemeditatus ad differendum de iis rebus accelferim quzado dilfiinis iifdci
diuprz meditads uids uix faris eleganter pro sua dignitate explicari folcant. Im
mo quid humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit Alamanus effid potu
Itqua meanobisodofis dilferere quz tamen magnis vehementer cp urgentia bus
occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac
daiolus uolo enim et pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe tnuss
quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia at ELOQUENTIA
VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus breuiter per. Ipicueiabfoluteip
in unum congereresrquz non nili per fummum laborem: (i> mam
indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt . Nam Maro nis
diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in qua tertio
ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima tum quia inaudita accidit
no mi nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit. Non polfut fatis pro fua
dignitate lau dariquzatedidafunt inquit Antonius: Sed utinam Baptifia
quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb hanc tandem fenedutem patriz uel
optao ticodonare uei illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te
de magnis rebus difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc reddantur.
Verum has ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi tecu
intercedit nec clfitudine modo nitat facile in sua sententia tradudurum
confido. Quin ifihuc ia diu ago inquit Marcusinec prius defina qua aut
ronibus impc' travero aut praecibus ezotnaueto aut defatigando extorfero. Sed
ut confido muItum meineateiuuabit LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu. NI
cu inultu iam in litteris uter pfeccrit: fitr multatu tetu addifceda^
ardentiffima cupiditasrcu cztera illis & a natura 8C a fortuna
adiumeta ad re perficiendam abunde aifintind pariet'' ille diu adolescentibus
quos cariflimos habet operam sua desiderari. At q liceat md iqt BAPTIfta
ego talib5’adolescentibus ounq deerot Sed furgamus ii/SC qm primo mane
uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau lo an uurcriu publicis Ifis
accctfiri quod reliquu diei eft ualimdini ipedamus. Quzftionu Canuldulefiu
Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini QuaitifiC ultimi libri Finis.
Cum Priuilegio. -Z.sisqfc "Moibc scof. Questo lavoro porta
nuovi elementi allo studio delle complesse vicende inerenti i RERVM GESTARVM
FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni Simonetta e il relativo
volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO. Nel saggio introduttivo si
indagano gli aspetti biografici, storici e filologici riguardanti le due opere,
partendo proprio da SIMONETTA, attivo nella cancelleria di SFORZA assieme al
piú noto fratello Cicco Simonetta, e ricostruendo la storia testuale dei
Commentarii dalle loro origini agli emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in
vista dell’editio princeps, senza trascurare le vicende editoriali e le prime
reazioni all’opera. Punto di forza dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato
nel dettaglio il manoscritto originale, nonché esemplare di dedica, dei
Commentarii, già noto a SORANZO il secolo scorso quale codice Castelbarco.
L’attenzione si sposta quindi da Milano a Firenze, entrando nell’officina
testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la sforziada dal punto di vista
metodologico e contenutistico, con un conseguente particolare riguardo per le
vicende successive all’invio del manoscritto di dedica (copiato da Tommaso
Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto dal Simonetta a numerosi
interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte introduttiva un capitolo che
vuole delineare la storia dello sviluppo dei commentarii come genere nel quadro
storiografico dalle origini alla fine del Quattrocento. A seguire il lettore
troverà l’edizione critica della sforziada in veste integrale, corredata di un
approfondito apparato comprensivo degli interventi che ne testimoniano la
ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more interesting than the fact that he
loved the Achilleid, and commented on the Eneide, is that he sold the sforzeide
– sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo
Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I love Landino; for one he wrote the first
Italian philosophical dialogue, “Disputationes” – for another, I love the setting!” Landino. Keywords:
dialettica fiorentina – implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Landucci: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- i misteri del delitto Gentile e le bestie
senza stato di Vespucci – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sarzana). Filosofo italiano. Grice: “If I had in
Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s mentoring me into
Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Altri saggi: “Cultura
e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i selvaggi” (Bari,
Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze, Sansoni); “La co-scienza
e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La contraddizione” (Firenze, Nuova
Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La Critica della ragion pratica”
(Roma, NIS), Sull'etica di Kant, Milano,
Guerini, La mente in Cartesio, Milano, F. Angeli, I filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La
doppia verità: conflitti di ragione e fede tra Medioevo e prima modernità, Milano,
Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista, "Repubblica", Scheda biografica su
Einaudi. Sergio Landucci. Grice:
“Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of
the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI L. – I MISTERI DEL DELITTO
GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI
ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN saggio
SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE
DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE
L'ABBIAMO DIMENTICATA…” Gnoli per Robinson-la Repubblica landucci
LANDUCCI Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande
libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto
sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando
de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è stato
ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi
colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi", sempre meno
variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre
martoriate. Il paragone turba L.. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua
faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si
scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso,
gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è
stato allievo di Luporini, ha insegnato all' università di Firenze, subendone,
dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario. Quasi immediatamente
percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità
incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero
avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono
alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell'
insegnamento e decisi per la pensione anticipate. È stato così frustrante il
lavoro universitario? «Lo è stato certamente per uno come me. Mi
consideravo, come si diceva allora, un "cane sciolto". Mi stupì
constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui
si incistò dopo il '68 la contestazione studentesca». I punti di
riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Garin e
Luporini. «Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata
acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia
come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le
posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c' era un inquietudine ben
maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli
studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo, sostengo
semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento. Era lo
spirito del tempo. Ne facevo parte anch' io, ma senza tessere o bandiere.
Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all' Università di
Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali
erano i vostri rapporti? E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi
affascinava quest' uomo che andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e
seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a frequentarne
i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER Quando
il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si insediava da
Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione al regime.
Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo per Berlino.
Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai corsi di
Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti auguri"».A
proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo, così era
soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli dell'
omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare? « C' è
innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo
chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller,
ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta
Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e
all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due
di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto
qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo
è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va
a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli
dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE
aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce
i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa
nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal
senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e
questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e
frutto di equivoco? Il fatto che accreditasse la versione offerta da
Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a sostenere che
dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di prova. Credo si sia
perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di GENTILE,
che non ha mai conosciuto. Poi c' è la testimonianza della moglie di LUPORINI
Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini
sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata». Possibile che non ci
fosse un grano di verità? « La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI
e emotivamente coinvolto. Dopo l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo
all' ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli
se vuole vedere per l' ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in
fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo
quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non
pronunciare più quella frase».E lui? « Non so se fu una mia impressione
ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi
frequentava? «Tra le persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO.
Di quest' ultimo divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una
certa paura per il modo di fare lezione e interrogare. «A me, che non
sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita
ideologica piuttosto travagliata? « Se allude al passaggio dal fascismo al
comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il
pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia
guidata dal potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma
perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa
intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del
Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia
diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per
essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare
a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton
per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare
lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.
«Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera
universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una
certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della
professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con
le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli
ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non
seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va
dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il
rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la
riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella
lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi
chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per
lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così incisivo? Direi
che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un ambiente che non
scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua famiglia com'
era? « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un impiego modesto.
Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre anziano e la mamma che
gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio fratello, per paura che lo
scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di altri tempi. Anche nel
lessico ricordava la belle époque. Invece di autista dice chauffeur, vis à vis
a posto di specchio e quando chiedeva l'asciugamano dice passami il Amava il
melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo e mia madre. Risultato: ho
sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più di quanto non abbia
detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU Dà l' impressione di
un uomo provato dalla vita. Sono molto amareggiato dalla mia vita
professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di entrare nei
dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato dalla vita.
Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata la mia
droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha
consentito di vivere». Non è vero, il suo libro sui "
Filosofi e i selvaggi" è un grande libro. «Non diciamo sciocchezze,
troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile
erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Diaz. Scriverlo, fu
un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi
appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del
selvaggio e a prenderne le difese. « Non è il primo, ma in qualche modo
rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle
bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon
selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni,
non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che
soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà? «È solo una
tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la
violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che
culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la
mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau. «Fino a
un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non
conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è
sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze
questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di
Montaigne Hobbes parla di uno "stato di natura".
firenze FIRENZE Dove tutti si fanno la
guerra e dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine
di questa condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che vengono
fatte dei selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità
si sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni? « È passata l'
idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni
ipotetica assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è
vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha
perfino parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione.
«Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su
ogni aspetto della vita politica, il delirio - come strumento patologico -
rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che
contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia
nessuna giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro
la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta
attanagliando l' Occidente. Ma non credo di averne più la forza. Mi
resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più
maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal
vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non
siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio
ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of the ‘barbarian’. It
all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake philosophical
position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy, and they have
no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different reasons.
Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” -- Landucci.
Keywords: i misteri del delitto Gentile.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lalla: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale nella selezione sessuale di Nerone, il musicista – filosofia
triestina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). FIlosofo italiano. Grice: “I have been
called a Darwinist, which offended de Lalla!” -- Figlio unico di Achille de
Lalla e Anna Millul. Il padre, nato a Napoli da famiglia
originaria di Tolve, aveva intrapreso la carrriera militare, giungendo a
ricoprire il grado di Tenente colonnello dell'esercito e congedandosi con il
grado di Generale dell'esercito. Prese parte alla Prima guerra mondiale nonché
alla Seconda guerra mondiale, dove rimase ferito alla spalla destra in Russia.
Fu in seguito Dirigente dell'Istituto per la Ricostruzione Industrial. Achille
de Lalla era figlio di Ludovico e di Maria Buonomo, figlia a sua volta di
Alfonso Buonomo, compositore e musicista napoletano di fama. La madre Anna Millul era nata a Roma in una
famiglia ebrea originaria di Livorno. Si laurea, allievo di Kalinowski di cui
traduce in italiano il saggio "Interpretazione giuridica e logica delle
proposizioni normative". Scappa a
Parigi, prendendo parte al Maggio. Tuttavia, fu tra i primi ad intuire che il
Partito Comunista francese non aveva alcuna seria intenzione politica di
sostenere la Contestazione e, in anticipo sul fallimento dell'iniziativa
giovanile, lascia la Francia rientrando in Italia deluso. Studioso di
Evoluzionismo e Politologia, e è proprio sulle sue teorie sull'Evoluzione umana
e sul pensiero di Darwin che scrive l'opera “La selezione sessuale”. Insegna a
Siena e Napoli. A testimonianza del grande successo che riscuotevano i suoi
corsi universitari, rimane la petizione indetta dagli studenti affinché il
Senato Accademico li prorogasse per un biennio.
Gl’ultimi anni Ritiratosi a vita privata, muore a Napoli nella tarda
serata del 25 settembre d'infarto mentre
attende alla redazione della sua ultima opera. Est Deus in nobis Contributo
alla Nuova Evangelizzazione e, nelle intenzioni dell'autore, avrebbe dovuto
costituire il completamento della trilogia iniziata con Evoluzione e proseguita
con La Comunità Democratica.Convinto assertore della superiorità del Diritto
pubblico rispetto a quello privato, si è sempre posto a tutela delle
prerogative statuali. Convinto assertore
dei rischi della dilagante esterofilia in campo politico e fondamentalmente
euroscettico negli ultimi anni di riavvicinamento al cattolicesimo, ideò un
progetto di edificazione di un nuovo partito politico che, nelle sue
teorizzazioni avrebbe assunto il nome di PARTITO CRISTIANO COMUNITARIO (DEMOCRATICO)
ITALIANO PCC(D)I. Saggi: “Il concetto
legislativo di azione penale” (Jovene, Napoli); “La scelta del rito
istruttorio” ( Jovene, Napoli); “Logica della prove penale” (Jovene Napoli);
“La pena militare” (Jovene, Napoli); “Topografia politica della repubblica”
(Scientifiche, Napoli); “Il completamento istruttorio del giudice nelle
indagini preliminari in "Riv. it. dir. e proc. pen."); “Evoluzione,”
“Darwin e la selezione sessuale” (Salerno, Roma); “ Selezione sessuale”
(Scientifiche, Napoli); “La comunità democratica: idee per una politica nuova”
(Guida, Napoli) – concetto di KRATOS --“Comunitarismo” (Guida, Napoli);
“Nerone, o Musica nella antica Roma”
(Guida, Napoli); “Composizioni musicali Per pianoforte Sonata n.° 1
Suite "italiana" Sonata n.° 2 Sonata n.° 3 "napoletana"
Musica da camera Sonata per violino e violoncello Sonata per violino e
pianoforte Sonata per violini, viola e violoncello Note de Lalla F., Una famiglia borghese, Ed.
Ibiskos de Lalla F., in "Il foro penale"
ilcambiamento,// ilcambiamento/ articoli/ evoluzione_2_ darwin_de_
lalla_millul. ateneapoli,// ateneapoli/news/ archivio-storico/
reintegro-del-prof-de-lalla-il-consiglio- di-facolta--si-esprime-
negativamente. petizioni.com/ petizione
_pro_prof_paolo de_lalla. Grice: “When I hear that a philosopher has written
yet another trattarello on the filosofia della musica, I always thought not of
Orpheus and his lute, but of NERO and his lyre!” -- Paolo de Lalla Millul. Paolo de Lalla. Lalla. Keywords: evolutionary, sexual
selection, Nerone, filosofia della musica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lalla” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Latini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- l’implicatura
rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “Latini reminds me of Hardie;
he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice: “People say it all starts
with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind Alighieri surely is Burnetto –
he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the rest of them.” «Poi si rivolse, e parve di coloro che
corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che
vince, non colui che perde» (Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e
nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le fonti storiche
e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione
alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato
dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per richiedere il suo aiuto in
favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della vittoria dei ghibellini a
Montaperti lo costrinse all'esilio in
Francia. I cambiamenti politici conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento
sconsentirono il suo ritorno in Italia.
Fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della
repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini. La sua influenza
divenne tale che a partire si trova a malapena nella storia di Firenze un
avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte. Contribuì
notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta
"pace di Latino". PPresiedette il congresso dei sindaci in cui
fu decisa la rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati,
in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si
fa frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli
arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV
dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella
natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano
su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono.
Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non
nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella
Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre
opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare
fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona. L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto”
è presente già nei manoscritti più antichi,
presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”.
Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si
perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte
nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la
composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si
interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per
spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal
romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una
parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia,
Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta
durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata
più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e
risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono
stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola. Il primo
libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono
un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento
alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia,
geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una
delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della
sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù,
attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda
principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il
romano Publio Vegezio e Cicerone. Altre opera: è inoltre autore di un
altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e
commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre
orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss,
Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal
"Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune
riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura
italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni”
(Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia
della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti,
Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici
delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo, La tradizione dei volgarizzamenti toscani del
Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del
volgarizzamento toscano. La colonna
posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou
Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N.
Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del
Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla
ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I.
Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia
pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche:
Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia
dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari,
Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op
Varese, L. Frati, Brunetto Latini
speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini,
Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti
dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV
dell'Inferno dantesco"). Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto
Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura",
Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura
e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e
Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV
dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi, Longo, Ravenna; "Representations", R.
Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il
sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni
capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e
delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il
Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal,
su florin.ms. G. Orto, L.. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto
da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo,
Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto, su classicis tranieri,
Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris M. Giacomelli. La
rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo quale è
ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser
Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo di
Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il
prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia del
DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini
et alle città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e
raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio
che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza
sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una
la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra
insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò cosi del tutto
apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel processo del saggio, in suo
luogo e tempo come si converrà. Rettorica s' insegna in due modi, altressì
come l’altre scienzie, cioè di fuori e dentro.Verbigrazia: Di fuori
s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e quale sua
materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la
fine e lo suo artifice. Ed in questo modo tratta BOEZIO nel quarto della
Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che sia da
fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come
si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o
della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne
tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che
sia rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per
più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI
BENE DIRE, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE
dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è scienzia di
ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente
dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in
questo modo. Rettorica è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle
publiche cause e nelle private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi
sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private
questioni. E certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua
diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie.
Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il
convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono
quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E
ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che queste parole sopra '1
dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere
bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere le sue parole
davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.
Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo artifice. Dico che è
doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è quelli che
'nsegna questa scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti dell'arte.
Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa
in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li
buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale
perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e
dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo
buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle
cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del
suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando
l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore, cioè il trovatore di
questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e
la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à
questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti
i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo
ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più
sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di
Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e
chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio
appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e
de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più quanto
all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio, sì
come il buono intenditore potràe intendere avanti. La sua intenzione
fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si mette a fare
questo trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione
proposta. Et e' tratta secondo la forma del saggio di CICERONE di tutte
le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento
di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo
che sono nel secondo saggio che CICERONE fa ad Erennio suo amico, sopra le
quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio
è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la quale
fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte
guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e
sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue
vicende, e là trova uno suo amico della sua città e della sua
parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande
senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo
porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era
parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi
aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale
era l)uono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di
rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il
testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua
scienzia e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di
questo saggio è grandissima, però che ciascuno che sa bene ciò che
comanda lo libro e l'arte, sì sa dire interamente sopra la questione
apposta. E in questo punto si parte elli da questa materia e ritorna al
propio intendimento del testo. In questa parte dice lo sponitore che
CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale al
suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi,
nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO
nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia dee prima
purgare ciò che pare a lui che sia grave; e così fa CICERONE, che purga
tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso
la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e
che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI
DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza
d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza
parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE
purgando questi tre gravi articoli procede in questo modo. Che in prima
dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza.
Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più.
Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di
sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare
a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì
mette le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che
noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali
muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta
parte mostra di che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel
suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e
del male che fosse advenuto, immantenente dice del male
per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno
nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non
ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per
potere più di sicuro lodare e difendere. E per le sue propie parole che
sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in
queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e
che non si possono celare, in quelle medesime la difende abassando e
menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi
danni de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune
altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del
comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di
Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì
alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al tempo
di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al
tutto contrario a Catellina. Et poi nella guerra di Pompeio e di Giulio
Cesare si tenne con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato
di Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del
mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove dice l'antiche adversitadi
altressì abassa il male, acciò che delli antichi danni poco curiamo. Et
là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che,
sì come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle grandissime
cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano. E così
non pare che eloquenza sia la cagione (iel male che viene alle
grandissime città. E là dove dice che danni sono advenuti per nomini
molto parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende
rettorica, dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne'
quali non regna senno. E non dice che il male sia per eloquenza, che
dice Vittorino. Questa parola eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere.
Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e
quando pare che dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O
IMPLICATURA, del quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il
conto da quella prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo
pensamento ed dice li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella
quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando
ordino di ritrarre dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane
dalla nostra ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza
congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto
conquistare e mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte
battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone
divisa li mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA
PIU BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E nota che dice son messe ordinatamente
acciò che prima si raunaro gli uomini in- sieme a vivere ad una ragione
et a buoni costumi et a multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti
ricchi montò tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie.
Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini fecero
compagnie usando e mercatando insieme; e di queste compagnie cuminciaro a
ffare ferme amicizie per eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma ssi come dice
e signifficano queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole
di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è 15. amico
e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo sponitore non vuole
lasciare un solo motto donde non dica tutto lo 'ntendimento. Che è
cittade. Cittade èe uno raunamento di gente fatto per vivere a ragione;
onde non sono detti cittadini 20. d'uno medesimo comune perchè
siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a
vivere ad una ragione. Che è compagno. Compagno è quelli che per
alcuno patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi
dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi divegnono
fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di simile vita
si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia: Acciò che
alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e
però dice «per uso di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non
sia a cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele
i'-in compimento dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/
aslroppiarc, m a storpiare caunano, corretto poi in raunarono — Af ad
avere una ragione, m "al avere una medesima ragione M l'uno, -If'
fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò loro M-m parlando anno attutato -
le guerre — il.' M forme amicitio, »» forme d'amie— i^:mdichono— i^.- m
dimostrare quello — io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/' volle
intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m rachollì - 25: M son — S7 :
M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V ad un altro — 3U' por- ciò
— 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con
quella di con) U ad altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per
utilitade, ma sia per constante vertude. Et cosi pare manife- mente che
quella amistade eh' è per utilitade e per dilet- tamento nonn è verace,
ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade menoma. Che è sajoiemia.
Sapienzia è comprendere la verità delle cose si come elle sono. Che
è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome parole guernite di buone
sentenzie. 10. TnUio. Et così me lungamente pensante la ragione
stessa mi mena in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza
eloquenzia sia poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è
spessamente molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se
alcuno in- l.ó. tralascia li dirittissimi et onestissimi studii di
ragione e d'officio e consuma tutta sua opera in usare sola parladura,
cert' elli èe citta- dino inutile al sé e periglioso alla sua cittade et
al paese. Ma quelli il quale s' arma sie d'eloquenzia che non possa
guerriere contra il bene del paese, ma possa per esso pugnare, questo mi
pare uomo e 20. cittadino utilissimo et amicissimo alle sue (>)
et alle publiche ragioni. Lo sponitore. Poi che CICERONE ha
dette le prime due parti del suo prologo, si comincia la III parte, nella
quale dice tre cose. Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là
dove 25. dice : « Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda,
nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove dice : « Ma
quello il quale s' arma ». Et quivi comincia la terza, ne la quale dice
che pare a llui dell'una e dell'altra giunte insieme.
3: M' om. e — 4: M- pdesi — m diloclamento 7 l'util., .tf' l'utilitade 1
diloclo — 8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om. sia.... sapienza
— i-J : M' om. molto ^ i5: M-m lassa indireotissimi (m idireuissimi) —
IG: M-m sola la parlatura — 18: 3l-m sama — .)/ giuriare, m ingiuriare —
Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare cittadino — .V-»i a' suoi — .?3
• .1/ conincìa — S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) —
So: yr-ìii dice jiarla — M-m qui - 26: M insino — m là dove —M-m la (|ual
dice. (1) Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: «
utile a ssè et al suo paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere
avac- ciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene
avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sai)ienzia sempre è
tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno V 5. savio che non sia
parlatore, dal quale se noi domandassimo uno consiglio certe noUo darebbe
tosto cosìe come se fosse bene parlante. Ma se fosse savio e parlante
inmantenente ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò che
dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d' officio,
intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e là dove dice « officio »
intendo le vertudi, ciò sono prodezza, giustizia e l'altre vertudi le
quali anno officio di mettere in opera che noi siamo discreti e giusti e
bene costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e
studia 15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto
che, però che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui
avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa trattare le propie
utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo e luogo et ordine che
conviene. 5. Adunque colui che ssi mette 1' arme d' eloquenzia è utile a
ssè et al suo paese. Per questa arme intendo la eloquenzia, e per
sapienzia intendo la forza; che sì come coli' arme ci difendiamo
da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì per eloquenzia
difendemo noi la nostra causa dall'aversario 2.5. e per sapienzia
ne sostenemo (2) di dire quello che a noi potesse tenere danno. Et in
questa parte è detta la terzia parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae
il conto alla quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto
da- vanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica
i : M Lande — M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci
conv. — 0; m ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile
quello, m di quello — .)/' disse — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et
altro — 13: .»f' che non siano — i4.- .V-m dall'altre ver- tufli — 15:m
adiviene — 16 : jn a lini : solo L nelle
; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) -- 19: M Adunque che colui — 22:
M-m torma — M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo — 23: il l'armi - 23-24:
Af difendo — m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro
aversario la nostra cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi
potesse ave- jjire (li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29:
m dinanzi e; Jfi om. et. (1) Cos'i richiede il senso; la lezione
nelli ò nata certamente dall'aver preso l'aggettivo comuni per un
sostantivo. (2) Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci
asteniamo », coni' è richiesto dal senso e secondo gli esempii citati dal
Vocabolario della Crusca. per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò
reca Tulio molti argomenti, li quali debbono e possono così essere,
e tali che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta cosa
pur di cosi essere ; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in
lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sot- tile secondo
la forma del libro. Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo considerare
il principio d'eloquenzia la quale sia pervenuta in uomo per arte o per
studio o per usanza lo. per forza dì natura, noi troveremo che sia
nato d'onestissime cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione, (e. li)
Acciò che fue un tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li
campi in guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e
facea ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per
ragione l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione
né umano officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto
le- gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né
aveano pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E
così per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa
dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava
le forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori. Lo
sponitore. In questa parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare
che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e 2.5. per ragione ottima
et onestissima, sì dice come in alcuno tempo erano gli uomini rozzi
e nessci come bestie; e del- 3: ìl-m tale — .1/' jdii' che
cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur essere — .5 J/
' la spositione — 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca — H: m
d'ottime chagioni 7 ragione — 12: il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li
campi in modo de bestie 7 de fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M
maritaggio — M iihylosofi, m lilo- safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L
ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca la folle 7 ardita — 20: M-m per
mette — M-m (fuivi susavano, l. masusavano — 21:31' seguitori — 23: M-1U
nm. quarta — 24: m om. e per ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo
dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma, che egli è
fermamento di corpo e d' anima razionale, la quale anima per la ragione
eh' è in lei àe intero conoscimento delle cose. 2. Onde dice Vittorino:
Sì come menoma la forza 5. del vino per la propietade del vasello nel
quale è messo, cosie r anima muta la sua forza per la propietade di
quello corpo a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal
di- sposto e compressionato di mali homori, la anima per gra- vezza
del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che appena puote discernere
bene da male, sì come in tempo passato neir anime di molti le W quali
erano agravate de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi
et indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde
misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol- 15.
liendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente, non
connoscendo i loi'o proprii figliuoli né avendo legittime mogli. Ma tuttavolta
la natura, cioè la divina disposi- zione, non avea sparta quella
bestialitade in tutti gli uomini igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello
dici- 20. tore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci a
ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina conno- scenza,
cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponi- tore dicerà per
innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio nel testo di sopra che
eloquenzia ebbe cominciamento per 25. onestissime cagioni e
dirittissime ragioni, cioè per amare Idio e '1 proximo, che sanza ciò l'
umana gente non arebbe durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini
isvaga- vano per li campi intendo che non aveano case né luogo,
1: M' i figluoli (corretto poi lilosofi) — M' sucra — S : M' eh
ehi ì\ l'ormato — 3: in- tero è in M'-L; il lùlo (incerto?), m inerito —
4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m mali hiiomini — 9: m per la
gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone dal male — il:
M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati — i2: W
del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo — 14: lU-m Ivi
susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10: M' oiii. savio o — SI: W
tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine, >S ha cornine. — 26-27: »l'
non averla durata, L non avrìa durato — i« K colà. (1) È
lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali si cambiò
facilmente in li quali (o i quali) per effetto del molti che precedeva, e
da li quali, natural- mente, venne in M'-L anche il maschile angraoati
invece di aggravate. Che si tratti solo delle animo risulta da tutto il
periodo, e in particolare dallo parole - la anima per gravezza del corpo
». ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che
viveano come fiere intendo che mangiavano carne cruda, erbe crude et
altri cibi come le fiere. 6. Et là dove dice « tutte cose quasi faceauo
per forza e non per ragione » 5. intendo che dice « quasi » che non
faceano però tutte cose per forza, ma alquante ne faceano per ragione e
per senno, cioè favellare, disidejare et altre cose che ssi muovono
dall' animo. Et là dove dice che divina religione non era reverita
intendo che non sapeano che Dio (D fosse. Et là dove dice dell' umano
ofiìcio intendo che non sa- peano vivere a buoni costumi e non conosceano
prudenzia né giustizia né l'altre virtudi. Et là dove dice che non
mauteneano ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della quale dicono
i libri della legge che giustizia è perpetua e 15. ferma volontade
d'animo che dae a ciascuno sua ragione. Et là dove dice « aguaglianza »
intendo quella ragione che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra
li eguali fatti. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel vizio
eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce 20. a
disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere, et inforza nel
nostro animo un mal signoraggio, il quale noi permette rifrenare da' rei
movimenti. 12. Et là dove dice « nescitade » intendo eh' è nnone
connoscere utile et inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non
sapere, 25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove
dice « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti e
ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove dice « misusava
le forze del corpo » intendo misusare cioè i-2: M-m om. Et
là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude — 4-6: m l'a-
ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma al([uanle ecc. —
7: .i/'-L dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza 7 non
per ragione intendo Ice dice quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono
— 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne prudenza — 14: m' de legge — 14-15: m'
ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual — 18: M' mìsfacti — M
lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano scrisse apetito, t quello
che contrario, S quello appetite V om. noi - 22: M-m non permette M-m
necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode ol danno ~ m intendo
che non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L orati — 2é?: J/ emusavano,
jiiemisusavano — .u misusere, .V' misure, L misusare — m che misusare è
usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e
la lezione di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh'
idio, chi dio; è vero però che le ragioni paleografiche varrebbero anche
per il caso inverso. usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza
di corpo ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste,
ma coloro faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi- tore
sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le quali eloquenzia cominciò a parere.
Omai dicerae in che modo appario e come si trasse innanzi. Nel quale
tempo lue uno uomo grande e savio, il quale cognobbe che materia e quanto
aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime cose chi Ili
potesse dirizzare e megliorare per comandamenti. Donde costrinse e raunò
in uno luogo quelli uomini che allora erano sparti per le campora e
partiti per le nascosaglie silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose
utili et oneste, tutto che alla prima paresse loro gravi per loro
disusanza, poi T udirò 15. studiosamente per la ragione e per bel
dire; e ssì Ili arecò umili e mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà
che aveano. Lo sjaonitore. 1. In questa i)arte vuole
Tulio dimostrare da cui e come cominciò eloquenzia et in che cose ; et è
la tema cotale 20. In quel tempo che Ila gente vivea così
malamente, fue un uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il
quale cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé
naturalmente per la quale puote l' uomo intendere e ragio nare, e
l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a ttenere i)ace et amare
Idio e '1 proximo, a ffai-e cittadi, castella e magioni e bel costume, et
a ttenere iustitia et a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse
dirizzare, cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per
comanda- menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili
2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m
loninciò (hi coro). 7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno
buono — iO: 31' adrinure — 12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose
selve 13: M-m et facciendo loro as- sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi
recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo — 24 : M-m el lo
ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'
7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da
b. v. afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che
potrebbe alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non
erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la ragione
dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel 5. modo eh' è detto. 3.
Donde questo savio costrinse - e dice che i « costrinse » però che non si
voleano raunare - e raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1
savio uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando belle
ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in 10. dare
mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri, che ssi raunaro
e patiero d'udire le sue parole. Et elli in- segnava loro le cose utili
dicendo: « State bene insieme, aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e
forti; fate cittadi e ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo :
« Il pic- 15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre
» etc. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-
mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad ordine, acciò
eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e non si voleano mettere a
signoraggio, poi, udendo il bel dire 20. del savio uomo e
considerando per ragione che larga e li- bera licenzia di mal fare
ritornava in lor gi"ave destruzione et in periglio de l'umana
generazione, udirò e miser cura a intendere lui. Et in questa maniera il
savio uomo li ri- trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice «
fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade » perciò
che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi uccidea l'uno l'altro
- e feceli umili e mansueti, cioè vo- lontarosi di ragioni e di virtudi e
partitori (2) dal male. 1 : m rafrenasse, S affrenassono —
J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio per falsa
lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m
il' poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l'
metendo '1 suo - 10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere —
20-23: it-m om. e considerando.... il savio uomo — 23-24: m si ritrassono
— 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro crud. — 24-25: H-m om. e
dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo) - 28: il'
partito, l. e'dipirtironsi, s partiti. (1) Parrebbe preferibile la
lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti i mss. abbiano
il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta pensare
che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-
siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare
(p.es. «ciò»); e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di
Brunetto, IO, 3, e dal Varchi, Ercolano, ediz. Bottari (Firenze Senza
ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M inten- dendo
« partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ».
Cfr. Manuzzi. Or à detto CICERONE chi cominciò eloquenzia et intra
cui e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non potea ciò
fare. Tullio. Per la qual cosa pare a me che Ha
sapienzia tacita e povera di parole non arebbe potuto fare tanto,
che così subitamente fossero quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga
usanza et informati in diverse ragioni di vita. Lo
sponitore. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale
non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice sapienzia tacita quella
di coloro che non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno '
romiti. Et dice « povera di parole » per coloro che '1 lor senno
non sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar
credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo intendere che picciola
forza è quella di sapienzia s'ella nonn è congiunta con eloquenzia, e
potemo connoscere che sopra tutte cose è grande sapienzia congiunta con
eloquenzia. Et là dove dice « così subitamente » intendo che quello
savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapien- zia, ma non
cosi avaccio né così subitamente come fece abiendo eloquenzia e
sapienzia. Et là dove dice « in di- verse ragioni di vita » intendo che
uno fece cavalieri, un 25. altro fece cherico, e così fece d'altri
mistieri. Tullio. 7. Et così, poi che Ile cittadi e le
ville fuoron fatte, impreser gli uomini aver fede, tener giustizia et
usarsi ad obedire l'uno l'altro per propia volontarie et a sofferire pena
et affanno non solamente 2 : M-m om. e come — sanza (luale —
5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli — 13: M' i romiti, m li
romiti — 14: M-m alloro senno, L in loro senno — i7: M-m om. che — i9: M'
giunta — 22: Af' si avaccio — 23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere
lede 7 tenere.... adusarsi — M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia
potrà sembrare un'aggiunta arbitraria; ma siccome non è inutile,
preferisco mantenerlo. per la comune utilitade, ma voler morire per essa
mantenere. La qual cosa non s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non
avessor po- tuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per
eloquenzia, ciò che trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi
avea forza e 5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare
di coloro ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e
soave parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale
era tanto durata lungamente che parea et era in loro convertita in
natura. Donde pare a me che così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia,
e poi s'innalzò in altissime utilitadi delli uo- mini nelle vicende di
pace e di guerra. Lo sponitore. I. In questa parte dice
Tulio che cciò che sapienzia non avrebbe messo in compimento per sé sola,
ella fece 15. avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe
cotale: Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et inse-
gnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi e ville; poi
che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere fede. Di questa parola
intendo che coloro anno fede che 20. non ingannano altrui e che non
vogliono che lite né di- scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la
mettono in pace. Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della
cosa promessa; e dice la legge che fede è quella che promette l'uno
e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un altro libro delli offici
che fede è fondamento di giiistizia, veritade in parlare e fermezza delle
promesse; e questa ée quella virtude eh' é appellata lealtade. E così
sommata- mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che
2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea
charebbono potuto divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea —
M-m santa — 7: M^-L allegrezza — 8-9 : M era converita la loro natura, m
era convertila in loro natura — 9 : m onde — 14-15: M^ il fece in
compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci 19: 3/'
fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et in
fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M'
de- lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M
somatamente, m asommatam. congiunta con sapienzia. (1) Sarà
certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso dell'
ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la
nota di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse
il Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si
dica per s'areb- hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non
s'arebbono potute met- tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben
fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti
i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o
di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi- sogna la nostra
rettorica sì al postutto, che sanza lei non si potrebbono
mantenere. Tullio. Ma poi che Ili uomini, malamente seguendo
la vìrtude sanza 10. ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro
et inforzaro tutto loro ingegno in malizia, per che convenne che ile
cittadi sine gua- stassero e li uomini si comprendessero di quella
ruggine, (e. Ili) Et poi che detto avemo la cumincianza del bene,
contiamo come cuminciò questo male. Poi che CICERONE avea detto
davanti i beni che sono advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i
mali che sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che
Ila sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male a coloro che
Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la tema è cotale: Furono
uomini folli sanza discrezione, li quali, vegga ndo che alquanti erano in
grande onoranza e montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano
se- condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo
in parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero sì
copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare sanza condimento
di senno, che (2) cumìnciaro a mettere cioè — 2: M-in che
poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M conviene,
M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren- dessero — 13: M \a
cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave... dinanzi
— 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi parte (ma ri son
trticiie di etpun- zione) — 19: m om. elli — 20: M El perciii — 24: M' il
comandamento.... studiavano — 25 : ilf intralassai-o, m e lasciaro
- 20: M' de molto — m om. elio. (1) Invece di si studiavo credo
preferibile studiavo in senso assoluto, come già si è trovato, 3, § e
studia puro in dire le parole. Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò
attestato da ambedue le famiglie di codici e non costituisce una rarità
per il nostro volgare antico (anzi, per Brunetto stesso, cfr. IO, 1:
avegna che ma tutta volta). sedizione e distruggi mento nelle
cittadi e ne' comuni et a corrompere la vita degli uomini; e questo
divenia però ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della
quale erano tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia
5. sola èe appellata « la vista », perciò che ella fae parere che
sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et queste sono
quelle persone che per avere li onori e F utti- litadi delle comunanze
parlano sanza sentimento di bene; così turbano le cittadi et usano la
gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo contato '1
principio del bene, cioè de' beni che avenuti erano per eloquenzia,
si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del male chende
seguitò. Et dice in questo modo nel testo: Tullio tratta della
comincianza del male 15. adveniito per eloquenzia. Et certo molto mi
pare verisimile: in alcuno tempo gli uomini che non erano parlatori et
uomini meno che savi non usa- vano tramettersi delle publiche vicende, e
che W gli uomini grandi e savi parlieri non si trametteano delle cause
private. E con ciò 20. fosse cosa che sovrani uomini regessero le
grandissime cose, io mi penso che furo altri uomini callidi e vezzati i
quali avennero a trattare le picciole controversie delle private persone;
nelle quali controversie adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi
nella bugia incon- tra la verità, imperseveramento di parlare nutricò
arditanza 25. 11. Sì che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per
necessitade che' maggiori si contraparassono agli arditi e che
ciascuno atoriasse le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che quello
eh' avea impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora
più innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia,
i-2: m nelle loro ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m
avenia — 3 kelli aveano sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li
quali — 7: M' questi — 10: m om. Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/'
il cominciamento — i3: Jlf chende seguita, j/i che ne seguita - 16: M et
certo mo, la Certo modo M meno di savi, m ch'erano meno che savi — 17-18:
M-m non sapeano, L non osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin- trametteano
dele cose — 21: M-m om. uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om.
delle pr.... controversie — 23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26:
M' aiutasse m adornasse — 29: M' giunta. (1) Un costrutto più
regolare si avrebbe sopprimendo il che o inserendone un altro dopo
verisimile; appunto. per questo conservo' il che, non sembrando proba-
bile che un copista volesse complicare di suo. Questa maggiore libertà
sintattica non è nuova. aveni'a che, per giudicio di moltitudine di
gente e di sé medesimo paresse essere degno di reggiere le publiche
cose. E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi impronti
pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e miserissime
tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa cadde eloquenzia in
tanto odio et invidia che gli uomini d'altissimo ingegno, quasi per
scampare di torbida tempestade in sicuro porto, così fuggiendo la
discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad al- cuno altro queto
studio. Per la qual cosa pare che per la loro posa li altri dritti et
onesti studii molto perseverati vennero in onore. Ma questo studio di
rettorica fue abandonato quasi da tutti loro, e perciò tornò a neente, in
tal tempo quando più inforzatamente si dovea mantenere e più
studiosamente crescere; perciò che quando più indegnamente la
presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e guastava la cosa
onestissima e dirittissima con troppo gravoso danno dei comune, allora
era più degna cosa contrastare e consigliare la cosa publica. Della qual
cosa non fugìo il nostro Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo
Àffricano, né i Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana
virtude et altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la
loro eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e
mantenimento della comunanza. Lo sponitore. In questa
parte divisa Tulio come divennero quelli due mali, cioè turbare il buono
stato delle cittadi e corrompere la buona vita e costumanza delli uomini; et
avegna che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che molto
fae da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune
parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo- 1
: M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7 di reggiere, M' paresse
degno de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in pronti, m enpronti — 4-5
: M' pervennero i reggìm. — 7 de miserissime tempeste — spessamente — 7 :
M' lempcstande — * : M-m la discordia (m echontumulosa) — 9 : Tutti i
mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf ' do tutto loro " i4:
M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n. d'AII'ricano — Jlf'
erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la buona costumanca - 27: M< suo
stato — m in se — 28: itf' om. tutti, ma — M' alcuna parola — S9: Af' Et
la tema 6 cotale. De la el. ecc. È possibile tanto la lezione di Af
quanto quella di m; ma proferisco questa perchè corrisponde alle parole
del commento, § 6: « pareano essere degni». Il testo latino ha studium
aliquod quieUtm. Lo scambio di queto por questo era facilissimo, e forse
risalo r.llo iirimo copio. quenzia mise in sì alto stato i parladori savi
e guerniti di senno, che per loro si reggeano le cittadi e le
comunanze e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li onori
e le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè 5.
delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere né altre picciole
cose. Ma erano altri uomini di due maniere: l'una che non erano
parlatori, l'autra che non aveano sa- pienzia, ma erano gridatori e
favellatori molto grandi; e questi non si trametteano delle cose publiche,
cioè delle signorie e delli officii e delle grandi cose del comune,
ma impigliavansi a trattare le picciole cose delle private per-
sone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali furono alcuni calidi e
vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che in loro regnava parea
ch'avesse in loro sapienzia-; e questi s' ausarono tanto a parlare che,
per molta usanza di dire parole e di gridare sopra le vicende delle
speciali persone, montare in ardimento e presero audacia di favellare
in guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la menzogna
e la fallacia ferma contra la veritade. Onde, per li grandi mali che di
ciò adveniano, convenne che' grandi, ciò sono i savi parladori che
reggeano le grandi cose, venissero et abassassero a trattare le picciole
vicende di speciali persone, per difendere i loro amici e per
conta- stare a quelli arditi. Et nota che arditi sono di due ma-
25. niere : l' una che pigliano a fifare di grandi cose con prove-
dimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano a ffare le
grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi sono folli arditi. 5.
Donde in questo contrastare i buoni e savi parlavano giustamente, ma i
folli arditi, che non aveano 30. studiato in sapienzia ma pure in
eloquenzia, gridavano e garriano a grandi boci e non si vergognavano di
mentire e di dire torto palese; sicché spessamente pareano pari di
senno e di parlare e talvolta migliori. Sì che per sentenza
4 : M' om. e non s. t. d. cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. —
7 M< parliei-i — iO: M' de
comuni dele piccole cose cioè che jier la lYaude ecc. parean (/^ parea)
cavassero sapienlia— lo.- 3f< pei' la molta — 17: M^ presero baldanza — 19:
M' con- tro alla verità — 20: A/' ohi. che d. e. adveniano — m avenia
savi e parladori — m le cittadi — 23: M' appilgliano a taro le g. e. —
26: M^ om. di ragione — L l'altra — 27: L provedimento — 31-32: Me
dire,moHi. mentire e di — 33:M' talocta m. visi che p.s Cosi leggo con M,
piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m: oltre a lavareria, il
Manuzzi registra esempii di lavoriera. del popolo, la quale è
sentenzia vana perciò che non muove da ragione, e per sentenza di sé
medesimo, la quale è per neente, pareano essere degni di covernare le
publiche e le grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi et
alli 5. officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò avenne,
non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e miserissime
tempestadi. Et nota che dice « grandissime » per la quantità e che duraro
lungamente, e dice « mise- rissime » per la qualitade, ch'erano aspre e
perilliose chende 10. moriano le persone ; e dice « tempestanza »
per similitudine, che sì come la nave dimora in fortuna di mare e
talvolta crescono (i) in tanto che perisce, così dimora la cittade
per le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in sé
medesime e patono distruzione. « Per la qual cosa eloquenzia cadde in tanto
odio et invidia »... Et nota che odio non é altro se nno ira invecchiata;
e così i buoni savi erano stati lungamente irosi, veggiendo i folli
arditi segnoreggiare le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per
altrui bene; donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro
ch'erano segnori delle grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò
li buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad altri
queti studii per scampare della tumultuosa vita in sicuro porto. Et nota:
là dove dice « altissimo ingegno » dimostra bene eh' arebboro potuto e
saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da
riprendere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre scienze
di filosofia, sì come trattare le nature delle divine cose e delle
terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi e le costumanze; et
appellali « queti studii » che non trattano di parlare in comune, e perciò che
ssi stavano partiti dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa
» che 2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro — 7 : M-m
ismisuratissime ~ 8: SI durano, m duravano quantitade.... s\ elione
moriano - 10: M' tempestade — 14: M' medesimo ~ 15: m om. Et — 16: m
buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al- trui — SO: M> et in
lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 :
M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de trattare — 28: M-m
sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno
tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog- getto,
richiesto dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo
anche altrove la prova che le due famiglie di codici risalgono a un
capostipite già corrotto). Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal
precedente fortuna un soggetto le fortune. spessamente l'iiuo uomo
assaliva l'altro in cittade coll'arme e talvolta l'uccideva. 9. Et poi
che' savi intralassar lo studio d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non
fue curata uè pre- giata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali
studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio questi savi
e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia avea più grande
bisogno per lo male che faceano i folli arditi nelle cittadi, e perchè
guastavano la cosa onestis- sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi
pertiene alle cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il
nostro Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il co-
mune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a consigliare et a
difendere il comune da'garritori folli ar- diti; e però montaro in onore
et in istato sì grande che le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò
dice che in loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade
degna d' onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto e
ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e pos- sibili e
necessare che dovemo studiare in eloquenzia, lodala in molte guise. CICERONE
conclude che sia da studiare in rettorica. Per la qual cosa, al mio animo,
non perciò meno è da mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano
in publiclie et in private cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano
troppo di podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di
tutti. Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la
quale molto s'appartiene a tutte cose, è publiche e private, e per essa
diviene la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima
molte utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di
tutte cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che
H'acqui- stano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li
amici certissimo e sicurissimo aiutorio. 1: M-m spesse
volte — 2: m tralassaro — 8: m le chose honestissime — 10: M (Iride, m
diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M' dirittamente, m om. — 12: M' dimorato y
f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e
torna, M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;»
honesti ~ 19: M -m ne- cessarie— 20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto
poi misusa — 27: M' molto pertièno devegna — 28: M> y hon. 7 illustra
7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31: M^-m 7 honore 7 dignitade.
La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio: Se alquanti di mala
maniera usano malamente eloquenzia, non rimane pertanto che 11' uomo non
debbia studiare in 5. eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza),
acciò che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni né di
fare generale distruzione di tutti. Et nota che di- strutti sono coloro che
soleano essere in alto stato et in ricchezza e poi divennero in tanta
miseria che vanno men- 10. dicando. 2. Et poi dice le lode di
rettorica, come tocca al comune et al diviso, e come per lei diviene
l'uomo sicuro, cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et ap-
pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende diviene la
vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1 15. cognoscono; e
dice «illustre», cioè laudato intra li strani; e dice « ioconda », cioè
vita piacevole, però che ' savi par- lieri molto piacciono ad sé et
altrui. 3. Et altressi molto bene n'aviene alle comunanze jier
eloquenzia, a questa con- dizione : se sapienzia sia presta, cioè se ella
sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di
tutte cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo
modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno elo- quenzia giunta
con sapienzia sono laudati, temuti et amati; e dice che Ili amici loro
possono di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi Ili sappia contrastare,
poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « cer- tissimo » però
che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia M-m Lo testo èe cotale, M'-L
La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti — 6: M' de fare male — 7: m
om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro — 13: M' troverà — 14:
M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra, L illustro — 17: A/' ad
altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta — M' giunta — 21 :M siae
ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et — 23: M^ 7 temuti — 25: m Tia
chelli sappia, M' fie chelli il sappia — 37: M non so lascia. Anche
la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un accomodamento
arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima collomissione
della parola testo (la somiglianza con questo rese più facile l' errore) e
riceve conforma dal principio del capitolo seguente, con quell'uniformità
di espressione che è caratteristica di tutto il commento. (2)
Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ». Del resto anche in M'
po- trebbe trattarsi non di troverà, ma troverà'. corrompere per
amore ne per prezzo né per altra simile cosa. Et qui si parte il conto e
fae nn' ultima conclusione in questo modo: Tullio conclude in
somma. Et però pare a me che gli uomini, i quali in molte cose
sono minori e più fievoli che Ile bestie, in questa una cosa l'avanzano,
che possono parlare ; e donque pare che colui conquista cosa nobile et
altissima il quale sormonta li altri uomini in quella me- desima cosa per
la quale gli uomini avanzano le bestie. La tema in questo testo è cotale :
La veritade è che gli uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e
più fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri animali sono
più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre
bestie sono più forti della persona che ir uomo; e più ancora che in
tutti e cinque ' sensi sono certi animali che avanzano lo senso
dell'uomo. Che sanza fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1
lupo cerviere del vedere e la scimmia del saporare, e l'avóltore
20. dell' anasare ad odorare, e '1 ragnol del toccare. Ma in questa
una cosa avanza 1' uomo tutte le bestie et animali, che elli sa parlare.
Donque quello uomo acquista bene la sovrana cosa di tutte le buone, che
di ben parlare soprastae alli altri uomini. 25. Tullio dice
di che elli tratterà- 16. Et questa altissima cosa, cioè
eloquenzia, non si acquista solamente per natura né solamente per usanza,
ma per insegnamento d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere
ciò che dicono coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti
comandamenti. Ma anzi S: il-m un'altra condictione — 7 : M'
costui — il-m conquesta — 8: M-m la quale; om. li — 9 : )» om. cosa e gli
uomini — 11: il' de questo t. M' molti huomini.... minori 7 più fievoli
chelle bestie — 15: U-m om. altre — 16: M' che tucti — 19-20: M-m 7
l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e
odorare, S et l'avoltoio del nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il
rangnolo (ohi. tulli gli e), L a ra- gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M'
chelli sanno - 25: M dico che {ma cfr. ^ \) — 27 : M' per la natura — 2S:
M-m nm. d'arte — 29: m certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in
rettorica, pare che sia a trattare del genere d' essa arte e del suo
officio e della fine e della materia e delle sue parti; imperochè sapute
e cognosciute queste cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà
l'animo di ciascuno 5. considerare la ragione e ia via dell'arte.
Lo sponitore. 1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era
soprastato alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia
nel suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro. 10.
Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo di ciascuno sia
più intendente di quello che seguirà, e così pone fine al suo prolago e
viene al fatto in questo modo: Tullio ae fiìiito il prolago, e
comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale
richiede et è 15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande
et ampia parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica.
Che al ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila
scienzia delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo
da coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte
del 20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in
quel genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè
della scienzia delle cittadi. Lo sponitore. I. In
questa parte del testo procede Tulio a dimosti-are ordinatamente ciò che
elli avea promesso nella fine del pro- lago. Et primamente comincia a
dicere il genere di questa arte. Ma anzi che Ho sponitore vada innanzi sì
vuole fare intendere che è genere, perchè l' altre parole siano
meglio intese. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende molte
altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa 1-2: M'
(la tratto, poi corr. da trattar.; — 3: M-m generalmente della decta- arte
— 3: m però che - 4: M-m più diligente, M' nm. più — 8: M A rinconincia —
11 : M' (luelle, ma L quello — 14-13: M'-L richiede molte cose grandi —
16: M-m cai ver diro — 18: M-m abbiano — 30: M-m [lorromo quel genero —
SG: m quella — S8: M-m y perchè — 29: M ìì quasi generale, m è quasi geu.
— 30: M onde jvirte quella gen. parola, cioè « uomo », è generale,
per ciò che comprende molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola,
cioè « Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più in
volgare, si puote intendere genere cioè la schiatta; che 5. chi dice « i
Tosinghi » comprende tutti coloro di quella schiatta, ma chi dice «
Davizzo » non comprende se no una parte, cioè un uomo di quella schiatta.
3. Onde Tulio dice di rettorica sotto quale genere si comprende, per
meglio mostrare il fondamento e Ila natura sua. Et dice così che
Ila 10. ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila vita del
co- mune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose, in
questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ra- gione delle
cittadi sì come l'arte W de' fabbri, de' sartori, de' pannar! e l' altre
arti che si fanno con mani e con piedi. In detti è la rettorica e l'altre
scienze che sono in parlare. Adonque la scienza del governamento delle
cittadi è cosa generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè
l'arte del bene parlare. Ma anzi che Ilo sponitore vada più innanzi,
pensando che Ha scienza delle cittadi è parte d' un altro generale che
muove di filosofia, sì vuole elli dire un poco che è filosofia, per
provare la nobilitade e l'altezza della scienzia di covernare le cittadi.
Et provedendo ciò ssi pruova l'altezza di rettorica. 6.
Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende sotto sé tutte le
scienze; et è questo uno nome composto di due nomi greci : il primo
nome si è phylos, e vale tanto a dire quanto « amore », il secondo
nome è sophya, e vale - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde FILOSOFIA
tanto vale a dire come « amore della sapienzia » ; per la qual cosa
neuno 30. puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto eh'
elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad
avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì- / M-m
cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero — 5: M' ovi. chi —
4-6: m om. tutto il passo da che « quella schiatla — 8: m om. per — 9: M^
demostrare — 10: jU' i reggimenti — 12: M-m om. che b — 13: Af ' l'arti
(ma anche L l'arto) — m e de'pan- nali, .)/ 7 de sartori de panni — 16-17:
m o parte d'un altro generale — 1M' de ben p. — 20: M in podio — 22: m
om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'al- tezza — 25: M sotto di
sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om. nome — 29: M^ de la scienza —
31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare —' M' Donde.
(1) Anche arte potrebbe essere qui un plurale, come in Tesar., X, 39-40;
però lo ronde poco probabile la forma arti che subito segue. La
lezione amare di M-m fu certo suggerita dai precedenti amore e ama, e
basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di concetto a cui si
riduce. nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali
cose e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo è
possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia è onestade
di vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del
secolo. Et sappie che diflfinizione d'una cosa è dicere ciò che quella
cosa è, per tali parole che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se
tu le rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire
sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale 10. è
questa: « L'uomo è animale razionale mortale ». Certo queste parole si
convegnono sì all'uomo che non si puote intendere d'altro, né di bestia,
né d'uccello, né di pescie, però che in essi nonn à ragione; onde se tue
rivolvi le parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ?
certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo. Or è vero che anticamente
per nescietà delli uomini furon mosse tre quistioni delle quali
dubitavano, e uon senza cagione, però che sopr'esse tre questioni si
girano tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse
l'uomo 20. fare e che lasciare. La seconda quistione era per che
ra- gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza
quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono. Et perciò che
le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi filosofi (2) partissero
filosofia in tre scienzie, cioè Teorica, 25. Pratica e Logica, si
come dimostra questo arbore. i: M inquistione, m
inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile — (5: Mss.
quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene
— .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M'
neccssiladc — 16-17: .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr.
sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m la seconda che lasciare — 20-21: lU-m
om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione — M-iii la natura — m
tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre — 23-24 : M
si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M
mn. e. (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più
regolare ma con una coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa,
e per tali parole ecc. (2) Questa lezione ò comune a codici di
ambedue le famiglie, e perciò la pre- ferisco a quella di M, che pure si
può difendere facendo transitivo conreìtne e intendendo i -savi filosofi
come complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è
per dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare e che
lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per di- mostrare la
seconda quistione, cioè per che ragione dovesse quel fare e quello altro
lasciare. 10. Et questa scienza, cioè logica, sì ae tre parti, cioè
dialetica, efidica, soffistica. La prima tratta di questionare e
disputare l'uno coli' altro, e questa è dialetica; la seconda insegna
provare il detto del- l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e
questa èe efi- dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e
dell'altro per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è
sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia,
cioè teorica, si è per dimostrare le nature di tutte cose che sono, le
quali nature sono tre; 15. e però conviene che questa una scienza, cioè
teorica, sia pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e
Mate- matica, sì come dimostra questo arbore. 4: m
cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano
aggiunse sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e
dell'altro — i 1 : if infinite — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita
pruova — 12: m apare. (1) Conservo invece di e, comune a quasi
tutti i codici, appunto per la sua singolarità e perchè sembra indicare
una differenza tra l'efldica e la sofistica- la prima dimostra la verità
di una delle due parti, la seconda pretende dimo- strare l'una e l'altra
parte. Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia, la quale
è appellata divinitade, si tratta la natura delle cose incorporali le
quali non conversano in traile corpora, sì come Dio e le divine cose. La
seconda scienzia, cioè 5. fisica, sì tratta le nature delle cose
corporali, si come sono animali e He cose che anno corpo; e di questa
scienzia fue ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta
la natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe e delle
cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa- io, nezza e curare la
malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le nature de le cose
incorporali le quali sono intorno le corpora; e queste nature sono
quattro, e perciò conviene che matematica sia partita in quattro scienze,
ciò sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come 15.
appare in questo arbore: La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de'
conti e de'nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La seconda
scienza, cioè musica, tratta di concordare voci e suoni. La terza, cioè
geometria, tratta delle misure e delle proporzioni. La IV scienza, cioè
astronomia, tratta della disposizione del cielo e delle stelle. Or
si torna il conto dello sponitore di questo libro alla prima parte di
filosofia, della quale è lungamente ta- ciuto, e dicerà tanto d'essa
prima parte, cioè di pratica, 25. che pervegna a dire della
gloriosa Rettorica. E sì come fue detto già indietro, questa pratica è
quella scienza che dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo
è di 3:m traile corpora — 7: #' dela mudicina — 9: M' assai
poteo bone argomentare isani — 10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10
a l. 13 sia partita (m si e) — 16: m om. scien- 7.ia — 17: M' noveri —
18: M [a musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io sponilore — 22: Af' si
ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima p. — 33: m ae, Jtf'
oo — 24: m della prima parte — 25: m perverrà. tre
maniere: i>erciò conviene che di questa una siano tre scienze, cioè
sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come mostra la figura di questo
arbore : La prima di queste, cioè etica, sì è insegnamento di 5.
bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle cose oneste e
dell'utili e del lor contrario; e questo fa per assennamento di quatro
vertudi, ciò sono prndenzia, iusti- zia, fortitudo e temperanza, e per
divieto de' vizi, ciò sono superbia, invidia, ira, avarizia, gula e
luxuria; e così dimoio, stra etica clie sia da tenere e che da lasciai-e jier
vivere virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica, sì
'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare e reggere il
propio avere e la propia famiglia. La terza scienza, cioè politica, sì
'nsegna fare e mantenere e reggere 15. le cittadi e le comunanze, e
questa, sì come davanti è pro- vato, è in due guise, cioè in fatti et in
detti, sì come si vede in questo arbore: 18. Quella
maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi- sterii che in cittadi si
fanno, (i) come fabbri e drappieri e li 1 : M-m però clic
convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af' accostumatamente M' om. ira — 10: M^
da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m avere, la patria e la famiglia
— 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7 in due guise — M' in detti. 18:
m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19 : M che cittadini fanno
(lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il senso è il medesimo e
anclie paleograficamente la differenza è lieve: forse ì citladisi oxìgìno
(i) cittadini'! Adot- tiamo la lezione un po' più diffìcile.
altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare. Quella
eh' è in detti è quella scien^ia che ss' adopera colla lingua solamente;
et in questa si contiene tre scienze, ciò sono Grramatica, Dialettica,
Rettorica, si come dimostra 5. questo altro albore: Et che ciò sia
la verità dice lo sponitore che gra- matica è intrata e fondamento di
tutte le liberali arti et insegna drittamente parlare e drittamente
scrivere, cioè per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo. Adunque
sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire né bene dittare. La seconda
scienza, cioè dialetica, sì pruova le sue parole per argomenti che danno
fede alle sue parole; e certo chi vuole bene dire e bene dittare conviene
che mo- stri ragioni per che, sicché le sue parole abbiano provanza
Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e diano fede a cciò che
dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale truova et adorna le
parole avenanti alla materia, per le quali l'udi- tore s'accheta e crede
e sta contento e muovesi a volere ciò eh' è detto. Adonque le tre scienze
sono bisogno a 20. parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe
neente, acciò che '1 buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere
a diritto e per sì propie parole che sia inteso, e questo fae gra-
matica; e dee le sue parole provare e mostrare ragioni (2),
1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non potrebbero durare — 3: M^ ]
questa si con- tiene — 6: m Et choncio sia la v., L Et cliome ciò sia —
7: M' l'arti liberali — 9: M- m om. e sanza sologismo; t-S silogismo — 10:
M' om. alcuno — I-i: M ragione si che le s. p. — pruova — i7 : M-m
advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et al dicta- tore — S3:
M-m mostrare con ragiono, L mostrare por ragione Non credo necessario,
data l' impossibilità di distinguer la grafia dei copisti da quella dell'
autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la stranezza della pa-
rola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito di L-S. (2) Che
questa sia la giusta lezione è confermato dal § precedente, 1.16 («ra-
gioni per che ») ; e si noti che mostrare con ragione o per ragione
equivarrebbe a provare. e questo fae dialetica; e dee sì mettere et
addornare il suo dire che, i)oi che 11' uditore crede, che stia contento
e faccia quello eh' e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore
che Ha civile scienza, cioè la covernatrice delle cit- 5. tadi, la quale
èe in detti si divide in due: che ll'una è co llite e l'altra sanza lite.
Quella co llite si è quella che sisi fa do- mandando e rispondendo, si
come dialetica, rettoi'ica e lege; quella eh' è sanza lite si fa
domandando e rispondendo, ma non per lite, ma per dare alla gente
insegnamento e via di 10; ben fare, sì come sono i detti de' poeti
che anno messo inii iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e
l'altre vicende che muovono li animi a ben fare. Altressì quella
civile scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è ll'una
artifi- ciosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella
quale il parliere che connosce bene la natura e Ilo stato della
materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene, e questo è in
dialetica et in rettorica. Quella che non è artificiale è quella nella
quale si recano argomenti pur per altoritade, si come legge, sopra la
quale non si reca neuna 2'^ pruova né ragione per che, se non tanto
l' altoritade dello 'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è
artificiale dice BOEZIO nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte
di ragione. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica è parte
della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella 25. parola dice
che rettorica è la maggiore parte della civile scienzia; e dice «
maggiore » per lo grande effetto di lei, che certo per rettorica potemo
noi muovere tutto '1 popolo, tutto '1 consiglio, il padre contra '1
figliuolo, l'amico centra l'amico, e poi li rega(i) in pace e a
benevoglienza. Or è detto 30. del genere; omai dicerà Tulio dello
oflfizio di rettorica e del fine. 1: M ordinare, m e
iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea — 5: M-m si vede
in due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 : m-M in iscripto — M'
7 le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da ((Ila), M' (|UOSta
civ. — 13-14: mchS l'ima e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl. l'altra
none art. (X non art.) — 16: m su argomenti che crede ohe si chenvieno, S
secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di que- sta non
artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M' contro al f. —
wchontro all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af' recalgli a pace
7 benev., L-S recarli a p. Q n h. — 80 : m M' oggimai. (1)
Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può sottintendere
il soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che precedono.
La lezione ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par da
scartare : non si vedrebbe CICERONE dice che è l'ufficio di questa
arte. 18. Officio di questa arte pare che sia dicere
appostatamente per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra
11' ufficio e Ila fine èe cotale divisamente : che nell'officio si
considera quello che 5. conviene alla fine e nella fine si considera
quello che conviene al- l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico
curare apostatamente per sanare, il suo fine dicemo sanare per le
medicine, e così quello che noi dicemo officio di rettorica e quello che
noi dicemo fine in- tenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare
il parliere, e dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili
dice. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di que- sta
arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto aperto, sì sine
passerà lo spouitore brevemente. Et dice 15. cotale diffinizione :
officio è dicere appostatamente per fare credere. Et nota che dice «
appostatamente », cioè ornare parole di buone sentenze dette secondo che
comanda que- st'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo
di- citore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare
20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì composta-
mente che ir uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice per divisare
il detto de' poeti, che curano più di dire belle pai-ole che di fare
credere. 2. L' altra diffinizione è del fine. Et dice che fine è far
credere per lo dire. Et certo chi 25. considera la verità In questa
arte e' troverà che tutto lo 'ntendimento del parliere è di far credere
le sue parole all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere;
che 2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m per 1 udire -
3-4: M' om. Inlra 11' udicio e ripete è cotale ilivisumento che no
l'ollicio — M 7 è colalo — 0: m il' e curare — 9: t in- tenderemo cli6
olicio è quello ecc. — m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che
il lino — 15: il apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. —
10: .tf-m-.l/' or- nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 :
M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m che farle credere - 24: M-m per 1 udire
— 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare la ragione per cui fu mutata
negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia derivata da
recahjli di M '. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi
reca, con una estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta
legge del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S.,
XIV, 90-91) 'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si
rivolve (1) lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore
intende. 3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di
que- sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.
5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica bene e che
sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è questo fine: che '1
dicitore a questo intende, che nell'udi- tore sia cotale fine che creda
quello che dice; e questo fine non desidera sempre IL PARLATORE sì come
quello di sopra. 10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che
è il fine e che divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che
officio è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento
secondo lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui
cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa cagione e questo fine
nonn è altro se non fare credere ciò che dice. Et di ciò pone exemplo del
medico, e dice che Ilo officio del medico è medicare compostamente
per guerire r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per
lo suo medicare. Già è detto sofficientemente dell' officio e
della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire della
materia. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale
tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi
dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico, perciò che
'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose sopra le
quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso (2) dell'arte sono
materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che 1 : M
sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M' quello olio. — 9 : M-m
considera — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non ae altro — m se none a
faro — 16: Af ' in ciò — 17-18 : M Olii, è medicare.... del medico — 19:
M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del fine — ogimai procederà
Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf ' e sapere — S3: M-m le
malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e savere — tulli i inss,
apresso Questa è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e
giustificabile con ragioni paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso
un n ha originato il sinvolve di M; da questo, per correzione arbitraria,
è nato si muore di Mi L. Invece di si rivolve lo suo animo (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo)
si rivolve lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno
naturale. (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : «
lo savere che dell'arte s'apprende». Il testo latino ha facuUas
oratoria. fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI LEONZIO, che fue
quasi il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL PARLATORE puo
molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte
grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa 5.
arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra
tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo e
giudiciale. Lo sponitore. 1. In questa parte dice Tulio che
materia di rettorica 10. è quella cosa per cui cagione furo pensati
e trovati li co- mandamenti di questa arte, e per cui cagione
s'adoperala scienzia clie 11' uomo apprende per quelli
comandamenti. Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli
ado- peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma
15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et sopra
ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che
Ila materia richiede e per fare che ir uditore creda. Et di questo è
stata diiferenzia tra' savi : che molti furo che diceano che materia
puote 20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et
se questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine, che
non puote essere; e di questi fue uno savio, GORGIA DI LEONZIO, antichissimo
rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia
da credere. Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che
diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò che fece uno
libro d' invenzione et un altro della parladura, dice che rettorica èe
sopra tre maniere di cose, e catuua maniera èe genei'ale delle sue parti;
e queste sono dimo- 30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in
questi cercoletti apiiare : 2: m cliel parlaro — 3:
M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare — 6: M' generi — 7: M-m
giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua
com., S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo
adoperamenlo et por lo inf. — M' fedito — 15: m. M'-L sopra la quale —
19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale l'uomo chonviene parlare, M' sopra
la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1 aix.'l- lava — S6: M-m (lice
molti aiuti — M' in ciò che, m però che — S7: Mdinvctione, hi d'in-
votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S di cose) — M^ ciasouna —
30-31: M-m om. come ecc. e la figura. Et a questa sentenzia
s'accorda Tulio, e sopra queste tre maniere è tutta l'arte di rettorica.
4. Ma ben puote essere oh' e' maestri in questo punto fanno divisamente
intra dire e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si
generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè man-
dare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica se non delle
dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca tutta la rettorica in
quistione di parole. Et intendo che quistione è una diceria nella quale
àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e
l'altra, cioè provare si e no' per atrebuti, cioè per propietadi del
fatto o della persona. Et ecco l' exemplo in questa diceria che fie
proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco Tulio Cicero no,
che davanti (i) al popolo di ROMA fece anegare molti ROMANI a tempo che '1
comune era in dubbio? In questa proposta à due parti, una del sì et
un'altra del no. Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò
che à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da
sbandire, che ricordando pure lo nome signififica buona cosa 20. et
isbandire et exìlio (2) sìgnifBca mala cosa, e non è da cre- dere che
buono uomo faccia quello che ssia da sbandire degno né de exìlio ». 6.
Grià è detto che è la materia di quest'arte, et afferma Tulio la sentenza
d'Aristotile. Et però che elli l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì
quelle 25. tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo
sponì- 1 : m sachosta — 2: Mi tucta — 3:m tra dire od. —
4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote — 6: M' lectoro — 7 : 3f ' se non le
docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M' ov'a — il: M-m et por
atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi — 12: M sie o fie, m
Ila, M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che davanti il p. — 15: M'
al tempo — 16: M imposta — 19: M' il suo nome ò buona cosa — 20: M' in
exilio — 21-22: m dongno da sb., M' dengno di sbandire in oxilio — 24:
J/' la conferma Non e' è dubbio
sul testo, in cui la tradizione manoscritta è concorde; quanto
all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B. L., ediz. cit.,
p. 34. Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal
seguente né de exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla
prima alterazione). tore potrà quelli per cui è fatto questo libro
intendere la materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben
guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di Connoscere ciò che in esso
si contiene, che altrimenti non po- trebbe intendere quello che viene
innanzi; e dicerà prima del dimostrativo. Del dimostr amento. Dimostrativo
è quello che ssi reca in laude o in vituperio d'una certa personale. In
questa parte dice CICERONE che, con ciò sia cosa che Ile cause e Ile
quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale l'uno afferma e l'altro
niega siano di tre maniere, sì inse- gna Tulio avanti quale causa è
dimostrativa. Ma lo sponi- 15. tore non lascerà intanto che non
dica la natura e Ila radice di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di
Tulio; et in ciò dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la
causa, e dicerà che è il fatto della causa. La persona del par-
liere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo 20. suo
fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi crede
ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto noll'abbia;
altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi crede ragionevolemente
che elli abbia fatto, avegna che fatto non sia. 3. Il fatto della causa è
quel detto o quel fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et
in ciò sia cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra-
1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora
— 6: i/del dimoslratio, m (Iella dimostrationo — 8: S si moslra — 13-14:
il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio inprima — M-m cosa —
il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m Persona del ]). 7
quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per lo s. d. e per
lo s. f. intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli) - SS:
il-m e così intondo quello — S4 : il' ijucl detto — SS- il' et in
ipiest., m. ohi. — L siae -- 41 - dimento nel
comune di Roma». Et Catellina risponde: « Non fo ». In questo convenente
Pompeio e Catellina sono le persone de'parlieri; e la causa è questa: «Tu
fai tradi- mento » — « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno
ap- 5. pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et
per maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostra- mento e
che deliberazione e che iudicamento, e così sopra che è ciascuna maniera
di rettorica. Dimostramento. Dimostramento è una maniera
di cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'al-
cuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è da laudare e
che da vituperare; e questa causa dimostrativa è doppia: una speciale et
un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella
quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o
disonesta, non nominando alcuna certa persona; et intendo certa
per- sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e
di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo
dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della 20.
luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. Et di questa causa
speciale dimostrativa sia cotale exemplo : « Il forte uomo è da laudare
Dice l'altro: Non è, anzi è da vituperare. E di questo nasce quistione,
se '1 forte è degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa,
ma 25. non nomina certa persona, e perciò è speciale. 8. La
causa dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale i
parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso- nesta nominando
certa persona, in questo modo. CICERONE è degno di lode. Dice l’altro. Non è. E
di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare. Et
questa quistione comprende due tempi : presente e pre- terito. Che al ver
dire di ciò che 11' uomo fae presentemente è lodato biasmato, et altressì
di ciò che fece ne' tempi pas- sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche
storie di Roma che 35. questa causa dimostrativa si solca trattare
in Campo Marzio, 5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo...
cheo (ma L clie... che) - saprà che è — 10: M' per sue propietadi il
parladore — 14: M' i parladori — m spellale o dimostrativa — 16: M' nm.
et intendo certa persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m
cliase diterminate — 19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om.
speciale — M-m dimostrata — M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M'
alcuna persona essere M-m di tre
tempi — m pres., preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire — 33 : M-m om.
di - 42 - nel quale s'asemblava la comunanza a
llodare alcuna per- sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a
bia- smare quella che non era degna. E già è ben detto della causa
dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deli- 5. berativa.
Del diliber amento. 21. Diiiberativo è quello il quale, messo
(^' a contendere et a dimandare tra' cittadini, riceve detto per
sentenzia. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella
eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor pareri et a
domandare a lloro quello che nne sentono; e sopra ciò si dicono molte et
isvai'iate sentenze, perchè alla fine si possa prendere la migliore (2).
2. Et questo modo di 15. causare è quello che fanno tutto die i
signori e le podestà delle genti, che raunano li consillieri per
diliberare che ssia da fFare sopra alcuna vicenda e che da non fare;
e quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si prende
quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia questo 20. exemplo che
propone il senatore: « E da mandare oste in Macedonia? » Dice l'uno sì e
l'altro no. Et così diliberano qual sia lo meglio, e prendesi 1' una
sentenza. Et questa quistione si considera pure nel tempo futuro, che al
ver dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dili-
25. bera che ssia da fare e che noe. 4. Et questa causa dilibe-
rativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. 5.
Speciale è quella nella quale si considera d'ai cuna cosa s' ella è utile
o s' eli' è dannosa, non nominando 1-3: M alcuno cli'era
dengno — om. e signoria.... degna — 6: Tutti i mss. omesso, S è messo — H
: M-m che in essa - m M' i loro pareri, L illoro pareri — 12: M' da loro
- 13: M-m dicono — 14: M-m lo migliore — 15: M-m cassare (M 7 quello)
— 16: M-m raunavano — 17: M-m non daffare — 20: M' ressom])ro — M-m
che pone -22: M' il migliore — 24: m nel tempo futuro — ilf ' iirendo
huomo(»nn L S l'uomo) M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7
doppia,. L e delib. e doppia — m una e spetiale — M-m om. che — 27: M-m
alcuna cosa — 28: M-m om. sellò (1) Il testo latino non lascia
alcun dubbio. La stessa corruzione, comune a tutti i codici, è nel
successivo § 22 (e posto), e il costrutto insolito la rendeva facile.
(2) Anche la lezione lo migliore è buona, ma preferisco quella di M'
perchè corrisponde esattamente alla fino del § 2.
alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace è
da tenere intra cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et di ciò nasce
causa diliberativa speciale, se Ila pace è da tenere o no. L'altra che
non si può partire è quella nella quale 5. i dicitori studiano di provare
e' alcuna cosa sia utile o dan- nosa, nominando certe persone, in questo
modo: Dice l'uno: « Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi. Dice
l'altro: «Non è». Et già è detto della causa diliberativa; omai dicerae
il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto a ciascuno, che Ila
propietade della diliberazione èe mostrare che ssia utile e che dannoso in
alcuno convenentre. Et questa diliberativa si solca trattare nel senato,
e prima diliberavano li savi privatamente che era utile e che no e
poi si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si fermava la loro
sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra migliore. Judiciale è
quello il quale, posto In iudicio, à in sé accu- sazione e difensione o
petizione e recusazione. La natura di iudicamento si è una forma la quale
si conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia e la
'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa s' ella è insta o
centra iustizia, in cotal modo : che uno ac-cusa un altro e l’accusato si
difende elli medesimo o un altro per lui; overo che uno fa sua petizione
e domanda guidardone per alcuna cosa eh' elli abbia ben fatta, et
un altro recusa e dice che non è da guidardonare, e talvolta dice. Anzi
è degno di pena. Et questa causa si pone in iudicio, cioè in corte
davante a' indici, acciò eh' elli indichino tra Ile parti quale àe iustizia; e
questo si fae in corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena
del S. in Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale —
7 : Ai da melanesi, m tra mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *:
J/ E già detto — U-m cosa — 9 : M ' oggi- mai dicera del giudioiale - 10:
;»/' om. a ciascuno — m e damostrare — 12: m ohe prima 14: m om. e — m M'
in loro consiglio (ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia si
fermava — 18: Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono —
Tutta mas. recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m
om. che — V e medesimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e dice — 32:
m traile genti. malfattore dia exemplo di non malfare, e '1
guidardone de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et
sopra questa materia dice uno savio: « I buoni si guardano di
peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano 5. per paura della
pena ». 3. Et è questa causa iudiciale doppia: una speciale et un' altra che
non si puote partire. Speciale è quella nella quale il pai'lierc si
sforza di mostrare alcuna cosa che ssia insta o iniusta, non nominando
certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da 'mpendere, 10.
perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4. Quella che non si
puote partire è quella nella quale il parliere si sforza di mostrare una
cosa essere iusta o no, nominando certa persona; in questo modo: « È da
impendere Guido eh' à fatto furto, o no? » Od « E da guidardonare GIULIO Cesare
eh' à conquistata Francia, o no? Et tutte que ste cause iudiciali si
considerano sopra'1 tempo preterito perciò che di ciò che l’uomo à fatto in
arrietro è guidardonato o punito. CICERONE dice la sua sentenzia della
materia di rettorica riprende quella d' Ermagoras. Et sì come porta la
nostra oppinione, l'arte del parliere (0 e la sua sctenzia è di questa
materia partita in tre. (cai). VI) Che certo non pare che Ermagoras
attenda quello che dice ne attenda C^) ciò che promette, acciò che
dovide la materia di questa arte in causa 25. et in
questione. 1 : VI exempro allo genti — -V far malo — M il
guidardone — S: M' tini benfacloro — m om. VA — 4: M' o li malvagi seno
guardano — 6: U' et una che — 7: il' il dicitore - 9: M-m om. modo — m è
da mpichare — 10: M' un altro — 12-15: M-m om. ila nominando alla fine
del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m per adietro — i8:m pulito SI :
M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M Amagoras Che sia da
legger cosi dimostra non tanto la variante di M' quanto, specialmente, il
trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm di fronte a parliere
di M'. Conservo, coi codici, i due attenda, quantunque il tosto latino
abbia nel primo caso attendere e nel secondo intellUjere: qui ci
aspetteremmo dunque in- tenda, e l'alterazione, per analogia col primo
verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma anello con attenda il senso va bene; e
forse una prova della somiglianza sostan- ziale per l'autore fra
attendere e intendere si ha nel § 7 del commento, dove, riferendosi a
questo passo, i due verbi sono invertiti di posto: «non pare che
Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che considerasse (= attendesse)
quello che promettea. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre partite
della materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile, in
questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e 5. dice che
pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il quale diceva
che Ila materia del par- liere è di due partite, cioè causa e quistione.
Ma certo e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia
di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consola- lo, mento; e
lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli era più novello e però
dovea elli essere più sottile, e ri- prendelo ancora però che ssi traea
più innanzi dell'arte; e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma
però che Tulio CICERONE non disfina (D lo riprendimento delli altri, si
vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice così: 3. Vero
è che, si come mostrato è qua in adietro, l' officio del parliere si è parlare
appostatamente per fare credere, e questo far credere è sopra quelle cose
che sono in lite, e' ancora non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole
considerai e il vero, e' troverà che confortameuto e
disconfortamento sono solamente sopra quelle cose che già sono
pervenute all' anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato di
fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava; onde da questa
negligenzia il potea bene alcuno ritrattare per confortameuto, e questo
conforto viene sopra cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la
negli- genzia.Et se alcuno disconforta un altro che avea pro- posto
di malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo sconforto in cosa
la quale era già pervenuta all' anima. Adunque è provato che conforto né
disconforto non pos- 1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma —
4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10: M'-L non mattamente —li: M-m
om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non examina delli
altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m om. si
— 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già -
S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M'
bene ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta —
30: M-m sconforto Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie
por « dichiarare », che mi sembra qui il senso piìi adatto.
(2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di
mantenm-e questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono
gh altri mss. altì- sono essere materia di questa arte. 5. Ma consolamento
puote anzi essere materia del parliere, perciò che puote venire sopra
cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima. Verbigrazia: Uno uomo ferma nel
suo cuore di menare dolorosa vita per la morte d' una persona cui
elli ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola, tanto elle
propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora pervenuta all'anima.
Ma perciò che in questo consolamento non ha lite, perciò che '1 consolato
non si difende né non allega ragioni contra il consolatore, non puote essere
ma- teria di questa arte. 6. Or è ben vero che altri dissen che
dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia di poete, però
eh' a' poete s' apartiene di lodare e di vituperare altrui. Et avegna che
CICERONE no Ili riprenda nominatamente, assai si puote intendere la riprensione
di loro in ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse
che dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di
questa arte. Et sopra ciò nota che dimostrazione per- tiene a' poeti et
a' parlieri, ma in diversi modi : che ' poeti lodano e biasmano sanza
lite, che non è chi dica contra, e '1 parlieri loda e vitupera con lite,
che è chi dice contra il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che
Erma- goras intendesse quello che dicea, né che considerasse quello
che prometea, dicendo che tutte cause e questioni 25. proverebbe
per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni d' Ermagora sopra causa e
sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc. Causa
dice che ssìa quella cosa nella quale abbia contro- versia posta in
dicere con interposizione di certe persone; le quali 30. noi medesimo
dicemo che è materia dell' arte e, sì come detto avemo dinanzi, che sono
tre parti : iudiciale, dimostrativo e deliberativo. 2: M'
innanzi — del parlatore — 3: m non 6 jiervenuta — 5-6: M ellamava — 6-7 :
III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone — 8: M-m che questo cons.
— .9: in e non allega — i3: m di poota.... a poeti, M' de poeti... ali
poeti — M' o di vit. — i-i: M nelle, m non le, M' non gli — i6: M'
elicgli conferma — 17: m dim., dilib. et iiivochationo — 19: M' ali poeti
et ali pailadori— 5i : M II parlieri, »i 11 parlieri?, 3/« E! parladore —
m pero che è chi dicha chontro al suo dire — S-1: A/' chelgli prom. — 26:
m e questione, M' sopra questioni — 30: m nm. medesimo — itf' nm. o
Sponitore. 1. Poi che Tulio avea detto che Ei-magoras non
intese se stesso dicendo che causa e questione sono materia di
questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras 5. dicea che fosse
causa. 2. Et causa appella una cosa della quale molti sono in
controversia, perciò che 11' uno ne sente uno intendimento e l'altro ne
trae un'altra diversa intenzione; sicché sopr' a cciò contendono di
parole met- tendo e nominando alcuna certa persona, che non si
possa 10. partire e che propiamente e determinatamente si partenga
alle civili questioni. 3. Et di questo dice Tulio che ss' ac- corda co
llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e per Aristotile; ma dicerà omai
com' elli errò in questione. Qtd rijivende Tullio Ermagoì
as- Questione apella quella che àe in se controversia posta
in dicere sanza interposizione di certe persone, a questo modo: Che
èe bene fuori d'onestade? Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del
mondo? Chente è la grandezza del sole? Le quali questioni inten- demo
tutti leggiermente essere lontane dall'officio del parliere; 20.
che molto n' è grande mattezza e forseneria somettere al parliere in
guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere con- sumata
la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.
Sponitore. 1. Ora dice Tulio che Ermagoras appellava
questione 25. quella cosa sopra la quale era controversia intra
molti, sicché contendeano di parole l'uno contra l'altro non
no- 5 M diceva - m ch'era chausa — 7: M^ e un altro ne trae
altra d. i., M na {sic) trae, m ne atrae — 8: M-m contendemo — 10: M'
nominatamente — m sautenga — 13: Jf' oggimai — 15: M' la quale ae —
16-17: M' che ben — M-iii li senni vari — M' om. h — M-m la l'ama — 19:
M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e for- seneria —
JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24 ^/-w appella-
lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne contendeano (1)
Traduce il latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento; è
la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel francese. minando certa
persona la quale propiamente s'apartenesse alle civili questioni. 2. Et
in ciò pone cotale exemplo: «Che è bene fuori d'onestade?» Grande contraversia
fue intra' fi- losofi qual fosse il sovrano bene in vita: et erano
molti 5. che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici;
altri erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii. 3.
Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che alcuna fiata
s'ingannano, che se noi credemo che ricalco sia oro sanza fallo s'
inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo,
però eh' alcuni filosofi provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh'
è lungo, o otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della
grandezza del sole, che alcuni dicono che’l sole è otto tanti che Ila
terra, altri più et altri meno. Et questa misura si sforzalo, vano di cogliere
i maestri di geometria misurando la terra, e per essa misura ritraeano
quella del sole. Et perciò mostra Tulio che Ermagora non intese quello
che dicea, ch'assai legiei'mente s'intende che queste cotali
questioni non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice officio
però che ben potrebbe essere che '1 parliere fosse FILOSOFO, e così
toccherebbe bene a lini trattare di quelle questioni, ma ciò non arebbe
per officio di rettorica ma di FILOSOFIAf. Donque ben è fuori della mente e
vano di senno quelli che dice che'1 parliere possa o debbia trattare di
queste questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano I
FILOSOFI. Or à provato Tulio che Ermagoras non intese quello che disse.
Ornai proverà come non attese quello che promise, in ciò che promettea di
trattare per rettorica ogne causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a
guisa de' savi, i 1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con
lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori d'hon. — .W grande
(juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —
M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano
volontade (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco —
9: S il nostro senti- mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il
Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i triangolo, S otangolo — m quadro
— i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella terj-a —16: m ritraevano la
misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. — S3: M' Dunque
ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano — S7: il-m
non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi (1)
La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di S
che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come
abbre- viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento
di Vittorino a questo passo non parla nò di triangolo né di
ottangolo. (2) Il latino Ila in ca. - 49 —
quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono ad
alcuna arte per la quale non si puote provare; come s' alcuno volesse
trattare d' una questione di dialetica et aponessela a gramatica, per la
quale non si pruova né ssi 5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando
per argomenti la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di
Tulio. Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto
davanti. Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere
acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando la sua
scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere, e non avesse
sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli. Ma ora è quella
forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto- rica che no-lli
concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi pare del tutto
malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate cose elette
ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti, et alcuna
v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del- l'arte sì come
fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la qual cosa noi
vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare a noi che materia di
rettorica è quella che disse Aristotile, della 20. quale noi avemo
detto qua indietro. In questa parte dice CICERONE che se Ermagoras fosse
stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le cause,
parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato al parliere quello
officio che nonn é suo; e così non avrebbe mostrata la forza dell'arte,
ma averebbe mostrata la sua. Ma ora è quella forza nell'uomo, cioè tal
fue questo Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia rettorica
nolli concederae che sia FILOSOFO. Ma perciò l'arte 1 : 3f
siila pongono — 3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla
provare — M' om. per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i
ordinato — M-m del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M'
([nello puote — 13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in
esse — M-m ^ locate le cose («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti,
in delle urti — itf' grandissimo — 18: Jl/ potea, M' ]jotero — 19: ni sia
quella. M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse detto — 25: Af a
parliere — 28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse
ch'elli non sappia retorica non dirà giù che egli sia philosopho
(1) Il testo latino ha in ea. che fece non pare in
tutto rea ». In questa parola il cuo- pre (1) Tulio e dimostra eh' elli
avrebbe bene ijotuto dire X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò
eh' elli àe messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno
li 5. comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna
cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove il vitupera,
dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte d' altri maestri fece
il suo libro. Ma molto è picciola cosa dire dell' arte, ciò viene a dire
eh' al parliere non s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece
Ermagora, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo li
'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non seppe fare
esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari- stotile, che dice che
materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et ornai
è detto sofficientemente e diligentemente del genere, cioè generalmente,
dell' officio e della fine di rettorica; or sì dicerà il conto delle
sue parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio CICERONE
dice le parti di rettorica. 20. 27. Le parti sono queste, sì come i
più dicono: Inventio, di- spositio, elocutio, memoria e
pronuntiatio. Lo sponitore. Cinque parti dice Tulio che
sono et assegna ragione per che, e quella ragione metterà lo
sponitore in suo luogo. 25. Ma prima dicerà le ragioni che nne
mostra BOEZIO nel quarto della Topica, che dice che se alcuna di
queste cin- 1-2: S scuopre — 4: M' con non molto.... ingegni
i com. — 6: J/' vi giiingnesse — i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m
poro che dello dette scritte - 8-9: M' delli altri — om. Ma... arte — m
cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m egli noi seppe fare — 14 : m dice
materia — 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto del genere, dell'
officio et del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M
sulficientemcnte dilig. — m ora dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M'
inveutione, dispositione, ccc — 24: S questa — M-m che dico se
alcuna Cioè «lo difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un
ilcuopre letto iscuopre; come senso si ridurrebbe a una ripetizione di
dimostra. que ijarti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se queste
parti sono in una diceria o inn una lettera, certo l'arte di rettorica vi
fie altressì. 2. Un'altra ragione n'ase- giia BOEZIO: che però sono sue
parti perchè esse la 'INFORMANO E ORDINANO e la fanno tutta essere, altressì
come '1 fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti d'una casa sì
che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe la casa
compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti di rettorica sì come i
più dicono, i)erò che furo alcuni che diceano che memoria non è parte di
rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non
è parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di
ciascuna parte perse, e primieramente dicerà della 'uvenzione, sì come di piti
degna; e veramente è più degna, però 15. ch'ella puote essere e stare
sanza l'altre, ma l'altre non possono essere sanza lei. Tullio dice
della invenzione. Inventio è apensamento a trovare cose vere o
verisimili le quali facciano la causa acconcia a provare. Dice CICERONE
che invenzione è quella scienzia per la quale noi sapemo trovare cose
vere, cioè argomenti necessarii - e nota « necessarii », cioè a dire che
conviene che pure cosi sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè
argomenti ac- 25. conci a provare che così sia, per li quali
argomenti veri e verisimili si possa provare e fare credere il detto o
'1 fatto d'alcuna persona, la quale si difenda o che dica in-
contro ad un' altra. 2. E questo puote così intendere il porto dello
sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia 30. sopra la quale
conviene dire parole, o difendendo 1' una i: .W manca — 3: m
vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice Boelius, che poroiù — 5: m fannola tutta
essere, Af' li fanno essere tutto alti-essi ecc. — 6: M' son parte — 8 : m om.
Et — 10: m non era ~ 11: M^ dispositlone — 12: M-m dell'arte — 13: m primamente
- 16: m essere o stare — 18: M' invontione (e coù semiire) — m pensamento
— il' overo simili — 19: il-m la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m
pure che cos'i sia. E sap- piano — M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto -
27-28: m chontro ad un altra - 52 - parte o
dicendo centra l'altra; o per aventura sia materia sopra la quale si
conviene dittare in lettera. Non sia don- que la lingua pronta a parlare
né la mano presta alla penna, ma consideri che '1 savio mette alla
bilancia le sue parole 5. tutto avanti clie Ile metta in dire né inn
iscritta. 3. Con- sideri ancora che '1 buono difficiatore e maestro poi
che propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta le
mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa e truova nel
suo extimare come la casa sia migliore; e poi 10. eh' elli àe tutto
questo trovato per lo suo pensamento, sì comincia lo suo lavorio. Tutto
altressi dee fare il buono rettorico: pensare diligentemente la natura
della sua ma- teria, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili
sì che possa provare e fare credere ciò che dice. 4. Et già
15. é detto quello che è inventio. Ora procederà il conto a dire
quello che è dispositio. Dice Tullio de dispositio. Dispositio
èe assettamento delle cose trovate per ordine. Perciò che trovare
argomenti per provare e FAR CREDERE il suo dire non vale neente chi no Ili sae
asettare per ordine, cioè mettere ciascuno argomento in quella parte
e luogo che ssi conviene, per più affermamento della sua parte, sì dice
Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è quella 25. scienzia per la
quale noi sapemo ordinare li argomenti trovati in luogo convenevole, cioè
i fermi argomenti nel principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co'
quali non si possa contrastare lievemente, nella fine. Cosi fae il
difficatore della casa, che poi eh' elli àe trovato il modo
1 : m chontro all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3:
in o la mano alla penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M'
o in iscriptura — 6-S:.il diliciatore prima che metta lo mani a lare —
mr=.)/, ma o maestro - 9: m Poi - 10: M' U suo la- voro — i3: M-m si veri
che possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e detto - M' om- quello - M-m
Ora procederà il conto quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a
dire che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai -
,W-»i ohi. i, m om. argo- pienti — 27: M' ali (piali
nella sua mente, elli ordina il fondamento in quel luogo che ssi
conviene, e ila parete e '1 tetto, e poi 1' uscia e camere e caminate, et
a ciascuna dà il suo luogo. 4. Già è detto che è dispositio; or diceva il
conto che è elocutio. 5. Tullio dice della locuzione.
30. Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti alla
invenzione. Sponitore. I. Perciò che neente vale
trovare od ordinare chi non sae ornare lo suo dire e mettere parole
piacevoli e piene di buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia
trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella scienzia per
la quale noi sapemo giungere ornamento di parole e di sentenze a quello
che noi avemo trovato et ordinato. E nota che ornamento di parole èe una
dignitade la quale proviene per alcuna delle parole della diceria, per la
quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia. Il grande valore che in
voi regna mi dà grande SPERANZA del vostro aiuto. Certo questa parola,
cioè “regna”, fa tutte risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì
nota che ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene di
ciò che in una diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole
dilettamente. Verbigrazia. In queste parole di Salamene. Melliori sono le
ferite dell'amico che frodosi basci del nemico. Et già è detto che è elocutio,
cioè apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria
piacevole et ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla
quarta parte di rettorica, cioè memoria. i-2: m in quello
che si chonvienc et il luogo.... l'ascia, charaere3: M^ cam- minate,
ciascuna in suo luogo. Et già ecc. — 0-7: M-m avenonti alla ntentione
(anche S intenliono) — 9: M om. od — 10: M' sa adornare il suo dire — 15:
m om. E - 16: M dignità della quale, m M' dignità la quale pervieneSO: M'
vi sono — SI m ,»f' perviene — 22 .- M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con
un altro, m in un'altra diceria si giungne un'altra sententia chon un
altro piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene — 25: M' li frodolenli basci
— m om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m om. piacevole el; M om.
che.... parole Ambedue le lezioni sono possibili; ma con quella di M si
spiega meglio una pretesa correzione in dice (chi avrebbe pensato,
invece, a cambiare dice indi?), mentre poi il verbo dice renderebbe
superflua l'espressione in queste parole. Dice Tulio della
memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle
parole e dell'ordinamento d'esse. Et perciò che neente vale trovare,
ordinare o acon- ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella
memoria sicché ci'nde ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice
Tulio che è memoria. Onde nota che memoria èe di due maniere: una
naturale et un'altra artificiale. La naturale è quella forza dell'anima per
la quale noi sapemo ritenere a memoria QUELLO CHE NO APRENDEMO PER ALCUNO SENNO
SEL CORPO. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per insegnamenti
delli FILOSOFI, per li quali bene impresi noi possiamo ritenere a memoria le
cose che avemo udite o trovate o APRESE PER ALCUNO DE’ SENNI DEL CORPO e
di questa memoria artificiale dice Tulio eh' è parte di rettorica. Et
dice che memoria è quella scienzia per la quale noi
fermiamo nell'animo le cose e le parole eh' avemo trovate et
ordinate, sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già é detto
che è memoria; si dicerà il conto la quinta et ultima parte di rettorica,
cioè pronuntiatio. Dice CICERONE della pronunziagione. Pronuntiatio è
avenimento della persona e della voce secondo la dignitade delle cose e delle
parole. Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare parole et
avere memoria chi non sae profFerere e dicere le sue parole con
avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio Però che niente — ot
acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere — 9:mom, et — il: M' senso
— IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5: 4f' sensi — 16-, m nnu Et
— i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a dire — SO- « ultra parte, hi
ora dirà il conto la quinta jiarte, .W" il maestro - S6 : m o ornare — 27:
in a chi non sae prollbrere o diro -òs- che è
pronuntiatio; e dice eh' è quella scienzia per la quale noi sapemo
profferere le nostre parole et amisurare et accordare la voce e '1 portamento
della persona e delle membra secondo la qualitade del fatto e secondo la
condizione della diceria. Che chi vuole considerare il vero,
altro modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che di
letizia, et altro di pace che di guerra, ('he '1 parliere che vuole
somuovere il populo a guerra dee parlare ad alta voce per franche parole
e vittoriose, et avere argoglioso advenimento di persona e niquitosa ciera
contra ' nemici. Et se Ila condizione richiede che debbia parlamentare a
cavallo, si dee elli avere cavallo di grande rigoglio, sì che quando il
segnore parla il suo cavallo gridi et anatrisca e razzi la terra col piede e
levi la polvere e soffi per e nari e faccia tutta romire la piazza, sicché
paia che coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et in questo
punto non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per
mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici. Tutto altrimenti dee
in fatto di pace avere umile advenimento del corpo, la ciera amorevole, LA VOCE
SOAVE, la parola paceffica, le mani chete; e’1 suo cavallo dee
essere chetissimo e pieno di tanta posa e' sì guernito di soavitade
che sopr'a llui NON SI UMOVA UN SOL PELO, ma elli medesimo paia factore
della pace. Et così in letizia de' 1 parlatore tenere LA TESTA LEVATA, il
viso allegro e tutte sue parole e viste SIGNIFICHINO allegrezza. Ma
parlando in dolore sia LA TESTA INCHINATA, il viso triste e li occhi pieni di
lagrime e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante
per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo dell’uditore a piangere et a
dolore. Et già é detto delle V parti sustanziali di rettorica interamente
secondo l'oppinione di Tulio, e sì come lo sponitore le puote fare
meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a scusare sé medesimo di ciò
che non àe mostrato ragione perché 2: m e misurare ~ 5: M' che
a chi vuole — 0: M' noia boce — 7 : M' parlare, m Il parliere — 8: m
smuovere — i/' om. il populo — 11 : M parlantare, m p-are — 12: m mn.
elli — 14-15: M' delle nari, vi sozzi le anari — 16: il' incominci — 17: M-m
om. per — 19-20: M' humili avenimenti — m nel chorpo — 21 : M' le parole
pacefiche — 22 : L di tanta jwssa — 24 : M' om. Et — mss. del parlatore —
25 : M-m levata in suso - il' le sue parole — 26: il-m e signilichino —
27: m chinata, il' inchina, L inchinata — 28 : M-m parole iuste e
dolorose — 29: il' muove — 30: m piangerò a dolore. Ora è detto — 31 :
il' sustanziali parti — 32: M' il puote — 56 —
quello sia genere et ofifìcio e fine di rettorica sì com' elli àe
fatto della materia e delle parti, e dice in questo modo. Tullio
dice che tratterà della materia e delle parti. Oramai dette brievemente
queste cose, atermineremo in 5 altro tempo le ragioni per le quali noi
potessimo dimostrare il genere e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però
che bisognano di molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la
propietade e Ile comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte
rettorica pare a noi che 'I convenga scrivere dell'altre due, cioè della
maio teria e delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle
parti congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente
chente in tutti generi delle cause debbia essere inventio, la quale è
principessa di tutte le parti. In questa parte dice Tulio che non vuole
ora provare perchè quello sia genere di rettorica che detto è davante, né
Ilo officio né Ila fine, però che vorrebbe lunglie parole e non sono di
molto frutto, e però l' atermina nel- r altro libro nel quale tratta
sopr' a cciò; et in questo presente libro tratta della materia, cioè
dimostrazione, deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle
pai'ti, cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e
pronuntiatio. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma
però che inventio è la più degna parte, sì dicerà CICERONE chente ella dee
essere in ciascuno genere di rettorica, cioè come noi dovemo trovare
quando la materia sia di causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e
quando sia iudiciale; e tratterà si comunemente che mosterrà come
sia da trovare in catuna di queste cause, e come 30. ordinare e come
ornare la diceria, e come tenere a me- moria e come profferere le sue
parole. 1 : M-m quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare,
ni a dimostrare — M' le pro- picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m
om. K io.... congiuntamente — IS: M-m chente e — i3: Af' do tutte l'arti
— 16: M-m quella, M -L quel — M' detto davanti — 18: M' lo termina — 20:
M-m dimostrative — 23: M' congiuntamente; m om. e — 24: M-m om. SI dicerà
Tulio — i'S : M' om. sia — congiuntamente — S9: Af' come iu e. d. q. e.
sa da trovare — 30: iii nm. e come ornare Lo sponitore parla all' amico
suo. Perciò lo sponitore priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza
di tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di si dare
l'animo a cciò eh' è detto davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo
e '1 deliberativo e '1 iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi
a quel che siegue per innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal
guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo
lo 'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve- JO. ranno
perpetua laude. Della constitnzione e delle quattro sue parti.
34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in diceria
o in questione contiene in se questione di fatto o di nome di genere o
d'azione; e noi quella questione delia quale nasce la causa apelliamo
constituzione. E constitnzione è quella eh' è prima pugna delle cause, la
quale muove dal contastamento della intenzione in questo modo. Facesti. Non
feci, o Feci per ragione. Poi che CICERONE àe detto di mostrare e
trattare della invenzione e della materia insieme, sì mostra lo
sponitore in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chiarezza
dicerà tutto avanti in che significazione si prendono queste parole, cioè
causa, controversia, constituzione e stato. Causa vale tanto a dire quanto
il detto o '1 fatto d' alcuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato
causa tutto '1 processo dell' una e dell' altra parte. Et appellasi
causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al prolago e tìniendo
alla conclusione; donde dice uomo: 3: M-m di darli l'animo —
7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude, M-m dello sponitore, M ne
rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se
questione — 14 : M-m di quella — 15: M^ constitutione ò la prima pugna — 21 :
M' om. insieme — M' mosterra, ma L mostra — SS : M delinventia, m della
inventia, M^ della inventione — 23: m tutto innanzi — Af' mi. si prendono
— S7 : M' dell'una parte 7 del- l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal
prol. La mia causa è giusta, cioè, la mia parte è giusta. Controversia
vale a dire tanto come causa, e viene a dire “controversare” cioè usare
l'uno coli' altro di diverse ragioni e contrarie. Questione tant' è a
dire come '1primo detto di colui che comincia contra un altro e '1 secondo
detto di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria
nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et appellasi
questione per l'una e per l'altra parte della questione. Constituzione si
prende et intende in quelle medesime significazioni che sono dette davanti.
Stato è appellato il detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che'
parliere stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo
medesimo è appellato constituzione perciò che '1 parliere
constituisce et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o
di quel fatto. Et per ciò è appellato “CONTRO-VERSIA” che diversi
diversamente sentono di quel detto o di quel fatto. Qui dice lo sponitore
come Tullio tratterà della Invenzione. Et poi che Ilo sponitore àe dette
le significazioni di queste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della
'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare quelle
questioni le quale trattano i parlieri, et appellale constituzioni e dice
la proprietade di constituzione e dividela in parti. Nel secondo luogo mostra
qual causa sia simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè
di quattro o di più. Nel terzo luogo mostra qual contraversia sia in
scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo mostra quelle cose che
nascono di constituzione, cioè la diceria nella quale àe due divisioni e
ragioni, e Ila giudicazione e '1 fermamento. Nel quinto luogo mostra
in che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo
rettorica. Nel VI luogo mostra quante sono esse parti e quali e che sia
da ffare in ciascuna. Et disponesi cosi 2 : Af' vale quasi
tanto — 3: M' controversia — centra l'altro diverse ragioni — 4:M' k
tanto a dire — M-m come primo — 5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M
dn- bitatione sanfa dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8:
m om. VA- IO: M' sì dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro
parti — M-m dimostra - M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia
scripta - 28 : M'-L e la ragiono el iu- dicamento el fermamente — 29: m
dimostra — 31: M luorao (tic) .— 32: M' ciascuno M Kt diponesi, m
('dispensi, M'-L Et dispone Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per
uniformità colle frasi seguenti ; ma la concordia dei codici per e lascia
incerti sulla conesiione, che non è neppure indispensabile per il
senso. — 59 — il testo di Tulio per fare
intendere onde procedono le qui- stioni che toccano al parliere di questa
ai'te. Ogne cosa la quale àe in sé CONTRO-VERSIA, cioè della quale i
diversi diversamente sentono sicché alcuna cosa dicono sopr' a cciò con
inquisizione, cioè per sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à'
in sé que- stione di fatto, cioè questione la quale muove di ciò che
alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno contra l'altro. Tu
mettesti fuoco nel Campidoglio. Et esso risponde. Non misi. Di questo
nasce una cotale questione, se elli fece questo fatto o no, et è appellata
questione di fatto per quello fatto che a llui è apposto, etc. Od è
questione di nome, cioè che l’una parte appone un nome a un fatto (D e
l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa
uno cavallo o altra cosa che non sia sagrata. Dice l’una parte contra lui.
Tu ài commesso sacrilegio. Dice l'altro. Non sacrilegio, ma furto. Et nota che
sacrilegio è molto peggiore che furto, perciò che colui commette
sacrilegio che fura cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo nasce
una questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome furto
sacrilegio, e però è appellata QUESTIONE DEL NOME. Od è questione del genere,
cioè della qualitade d'alcuno fatto, in ciò che l’una parte appone a quel
fatto una qualitade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno. Questi
uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo padre. Dice
l'altro. Non è vero, ma iniustamente l'à fatt; e di ciò nasce cotal
questione di questa qualitade. Se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò
è appellata questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e di
che maniera sia. Od è questione d'azione, cioè viene a dire che
contiene questione la quale procede di ciò, e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro
e d'un tempo ad altro. Verbigrazia : Dice uno contra un altro. Tu
m' ài M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8: 3f' un facto — 8-9:
M' uno contra un altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che 6 allui aposto, il/'
perche il facto che allui e e apposto da questione ecc. — M-m Onde
questione — i4 : M-m in nome o in facto, M' ialla dal 1° al 2° appone —
18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M' del nome del facto —
22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro — 28: iW'
OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 : M-m Onde —
mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om. e.... ad altro — uno
a un altro È lezione congetturale,
ma sicura, come dimostra l'espressione analoga del § 16. furato un
cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine rispondo in questo
tempo, perciò che ttu se' mio servo, o perciò eh' è tempo feriato, o
perciò eh' io non debbo rispon- derti in questa corte, ma in quella della
mia terra. Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice
che è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et dice Tulio
che tutte le quistioni che sono dette davanti sono appellate
constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice che constituzione è la
prima pugna delle cause, cioè quello sopra che da prima contendono i
parlieri, cioè il detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e questo sopra
che de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè che
muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto di colui che
ssi difende contra le parole dell'accusatore. Onde contastamento è
appellato el primo detto del difensore e intentione è appellata il primo detto
dello accusatore. Et pare che il nascimento della constituzione vegna
della difensione ch'è della accusa, non che nasca della difensione, ma perciò
che del detto del difenditore si puote cognoscere se Ila causa o Ila
questione è di fatto o di genere o di nome o d'azione, sì come appare nelli
exempli che sono messi davanti. Et
omai dicerà Tulio le nomora e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni
di tutte le dette questioni. Del fatto, et è detto congettìirale. Quando
la controversia è di fatto, perciò che Ila causa si ferma per congetture,
sì à nome constituzione congetturale. In questa parte dice Tulio che
quando la contenzione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come
davanti si dice, sì conviene eh' ella sia provata per con-
1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però ch'io — M' rispondere — 6 : M' se
quelli — m OHI. Et — 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono
da prima — 14: M di- fontu — 15: m M' il primo — 16: M' appellato - 17:
M-m che nascimento — 19: M' owi. del — 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn
scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS: Moni. è — 26-27: M-vi om. è
— per cometlere — 30: M' apposto altrui gettare, cioè per suspezioni e
per presunzioni. Verbigrazia: Dice uno contra un altro. Veramente tu
uccidesti Aiaces, ch'io ti trovai e VIDI TRAIERE IL COLTELLO DEL SUO
CORPO. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò 5. che
a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al- tressì ferme
ragioni si possono inducere per l’una parte come per 1' altra. E poi eh'
è detto della constituzione di fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di
nome. Del nome, et è appellata ilifjìnitiva. Quando è la
controversia del nome, perciò che Ila forza della parola si
conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi- nitiva. In
questa parte dice Tulio che quando la conten- 15 zione è del nome
del fatto, cioè come quel fatto eh' è apposto altrui abbia nome, quella
questione si è diffinitiva perciò che Ila forza, cioè la significazione
di quella parola e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e
rispia- nare che viene a dire e che significa, non per exempli
ma per parole brevi e chiare et intendevole.Verbigrazia. Un uomo è
accusato che tolse uno calice d' uno luogo sacrato et è Ili apposto che sia
sacrilegio, et esso si difende dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or
sopra questa controversia si è tutta la questione per lo nome di questo
fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la veritade si conviene
diffinire l'uno nome e l’altro, cioè dire la signifficazione e Ilo 'ntendimento
di ciascuno nome, e poi che fie chiarito per le parole quello che '1 nome
significa, assai bene si potrà intendere e provai e qual nome si XJonga
a 30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà
Tulio del genere. 3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi
trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si) f. r. se ne possono —
7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia è — ii: M'-L appellata
— 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì — 17:M' che ella
airorca — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro — 23: M' ma e
furto — 24-25: AT» se questo facto è sacrilegio furto — 26: m l'altro —
M-m dare - 28: M-m che nome — 30: m om. Ei e si Dice Tullio
del genere, et è appellato generale. Quando è quistione della cosa qual
sia, perciò clie Ila. controversia è della forza e del genere del fatto,
sì è vocata constituzione generale. In questa parte dice Tulio che quando
è questione della cosa quale ella sia, perciò che Ila controversia è
della forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione
et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, si è 10.
vocata constituzione generale. Verbigrazia. La quantitade del fatto si è cotale
questione : se uno à fatto tanto quanto un altro, si come fue questione SE
CICERONE AVEA TANTO SERVITO AL COMUNE ROMA QUANTO CATONE. La comparazione del
fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore, si come fue questione
quando i ROMANI presono Cartagine QUAL ERA MEGLIO TRA DISFARLA O
LASCIARLA. Il genere del fatto si è questione della qualità del fatto sì
come davanti fue messo F exemplo, cioè se colui che fece il fatto
fece iustamente o iniustamente. Dice Tullio dell'azione, et è
appellata translativa. Ma quando la causa pende di ciò che non pare che
quella persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove
contra cui si conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in
tempo che ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di
quella pena che ssi conviene, quella constituzione à nome translativa,
però che ir azione bisogna d' avere translazione e tramutamento.
8: M-m o decta forfa — 9: M-m sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno
- 14. m do fatto — i7: M-m qualità — 2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne,
M-m nm. o non (1) La frase o non appo coloro che ssi conviene manca
in tutti i codici, ma si ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4
dol commento. In questa parte dice CICERONE della controversia
dell'azione, che quando sopr'acciò è Ila questione e' si conviene che l’azione
si tramuti in tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè
trarautativa. Et questo è o puote essere Ijer sette maniere, le quali
sono nominate nel testo, cioè: 2. Quando non muove la questione quella
persona a cui la conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scoiaio
contra ad un altro. Tu se' venuto troppo tardi a scuola. Et esso
dice. A te no'nde rispondo, che non ti si conviene muovermi questione di
ciò, ma conviensi al nostro maestro. O non muove la questione contra quella
persona che ssi conviene. Verbigrazia. Fue trovato che in ROMA si
trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra GIULIO Cesare, et
esso dicea. Contra me non si conviene muovere di ciò questione, ma contra
CATELLINA CATILLINA che l’ àe fatto e fa tutta fiata ». non muove la
questione appo coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone
che dee. Verbigrazia : Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di
Navarra. Il vescovo dice. Tu non m'accusi davante a giudice eh' io debbia
rispondere, ma io son bene tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico.
O non muove la quistione in quel tempo che ssi conviene. Verbigrazia. Uno
fue accusato il giorno di Pasqua. Esso dicea. Non rispondo ora di questo,
perciò che oggi non è tempo d' attendere a cotali convenenti» non
muove questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno
cittadino di ROMA era in Parigi e volea piatire contra uno francesco
secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice 3: Jtf -HI
7 si conviene, 3/' om. — 5: Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette
m. — 7-8: m si conviene — M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m
et elli — M-m om. ti — 12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af
alcuna —16: m questione di ciò, M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m
tuttavia — M-m contra coloro — 18-19: M' che si dee.... Il vescovo fu
acc. — 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M' davanti
giudice - 24: m della Pasqua — egli — 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m
M' da rispondere — 29: M' la legge romana — m il Francesco
(1) Questa è la lezione miglioro per il senso, né si trova una valida
ragione per considerarla arbitraria, quantunque dalle due famiglie di
codici sembri risultare un da rispondere: sarà stato determinato dal rispondo
con cui comincia la frase che non dee rispondere a quella legge ma a quella
di Francia. O non muove la questione di quel peccato che ssi
conviene. Verbigrazia. Fue accusato uno, che non avea il membro
masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice. Io non risponderò di
questo peccato -- non muove questione di quella pena che ssi conviene.
Verbigrazia. Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali apposto
che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: Non rispondo a questa
pena, perciò che non tocca a questo peccato. Donde tutte queste questioni sono
translative, cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata
in tutto e tal fiata in parte, si come appare nelli exempli di
sopra. Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose non fosse non
sarebbe causa. E così conviene che ssia l' una di queste inn ogne maniera
di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna, certo in quella
non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene che non sia tenuta
causa. Poi che CICERONE àe divisate le parti della constituzione et
àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le loro nomerà, sì vuole
Tulio provare che quando l'una di queste questioni, che sono del fatto o
del nome o della qualità del tramutare l'azione, non è intra parlieri, certo
intra loro non puote essere controversia ; e poi che 'ntra loro non
à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero parole non
sarebbe causa, e così non sarebbe materia di questa arte, cioè che non
sarebbe dimostrativo né diliberativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì
dimostra Tulio i: i non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7:
M' Fue accusalo uno — 8: M' nm_ perciò - m egli dice — M' non li lispondo
— 9: M' non tocclia (piosto peccato — ti: M' in altro slato, m om. e
stalo - J2:M' paro — 16: M' luna de ipicste sia - 17: M tn i|ualcosa, m
in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna - S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m
om. ^ — m tralloro - 30: m quando ([U'-sto che Ile predette cose
in questa arte sono si congiunte in- sieme che qualuuiiue causa è
dimostrativa o deliberativa o iudiciale sì conviene che sia constituzione
o del fatto o del nome o della qualitade o dell' azione, et e converso
che 5. qualunque constituzione è del fatto o del nome o della
qualità o dell'azione sì conviene che sia dimostrativa o deliberativa o
iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua ma- teria per dicere di ciascuna
parte per sé. Del fatto. La contraversia del fatto si puote
distribuire in tutti tempi: che ssi puote fare quistione che è essuto
fatto, in questo modo. Ulisse uccise Aiace o no ? Et puotesi fare questione che
ssi fa ora, in questo modo Sono i Fregelliani in buono animo verso
lo comune o no ? Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo
15. modo : Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne bene al
comune no? In questa pai'te dice CICERONE che Ila CONTRO-VERSIA la quale
è di fatto che ssia apposto ad altrui, la quale àe nome constituzione
congetturale sì come fue detto in adietro e messo in exempli, sì puote
essere in tutti tempi, cioè preterito, presente e futuro. Nel PRETERITO
pone Tulio r exemplo della MORTE D’AIACE, che fue cotale. Stando
l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achille, et apresso la sua morte
fue grande questione delle sue armi intra Ulisse et Aiace. Et certo Ulisse
fue, secondo che contano le storie, il più savio uomo de' Greci e '1
milìor parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e
per lo bene dire niettea in compimento le grandi vicende, alle quali altre
non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più di male contra' Troiani per
lo suo senno che non fecero M dimoslraliva — 3: M' constitutione
del facto — 4-6: M-m om. ot e conweiso.... dell'azione — 7 : M' Et
oggimai perseguita — 10: M' in dui tempi — 11: m clie exututo — 13: M* de
buono animo — 14: m om. che ssi farà — 15: M-m, L in terra — ikf' aver-
ranne, m e veramente bene — S3 : M' Tulio la morto — 24: M* a Troia — 26-27: M'
secondo che recitano le storie, fue M-m et niilior — 29: M* per .ben dire — 30:
Mie quali, m le quali oltre non sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M'
adopero elgli M' in contro a — la non
fé, L non fece quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si
parve uianifestameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale
fue Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si 5.
fatigava molto con arme e non era di gran prodezza, ma tuttavolta
dimandava che Ili fossono CONCEDUTTE L’ARMI D'ACHILLE, e dicea che nn'era degno
e ch'avea in quella guerra ben fatta l'opera perchè etc Et dall' altra
parte Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran
guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto** (D francamente
avea portate l'armi in quella guerra, e perciò domandava l'armi d'Achille
e dicea che non si conveniano ad ULISSE. Onde alla fine l'armi furono
concedute ad Ulisse, per la qual cosa montò tra lloro TANTA INVIDIA che divennero
nemici mortali ; et in questo mezzo tempo e morto Aiaces e fue della sua
morte ACCUSATO Ulixes, et esso si difendea e negava ; e di questo sì era
QUESTIONE DI FATTO in preterito, cioè che già era fatto in tempo
passato. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo de' Fragellani, che
furo una gente i quali fui'ono accusati in ROMA eh' elli aveano male animo
contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto
; e di ciò si era QUESTIONE DI FATTO PRESENTE, cioè se sono ora
presentemente di buono animo o no. Nel FUTURO mette CICERONE l’exemplo di
CARTAGINE, la quale fue una delle più nobili cittadi e delle più poderose
del mondo, e tenne guerra contro a ROMA, sì eh' alla fine I ROMANI
vinsero e presero la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila cittade si
disfacesse per lo bene di Roma, ET ALTRI CONSIGLIARO DEL NO perciò che '1
meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse intera, e di ciò è QUESTIONE
DEL TEMPO FUTURO, cioè se bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse
intera o s'ella si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto della
controversia del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo
modo. i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben
l'opera perchè, L bene adope- rato perchè — 9: m orti, e sanza molto —
10: M-m provale — 14: m iim. mezzo — 15 : m 7 dela sua morte fue aco. —
16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò che già ecc.
(vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO:
SI' comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M'
vollero (ma L voleano) — 28: m om. et — M' di no m pero che meglo ne potrebbe loro
intervenire M-m, L in terra — Af' e
questo nel tempo futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra (1) Così
hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche parola
(anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare.
Basti averlo notato, senza pretendere d' indovinare. Del nome. Controversia
del nome è quando lo fatto è conceduto, ma è questione di quello eh' è
fatto in che nome sia appellato; et in questo conviene che sia
controversia del nome, perciò che non s'accordano della cosa; non che del
fatto non sia bene certo, ma che quello ch'è fatto non pare all'uno
quello eh' all' altro, e perciò l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un
altro. Per la qual cosa in questa maniera la cosa dee essere diffinita
per parole e breve- mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa
sacrata d'uno luogo privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego,
che certo in essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia
furo e che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa
conviene avere altro nome che quello che dicono li aversarii. In
questa parte dice CICERONE della controversia del nome ; e perciò
che di questo è molto detto davanti, sì siue trapassa lo sponitore
brevemente, dicendo solamente la tema del testo, sopra '1 quale il caso è
cotale: Roberto accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa
sacrata, si come UNO CALICE o altra simile cosa la quale sia diputata a'
divini mistieri, e dice che Ila tolse d'uno luogo privato, cioè d'una
casa o d'altro luogo non sacrato. Viene l'accusato e confessa il fatto.
Dice l'accusatore. Tu ài fatto sacrilegio. Dice l'accusato. Non ò fatto
sacrilegio, ma furto. Et così sono in concordia del fatto, ma
non della cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che
nome abbia questo fatto, perciò eh' all' accusatore pare una, che dice
ch'è SACRILEGIO, et all'accusato pare un' altra, che dice eh' è FURTO.
Onde in questa maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che
dice sopra questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE
3 : it 7 (li questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per
furto o per sacrilegio, L furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12:
M-m che sacrilegio, A/' che sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom.
detto — M' nm. si — 18: m sopralla quale - J/' Uberto : M' tolto — 19 : m
cosa simile — SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere) — 23-24: M il
l'atto. Et dice laccusato — m Non o, ma furto — 27-28: m però
chellachusatorc... una diosa — 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò — 30:
jV' jjarladore — 3t: M' didinita - G8 - che cosa
è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee mostrare come questo fatto non à
quel nome che dice l'aversario. Ed è detto della CONTROVERSIA del nome;
omai dicerà Tulio CICERONE di quella del genere, in questo modo :
5. Del genere. ^Z. (e. IX) Controversia del genere è
quando il fatto è conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma
è questione della quantitade del fatto o del modo o della
qualitade, in questo modo : giusto ingiusto - utile o inutile - e
tutte cose nelle quali è questione chente sia quel fatto. In questa parte
dice Tulio CICERONE della questione del genere, e di questa è tanto detto
dinanzi che 'n poche parole di- morerà lo sponitore ; e dice che quella
controversia è del genere nella quale Y accusato confessa il fatto et è in
con- cordia coir accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in
discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o pic- colo o molto
o poco. Verbigrazia. Un gran romano quando dovea cacciare i nemici del suo
comune si fuge. E accusato eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma;
l'accusato confessa il fatto e '1 nome del facto. Dice l'accusatore. Questo
è grande DANNO. Dice l'accusato :
« Non è grande, ma PICCOLO. Ed è la discordia tra loro della quantità,
cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della
comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro nell'exemplo di
Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in
discordia della qualitade del fatto, sì comepare in exemplo d'ORESTE che
uccide la sua madre, ed e accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE
si difende e dice che l'à morta giustamente, ma bene con-
OM, 8: M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto —
12: M' tracia — i3: M-m detto — VI di questo — M die poclie p. — m
dimora, Af' <limorra - 16-17: M' ohi. ma sono.... del fatto — 20: M-m
t>m. e male — S3: M-m nm. Ed — So: >/' Or sono, M-m OHI. - 26: M'
nm. si - 27 : M' o disfare - 2S : M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo di
((uestl , M-vi dotesles — 30-.il : m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M'
nm. si - M-m cliellavea - 69 — fessa il fatto e
1 nome del fatto; ma sono in discordia della qualità, cioè se 11' àe
fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE. Ben è vero che Tulio CICERONE non
mette in exemplo della quàntitade nel testo, né della comparazione, se
non solamente della 5. qualitade ; e questo fae perciò che più sovente ne
vien tra Ile mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte
cose nelle quali si confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è
questione della qualità d'esso fatto, sì è controversia del genere. E poi
che Tullio CICERONE à detto di questa questione del genere secondo il suo
parimento, sì procede immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in
questa controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose IV parti,
ciò sono DELIBERATIVO, DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale
suo fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in
breve, perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che
noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo in ciò,
paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se
deliberamento e dimostramento sono generi delle cause, non possono essere
diritte parti d'alcuno genere di causa, perciò che una medesima cosa
puote bene essere genere d'una e parte d'un' altra, ma non puote essere
parte e genere d'una me- desima. Et certo deliberamento e dimostramento
sono genera delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur
iudiciale sola- mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere
che non sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice
che Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande
forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote
essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra
lloro e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo
fine al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son
ge- neri delle cause, e così deliberamento e dimostramento non
possono 4: M> nel testo exemiilo - 5: M' in tra le mani —
iO: m om. secondo il suo pari- mente — M mantenente — 13: M-m II (juale
lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene passas- simo — 18: m stessomo - 19: M'
dimora, m imped. 7 dimoro — 20: M-m dim. — 22 : m M' causa — M-m genere 7
parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno ale. — 26: M-m om. e
deliberativo — 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti — 28-29 : M
7 grandi; fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12
: M 7 certo — 3:i : M' de cause... dimost. 7 del. essere a
diritto tenute parti d'alcuno genere dì causa. Dunque ma- lamente disse
ch'elli fossero parte della constituzione del genere. 46. (e. X) Et
s'elle non possono essere tenute diritte parti della causa del genere,
molto meno fien tenute parti della diritta parte della causa; e parte
della causa è ogne constituzione; donde no la causa alla constituzione,
ma la constituzione s'acconcia alla causa. Ma dimostramento e
diliberamento non possono essere tenute diritte parti della causa del
genere, perciò che sono generi: donque molto meno debbono essere tenuti
parte di quello ch'esso dice. Appresso ciò, se Ila constituzione et essa e
ciascuna parte della con- stituzione è difensione contra quello eh' è
apposto, conviene che quella che no è difensione non sia constituzione ne
parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono
constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è
difensione contra quello eh' è apposto, il dimostramento e '1
diliberamento non è constituzione ne parte di constituzione. Ma piace a
Itui che ssia difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non sia
constituzione, né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile
fie condotto, se esso dica che constituzione sia la prima confermazione
dell' accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così
seguiranno lui tutti questi sconvenevoli. Appresso ciò, la causa
congettu- rale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un
medesimo genere essere congetturale e diffinitiva ; et altressì la
diffinitiva causa non puote essere d'una medesima parte inn uno
medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna
constituzione ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza
et altrui; perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura
; se l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non
si cresce la forza della constituzione. Veramente la causa
deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole
avere la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e
translativa, et alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è
constituzione né parte di constituzione. Et questo medesimo suole
usatamente advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo
detto 3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento,
sono generi delle cause e non parti d'alcuna constituzione.
1 : M' a diricto essere tenute parte — 5: M-tn om. parto delln causa ì- —
vi om. no - 7: JV' tenuti — 9 : m tenute parti, il/' im. tenuti — M-m
cliossi dice — iO: M-m chella const. — 11: M-m ? difensione — M' (piella
- IS: M-m non sia la constitutione — 13: m om. Et — 14: M 1 dunque le
const., m Dunque la const. — 15: M' nm. e '1 dilibera- mento — 16-18: m
om. i due periodi — ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli - 23:
M'^ diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk -
M' ne te- nere — 2S: m il novero — il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc
generale — 32: i wim. illusori — (i Lo
sponitore. I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che
Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò sono
deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della 5. qual cosa
Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte ragioni come Ermagoras
errava malamente, e questo pruova manifestamente per argomenti dialetici:
che dimostramento e deliberamento sono generi delle cause si che Ile
cause sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto delle
10. cause, non possono essere parte delle cause, acciò ch'una cosa
non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella medesima. 2. Et così
per molte ragioni o vuoli argomenti conclude Tulio che Ermagoras avea mal
detto, e poi se- guentemente dice la sua sentenza : quali sono le parti
della constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo e
della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto. Et in ciò
incomincia la sentenzia di Tullio in questo modo : Le parti
della constituzione generale. 20. ^S. (e. XI) Questa constituzione
del genere pare a noi ch'ab- bia due parti : Iudiciale e
negoziale. Lo sponitore. 1. Poi che Tullio àe ripresa
l' oppinione d' Ermagoras delle quattro parti, si dice la sua sentenza e
dice che sono 25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea
Ermagoras: iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua
sen- tenza, la quale vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì
dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo modo
4: M' dimostrativo, deliberativo ecc. — 6: M-m provava — 9: m genero —
10: M el acciò — 11 : M-m tiicta — 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras avere
— 17 : il/' comincia — 23 : m ripreso — 28: M' che e iuridiciale {e cosi
sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om. che) negotiale ludiciale è
quella nella quale si questiona la natura dì dritto e d' iguaglianza e la
ragione di guiderdone o di pena. Sponitore. 5. 1. La
iudiciale coustituzioue è quella nella quale per diritto, cioè per
ragione provenuta per usanza e per igual- lianza, cioè per ragione
naturale o per ragione scritta, si questiona sopra la quantitade o sopra
la comparazione o sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto
è giusto o ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale quella
nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli è degno di pena o di
merito. Verbigrazia. Alobroges è degno d'avere merito di ciò che
manifestò la congiurazione di Catenina? e questionasi del sì o del no. Et
anche questo exemplo. È Giraldo degno di pena di ciò che commise
furto ? e questionasi del si o del no. Et poi che à detto Tulio del
iudiciale, si dicerà dell'altra parte, cioè della
negoziale. Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione
sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia sono
messi i savi di ragione. Dice CICERONE che quella constituzione è
appellata negoziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per
quella ragione la quale i cittadini o paesani sono usati di
tenere i-lloro uso o in loi'o costuduti, o per equitade, cioè
per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra quella
2: m quello nel (juale — 3: M'-L ella ragione di diritlo, S di
merito — 6: m perve- nuta — 8.me sopra la comp. — 9: m se questo giusto
—il: M^ si questiona d'alcuno selglie ecc. — 12-14: m o di morte — M-m o
alabroges di Catenina et questionisi del si et del no (m di si o di no),
L e questo exemplo —16: m quistionìsi... om. Et — A/ 7 del no — 16-17: M'
Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M' Di negotiale — 26: M' om.
paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M' in loro constituti —
M-m equalitade — S8 : M' cliente ragione debbia constituzione.
2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe co- tale differenzia : che Ila
iudiciale tratta sopra le cose pas- sate et intorno le leggi scritte e
trovate ; ma la negoziale intende intorno le presenti e future (1) et
intorno le legi et 5. usanze che saranno scritte e trovate.Et questa è di
molta fatica, perciò che' parlieri s'affaticano di grande guisa a
provarla et a formare nuove ragioni et usanze allegando in ciò ragioni da
simile o da contrario. Et questa questione si tratta davante a' savi di
legge e di ragione, ma in provare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila
ragione ne dice. 4. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e
che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per meglio
dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo dell' Arte. Di due
parti di Iudiciale. La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta
et assuntiva. In questa parte dice Tulio che quella questione la quale
è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due parti. Una eh' è
appellata assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva ; e dicerà di
catuna per sé. 3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il
presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M assaivi, m si tratta da savi — 10:
M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna la quale è appellata -
M-m e assunptiva Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro)
sembri ottima, prefe- risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in
future.: M* ha tendenza a cam- biare, e quindi non è improbabile che,
trovando già l'errato futuro, abbia voluto accordare con esso l'aggettivo
precedente, le presenti. Non saprei invece come spiegare un cambiamento
inutile in M-m. Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione
o di ragione o d' ingiuria. Dice CICERONE che quella questione
iudiciale del genere èe appellata assoluta la quale in sé medesima
è disciolta e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene
in sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o sopra la
comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce s'egli é di ragione o
d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto o ingiusto o buono o' reo, sì
come in questo exemplo donde fue cotale questione. Verbigrazia : Fecero
quelli da Teba giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria
fe- cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un
trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé sanza neuna
giunta et in sé contiene forza della pruova, perciò ch'era cotale
usanza. Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa a
difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue parti
sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato
e comparazione. S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi:
M-m «m. o sopra la (luantilude — 7 invece ili 0—9: M' in f|uel facto —
12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m et cerio questo trofeo fatto faro per
sengnale della loro Victoria jiiuce per so medesimo — 16: M' la forfa — 1
9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna CICERONE dice che quella
constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la quale in sé
non à fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo-
5. sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi;
si come nella questione d'Orestes, che fue accusato eh' avea morta la sua
madre, et elli dicea che ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire
parca crudel fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione
com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen- sione d'un altro
fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta- mente, perciò ch'ella uccise
il mio padre ». Et così pare che con questa giunta piaccia la sua
ragione. Efc questa co- tale questione assuntìva à quattro parti, delle
quali il testo 15. dicerà di catuna perfettamente per sé.
Concedere e concessione è quando l'accusato non difende quello eh'
è fatto ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si divide in due
parti, ciò sono purgazione e preghiera. 20. Sponitore.
I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione assuntìva e
com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di- cere di ciascuna per
sé divisatamente perchè '1 convenentre sia più aperto. 2. Et
primieramente dice che é concedere, e dice che quella constituzione é
appellata concessione quando l'accusato concede il peccato e confessa
d'averlo fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote es-
sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera, e di ciascuna di
queste dirà Tulio partitamente, e prima 30. della purgazione.
3: M> non àe in se — 5: M' di quello — 7 : M' Pt elli rispondea
— 8-iO: M-m om. Kt certo.... giustamente — i4: M' nm. assuntìva — 15: M'
per se perfectamente — 17: M' o concessione - 18 : 3f ' domanda chelgli
sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M' che 7 quale 6 — 23: m di
chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il pechato d'averlo
facto Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri-
muove, e questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade. Dice CICERONE
che quella maniera di concedere la quale è per purgazione sì è et
aviene quando l'accusato confessa, ma lievasi la colpa e dice che quel
fatto non fue sua colpa ; e questo puote fare in tre maniere, delle quali
è prima Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia : Mercatanti
10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne
loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa paura, per la
quale si botaro che s' elli scampassero e per- venissero a porto che elli
offerrebboro delle loro cose a quello deo che là fosse, et e' medesimi F
adorrebbero. Alla fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato
Malcometto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come idio e
feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano fatto contra la
legge ; la qual cosa bene confessavano, ma allegavano imprudenzia, cioè
che non sapeano, e perciò 20. diceano che fosse perdonato. Et di
ciò era questione, se doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è
caso, cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare
quello che ssi dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caur- sino avea
inprontato da uno francesco una quantità di pe- 25. cunia a pagare
in Parigi a certo termine et a certa pena. 6: M-m om. b — 7
: M-m imi. non — 8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M per mare
oltramare, di passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli,
JV/' om. che — 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17:
M' fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano —
21: m puliti — S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio
Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume di
Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare né essere al termine
che era ordinato. Colui che dovea avere domandava la pena, l' altro
confessava bene eh' avea 5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se
non che '1 caso era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e
però dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione, se
Ila dovea pagare o no. La III maniera è necessitade, cioè che conviene che
ssia così et altro non potea fare. Verbigrazia : Statuto era in
Costantinopoli che qualunque nave viniziana arrivasse nel porto loro, la
nave e ciò che entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che
merca- tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e passaro con
grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo per forza di
venti, centra' quali non si poteano pa- rare, pervennero nel porto e fue
presa la nave e le cose per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti
che Ila nave era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso
porto, e però diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò era
questione, se Ile doveano perdere o no. Tutto altressì i Veniziani, cui
fue la nave, raddomandavano la nave o la valenza; i mercatanti diceano
che l'amenda non dovea es- sere domandata, perciò che per necessitade e
non per volontade erano iti in quel porto. Et poi' che Tullio àe detto
della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera. Preghiera è
quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso quel peccato e confessa
che 11' àe fatto pensatamente, ma sì domanda che Ili sia perdonato, la
qual cosa molte rade fiate puote advenire. 1 : M-m avieno —
S : M-m polea — 3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine - 5-6: M
impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel
loro porto — 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano —
14-15: M per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di
vento — 18: M^ in quel porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M'
che por lamenda — 24 :m om. Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto
(1) Questa lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè
dall'altra fami- glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con
impedimento era facilissimo e lo favoriva il fatto che il senso restava
quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedi- mento ^>.
Così leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto
(impedimento è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo,
ana- loga, a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla
magna tempestas di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul
quale è modellato il nostro CICERONE dimostra in questa picciola parte del
testo che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che
allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa 5. e dice che
fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce che ir à fatto
pensatamente, ma tutta volta domanda per- dono. 2. Onde nota che questa
preghiera puote essere in due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia :
In questo modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato. Io
confesso bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per
reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera ascosa è in questo
modo : « Io confesso eh' io feci questo fatto e non domando che voi mi
perdoniate ; ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe
fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ». 3.
Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono adve- nire rade volte,
(l) spezialmente davante a' giudici che sono giurati a lege sie che non
anno podere di perdonare. Ben puote alcuna fiata lo 'mperadore e '1
sanato avere prove- 20. denza in perdonare gravi misfatti, sì come
poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare e di
disgravale secondo lo loro parimento. Et poi che Tullio àe detto della
prima parte della constituzione as- suntiva, cioè della concessione e che
cosa è concedere, et à delle due maniere di concedere detto, cioè di
purgazione e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè
rimuo- vere lo peccato. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si
sforza di rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo sopra
un S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M'
nppensatainentc — 8 : M' nascosa — 14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L
volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno — 19: m prudenzia — SS: m
eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa- rere,
S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc.
- 30 : M' mettelo (ma L metterlo) (1) Conservo volte appunto
perchè questa parola in itf è meno frequente di fiate Q non si può
considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti- tuito
per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29). altro per
forza e per podestà di lui ; la qual cosa si puote fare in due guise: o
mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo la colpa e la
cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia fatto per sua forza e
per sua podestade. Il fatto si mette sopr'altrui 5. dicendo che dovea un
altro e potea fare quel fatto. In questo luogo dice CICERONE eh' è
rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è
accu- sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si
leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice bene che 11'
à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si- gnoria il costrinse a
ffare quel male ; e questo rimovimento del peccato dice Tullio che ssi
puote fare in due guise : l'una si mette la colpa e la cagione sopra un
altro, l'altra 15. si mette il fatto sopra altrui. Et certo la
colpa e la cagione si mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli
à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui forza e
signoria. Verbigrazia. Il comune di Firenze elesse ambasciadori e fue
loro comandato che prendessero la paga 20. dal camarlingo per loro
dispensa et immantenente andas- sero alla presenzia di messer lo papa per
contradiare il passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in
Toscana contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il paga-
mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo negò la
pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' ca- valieri vennero. Della
qual cosa questi ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la
cagione e 3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do
malilicio - i4 : m luna mette, M' l'una si e mettere — ^5: M' si e
mettere — m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/' incontanente — 21 : m
cliontradire - 23: M-m domandano — 24: M m il segnore — m e il
chamarlengo — 25: m il nego di dare la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27
:M' si levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i
quali aveano la forza e la seguoria e non fecero lo pagamento. 3.
Mettere il fatto sopr' altrui è quando l'accusato dice ch'egli quel fatto
non fece e non ebbe colpa né cagione 5. del fare, ma dice che alcuno
altro l'à fatto et ebbevi colpa e cagione, mostrando che quell'altro
sopra cui elli il mette dovea e potea fare quel male. Verbigrazia :
Catone e Catenina andavano da ROMA a Kieti, et incontrarono uno parente
di Catone, a cui Catellina portava grande maialo, voglienza per cagione della
coniurazione di Roma, e perciò in mezzo della via l'uccise. Né Catone non
avea podere di difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma
rimase intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si
n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che
passavano [per la via] per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone
intorno lui, sì PENSARO CERTAMENTE CHE CATONE AVESSE FATTO IL MALIFICIO, e
perciò fue esso ACCUSATO di quella morte; ond'elli in sua defensione
levava da ssè quel fatto dicendo che fatto noll'avea e che no'l dovea fare,
perciò ch'ERA SUO PARENTE, e dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh'
elli era malato di sua persona. Et così recava il fatto e LA COLPA SOPRA
CATELLINA, perciò che '1 dovea fare come di suo nemico e poteal fare, eh'
era sano e forte e di reo animo. Et poi che Tulio àe insegnato rimuovere
lo peccato, sì insegnerà in questa altra partita riferire il
peccato. Ttillio dice che è riferire il peccato.
58. Riferire il peccato è quando si dice che ssia fatto per
ragione, in perciò che alcuno avea tutto avanti fatto a liuì 30.
ingiuria. i : m 7 al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma
dice — m nel fare — 5 : Af ' che un altro — 9: VI om. grande — 12 : m di
suo corpo malato — 15: M^ gente — J/' m om. per la via - 16: m il novello
morto — 18 : M' tn fu elgli - 1!) : M' chelgli facto — 20-Sl : m avea nel
dovea fare — o?n. e dicea che — Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23:
m pero chelli dovea fare — 25: M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte —
M-m refre- nare (sempre) — : vi pero che — da\anti (1) Le
parole per la via sono con tutta probabilità una glossa o una variante di
per lo camino; infatti mancano in codici delle due famiglie.
81 Lo sponitore. I. Dice Tullio che
riferire il peccato è allora quando l'accusato dice ch'elli àe fatto a
ragione quello di che elli é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta
tale ingiuria che dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come
apare neir exemplo d' Orestes, che fue accusato della morte di sua
madre, et esso dicea che ll'avea morta a ragione, perciò che
primieramente avea ella fatta a llui ingiuria, cioè ch'avea morto il
padre d' Oreste; e di questo nasce cotale questione se Oreste fece quel fatto a
ragione o no. Et poi che Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì
insegnerà ornai che è comparazione. CICERONE dice che è comparazione.
Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende cfie fue diritto et
utile, e dicesi che quello del quale è fatta la ripren- sione fue
commesso perchè quell'altro si potesse fare. In questo luogo dice CICERONE
che quella questione è appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à
fatto quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un
altro fatto utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel
più alto officio di ROMA, sentìo che coniurazione si facea per lo male
del comune, ma non potea sapere chi né come. Alla fine diede dell'avere
del comune in grande quantitade 25. ad una donna la qiiale avea
nome Fulvia, et era amica per amore di Quinto Curio, il quale era
sapitore del tradimento ; e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose
in tale ma- niera eh' elli difese la cittade e '1 comune della
molt'alta tradigione. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo
ma- 2 : M' allocta — 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne
(ma L prendere) tale vendctla — pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima
— J/' facto, m aliai fatto - iO: m om. El — 14: M-m quanto un altro — 16:
M' per quell'altro - 18: JW in questa parte — 19: M-m che facto — 26: M^
ora parteDce — 28: M' dela mortalo lamente dispeso l'avere
di Roma. Et elli in defensione di sé dicea che quelle spese avea fatte
per fare un altro fatto utile e diritto, cioè per scampare la terra di
tanta distruzione, e quello scampamento non potea fare sanza 5. quella
dispesa; e cosi mostra che '1 fatto del quale elli è ripreso fue fatto
per bene. Et poi che Tullio àe detto delle quattro parti della
constituzione assùntiva, la quale è parte della iudiciale sì come pare
davanti nel trattato della con- stituzione del genere, sì ridicerà elli
brevemente sopra la questione traslativa, della quale fue assai detto in
adietro, per dire alcuna cosa che là fue intralasciata. Come
Ermagoras fue trovatore della questione translativa. Nella IV questione,
la quale noi appelliamo translativa, certo la controversia d'essa
questione è quando si tenciona a cui convegna fare la questione, o con cui
od in che modo, o davante a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e
sanza fallo tuttora è controversia o per mutare o per indebolire
l'azione. Et credesi che Ermagoras fue trovatore di questa constituzione;
non che molti antichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili
scrittori 20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non
la misero in conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata,
molti l'anno biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in
pru- denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per
invidia e per maltrattamento. Questo testo di Tullio è assai aperto
in sé medesimo, e spezialmente perciò che della questione o
constituzione translativa è assai sufficientemente trattato indietro
in i : M' l'avere del comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M'
non si pelea fare — 7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m
che ella l'uo translassala — lS:M-m emargonis — 13: M Uela quarta q. (e
punto ilnpn translativa) — 15-1 (!: M' davanti cui — M-m sanfa follia —
19: M' parladori — 23: M' cambiano - S4 : M' per mal. (1) La
traduzione non è esatta, poicliè il testo latino dice: quos non tamim- prudentia
falli indamus (res enim perspìcua est) quam invidia atque óbtrectatione
quadam inipediri. Si potrebbe proporre per congettura non per imprudenzia ;
ma non sembra contraddirvi il 8 -3 del commento parlando di '' alquanti
che non erano bene savi ,, ? altra parte di questo libro, e
là sono divisati molti exempli per dimostrare come si tramuta 1' azione
quando non muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o
in- nanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che . 5.
dee. Z.Sicchè al postutto in(i) questa translativa conviene che sempre
sia : o per tramutare l' azione in tutto, come ap- pare indietro
nell'exemplo di colui che risponde all'aver- sario suo: « Io non ti
risponderò di questo fatto né ora né giamai »; e così in tutto tramuta
l'azione dell'aversario etc. O é per indebolire l'azione in parte ma non
del tutto, si come appare nell' exemplo di colui che risponde all'
aver- sario suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in
questo tempo» o «non davante a queste persone». Et dice Tullio che
Ermagora fue trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel
conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue
ripreso da alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia e
maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore dell'altrui bene, e
maltrattamento è dicere male d'altrui. Tullio dice che davanti
diceva exempli in ciascuna maniera di constituzioni. Già avemo
disposte le constituzioni e le loro parti; ma li axempli di
ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare quando noi
daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò 25. ch'allotta
sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo si potrà
a mano a mano aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al
processo del suo libro, brievemente ripete ciò eh' à detto avanti,
dicendo che dimo- 2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra
cui dee ~ 6: M come pare — 8: M' non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde —
M imparte — m non in tutto — H : M' pare — 13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M
translatore, m traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal- quanti — 18 :
M-m male tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte
le e. 7 loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m
della cosa — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi (1)
L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come
la sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere
dal periodo pre- cedente la parola questione : " conviene che sia
questione in questa transla- tiva „ ecc. strato à che sono le
constituzioni e le loro parti, ma in altra parte porrà certi exempli in
ciascuno genere delle cause, cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e
nel iudiciale, quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da
cciò si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi con-
viene all' ordine del libro per insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia
simpla e quale congitmta. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa,
ìmmantenente ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta.
Et s'ella è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di
piusori questioni o d'alcuna comparazione. Apresso al trattato nel quale
Tullio àe insegnato tro- vare le constituzioni e le sue parti, si vuole
insegnare qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con-
giunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta d'alcuna
comparazione, e di ciascuna dice exemplo in questo modo :
Della causa simpla. Simpla è quella la quale contiene In sé una
questione assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia
contra coloro di Corinto o non ? ». Dice CICERONE che quella causa è
simpla la quale è pur d'uno fatto e che non è se non d'una questione
solamente. Verbigrazia : La città di Corinto non stava ubidiente
a Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse
2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5 : J/' Et di ciò si diparte
l'autore, m 7 accio — 8: M mantenente, m inmantanento — 9: m simplice
(sempre cos'i) M' sedella — li: M-m compi^ratione — 13: M' il tractato —
15: M (|ualcosa, «i quale chosa — /*: M< l'exeni- plo — 21: M' m
(pielli — 25 : vi iliinn chosa — SO : M-m <m. stava — A/' ali Romani
loi-o di mandare oste a fai"e la battaglia centra loro, o no.
Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del sì o del
no. Della causa congiunta. 5. 64. Congiunta di piusori
questioni è quella nella quale sì dimanda di piusori cose in questo
modo: « È Cartagine da disfare da renderla a' Cartagiartesi, o è da
menare inn altra parte loro abitamento ? Poi che Tullio à detto della
causa simpla, sì dice della congiunta, dicendo che quella causa è
congiunta nella quale àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia
: I Romani vinsero a forza d'arme la città di CARTAGINE, et erano alcuni
che diceano che al postutto si disfacesse; altri diceano che Ila cittade
fosse renduta agli uomini della terra, altri diceano che Ila cittade si
dovesse mutare di quel luogo et abitare in altra parte. E così vedi che
questa causa è congiunta di tre questioni che sono dette. Della
causa congiunta di comparazione. Dì comparazione è quella nella quale
contendendo si que- stiona qual sia il meglio o qual sia finissimo,
in questo modo : « È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn
aiuto a' com- pagni, è da tenere in Italia per avere grandissima copia di
genti contra Anibal ? Poi che Tullio avea detto della causa la quale è
con- giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è
congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o i :
M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di
più sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro
questioni — J3: m per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto
diceano cliella si disfacesse — 17: M-m om. che — 18: m essere coniunta
di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis- simo — 22: M' incontro a
Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro (1)
Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.
di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-
gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e l'uno migliore
che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo, cioè il sovrano di tutti.
Verbigrazia : I Romani aveano mandata oste in Macedonia contrà Filippo re
di quello paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra
d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi di Roma diceano
che '1 migliore consiglio era mandare gente in Macedonia, per attare
l'altra loro oste la quale 10. era in questa contrada; altri diceano che
maggior senno era di ritenere la gente in Italia, per adunare
grandissima oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il mi-
gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente. Della
contraversia inn iscritto et in ragionamento. 15. 66. Poi è da
pensare se Ila controversia è in scritta o è in ragionamento.
Lo sponitore. 1. Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual
causa è sim- pla e quale è congiunta e quale di comf)arazione, sì
vuole 20. fare intendere quale contraversia nasce et aviene di
cose e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento, cioè di
dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole CICERONE
aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre de' dire a ciascun
ponto di tutte le cause che possano inter- 25, venire ; e perciò
dicerà della scritta per sé e del ragiona- mento per sé, e di ciascuno
partitamente in questo modo : Della contraversia che nasce di cose
scritte. 67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna
qua- litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di questa
che 30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che talvolta
pare che Ile i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. — il/' o Ire
o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L (li i|iielli del
paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio — iO: m
J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente — 12 : M
contra nibal, i» contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o
in ragionamento — /*' : M-m i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m om. dire
e che non sono scritte — 23: M' mo- strare - 24: m possono — 25: M'E cosi
— 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni parole medesimo iU siano
discordanti dalla sentenzia dello scrittore ; e talvolta pare che due
legi o più discordino intra sé stesse; e talvolta pare che quello eh' è
scritto signiffichi due cose o più ; e talvolta pare che di quello ch'è
scritto si truovi altro che non è 5. scritto ; e talvolta pare che ssi
questioni in che sia la forza della parola, quasi come in diffinitiva
constituzione. Per la qual cosa noi nominiamo la prima di queste maniere
di scritto e di sentenzia; il secondo appelliamo di legi contrarie, la
terza apelliamo dubiosa, la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta
apelliamo diffinitiva. Poi che CICERONE à dimostrato qual causa sia pur d' un
fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual con- traversia è in
scritta e quale in ragionamento; et in questo dice primieramente di
quella ch'è inn iscritto, cioè che 15. nasce d'alcuna scrittura. Et
questo puote essere in cinque modi. Il primo modo è appellato di scritto
e di sentenza, pei'ciò che Ile parole che sono scritte non pare che
suonino come fue lo 'ntendimento di colui che Ile scrisse. Verbi-
grazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano scritte
queste parole: « Chiunque aprirà la porta della cittade di notte, in
tempo di guerra, sia punito nella testa ». Avenne che uno cavaliere
l'aperse per mettere dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a
Lucca, e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la
legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che Ila sentenzia e lo
'ntendimento di colui che scrisse e fece la legge fue che chi aprisse la
porta per male fosse punito ; e cosi pare che Ile parole scritte non
siano accordanti alla sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce
controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza.
La seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che
1 : M' m medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si
discordino — 3: M' significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che
scripto — 6: M-m nm. in — A/' mdilTì- nitiva ([uestione — 11: M-m qual
cosa — 13: M-m e Sbripta - m e in ragionamento — 14 : m primamente — 18 :
M om. fue — 20: M ai)iira, m apira — 21 : M-m om. in tempo di guerra — M'
si sia punito della testa — 23: M' si difende — 30: m se si dee — M' lo
scritto — 31 : M' om. maniera (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai
medesimo. — 88 - pare che due leggi o più discordino
intra sé stesse. Ver- bigrazia : Una legge era cotale, che chiunque
uccidesse il tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse.
Et nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo 5. corpo o
d'avere o di gente sottomette altrui al suo podere. Un'altra legge dice
che, morto il tiranno, dovessero essere uccisi cinque de' pili prossimani
parenti. Or avenne che una femina uccide il suo marito, il quale era
tiranno, e domanda al senato per guidardone e per nierito un
suo figlio. LA PRIMA LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA
MORTO. E così sono due leggi contrarie, e perciò nasce questione se alla
femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La
terza maniera è apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh'
è scritto SIGNIFICHI DUE COSE O PIU. Verbigrazia. Alessandro fa testamento
nel quale fa scrivere così. Io comando che colui eh' è mia reda dia a
Cassandro C vaselli d'oro e quali esso vorrà. Api^esso la morte d'Alessandro
venne Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e che a llui
piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io vorrò. Et cosi di
quella parola scritta nel testamento, cioè, i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere
del cui volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione intra
loro. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE, perciò che di quello eh'
è discritto si truova e se ne ritrae altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia
: Marcello entra nella chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il
crocifixo, e taglia le imagini di là entro. E accusato, ma non si truova
neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non era che nne
scampasse sanza pena. E perciò il suo adversario ritraeva d'altre leggi
scritte quella pena che ssi convenia a Marcello ragionevolemente. La
quinta maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che pare che ssi
questioni LA FORZA D’UNA PAROLA scritta,
sicché conviene i : M' si discordino - M stesso — m tralloro
- 5 : M^ di genti - 6-7: m L essere morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una
femina il suo marito.... uccise — 9 : m e merito — 10: M' che le sia
dato, l'altra leggie — iS: m nasce controversia — Mm sella femina — 13: m
se dee — 14-15: M' che lo scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om.
coUii eh' è — 18: M' i quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede.
[o ti voglio dare - m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6
: M-m Martello - S7 : M' San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /.
trovava — 29-30 : m alcuna legge.... colalo maliflcio, e convenevole non
era che scampasse — 32 :M' che si conviene — Mm Martello —
89 — che quella parola sia diffinita e dicasi il proprio
intendi- mento di quella parola. Verbigrazia : Dice una legge. Se '1
signore della nave n'abandona per fortuna di tempo ed un altro va a
governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne che una nave di Pisa venne in
Tunisi e presso al porto sorvenne sì forte tempesta nel mare, che '1
signore usce della nave et entra inn una picciola barca. Un altro
ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto là entro che '1 mare torna
in bonaccia, e la nave campa in terra. E perciò dicea che la nave e sua
secondo la legge, perciò che '1 segnore l'abandona et esso l'avea difesa.
Il segnore dicea che perch'elli entra nella picciola barca non
abandona perciò la nave ; e cosi era questione intra loro sopra questa
PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per 15. sapere LA FORZA d'essa
parola conviene che ssi difinisca e dicasi il proprio intendimento. 6.
Già à detto Tullio di quella contraversia la quale è in iscritta e delle
sue cinque parti. Omai dicerà di quella contraversia eh' è in
ragio- namento. 20. Della contraversia la quale nasce di
ragionamento. 68. Ragionamento è quando tutta la questione è inn
alcuno argomento e non inn ìscrittura. Quella è contraversia in
ragionamento nella quale non si considera alcuna cosa che ssia per
scrittura, ma prendesi argomento e pruova per parole FUORI DI SCRITTA a
dimostrare che dee essere sopra quella questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo
che Italia è migliore paese che Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò
era questione ti'a lloro, e perciò conviene recare argomenti in
ragionando per mostrare che nne dee essere, e questo senza scritta
acciò che sopra questo no è legge né scrittura. 3: m om.
della nave — M' labandona — S : M' de Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M
sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro
corse a governare la nave — 9: m campo intera —11: m et egli — 12: m
pichola nave — 13: 3f' non avoa abbandonata perciò 1. n., m non pero elli
abandonava la grande — 14: M' di questa parola, m sopra questo abandono —
15: M-m la forma — m ripete conviene — 16: m dicha — 22: m e none — 24 :
M' Qurlla controversia 6 in rag. — 28: M' Anibal — 29 : m lodovico, M'-L
loodico, S dice l'altro, dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta
Delle IV parti della causa. Adunque, poi che considerato è il
genere della causa e cognosciuta la constituzione et inteso quale è
simpla e quale è con- giunta, e veduto quale contraversia è di scritto e
di ragionamento, 5. ornai fie da vedere quale è la quistione e quale è la
ragione e quale è il giudicamento e quale è il fermamento della causa ;
le quali cose tutte convengono muovere della constituzione. In
questa parte dice CICERONE che poi ch'elli à insa- lo, gnato che è lo
genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo e giudiciale, et à fatto
cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia congetturale e quale
diffinitiva e quale translativa e quale negoziale, et à fatto intendere
quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene in sé una questione o
più, et à fatto vedere qual contraversia è inn iscritto e quale in
ragionamento, sì come tutti questi insegnamenti paionsi adietro là dove
lo sponitore l'à messo inn iscritto e trattato di ciascuno
sufficientemente, ornai vuole CICERONE procedere e dimostrare apertamente
qual sia 20. la questione e la ragione e '1 giudicamento e '1
fermamento della causa ; le quali cose tutte muovono e nascono
della constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è il
cominciamento di queste cose. Questione è quella contraversia la quale
s'ingenera del contastamento delle cause in questo modo : « Non
facesti a ragione - Io feci a ragione». Questo è contastamento delle
cause nella quaied) 2: m om. 6—3: m om. cognosciuta — M
intesto — Af' qual congiunta — 4: M-m quale conti'aversia <ii scripto
— m o di ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6: M' ha sulo il primn b
— M-m il confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali conv. -
9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M' diliberativo,
ilimostrativo — i2: in cioè qual sia — 13: M-m a facto cognoscere — 14: m
quale simplice - 17: M' amaeslra- menti — M paio sàdietro, Mi-L jiaiono
in adiotro — 18: M 7 tracio — 22: M-m um. ciò V. a d. e. la constituzione
— 25 : M -L Di (|uistione — m si genera — 26-27 : M' de cause — M-m om. a
— M' il contrastamento ~ L nele quali, S nel quale (1)
Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per questo non saprei spiegare
come alterazione volontaria né come svista il nella quale (dato tanto da
M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto dovuto a una distratta traduzione
del latino Causarum haec est conflictio, in qua constitiUio
constai. è la constituzìone, e di questa nasce contraversia la quale noi
ap- pelliamo questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o
no. Lo sponitore. 1. Nel testo il quale è detto davanti
insegna Tullio 5. cognoscere e sapere che è la questione; et in ciò dice
che questione è quella che ssi conviene considerare sopr' a cciò di
che le parti tencionano, e così s'ingenera del contasta- mento delle
parti, cioè di quello che 11' uno appone e l'altro difende. Verbigrazia :
Dice la parte che appone all'altra . 10. « Tu non ài fatta
i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »; e la parte che ssi difende
risponde e dice : « Si, feci ra- gione Or è la causa ordinata, cioè che
ciascuna parte à detto, l'una accusando e l'altra difendendo, e questa è
ap- pellata constituzione. Sopra questo si conviene sapere se
15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è quello che Tullio
appella questione. Dunque potemo intendere che quando le parti anno detto
e quando l'accusatore àe apposto in. contra l'aversario suo e l'accusato
àe risposto o negando o confessando, sì è la causa cominciata et ordinata
; e però 20. infine a questo punto èe appellata constituzione, cioè
viene a dire che Ila causa è cominciata et ordinata ; da quinci
innanzi, se l'accusato niega e diféndesi, si conviene che ssi connosca se
Ila sua defensione è dritta o no, cioè quando dice : « Io feci ragione »
conviensi trovare s' elli à fatto 25. ragione o no, e questa è
appellata questione. 3. Et perciò che la scusa dell'accusato, a dire pur
così semplicemente: « Io feci ragione », non vale neente se non ne mostra
ra- gione per che e come, insegnerà Tullio immantenente che ragione
sia. 30. Di ragione. 71. Ragione è quella che contiene
la causa, la quale se ne fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in
contraversia. In questo modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un
leggieri e manifesto 4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella — m
sopra quello — 10: M' facto ragione — i5: M dopo ragione ripete che tu
prendesti il mio cavallo — 13: m luna luna — M' {(uesto — 15: M^ m facto
— 15-16: M' Et questo.... comune questione — 17: M-m posto — 19: M S
l'accusa - SO: M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì — S4: M' facta — S5:
M' e facta questione — S6: M-m om. Et - l'accusa — S7 : M' m se non
mostra — S8 : M' si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S : M' non vi rim.
— 33: M-m d'insegnare leg- gere manifesto exemplo exemplo. Se
Orestres fosse accusato di matricidio et elli non dicesse: « Io il feci a
ragione, perciò eli' ella avea morto il mio padre », non avrebbe
difensione; e se non l'avesse non sarebbe contraversia. Dunque la ragione
dì questa causa è eh' ella uccise Agamenon. 5. Lo sponitore.
1. Si come appare nel testo di Tulio, ragione è quella clie
sostiene la causa in tal modo che, chi non assegna e mostra la ragione
della sua causa, certo non sarà contro- versia, cioè non à difensione; e
cosi la causa dell'aversario IO. rimane ferma e non à
contastamento. 2. Verbigrazia: Vero fue che Ila madre d'Orestres uccise
Agamenon suo marito e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per
movi- mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre.
Fue accusato di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1 15.
fece a ragione; se non dice perchè e come, la sua difen- sione non vale
neente, e se la difensione non vale neente non è contraversia né
questione. 3. Ma se dice cosi : « Io lo feci a ragione perciò ch'ella
uccise il mio padre », sì mantiene la sua causa e vale la sua difensa,
mostrando la 20. ragione e la cagione perch'elli fece il
matricidio. Et poi che CICERONE à dimostrato che è questione e che
ragione, sì dimosterrà che è giudicamento. Giudicamento è quella
contraversia la quale nasce de lo 'nde- 25. bolire e del confirmare la
ragione. Et in ciò sia quel medesimo exemplo della ragione che noi aven
detta poco davanti : « Ella avea morto il mio padre ». Dice il savio: «
Sanza te figliuolo convenia eh' essa madre fosse uccisa ; perciò che 'I
suo fatto si potea bene punire sanza tuo perverso adoperamento ». (e.
XIV) Di questo 30. mostramento della ragione nasce quella somma
controversia la quale noi appelliamo giudicamento, la quale è cotale: se
fosse diritta cosa che Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella avea
morto il suo padre. i : m di martecidio — 2 : M-m om. ella —
4 : M-ni chelluccise a ragione — 7-8 : M' mostra 7 assegna ragione — 10:
M' m 0111. Vero — 13: M' om. cioè.... di matricidio — 16: M-m om. e so la
difensione non vale neente (A/' ef))unge neente) —19: m difesa — 20: m
om. El — 22: M-m dimostra — 24: M' om. quella — M-m ohi. nasce — 25: M-m
in ciò a quel med. — 26: M' aveino dello — 27 : M' Dice l'avversario — 2S: M-m
si potrà — 29 : M' sanila il tuo p. — — 31 : M' se fu Cicerone
dice e insegna che è ragione; et perciò che della ragione nasce il
giudicamento, sì tratta egli del giudicamento per dimostrare come e
quando et in che 5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione
perchè fece quel fatto e conferma la sua difensa per quella ra-
gione. L'accusatore dice contra questa difensa et indebo- lisce la
ragione dell'accusato, linde di ciò che conferma l'uno et inforza la sua
difensione e l'altro la infievolisce 10. e falla debole, sì ne
nasce una questione la quale è appel- lata giudicamento, perciò che
quando ella è provata si puote giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo
exemplo di sopra : Orestres assegna la ragione per la quale elli
uccise Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea morto 15. Agamenon
; e così conferma la sua defensione. Ma contra lui dice l'aversario. Tu
non la dovei punire né non con- venia ad te punirla di ciò, ma altre la
dovea e potea pu- nire sanza tua perversità, e sanza tua così crudele
opera, come del figliuolo uccidere sua madre ». Et così indebolia la
ragione d' ORESTE e mettealo in vituperoso abominio, e sopra questo, cioè
sopra '1 confermamento e sopra lo 'nde- bolimento della ragione, nasce
questione la quale è appel- lata giudicamento perciò che ssi puote
giudicare. 3. Et omai à detto Tullio che è questione e che è ragione e
che è 25. giudicamento ; sì dicerà che è fermamento.
Del fermamento. 73. Fermamento è il firmissimo et
appostissimo argomento al giudicamento, come se Orestres volesse dire che
ll'animo il quale la madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea
contra lui 30. e contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto
pregio della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte
guise doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena.
2: M-m om. è — 3-4: M-m che deliboragione nasce del iuilicamento por
dimostrare ecc. — 5: M' om. sia — M' assegno —7:3/' quella — 3/ difesa —
8-10: M' che rimo con- ferma 7 inforfa la sua ragione.... fa debole — M-m
isforca — m la indebolisce — IS : m a quello med. — 13: M' assegna
ragione — 16: M 7 non convenia, m e non si convenia — 17: m 7 convenia
punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la sua madre — 21-22: M< sopra
confermamento dela ragione — 23: m om. Et — 24: M i ohe ragione, m nm. —
27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie.... l'altro pregio Poi che
Tullio aè dimostrato che è questione e ra- gione e giudicamento, sì dice
in questa parte che è fer- mamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto
ordinata- 5. , mente : che primieramente è questione intra Ile
parti sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui
che non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice ch'à fatto
bene o ragione, e di questo nasce la questione, cioè se esso à fatto
ragione o no. Apresso dice l'accusato 10. la cagione per la quale elli
avea ragione di fare ciò, e questa è appellata ragione. Et quando
l'accusato à detta la ragione, il suo adversario dice contra quella
ragione et indebolisce quello dove l'accusato ferma la ragione, e
questa è appellata giudicamento. 15 Fermamento. Poi che Ila
questione del giudicamento è nata, si conviene che ll'accusato tragga
innanzi i fermissimi argo- menti bene apposti contra il giudicamento.
Verbigrazia : Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella
avea morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise;
il suo adversario mettendolo in questione di giudicamento dice c'a llui
non si convenia ma ad altrui, e così indebo- lisce la sua ragione. 3. Or
conviene che Orestres dica ma- nifesti argomenti, e dice così. Tutto
altressì coni' ella 25. uccise il suo marito mio padre, così avea
ella conceputo d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea
ingenerate di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et
abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio la nostra
famiglia ». Ed in questi argomenti accoglie fermissima defensione della sua
ragione contra il giudicamento, e dice: « Perciò ch'ella fece così
disperato maleficio et 2: M-m ragione 7 ((iiestione (m nm.
7) — 3: M' s\ dicerà (mn S dico) — 5: M-m que- stioni — 6: M' sopralcuna
causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii om. ch'à
fatto bene ragione — 9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a ragione — H : M\
m* detto — i3;Jf fermava — i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo
trarre — 18: M» appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise —
SI: A/ niente dolo - S3: M' om. sua — JW i fermissimi argomenti — 29: M 7
dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/' 7 di questi La rubrica di M (clie di
regola seguo) ha qui ludicamento, certo per effetto della parola precedente.
avea pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al postutto
convenevole che Ili suoi propii figliuoli ne le dessero pena e non altri
>. Et questi sono fermissimi argomenti ne' quali dice che '1 fatto
della madre fue crudele, superbo e mali- 5. zioso. 4. Et nota che quel
fatto è appellato superbo il quale alcuno adopera centra' maggiori, sì
come quella fece ucci- dendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il
quale alcuno adopera contra' suoi, sì come quella fece contra la
sua famiglia. Et quello è malizioso fatto il quale è molto 10.
fuori d'uso, sì com'è contra naturale usanza ch'alcuna fe- mina uccida il
suo marito e figliuoli e distrugga un alto reame. 5. Onde questi
fermissimi argomenti e' quali l'ac- cusato mette davanti per confermare
le sue ragioni et incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è
ap- 15. pellato fei'mamento. In quale constiti izione
non à gindicamento. Et certo neil'altre constituzioni si truovano
giudicamenti a questo medesimo modo ; ma nella congetturale
constituzione, perciò che in essa non s'asegna ragione (acciò che '1
fatto non si concede) 20. non puote giudicamento nascere per dimostranza
di ragione; e però conviene che questione sia quel medesimo che
giudicamento: « fatto è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che al vero dire,
quante consti- tuzioni lor parti sono nella causa, conviene che vi si
truovino altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.
25. Lo sponitore. 1. In questa parte del testo dice Tullio
che, sì come per lui è stato detto davanti, così si possono trovare
giu- dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella consti-
tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn 30. adietro,
perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna 1 : Af' avea pensala
cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi lor- lissimi
argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon — m ohi.
è — 8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte — il : A/ un altro
— IS-i^-.M' om. et, 7» e contro allo — i7 : M' ì giudicamenti — 22: Mi se
facto e. no ~ quante questioni — 26 : m om. che — 28 : vi nella
questione (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna; ma in M' è
scritto qui e qual- che riga più sotto non assegna, mentre la grafia col
doppio n 6 frequente in M (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn abisogna).
ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giu-
dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea morto Aiaces.
Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel fatto che gli è apposto. Et
perciò non conviene che sopra '1 5. suo negare assegni alcuna ragione. Et
poi che nonn asegna ragione, il suo adversario nonn abisogna d'
indebolire la ragione dell'accusato. Dunque nonde puote nascere
giudi- camento ; e perciò conviene che in queste constituzioni
congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una 10. cosa: che là
ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes dice « Non uccisi », la
questione e '1 giudicamento fie sopi-a questo, cioè se ll'uccise o no. 3,
Poi dice CICERONE che quante constituzioni à una causa, altrettante v'à
questioni e ra- gioni e giudicamenti e fermamenti. Dell'altre parti della
causa. 75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da
consi- derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee
pur pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se
le parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente
congiungere 20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime
traghe quelle che sono da dire poi. Sponitore.
1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa et àe
inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro 25. insine a
questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la quale convegna che dica,
sì dee il buono parliere pensare con molta diligenzia e considerare nella
sua mente, anzi che cominci a dire, tutte le parti della sua causa
insieme e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che
4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8:
M-m om. e — 9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3:
M-m otn. v'à — 17: M-m e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om.
dicere — S che è da dire inprlma — 19: M-m om. in prima — M' tu le vuoigli
— M isforcatamonte, m sforfatamenie congiun- gnerle — 20: M' i raunaro —
M-m elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto il telo (tic)
— S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge in
prima) prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire poi,
senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo et il mezzo
dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole colla natura della causa
et in innanzi pensa che ssi con- venga dire davanti e che poi, certo la
comincianza fie tale che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine.
Tutto altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur
della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che Ilo cominci, e
de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza del drappo, e provedesi
di tutte cose che sono mistieri, e poi comincia e fae il drappo. Di VI
parti della diceria. Per la qual cosa, quando il giudicamento e quelli
argo- menti che bisognano di trovare al giudicamento saranno
diligente- 15. mente trovati secondo l'arte e trattati con cura e con
cogitatione, ancora sono da ordinare l'altre parti della diceria, le
quali pare a nnoi ai tutto che siano sei : Exordio, narrazione,
partigione, confer- mamento, riprensione e conclusione.
Sjtoììitore. 20 _ I. Poi che Tullio sufficientemente à dimostrato
la chiarezza delle cause et àe comandato che '1 buono parliere innanzi
pensi tutte le parti della causa per accordare il mezzo e la fine colla
comincianza del suo dire, si che sia l'una parola nata dell'altra, sì
dice esso medesimo che poi 25. che tutto questo eh' è fatto,(3) e
trovato il giudicamento della 1 : M' che sia da dire poi —4:
M' m om. in — 5 : M' la incomincianca, m il comin- ciamento — 6: M' che
nostera (corr. moslera), L mosterra, S mostra — 7: if ' in prima — 9-10:
M' anzi che cominci.... accio mestieri — m sono mestiere — 11: M^ i\ suo
drappo ordinatamente, L affare il s. d. ordinatamente — 14 : M^ che si
bisognano -17: M' che sono sei.... petitione invece di partigione — 20 :
M^ a sofficientemente dem. — S3: M' el Dne con la incomincianpa — M-m om.
sì — 24: M om. nata — 25: M^-L questo e facto (1) Tutti i codici
hanno 7 daver 7 davere, che può esser nato facilmente dall'aver preso il
de' per la preposizione di. Tanto il senso quanto la sintassi sa- rebbero
poco chiari leggendo e d'aver. (2) Preferisco la lezione di M
perchè non è probabile che la parola ordinata- mente, che si trovava in
evidenza in fine al discorso, sia sfuggita al copista. Forse l'aggiunta
If' (L) fu determinata AaW ordinatamente di poche righe prima. (3)
Cioè " dopo che tutto questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p.
20, n. 2, p. 21, n. 1 e qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si
spiegano con quelle di M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi
bisogna secondo i comandamenti di ret- torica (i quali si convengono
trattare con molto studio e con grande deliberazione) ; anco sopra tutto
questo si con- vengojio pensare l'altre parti della diceria, delle quali
non 5. è detto neente, e sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà
il libro interamente. Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto
inn adietro. Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più
innanzi, piace allo sponitore di pregare il suo porto, per cui amere è
composto il presente libro non sanza grande afanno di spirito, che '1 suo
intendimento sia chiaro e lo 'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente
a intendere le parole che son dette inn adietro e quelle che
seguitano per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto
e 15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è
lu- miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra
controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in tendone, et
insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e per mettere exempli dice
sovente dell'accusato e dell' ac- 20. cusatore, penserebbe per
aventura un grosso intenditore che Tullio parlasse delle piatora che sono
in corte, e non d'altro. 4. Ma ben conosce lo sponitore che '1 suo
amico è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la
propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten- 25. gono
a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna dire
appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora
né pur tra accusato et accusatore, ma é sopra l'altre vicende, sì coinè
di sapere dire inn amba- sciarie et in consigli de' signori e delle
comunanze et in 30. sapere componere una lettera bene dittata. 5.
Et se Tullio dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni
e questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee
pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le 1: M'
Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m aiicir — 4 : m
le IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti —
iO: m questo libro — i3: m mii. clie son — M' seguiranno — i4: in per lo
innanzi — i8: vi insegni — o»n. o dinanzi a per — i9:m exenpro — 20: M-vi
7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m ha bene — 24-2.^: Af si
pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M' ap- postamento —
M' in sapere — 2M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle co- munanze —
31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e l'ermamento — m ohi. si
— 99 - genti insieme di diverse materie, nelle quali
adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo modo
e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ; e r uno appone e
l'altro difende, e perciò quelli che appone 5. contra l'alti-o è
appellato accusatore e quelli che difende èe appellato accusato, e quello
sopra che contendono è ap- pellata causa. Onde se l’uno appone e l'altro
niega, al postutto di questo non puote nascere questione se non di
sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no. Ma quando
l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa incominciata et ordinata tra
lloro. Et questo è la constituzione della quale nasce la questione, cioè se Ila
sua difesa è a ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a
llui per confermare le sue parole e per indebolire quelle del'altro, sì
come appare per adietro nel trattato della questione e della ragione e del
giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come
dicono li exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in corte
della morte di sua madre ; ma le genti ne contendeano intra loro, che 11' uno
dicea che non avea fatto né bene né ragione, e questo è appellato
accusatore, un altro dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto
bene e ragione, e questo è appellato nel libro accusato. De
consiglieri. Così aviene intra' consiglieiù de' signori e delle comunanze,
che poi che sono aserablati per consigliare sopra alcuna vicenda, cioè
sopra alcuna causa la quale è messa e proposta davanti loro, all'uno pare
una cosa et all'altro pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione
della causa, 30. cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di
ciò nasce questione s' elli à ben consigliato o no. Et questo è
quello che Tullio appella questione. 9. Et perciò l' uno, poi
ch'elli àe detto e consigliato quello che llui ne pare, immante-
2 : M ndicc — M' di.cela — m in suo modo ~ 3 : M' in contentione ~
4: M n lalti-o appone, m laltio appone — M-m quel — 6: M quello che, m
quello di che — 7-9: m om. al postutto.... che nioga — M che quella cosa
— M' selgli la facta — il : m cominciata — M' intra loro 7 questa — 13:
M-m è ragione - 16: M om. il 1" e 3° e, hì il 1" e S° - 20 : m
tralloro — dicea chelli — 21 : m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene
- mi tra cons. — 27: M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa
et — 30: M' lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato — m che allui nente assegna la
ragione per la quale il suo consiglio èe buono e diritto. Et questo è
quello che Tullio appella ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la
cagione e la ra- gione per che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno
consigliasse o facesse il contrario come sarebbe male e non diritto ; e
così infievolisce la partita che è contra il suo consiglio; e questo è
quello che CICERONE lappella GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la
contraria parte, sì raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti
ragioni 10. che puote trovare per più indebolire l'altra parte e
per confermare la sua ragione ; e questo è quello che Tullio
appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti, cioè questione,
ragione, giudicamento e fermamento, possono essere tutte nella diceria
dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et
puote bene essere la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla
questione, dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra
ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il suo parere et
assegnando ragione per che. Et puote bene essere pur di tre, cioè dicendo
il suo parere et assegnando ragione per che et indebolendo la contraria
parte. Et puote essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di
sopra. 13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à
consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva 25. un
altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto colui davanti ;
e così è fatta la constituzione, cioè la causa ordinata, e cominciata la
tenciouB ; e sopra i loro detti, che sono varii e diversi, nasce
questione, se colui avea bene consigliato o no. Poi dimostra la ragione
perchè il suo 30. consiglio è migliore. Apresso indebolisce il
detto e '1 con- siglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui ; e poi
ricon- ferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che
può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti possono essere nel
detto del primo parliere e nel detto 35. del secondo e di ciascuno
parlamentare. 14. Cosie usata- 3-4: M' la ragione 7 la
cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m la parie — 8:m om Et -
i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno — y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om.
cioè pur — 17: m pero — M' altre ragioni — 18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in
suo parere as- sengnanJo perche — SO: M' il suo pare — 21 : M^ la
contraria partita - SS: m di tulli e q. — 25-26: Jlf' tutto il contrario
di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione — m la tencionc sopra —
S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu — 3/' il suo
consiglio — 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che vuole
parlamentare mente adviene che due persone si tramettono lettere l'
uno all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o inn
altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così fanno tencione.
Altressi uno amante chiamando merzè alla sua donna dice parole e ragioni
molte, et ella si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et
indebolisce quelle del pregatore. In questi et in molti altri exempli si
puote assai bene intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure ad
insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che neuno possa buono
advocato essere né perfetto (2) se non favella secondo l'arte di
rettorica. 15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto
inn adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che sono in
tencione et in contraversia tra alcune persone, le 15. quali contendano
insieme 1' uno incontra l'altro; e potrebbe alcuno dicere che molte fiate
uno manda lettera ad altro nela quale non pare che tendoni centra lui
(altressi come uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua
donna, nella quale non à tencione alcuna intra llui e la donna), é
di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo sponitore
medesimo di ciò che non dessero insegnamento sopra ciò, maximamente a
dittare lettere, le quali si co- stumano e bisognano più sovente et a più
genti, che non fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi
volesse bene considerare la propietà d'una lettera o d'una can-
zone, ben potrebbe apertamente vedere che colui che Ila fa o che Ila
manda intende ad alcuna cosa che vuole che 1: m adiviene - 3: M^
om. o inn altro ~ 6: m slorza — 7 : m i molti — 9: m in insegnare - M'
piatire — 10: M-m neuno buono advocato possa essere perfetto— 11: M della
rectorica — 13 : «i intorno a (pielle — 15 : m chontendono — M' conlra.... 7
parebbo — 16: Mi molte volte manda Inno lectere alaltro, m molto volte
uno manda lettere a un altro (ma ambedue nela (piale) — 17 : M che
contenda tencioni — 18: 1/' per amore, fa e, L uno che ama per amore fa
e. — 19: m tra lui — 23: M-m om. et — 24: m traile genti
(1) Le parole inn altro, che sembrano inutili, non possono essere
un'ag- giunta di copisti, ai quali invece doveva venir fatto di
ometterle, come in M* e in i.Dando a volgare il senso limitato di volgare
italico, si intende l'altro per gli altri linguaggi, specialmente il
provenzale e il francese. Brunetto vuol dire che la rettorica di CICERONE
non serve solo ai legisti, quantunque nessuno possa divenire valente
avvocato, e tanto meno perfetto, senza averla studiata. Questa è l'idea
espressa dalla lezione di ilf • ; con quella di M-m, più semplice a prima
vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto sia fatta per colui
a cui e' la manda. Et questo i)uote essere o pregando o domandando o
comandando o minac- ciando o confortando o consigliando ; e in ciascuno
di questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone 5. o
negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che manda la sua lettera
guernisce di parole ornate e piene di sentenzia e di fermi argomenti, sì
come crede poter muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli
avesse alcuna scusa, come la possa indebolire o instornare in tutto.
Dunque è una tendone tacita intra loro, e così sono quasi tutte le
lettere e canzoni d'amore in modo di ten- done o tacita o espressa ; e se
cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro,
che non sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no tencione che
sia, CICERONE medesimo, luogo innanzi, isforza i suoi insegnamenti in
parlare et in dittare secondo la rettorica ; e là dove Tullio sine
pasasse o paresse che dica pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo
sponitore isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intende-
20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l' una materia
e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire di quelle partite
della diceria o d'una lettera dittata, delle quali non avea detto neente
in adietro: e queste parti sono sei, sì come apare in questo
arbore. I e. 2 ^'Olii' /^M/
25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente
che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in
i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3: M-m o in — 6:
Jf' manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M tucto
lelcrre, m tutte lettere o clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e
tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. - 14-15: M' o di tenciono
o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M' IH secondo
rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'
m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il'
pare in ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3»
Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7 nella pistola (ma c/r. l.
22) quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto
dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra parte di
questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle cause le quali sono in
contraversia et in tencione. Et ben . dice tutto a certo che Ile parole
che non si dicono per tencione d'una parte incontra un'altra non sono per
forma né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè
la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere,
anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella
et é udito colui che tace e di lontana terra dimanda et acquista la
grazia, la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose
mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe dire a lingua in
presenzia; sì dirae lo sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della
sua medesima in quella parte di rettorica ch'apartene a dittare, si come
promise al co- minciamento di questo libro. 20. Et dice che dittare é
un dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convene volemente
aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del dittare, e perciò
conviene intendere ciascuna parola d'essa diffinizione. Unde nota che
dice « dritto trattamento » perciò che Ile parole che ssi mettono inn una
lettera dit- tata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il
nome col verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino,
e lo singulare e '1 plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e
l'altre cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo
sponitore dirà un poco in quella parte del libro che fie i)iù
avenente; e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti
di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat- 30.
tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita di parole
avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze; et anche questo ornato si
richiede in tutte le i)arti di ret- torica, sì come fue detto inn adietro
sopra '1 testo di Tullio. 22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa »
perciò che, 35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire
puote 1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e
tencione. Et dico — 5-6: M' non sodono — m om. per te.ncione — a un altro
— 8 : M'de tencione — iO : M' 7 ae udito —il: M' om. la grazia — 12-13: M
la gra — M' sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura — Mi non, ma L
e non — 14: m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto- rica —
19: M-m aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m
adietro, M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col
leminino — 3/' el plurale el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in
tutte parti — 33 : M-m nel lesto — 34 : m om. Et — 35 : m si puote
essere materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla
sentenzia di CICERONE, che dice che Ila materia del parliere non è se non
in tre cose, ciò sono dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et dice «
convenevolemente aconcio a quella cosa » perciò che conviene al dittatore
asettare le parole sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore
dicere parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle
non fossero aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit- tatore da
cciò che dice Tullio; e perciò di queste due 10. materie, cioè del
dire e del dittare, e dello 'nsegnamento dell'uno e dell'altro potrà
l'amico dello sponitore prendere la dritta via. Et per questo divisamento
conviene che Ile parti della pistola si divisino da queste della diceria
che Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narrazione,
partizione, conferm amento, riprensione e conclusione. 24. 1. E oppinione
di Tullio che exordio sia la prima parte della diceria, il quale
apparecchia l'animo dell' uditore a l'altre parole che rimagnono a dire,
e questo è appellato prologo della gente. //. Et dice che narrazione è
quella 20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che
sono essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e
questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso ferma la forma della
sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e contato il
fatto et 25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella
dell'aversario e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in
questo modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi
contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ; et allora
pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et 30. dice che
confermamento è quella parte della diceria nella quale il parlieri reca
argomenti et assegna ragioni per le quali agiugne fede et altoritade alla
sua causa. F. Et dice che riprensione (1) è quella parte della diceria
nella quale il 5: Mi agoisare — 6: m om. Et — 7 : M' non
varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da ciò — 10: Jf maniere — i3: M^ da
quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op- pinione di Tulio e — M
exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M is- sate — 22: M 1
quando — M^ m l'uomo — om. esso 23 M'
forma la sua diceria — 25 : M' edesso viene partendo, m e viene
ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?), m e ficliale, M' 7
afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto - 30 : M' con-
fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella (1) Non esito a
scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri luoghi, che
corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da reprensione a responsione
è facilissimo attraverso un repensione. I)arliere reca
cagioni e ragioni et argomenti per li quali attuta e menoma et
indebolisce il confermamento dell'aver- sario. VI. Et dice che
conclusione è Ila fine e '1 termine di tutta la diceria. 25. Queste sono
le sei parti che dice 5. Tullio che sono e debbono essere nella diceria;
e di cia- scuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma
in questo eh' è detto puote uomo bene intendere che queste sei
medesime possono convenire inn una pistola, di tal ma- teria puote ella
essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia 10. sia, nelle tre di
queste sei parti s'accorda bene la pistola colla diceria, cioè nello
exordio, narrazione e nella con- clusione; ma ll'altre tre, cioè
partigione, confermamento e reprensione, possono più lievemente rimanere
e non avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe V parti,
delle quali l'una può bene rimanere e non avere luogo nella diceria, cioè
«salutatio»; l'autra, cioè «petitio», avegnachè Tulio no Ila nominasse in
tra Ile parti della diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera
ch'ap- pena pare che diceria possa essere sanza petizione. Dunque
20. le parti della pistola sono cinque, ciò sono salutazione,
exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come ap- pare in questo
arbore : 26. Et se alcuno domandasse per qual cagione
Tullio in- tralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro,
certo 25. lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo.
Certa cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi
l-S: m ragioni 7 cagioni — Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per
li ifiiali allassa - M-m il fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m
Questo.... che Tulio dico che debbono essere — 6 : M' m illibro qua
innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m che tutte 7 queste sei — 8-9
: M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de ([ualunque — li : 3f' in exordio
— M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e soitiiuisce di\hione rt partigione
M salta dal lo al 2" aver luogo — 22: M' pare 'in questo albero —
24: ilf intrallassò, m lasciò — 25: Af' ne renda, L ne rende - 26: M^
cliellibro di Tulio tracia — 106 - fanno in
presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!) il nome del parlieri né
dell' uditore. Ma nella pistola bisogna di mettere le nomora del mandante
e del ricevente, c'altri- mente non si puote sapere a certo né l'uno né
l'altro. Apresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio ;
che sanza fallo chi saluta altrui 'per lettera già pare che co-
minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio com- piutamente, non
curò di divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le
saluti, maximamente perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare
et in controversia tencionando. Et in perciò furo alcuni che diceano che
Ila salutazione non era parte della pistolaj ma era un titolo fuor del
fatto. Et io dico che la salu- tazione è porta della pistola, la quale
ordinatamente chiarisce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione
del mandante. Et nota che dice « porta, cioè entrata della pistola,
e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e del ricevente; e dice i
meriti delle persone, cioè il grado e l'ordine suo, sì come a dire:
Innocenzio papa, Federigo Imperadore, Acchilles cavaliere, Oddofredi
Judice, e cosi dell'altre gradora. Et dice « ordinata- mente », cioè che
mette il nome e '1 grado di ciascuno come s'a viene; e dice «l'affezione
del mandante», cioè com'elli manda al ricevente salute o altra parola di
bene, o per 25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè
secondo la sua volontade. 28. Adunque pare manifestamente che Ila
salutazione è così parte della pistola come l' occhio del- l' uomo. Et se
l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione é
nobile parte della pistola, c'altressi 30. allumina tutta la
lettera come l'occhio allumina l'uomo. Et al ver dire, la pistola nella
quale non à salutazione è altrettale come la casa che non à porta né
entrata e come '1 1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome
del dicitore — M-m bisogna mettere - M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m
om. 7 del ricevente — M-m 7 altrimente — 4: M' non si porrebbe — 7-9: M-m
om. dello exordio — non curo divisare salutalione 7 distemdere - ìli
intorno alle salutationi — 10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie
saluta- lione — 15: m e mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01».
cioè — S3 : M' om. di — 24 : M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om.
secondo la sua afTezione cioè — 26: M' parte (ma t espunto) — 28 : M 3/'
om. dell'uomo, m om. del corpo (A completo) — 29: iW' e la salutatione n.
p. — m e altres'i — 32 : il/' ne jiorta (1) La lezione bisogna
contare darebbe piuttosto il senso di « conviene dire », mentre qui si
richiede un «c'è bisogno di dire». - Itì7 -
corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che
salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s' in- chiude W
e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la soprascritta di fuori,
la quale dice a cui sia data la lettera. Ben dico c'alcuna volta il
mandante non scrive la salu- tazione, o per celare le persone se Ila
lettera pervenisse ad altrui o per alcun' altra cosa o cagione. (2) Né
non dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per desiderio
d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole che 10.
portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur salute. Et a'
maggiori non dee uomo mandare salute, ma altre parole che significhino
reverenzia e devozione; e tal- volta no scrivemo a' nemici altro che Ile
nomora e tacemo la salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola
che 15. significa indegnamento o conforto di ben fare o altra
cosa; sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad altri uomini
che non sono della nostra catholica fede o a' nemici della Santa Chiesa
tace la salute, e talvolta mette in quel luogo spirito di più sano
consiglio o connoscere la via della veritade o ahundare inn opera di
pietade et altre simili cose. Adunque provedere dee il buono dittatore
che, si- milemente come saluta l'uno uomo l'antro trovandolo in
persona, così il dee salutare in lettera mettendo et ador- nando parole secondo
che la condizione del ricevente richiede. Che quando uomo va davante a messer
lo papa o davante ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o
seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la testa, et alla
fiata si mette in terra ginocchioni per basciare 2-3: M'
anche — M-ìn si richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5 •m iscrive salu-
tatione — 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna cagione — Mo per cagione
dalcunaltra cosa cagione ; m id., ma oiii. cagione — 8-9 : M^-L ma ora per
d. d'a. or (ina L 0) per s. si man- dano, M-m per solazzo di loro si
mandano — il: M' a maggiore — M-m non debbono - 12: M* che significanza
abbiano di revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non scrivemo — M-m 7
per aventura —16: M-m il papa scrivendo... om. altri —19: M-m di
chonnoscere — M' conoscere via de veritade— 20: M' opere (mai opera) —
om. altre — 21 il/' dee prevedere —
22 M' un huomo un altro— ^ó:ni
Quando luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a lom-
j)eradore — 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M'
ginocohione in terra (1) S'inchiude è più esatto di si
richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre altre volte: cfr. p. 37, n.
1. (2) In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha
accomodato di suo, perchè la parola cagione come finale è confermata da
M'; forse 1' errore nacque dall'avere scritto subito pei- cagione e voler
poi rimediare. (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo
davvero di avere indo- vinato; potrebbe anche mancare qualche
parola. il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo
dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade coij parole di sua
onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee nominare sé medesimo e la sua
dignitade, e poi dee scri- 5. vere la sua affezione, cioè quello che
desidera che venga a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro
che sia avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di
quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al man- dante et al ricevente.
31. Che quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di
minore grado, noi dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti
alle persone et allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia detto
che '1 nome del maggiore si de' mettere dinanzi e del pare altressì, io
oe ben veduto alcuna fiata che grandi 15. principi e signori scrivendo a
mercatanti o ad altri minori , mettono dinanzi il nome di colui a cui
mandano, e questo è contra l'arte ; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade.
Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la saluta- zione
avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa me- 20. desima
conquisti la grazia e la benivoglienza del ricevente, sì come noi
dimostramo avanti secondo la rettorica di CICERONE. Et bene è questa
materia sopr'alla quale lo sponitore po- trebbe lungamente dire e non
sanza grande utilitade. Ma considerando che Ila subtilitade perché '1
verbo non si mette 25. nella salutazione, e che "1 nome del mandante
si mette in terza persona per significamento di maggiore umilitade,
e che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del nome, par che
tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n VOLGARE, sene passex'à lo
sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre
parti della diceria e di quelle della pistola, sì come porta l'ordine. Et
in questo luogo si parte il conto della salutazione, e dirà dell' exordio
in due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e che
i : M' y allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale di — m aggiunge
di reve- renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m oirectione — ([nella — 7
: m tuttavia — M' guani ino clic l'airectione — 9-10: M' ali maggiori —
M-m ili nostro .grado — i2: M' alloro slato — M-m om. ch'io abbia dolio —
i3: in il nome — M' si debbia — 13-16: m sengnori — M-m scrivono -- m e
mellone — M' elgli mandano — 17: Af-w por sognile — 18: mom. et adveduto
— 19: M' dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e — 21-SS: il/' dimoslor-
remo, m dimostraiiio davanti — Af' m Et bene cpiesta — 24: JZ-m uhella
subtitade, A/' che sotti! itude — 23: M<- in salutalione 7 perche!
nome — 26: M-m utilitade — 27: M' 7 per- che.... pur una lederà — m la
prima — 28: m om. in Ialino — 31-32: L Et in questa parte — ilf' dala
salutalione — 33: M' om. ci6 — 109 - pare che
ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi con- viene ad una lettera
dittata et ad una medesima diceria, oltre quello che porta il testo di
Tullio. Exordio. 5. 77. Et perciò che exordio dee
essere principe di tutti, e noi primieramente daremo insegnamenti
in fare exordio. Vogliendo CICERONE trattare dell' exordio prima che
dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre 10.
parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che ssi mette e si
dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che nel exordio pare che
noi aconciamo et apparecchiamo r animo dell' uditore ad intendere tutto
ciò che noi vo- lemo dire di poi. 15. Dell' exordio.
78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista convene- volemente
1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a dire ; la qual cosa
averrà se farà l' uditore benivolo, intento e docile. Per la qual cosa
chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui 20. conviene diligentemente
procedere e conoscere davanti la qualitade della causa. Lo
sponitore. 1. Poi che Tullio avea contate le parti della
diceria, sì vuole in questa parte trattare di ciascuna per se
divi- 25. satamente, e prima dello exordio, del quale tratta in
questo 2 : Af' e la diceria medesima — 3: m oltre a quello —
5 : M-mom.e — 6: M' oxordii — iO: m nm. tutte — M-m certo e (m a)
ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M' luna pei che, m luna che —
M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die noi poi volerne diro — M'
dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito) M' converrà — om. procedere e
— 24 : M' divisamente, ma L divisatamente Questa lezione è
quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque è ragione di
M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione; la
variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de ragione (=
se- condo ragione). - no - modo:
Primieramente dice che è exordio, mostrando che tre cose dovemo noi lare
nell'exordio, cioè fare che 11' udi- tore davanti cui noi dicemo sia
inver noi benivolente et intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et
perciò ne 5. conviene connoscere la qualitade del convenente sopra
'1 quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo divide
l'exordio in due parti, cioè principio et « insinuatio », e mo- strane in
qual convenentre noi dovemo usare principio et in quale « insinuatio ».
3. Nel terzo luogo ne fa intendere 10. donde noi potemo trarre le
ragioni per acquistare beni- voglienza et intenzione e docilitade, e come
noi dovemo queste tre usare in quello exordio eh' è appellato
principio e come in quello eh' è appellato « insinuatio ». 4. Nel
quarto luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice
15. che exordio è uno adornamento di parole le quali il par- lieri
e '1 dittatore propone davanti nel cominciamento del suo dire in maniera
di prolago, per lo quale si sforza di dire e di fare sì che l'uditore sia
benivolo verso lui, cioè che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e
procacciasi di dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al
suo detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che l’uditore sia
docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle parole. 6. Et perciò
dico che immantenente che 11' uditore è docile sicché voglia intendere e
connoscere la natura 25. del fatto e la forza delle parole, sì è
elli intento ; ma perchè l' uditore sia intento a udire, puote bene
essere che non sia docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà
il conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 par- liere
che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente 30.
ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire alle tre cose che
sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore sia benivolo, intento e
docile, si dicei'à Tullio quante e quali sono le generazioni delle cause,
in questo modo: 1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 : m liiditore
sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco a quello ecc. — 4-5: m ci
conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna, L insegna dove —
JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i parlieri, M'
il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. —
procliac- cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22
: il/' ciò che imprenda — «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle
i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre — 28-29: M' vorrà suo luogo
— chel dicitore — 7 di che ìnjj. - Ili -
Qualitadi delle cause. 79. Le qualitadi delle cause sono
cinque: onesto, mirabile vile, dubitoso et oscuro.
Sponitore. 5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le
qualitadi delle cause, cioè di quante generazioni sono le
dicerie. Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che
esso medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e le
qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale, 10. et
or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du- bitoso et
oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono qualitadi substanziali
sie incarnate alhi causa che non si possono variare. Onde quella causa
eh' è deliberativa non puote essere non deliberativa, e quella eh' è
dimostrativa 15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico
della iudi- ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere
non onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile, e
così dico della vile e della dubbiosa e della oscura. Adunque sono queste
qualitadi accidentali che possono 20. essere e non essere; ma le
prime tre sono substanziali che non si possono mutare.
Dell'onesta. 80. Onesta qualitade di causa è quella la quale
incontanente, sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.
25. Lo sponitore. I. Quella causa è onesta sopr'alla quale
dicendo parole, immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore
si muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice
sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa-
3: M' dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li
generi — 10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M'
puole — 13-14: M-m ml- lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere
dimostrativa — 17 : L bone essere bene non mir. — 19: M-m om. queste —
23: M incontenenlo — 27: M-m mantenente iole per acquistare
la benivoglienza dell'uditore, perciò che ll'onestade della causa l'à già
acquistata per sua di- gnitade, sì come nella causa di colui che accusa
il furo o che difende il padre o l'orfano o le vedove o le
chiese. Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui che
de' audìre. Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale 10.
convenente che dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza e di crudele
operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è centra noi et è straniato
dalla nostra parte; et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì
che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo
padre 15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che
una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta dall'una parte,
cioè di colui che difende il suo padre, mi- rabile dall'altra parte, cioè
di colui medesimo che è coutra la sua madre propia. E di questo uno
exemplo si puote 20. intendere tutti i somiglianti. Vile è quello
del quale non cura l'uditore e non pare che sia da mettere grande opera a
intendere. Lo sponitore. 25. 1. Quella causa è
appellata vile la quale è di picciolo convenente, sì che non pare
che ne sia molto da curare e l'uditore non sine travaglia molto ad
intendere, sì come la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di poco
valere. Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che
30. ir uditore sia intento alle nostre parole. 1: M'
om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna — 14:
M-m om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a l'atto —
19: M\a sua iiropria madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si maraviglia —
28: hi di jioclio valoro, Jt/' de piccolo valoro — 89: Mi nm. di l'are si
Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia o la causa è In
parte onesta et In parte è sozza e disonesta, sicché Ingenera
benlvolenzla e offenslone. Quella causa è appellata dubitosa nella quale
l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che sentenzia
alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes che dicea ch'avea morta la
sua madi e giustamente per due 10. ragioni : 1' una perciò ch'ella
avea morto il suo padre, l'altra perciò che '1 deo APOLLO glile comandò.
Onde l'uditore non è certo la quale di queste due cagioni cagia in
sentenzia. Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte
d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di diso- 15
nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella causa de filio: O
d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo figliuolo si sforzava (ii
difenderlo in tutte guise. Certo la causa era onesta quanto in difender
lo padre, ma era diso- nesta quanto in difendere lo furo. 20.
Dell'oscuro. 84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o
per aventura la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a
conoscere. Dice CICERONE che quella causa è appellata oscura nella
25. quale l'uditore è tardo, cioè che non intende ciò che portano
le parole del dicitore sì bene ne sì tosto come si conviene,
perciò che non è forse ben savio o forse eh' è fatigato per
2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte socca — 4: M-m o offensione — 7-8:
M' o in clie sententia torni ala fino 10: m il suo marito — li: M chel
deo apellollil, m chello lio appello il, M^-L che dio appello glile
comando — 13: M' quella parte dove parte — 16: M do fili?, *i demi?, Mi-L
dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~ 17 : m s\ sforza — 19:
M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26: 3f-»i portava — del
dicta- tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om. il
1" forse — M-m 7 forse - faligata (1) L'abbreviatura insolita
ài M e m porta a supporre una formula giuridica latina, quantunque tale
abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de filio (la lezione di
M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si nasconde qualche nome
proprio? li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per
aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che sono oscure e
malagevoli ad intendere. Della divisione dell' exordio.
5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto diverse,
sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in
ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in due
parti, ciò sono principio et « insinuatio ». Lo sponitore.
10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le quali-
tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque modi
sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è accordante all'altro, sì
conviene che in ciascuna qualità di cause et in catuno de' detti cinque
modi abbia suo modo 15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla
qualitade so- pr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et
vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che exordio è di due
maniere : una eh' è appellata principio et un'altra ch'jè appellata «
insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli 20. interamente. E così
dovemo e potemo sapere che le cause sopra le quali dice alcuno parlieri o
sopra le quali scrive alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto,
mirabile, vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et
sopra tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè
25. principio et « insinuatio ». Principio è un detto il quale
apertamente et in poche parole fa l'uditore benivolo o docile o
intento. Quella maniera de exordio è appellata principio
quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente alla
1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi, dispari — 7:m di
cose — 8:M' cioè principio 7 insiniiatione (sempre) — / i : m dolio cose
— M' dele qualitadi sono tante divei-se -- Melo che sono— 13: M'
coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò — 18-19: m una
che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un
altro che apellnlo ins.,7 di ciascuno — 21 : vi .ilchimo parlinre dice —
M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» — 22: M-m honesta - 23: M* jiare —
31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m incontenonte
comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno
infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa l'animo
dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa, o talora il fa docile o
intento, si come fece Pompeio par- 5. landò a' Romani sopra '1 convenente
della guerra con Julio Cesare, che fece tale exordio : « Perciò che noi
avemo il diritto dalla ifostra parte e combattemo per difendere la
nostra ragione e del nostro comune, si dovemo noi avere sicura spei'anza
che li dii saranno in nostro adiuto ». Dell' insinuatio. Insinuatio è un
detto il quale, con infingimento parlando dintorno, covertamente entra nell’animo
dell'uditore. CICERONE dice che quella maniera de exordio è apellata
« insinuatio » quando il parlieri o '1 dittatore fa dinanzi un lungo
prolago di parole coverte, infingendo di volere ciò che non vuole, o di
non volere quello che dee volere, e così va dintorno con molte parole per
sorprendere l'animo dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento;
sì come disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona
in gravosi tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi traeste di
tante pene ; oimai non dimando se non la morte, ma grandissimi tesauri
avrei dato a chi m' avesse scam- pato ». Et in questo modo covertamente
s'infingea di non 25. volere quello che volea, per venire in animo
di loro che Ilo scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et
cosie à divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»;
omai dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare in
ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto, 30. nel
vile, nel mirabile, nel dubitoso e nell' oscuro. i: M'
alancomincianza — m sanza alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente, m
benivolo — M^ o ala sua causa : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del
convenente, — cotale — 9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i
parlieri, M' il parliere — M o dictatore — 17 : m quello che non vuole —
iW' in (juello che vuole — 20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti
— 2S: M' oggimai non domando io — 23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco
domandare — 27: M' a divisatoli maestro — 28 : M-m (|uali — M' noi dovemo
— 29: M' de cause, M in ciascuno di delle causo, m in ciascheduna delle
chause (1) Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo
punto alla fine son molto frequenti, rimando al mio studio su La
«Rettorica» italiana di Brunetto Latini pp. 35-50; ivi son ricercate e
discusse le fonti di questi esempii, e così riesce anche piti facile
rendersi conto della costituzione del testo. Della mirabile.
88. Nella mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse al
tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per
principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi, allora
5. ne conviene rifuggire a « insinuatio », in però che volere così
isbri- gatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non
solamente non si truova, ma cresce et infiamasi l'odio. Lo
sponitore. 1. Inn adietro è bene detto che quella causa è
appel- lo, lata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare
che dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio CICERONE che quando
la nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che
Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora potemo noi
acquistare la sua benivolenza per quel modo 15. de exordio eh' è
appellato principio, cioè dicendo un breve prologo in parole aperte e
poche. 2. Ma se 11' uditore fosse adiroso e curicciato contra noi
malamente, certo in quel caso ne conviene ritornare ad altro modo de
exordio, cioè « insi- nuatio », e fare un bel prologo di parole infinte e
coverte, 20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo et acquistare
la sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver dire,
quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acqui- stare da
llui pace così subitamente per poche et aperte parole dicendo il fatto
tutto fuori, certo non la troverebbe, 25. ma crescerebbe l' ira et
infiamerebbe l' odio ; e perciò dee andare dintorno et entrarli sotto
covertamente. Della causa vile. 89. Nella causa la
quale è di vile convenente, per cagione di trarrela di vilanza e di dispetto,
ne conviene fare l'uditore intento. S : M-m Della mirabile — ?» e
solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se troppo fosse crucciato
— 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi —
9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta — 13: m crucciato — 14: M'
potremo (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 : M' iroso 7 crucciato
verso noi, m adirato contra noi molto, — 18: m tornarne — M alaltro modo
—19: M-m nni. fare — converte — M iulì- nito — 20: M' otii. la — SS: M^
cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie )iaroIo 7 aperte — S6: M-m
darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto
coverta — S8 : M e diviene convenente m udiviene e. — S9 : M' trarla de
viltanca 7 de dispregio Quando la nostra causa ella è vile, cioè di
piccolo convenente sicché l' uditore poco cura d' intendere, allora
ne conviene usare principio et in esso fare che 11' uditore 5. sia
intento alle nostre parole; e questo potenio ben fare traendola di
viltanza e facciendola grande et innalzandola, sì come fece Virgilio
volendo trattare de l'api: «Io dicerò cose molto meravigliose e grandi
delle picciole api ». Della dubbiosa qualità. Nella dubbiosa
qualità di causa, se Ila sentenza è dubbia si conviene incominciare
l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se Ila causa è in parte onesta e
in parte disonesta si conviene acqui- stare benivolenzia, sicché paia che
tutta la causa ritorni in onesta qualitade. La causa dubitosa, si
come fue detto in adietro, èe in due maniere: 1' una che Ila sentenzia è
dubbia, sì come apare nelF exemplo d' Orestes, che per due ragioni e
cagioni dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel
caso 20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella
ragione dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-
vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma se '1
convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto et in parte
disonesto, in quello caso dee il buono parlieri neir exordio acquistare la benivolenzia dell'
uditore per principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta. 2:
M' m om. ella — m cioè di vile convenente 7 di picciolo — ,9: 3f'
-Ldelontendere — 4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare... atento — 6: m
vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. — 7 : m tràre — 8: M' om. molto
— iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 : M-in om. è in parte
onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m cliella causa — hi
dub- biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni — m om. 7 cagioni —
19-20 : m in questo dovea elli com. — 21 : M' la (juale — 22: M-m 7 per
qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede davere — 23: m om. sia — M'-L
honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio benivolenca
daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia (1) Cioè «
fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa. L'oscurità
della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'. La causa
onesta. Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo prin-
cipio, 0, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o dalla
legge, o d' alcuna fermissima ragione della nostra diceria. 5. A\a se ne
piace usare principio, dovemo usare le parti di benivo- glienza per
accrescere quella che è. Quando il conveniente sopra '1 quale ne conviene
dire è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi
la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò
quando noi venimo a dire noi potemo bene intralasciare lo principio e non
fare neuno exordio né prolago di parole, e cominciare la nostra diceria
alla nar- razione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare
da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella ragione che sia
più fermo argomento e più certo. Ma se nne piace usare ijrincipio e fare
alcuno prologo, certo noi lo potemo bene, non per acquistare benivolenza
ma per crescere quella che v' è. Et perciò in detto caso il nostro
20. principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.
Della causa ohscura. (e.
XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel nostro principio noi
facciamo che ir uditore sia docile. Lo sponitore. 25.
1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia oscura. Et
perciò dice Tullio che nella causa la quale sia 2 : M' m tia
— 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo — M o
alcuna, )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw paro, m non paro — 6 : il/i
om. che h - 9: M-m nm. certo - facto pro])io — iO: M-m sanja molto
ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi doviamo a dire, m noi doviamo diro —
i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin- ciare ~ M' 1 cominciare do
quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la (jualo sia — 18: M'
ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25: M' mostrato (|ualo
causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la quale e (Cioè
«quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro a
dire, e con questo si escludo la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo
dire) come evidente accomodamento di M. oscura all' uditore a
intendere noi dovemo usare quella parte de exoi'dio la quale è appellata
principio, et in quello dovemo noi si dire che 11' uditore sia docile,
cioè ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que-
5. sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente la sustanzia del
fatto dell' una parte e dell' altra. Et poi che noi vedremo che U'
uditore sia apparecchiato in via d' intendere (1) il fatto, noi andremo
innanzi a dire la nostra ragione sì come si conviene al fatto.
10. Le ragioni delle cose. 93. Et perciò che infìn ad ora noi
avemo detto che ssi con- viene fare nell' exordio, oimai rimane a
dimostrare per quali ra- gioni ciascuna cosa si possa fare.
Sponito7-e. Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò
che ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli
àe detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare parole
per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui in- nanzi mostrare le
ragioni come si puote ciò fare ; e questo 20. insegnamento fa bene
di sapere. De' quattro luoghi della temperanza. 94.
Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra persona, da
quella de' nostri adversarii, da quella dell! giudici e dalla
causa. Lo sponitore. In questa parte insegna CICERONE acquistare
benivo- lenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per
quello che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì dice che
quattro luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp
i: if-»» om. all'uditore a intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af'
chela intenda et senta - 5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la
natura — om. Et — 7-8: 3f' apparecchiato
intendere, m-L appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m
In ipiosto luogo — om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale
causa, i e in quale causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da
quello... alla persona (1) L' espressione certamente è ridondante
{in via sembra quasi una variante di apparecchiato), e perciò quasi tutti
i testi l' hanno ridotta alla forma pili sem- plice e comune. Il segno 7
di M' deriva da una errata lettura di a, che anche in quel codice ha una
forma simile alla nota tironiana. si è la nostra persona e di
coloro per cui noi dicemo. Il secondo luogo si è la persona de' nostri
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la
persona de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui
noi 5. dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve-
nente sopra '1 quale noi dicemo. E di ciascuno di questi dicerà il conto
ordinatamente e sofficientemente. Tallio sopra lo lìvolago.
Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de' 10. nostri fatti e
de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che nne sono apposte e
le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i mali che nne sono advenuti
et li 'ncrescimenti che nne sono pre- senti; e se noi usiamo preghiera o
scongiuramento umile et inclino. Sponitore. 1.
Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è dicere della
persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo, quelle pertenenze perle
quali l' uditore sia benivolo verso noi. Et sappie che certe cose s'
apartengono alle persone e certe alla causa; e di queste pertinenze
tratterà il conto 20. sofficientemente, e fie molto bella et utile
materia ad impren- dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare
benivo- lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi
di- cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no- stri
fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti » 25
quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per forza, ma per
movimento di natura. Et così dicendo Dido 1 : m Olii, si —
2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia — Afiia
coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m om. ól
convonento — 6-7 : M' om. di questi — dioera lautore — m om. e
soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. — di nostri faoti — Ai' lo
nostre colpo — 12: il/' che sono presenti —
M' i scongiura- mento — 16: M^ dola nostra persona 7 di coloro —
17: m aparlenentle — 20: m om. suflicientementc — M-mom. materia — 22: m
om. moiio — 2-i:M-m intende, L intendo — 25: m diciamo per distretta —
26: M-m dicendo didio (1) Le parole la persona sono superflue, e
perciò a prima vista si preferirebbe la lozione di M-m; ma è molto più
probabile l'omissione di parole inutili che la loro aggiunta in
Af'. (2) Scrivo cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di
Mm, intende, potrebbe conservarsi come una forma di 2" persona dell'
imperativo (per la desi- nenza e non mancano esempii). d' Eneas
acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice ella, « accolsi e
ricevetti in sicura magione colui eh' era cacciato iu periglio di mare,
et quasi anzi eh' io udisse il nome suo li diedi il mio reame ». Et cosi
dice che ella 5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia
dalla distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè e
pietade delle strane genti per natura, non per distretta. Ma offici sono
quelle cose le quali noi facemo per distretta, non per movimento di
natura. Onde dice Tullio che dell'uno 10. e dell'altro dovemo dire
temperatamente sanza superbia. 4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo
da dosso a noi et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci
sono messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati
que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al viso, sì come
fue apposto a Boezio eh' elli avea composte lettere del tradimento dello
'mperadore. Il quale pec- cato removeo elli per una pertenenza di sua
persona, cioè per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere composte
falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-
20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione dell'
accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe eh' altre pensa
in centra ad un altro, ma nolle pone davante al viso, sì come molti
pensavano che Boezio adorasse i do- moni per desiderio d'avere le
dignitadi; e questa sospeccione 25. si levò elli parlando alla
Filosofìa, che disse: « Mentirò che pensaro ch'io sozzasse la mia
coscienza per sacrilegio (o per parlamento de' mali spiriti). Ma tu,
filosofìa, commessa in me cacciavi del mio animo ogne desiderio delle
mortali cose ».• Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea
sapien- 30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido
fallimento ». Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione
che '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me
della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro- dezza non
dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo 1 : M'
deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il
roame mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m
ci sono aposto (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro
— 17: M' elgli rimovca — ciò fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 :
M-m jiartita ....stati.... dellaccusato — 22: m centra un altro — ^f'
appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi solcasse — om. per
sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in
L; M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via —
29: M-m paro — 31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia
modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-
scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave- nuto era,
acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per guidardone della
verace vertude sofferò pene di falso incol- 5. pamento ». Et Dido,
dicendo i suoi mali dopo il dipartimento d'Eneas, acquistò la benivolenza
per la sua misa ventura, e disse : « Io sono cacciata et abandono il mio
paese e Ila casa del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in
caccia de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di
10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare
i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce- sare,
guardate le catene e pensate che questa testa è presta a' ferri e' membri
a spezzamento». Altro modo è se noi usiamo preghiera o scongiuramento
umile et inclino, 15. cioè devotamente e con reverenza chiamare
merzede con grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata
sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi alla pugna della
mortai guerra di Cesare, confortando i suoi di battaglia disse: «Io vi
priego de' miei ultimi fatti 20. e delli anni della mia fine,
perchè non mi convenga essere servo in vecchiezza, il quale sono usato di
segnoreggiare in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata
sono aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì
come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad 25. Eneas:
«Io » disse ella « non dico queste parole perch'io ti creda potere
muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon 4 : M-m fossero
peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo — 8: M
el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 : itf'
epresso — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento — 14:
M-m 7 scongiura- mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13:
m om. cioè — chiamando — 19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici
lino, m delli anni /siche — 21: M servo in vilezza la (piale, m servo 7
in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe il 2° talfiata
— 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto (l) Il testo di
Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio, ha ultima
fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti. Non
credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un latinismo
come fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di ogni
probabilità in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione
facilissima del latino, ultima facta, che certo riusciva più
intelligibile della frase poetica originale. Quanto al servo in
vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po- tesse
supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia nato
l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea di
«condizione vile, meschina». pregio e la castitade del corpo
e dell' animo, non è gran cosa a perdere le parole e le cose vili ». 8.
Ma scongiura- mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o
per anima o per avere o per parenti o per altro modo di 5. scongiurare,
sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le
lance e per le saette de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco
fuggirò, per li dei o per l'altezza di Troia, etc. Or à detto il conto del primo luogo
donde muove la BENEVOLENZA, cioè 10. della nostra persona e di coloro che
sono a noi ; ornai dirà il secondo luogo, cioè della persona delli
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli
aversarìi se no! li mettemo inn odio 15. invidia o in dispetto.
Lo sponitore. 1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de'
nostri ad- versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per
le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario 20.
malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo modo è dicere le
pertenenze delle loro persone per le quali siano inn odio dell'uditori;
il secondo che siano in loro invidia; il terzo che siano in loro
dispetto; e di cia- scuno di questi tre modi dirà il testo bene et
interamente. 25. Tullio. 97. Inn odio saranno messi
dicendo com' ellino anno fatta alcuna cosa isnaturatamente o
superbiamente o crudelmente o ma- liziosamente. M om. a — 711 lo chose
vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin. rli
scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f.,
per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7
per li compagni - 8-0 : M' om. etc. — Et ora a detto il maestro — om. la
— Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio — 19: M-m om. a noi M'
deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in invidia....
loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»». isnatur.
e o maliziosamente Noi potemo i nostri adversarii mettere
ina odio del- l' uditore se noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta
isna- turalmeute, contra l'ordine di natura, si come mangiare 5.
.calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore si tace
presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto superbiamente, cioè
non temendo né curando de' signori né de' maggiori, avendoli per neente.
O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà
né mise- 10. ricordia de' suoi minori né di persone povere, inferme
o mi- sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente,
cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso. 2. Et di
tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO dice contra NERONE imperadore.
Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et
uccidendo il fratello e sparando la madre. Altressì fue malizioso
fatto il qual racconta Euripide di Medea, che sta scapigliata tra'
monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à detto lo sponitore sopra
'1 testo di Tullio come noi potemo met- 20. tere il nostro
adversario in odio et in malavoglienza del- l' uditore. Da quinci innanzi
dicerà come noi li potemo mettere in loro invidia.
Tullio. In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le
ricchezze, 2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non
sofferire, e come più si confidano in queste cose che nella loro
causa. Sponitore. 1. Noi potemo conducere i nostri
adversarii in invidia et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la
foi'za del 3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla
stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al
])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M tenendo M^ 7 non
venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-
labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se
dicemo cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata
contra b. u., m om. cosa — o disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo
avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido il fratello — M-m i
fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni- menti
in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii
- 3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In
—26: M' si lidano — 28-29: Af' i nostri avorsari conducere
....degliuditori Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp.
Bl-52. corpo e dell' animo loro ad arme e senza arme, et la
po- tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè
servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè schiatta, lignaggio e
parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè 5. denari, auro et
argento, in cotal modo che noi diremo come ' nostri adversarii usano
queste cose malamente et increscevolemente con male e con superbia, tanto
che sof- ferire non si puote. 2. Cosi disse Salustio a' Romani : «
Ben dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio et à grande
IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tra-
dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca- tenina centra
' Romani : « Appo loro sono li onori e le potenzie, ma a nnoi anno
lasciati i pericoli e le povertadi >. 3. Et ora è detto della invidia
contra i nostri adversarii; sì dicerà il conto come noi li potemo mettere
in dispetto. Tullio. In dispetto degli uditori saranno messi
dicendo che siano sanza arte, neghettosì, lenti, e clie studiano in cose
disusate e sono oziosi in iuxuria. 20. Sponitore.
I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto degli
uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi diremo che sono
uomini nescii sanza arte e sanza senno, da neuno uopo e da neuna cosa; o
che sono neghettosì, 25. che tuttora si stanno e dormono e non sì
muovono se non come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a
tutte cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno uso
né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in Iu- xuria dando forza
et opera in troppo mangiare, in nebriare, 30. in meretrici, in
giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il 2-5: Af' om. e le
signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 an-
celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in cotal modo ecc. — 6: M' come
i nostri aversarii — 11 : M^ in tradimento 7 distructione de terra 7
<le gente, m in tradimenti distructioni — 12: M-in a Romani — 13 : m
lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in dispregio (l. 17 idem)
17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19: M octosi, m ottosi — 22:
M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno — M' sanza sonno? sanza arte di
neuno huopo - 24: m om. da neuno uopo e — 25 : m si stanno, dormono - 26:
M' per sonno/ 7 diceremo, L per sogno — 27-28 : m alclumo uso — M ' 7
dicoremo — 29-30: M' de troppo mangiare .T ebriare. in puttane — m 7 in
bere — M in cliaverne M' a decto luditore come — )?t om. Et
- 126 — conto come noi potemo acqnistare la benivolienza
dell'udi- tore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn
odio et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote ciò
fare. Ornai tornerà alla materia per dire come s' acqui- 5. sta
benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo è il terzo
luogo. La benivolenza dell'uditore. lOO. Dalla persona
dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo che tutte cose sono usati di
fare fortemente e saviamente e man- 10. suetamente, e dicendo quanto sia
di coloro onesta credenza e quanto sia attesa la sentenza e l'autoritade
loro. Lo sponitore, (i) ' 1. Noi potemo acquistare la
benivolenza delli uditori dicendo le buone pertenenze delle loro persone
e lodando 15. le loro opere per fortezza e per franchezza e per
prodezza, per senno e per mansuetudine, cioè per misurata
umilitade, é dicendo come la gente crede di loro tutto bene et one-
stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra que- sto fatto,
credendo fermamente che fie si giusta e di tanta 20. autoritade che
in perpetuo si debbia così oservare nei si- mili convenenti. Di forte
fatto Tulio lodò Cesare dicendo: « Tu ài domate le genti barbare e vinte
molte terre e sot- toposti ricchi paesi per tua fortezza». 3. Di senno il
lodò e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira,
25. la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consel-
lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu nella vittoria, la
quale naturalmente adduce superbia, ritenesti mansuetudine ». 5. D'
onesta credenza il lodò Tallio in 2-3: M' in odio
deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si — 8:
Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7
suavomento {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro —
li: M-m intesa — 13: M-m om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M'
dicendo che buone M-m om. e per
fran- chezza — M' 7 per senno — 17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la
loro sententia sia si giusta — m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne
simili — 23-84: m e lodo, M' il lodano 7 medesimo parlano — m marche
metcllo M-m om. molto — Af tu ritenesti a consellio, m tu ritenesti
consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto fatto /7 nella
vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce — 28: m om. credenza il lodò
Tullio (1) In tutti 1 codici l'interpunzione di questo passo è
variamente errata, né metterebbe conto darne notizia. questo
modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma tutta volta lo ritenne
in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo
che non potea intendere a rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO
CESARE non li 5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài
renduto a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era,
ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene sperare »; e
questo dicea perchè l'avea ritenuto in corte, sicché tuttora avea buona
credenza. 6. D' attendere la sua 10. buona sentenza lodò Tullio
Cesare parlando di Marco Mar- cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te
sopra questo con- venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire
(D a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete di
lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come 15.
s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà Tullio coni'
ella s'acquista dalle cose. La benivolenza delle cose. Da
esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa, per dispetto
abasseretno quella delii adversarii. 20. Sponitore. 1.
Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse cose, cioè da quelle
sopra le quali sono le dicerie, dicendo le pertenenze di quelle cose in
loda della nostra parte et in dispetto et in abassamento dell' altra; sì
come disse 25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare
: « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò eh'
ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe- 4 :
M' om. non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza
— 7: tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo
(?«re i et ((uesto) — 9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di
Tullio - IS: M-m ma ad {m a) con- venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt
per lui — i5: 3f' dele persone — i8:M-mom. so — L sar|uista bonivoglienza
se noi ecc. (ma nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. — 21 : M'
deluditofo, m delli uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M
confer- mando la sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m
forma speranza (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del
codice può considerarsi fusa (come avviene nella pronunzia) con quella
precedente di ma con quella seguente di ad. Bel resto basterebbe anche «
convenire, quasi come un futuro (« converrà ») scomposto nei suoi
elementi. - 128 — ranza d'avere Dio in nostro
adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato il conto le quattro luogora delle
quali si coglie et acquista la benivoglienza, molto apertamente et a
compimento; sì ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore
intento. Di fare V uditore intento. 102. Intenti li faremo
dimostrando che in ciò che noi diremo siano cose grandi o nuove o non
credevoli, o che quelle cose toc- cano a tutti a coloro che 11' odono o
ad alquanti uomini illustri, ai dei immortali, a grandissimo stato del
comune, o se noi prof- 10. terremo di contare brevemente la nostra causa,
o se noi propor- remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono
piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la
benivolenza di quelle persone davante cui noi 15. proponemo le
nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi et invìi in piacere di noi e
della nostra causa e che siano contrarii e malevoglienti a'nostri
adversarìi, sì vuole Tullio medesimo in questa parte del suo testo
insegnare come noi I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel
cominciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono, sì che
vogliano achetare i loro animi e stare a udire la nostra diceria; e di
questo potemo noi fare in molti modi de' quali sono specificati nel testo
dinanti, et in altri simili casi. 2. Et posso ben dire manifestamente che
ciascuna per- 25. sona sarà intenta e starà ad intendere se io nel
mio comin- 1: m nm. Et — 3 : 3f' nm. la — hi odi. molto — 4: m alento —
8-9: A/' o aliquanlì.... o ali iilii imm. o a — M |)iQrRremo, vi
protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi. bre- vemente — VI
proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato — 14: — J/tlavento —
— 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7 dlrirvi — 17: vi malagevoli —
19: M' nel nostro exorilio — vi nm. nel coniiiiciamento — 21 : 3f' si che
noi vogliamo — 32-23: 3f ' Et questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om.
el — 25: M-m sono noi mio com. (1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349:
" Causa iubet melior superos sperare secun- dos „. Solo la lezione
di M corrisponde anche per la forma sintattica. (2) Si rimano
alquanto in dubbio sulla lezione da preferire, perchè tra un Avendo e un
Quando la differenza grafica ò lieve, data la somiglianza di una forma di
A con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione meno comune, più
difficilmente può esser dovuto a un copista; d'altra parte il quando in
senso di " dopo che „ non è dell'uso di Brunetto, clie adopra
continuamente la formula " Poi che Tullio ha detto „ "ha
insegnato ,, (S'intende clie l'inserzione di a davanti a dato diveniva
necessaria leggendo Quando). -ciamento dico eli' io voglia trattare di
cose grandi e d'alta materia, sì come fece il buono autore recitando la
storia d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò
e conterò così alto convenente come di colui che conquistò ó. il
mondo tutto e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie inteso s' io dico
eh' io voglia trattare di cose nuove e con- tare novelle e dire eh' è
avenuto o puote advenire per le novitadi che fatte sono, sì come disse
Catellina : « Poi che Ila forza del comune è divenuta alle mani della
minuta 10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi
(i) potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile
populo sanza onore e sanza grazia e sanza autoritade ». 4. Altressì fie
intento s' io dico eh' io voglia trattare di cose non credevoli, sì come
'1 santo che disse : « Il mio 15. dire sarà della benedetta donna
la quale ingenerò e par- turio figliuolo essendo tuttavolta intera
vergine davanti e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare
es- sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era cosa
da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che 20. venisse
'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento s'io dico che
'1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio parlamento a tutti tocca
od a coloro che 11' odono, sì come disse Gate parlando della
congiurazione di Catellina: « Con- giurato anno i nobilissimi cittadini
incendere e distruggere 1 : M traclai-e cose, m cliio voglia
di trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j — 4-5: M'
recontcro.... conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7
contrario no- velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente
minuta — 10: m M'-L non potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si
— 14-15: M'-L sicome disse il santo che disse - i II mio dotto — 16: M'
partorie il figluplo — M^ -j di. poi — M-m om. la quale.... natura — 19:
M-m oni. folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in essa terra,
M'-L nela nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24:
M' anno nob. citt. dincendore (1) Nonostante l'accordo di
tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione è confermata dal
testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno-
biles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo
la dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in
qualcuno dei primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla
negazione: non potenti. Favoriva l'errore anche il tono insolito della
frase " noi nobili, noi potenti ,., mentre le parole " in
podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non potenti „
i nobili. (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè "
nella patria stessa „ , in ipsa terra. Leggendo con 21f » nella nostra
terra si avrebbe lo stesso senso in forma più chiara; ma non saprei
allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso il nostra, un
nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece
nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi
simile a l.— iso- la patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo.
Adun- que dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' cru-
delissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade » Altressì fie intento
s' io dico clie Ila mia diceria tocca 5. ad alquanti uomini illustri,
cioè uomini di grande pregio e d'alta nominanza in traile genti sì
come disse Pompeio parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme
de' ne- mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato
». Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,
10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo di
fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di sopra
potrebbero ornai trarre il populo delle sue mani » (2). Altressì fie
intento s' io dico nel principio di dire la mia causa brevemente et in
poche parole, sì come disse il poeta 15. per contare la storia di
Troia: «Io dirò la somma, come Elena fue rapita per solo inganno e come
Troia per solo inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie intento
s'io nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè
quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò 20. la mia
provanza, sì come fece Orestes dicendo: « Io pro- verò che giustamente
uccisi la mia madre, imperciò che dio Apollo il mi à comandato, perciò
che uccise il mio padre». IO. Et di tutti modi per fare l'uditore
intento potemo noi coUiere exempli in queste parole che disse Tullio
a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta 1 : M-m 7 lor
— M' ne sopra capo — 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale — M-m esmarn {m
esimare) de nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro
alla) M fue, m (la — 5-6: M' cioè de gr. — M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m
che latine —M-m sano, M' senato M' fia intonto O-ll: M-m poi chelll
anno conceputo di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) M apena
ornai —3f' nel cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole M' om. Io dirò....
e come Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio
exordio Mi sopra che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale —M-m
che io ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo
mavea), 7 perciò cliella m atento M' exemiilo M-m om. a — M' parlando a
lui Questo periodo è d'incerta lezione, male varianti registrate in
nota sono palesi accomodamenti, specialmente il pensate di Jtf ' per
evitare la ripetizione di dovete; co.si esmare esimare può esser nato da
una sigla di sentenziare (0 si tratterà di fmare, fermare?). Glie sia poi
da leggere crudelissimi cittadini ò con- fermato, oltre che dal senso,
dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto di Sallustio ;
nobilissimi ò derivato dalla frase del periodo precedente. La lezione di M.,
che è tutta accettabile, dà ragione degli errori di Mm: il primo elli
parve plurale, e quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne
mali e portò con sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia
genuino" mansuetudine e cosi inaudita e non usata pietade e
cosi incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi posso
io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che Tullio à pienamente
insegnato come per le nostre parole 5. noi potemo fare intento l'uditore,
si dirà come noi il po- terne fare docile. Come l'uditore sia
docile. Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente
e brevemente la somma della causa, cioè in che sia la
contraversia. E certo quando tu il vuoti fare docile conviene che tu insieme
lo facci attento, in però che quelli è di grande guisa docile il
quale è intentissimamente apparecchiato d'udire. Quelle persone
davanti cui io debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da
tal fatto: se io nel mio exordio, alla 'ncviminciata della mia aringhiera, tocco
un poco d^l fatto sopra '1 quale io dicerò, cioè brevemente et
aper- tamente dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel
quale è la forza della contenzione e della controversia. Cosi fece
Saiustio docile Tulio dicendo: « Con ciò sia cosa ch'io in te non truovi
modo né misura, brevemente risponderò, che se tu ài presa alcuna
volontade in mal dire, che tu la perda in mal udire ». 2. Questo et altri
molti exempli potrei io mettere per fare l'uditore docile, si come buono
intenditore puote vedere e sapere in ciò eh' è detto davanti. Et perciò
che '1 conto à trattato inn adietro di due maniere exordii, cioè di
principio e d'insinuazione, et àe divisato M consuetudine, m
sollicituiline, L inmansuetudine —L nm. lo e cosi. M man- dila. M-m mi
possono, M-L io posso — m om. Et. M' luditore intento, M nm. l'uditore. 8:
M' Docile l'aremo luditore M-m
proi)onemo — iO: Af' Et credo quando tu vuoli. m nm. è attentissimamente.
m davanti a chui docile cioè
intenditori de tutto il facto M-m sarò
nel mio ex. M' incomincianza. M arrincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7
toccho Af' om. dicendo nel quale e la contentione. M' om. cosa (ma non L).
m o misura. M' ti li- spondo M' om. Io. m om. e sapere. M' doxordio
[È chiaro che posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono
perchè tutti i sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi
og- getti ; e vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile
in 128, 23, seno per se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento.
ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare l'uditore
benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento della INSINUAZIONE in
questo modo. Oramai pare che sia a dire come si conviene trattare
le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando la qualitade della causa
è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando l'animo
dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente per tre cagioni:
o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro 10. e' anno detto davanti
pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere al- l'uditore, se in quel tempo
si dà luogo alle parole, perciò che quelli cui conviene udire sono già
udendo fatigati; acciò che di questa una cosa, non meno che per le due
primiere, sovente s'of- fende l'animo dell'uditore. In adietro è
detto sofficientemente come noi potemo acquistare la benivolenza
dell" uditore e farlo docile et in- tento in quella maniera de
exordio la quale è appellata principio. Oramai è convenevole d' insegnare
queste mede- 20. sime cose nell'autra maniera de exordio la quale è
appellata « insinuatio ». 2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio
» è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di
prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo in- daurato dovemo
noi usare quando la nostra causa è laida 25. e disonesta inn alcuna
guisa, la qual causa è appellata mi- rabile, sì come pare in adietro là
dove fue detto che sono cinque qualità U) di cause, cioè onesta,
mirabile, vile, du- biosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne
potemo noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile,
1 : M cioè — M' om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della
ìnsinualiono — 7: m ohi. s'i — 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di
questa — Iti: M-m a detto — 20: W nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3:
M-m cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale prolagoS6: M-m nm. in
adiotro M modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio fa supporre lo
slesso), M'-L qualitadi dolio cause M'
cioè nollamirabile Conservo la parola qualità attestata da ambedue
le tradizioni, tanto più Clio anche prima Brunetto usa lo stesso
vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una
sostituziono o variante, che venne poi introdotta nel testo (a mono clie
non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE
[IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”]
per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel
che pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e
quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi
potemo contraparare a ciascuno. E sono tre casi. Primo caso si è quando
sie nella causa alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala
cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra il reo
uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à
detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua causa, eh' è INTRATA
NELL’ANIMO dell'uditore e pare già che Ha creda sì come cosa vera; per la
quale cosa r uditore, poi che comincia a credere alle parole che ir
una parte propone et extima che Ila sua causa sia vera, apena si puote
riducere a credere la causa dell'altra parte, anzi sine strana et allunga.
Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che quelle persone davanti
cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti anno
lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai e molto, prima
di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole né agrada
lui d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che
offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due Et perciò
conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso
contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della
causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione,
conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che
sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che
sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore
si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non
difendere quello che pensano che tu voglie difendere, e così, poi che l’uditore
sie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose,
le quali indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi
che tu avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non
pertiene atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell'
aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro
che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da
lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in
somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso
dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In
questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per
cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala
persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE
PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO
L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra persona amata e piacevole
all'uditore, sì che per cagione e per coverta della persona amata e buona
noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la
persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella causa della
tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme eh' erano state d'Achille.
Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente
né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui
regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi contraparare, nel suo dicere
ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al
tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e
graziosa in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e
per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala
cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e
piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA,
che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia
usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini.
Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio
Vegezio, insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo
dell’auditore, modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica
oratoria togata – sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Latini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Laurino: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei longobardi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Laurino). Filosofo italiano. Duca di Aquara e di Laurino,
appartenente alla nobile famiglia napoletana degli Spinelli. Allievo di VICO,
si forma al Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a
Napoli, divenne amico di vari illuministi napoletani, quali FILANGIERI (si
veda) e Galiani. Autore di vari saggi di stampo illuministico. Le
“Riflessioni filosfiche” rappresenta un tentativo di metodo geometrico. Si
oppone alle teorie di Broggia. Fa attivamente parte della massoneria
napoletana, all'epoca diretta dal principe di Sansevero, Raimondo di
Sangro. Cavalerie del Real Ordine di San Gennaro. A Napoli, fa
ristrutturare il palazzo di famiglia, il palazzo Spinelli di Laurino,
trasformandolo in una suggestiva realizzazione. Muore a Napoli e venne sepolto
nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Altri
saggi: “Degl’affetti degl’uomini”, Napoli, Muzio; “Della moneta” (Napoli); “Cronologia
dei re di Napoli,” Napoli, Bisogni; “Del nobile”, Porsile; “Lettera nella quale
si dimostra non esser nota di falsità, che nel diploma di fondazione della
chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085 segnato coll'indizione sesta correndo
l'ottava del computo volgare; Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. -- ria che forma la materia del presente saggio: E metodo
col quale questa siè composto. I tutte le città e popoli dell'Italia ciascuno ha
la sua particular forma di governo prima che sussestato vinto da’ ROMANI. Ed anche
dopo ciò, molte delle città medesime, quantunque al popolo di ROMA veramente
ubbedissero. Pure così fatti nomi, e tale forma aveano di domestica polizia, che
libere in certo modo facevanle apparire. Ma essendo stata dalla legge giulia a
ciascuna di quelle LA ROMANA CITTADINANZA conceduta che non da tutte senza con
Trans 1 AN 1x IN line ill SAGGIO TAVOLA CRONOLOGICA compongono DI NAPOLI. Dalla
venuta de LONGOBARDI in Italia fino che quelle terre sono da NORMANNI della
Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto è accettata, e la quale da Marco Aurelio ANTONINO
Antonino Caracalla è all'intiero orbe romano distesa, col vanto di esser parte
del capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, sono tutte senza alcuna
dubitazione, anche nell'aspetto, sottoposte. [tem Civitati ante ferret CICERONE
pro Bal CICERONE PRO BALBAM, Edit.Ve. bon. Edit.Venet. L. inorbeff. de Stat. hom.
L., Roma. Sigon. de Antiquo Jur. Ital. Ad bomnib. Rutil. Numan. itinerar. In quo
magna contention Heracliensium, Aloja Ins: DE’ PRINCIPI E PIÙ RAGUARDEVO LI
UFFICIALI, che anno signoreggiato, e retto le PROVINCIE, ch’ora: Ι Mich. Fiaschino
Inven. e C.I. REGNO DI, Strabon. Geograph. Edit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui
liberta e Neapolitanorum fuit, cum magna I LL ]. Transferita però la sede del ROMANO IMPERATORE in Costantinopoli, varie BARBARE
NAZIONI con più fortuna di quello, che aveano fattosotto LA ROMANA REPUBLICA, invadero
l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de’ GOTI con MM armati,
cagiona danni gravissimi all'Italia. Ma in Toscana da Stilicone resta con tutto
il suo esercito vinto e sconfitto. Alarico ed Ataulfo re di que' medesimi BARBARI
che ove Alarico dimora circa II anni, ed ove muore, avidamente sacchegiarono. Attila
re degl’UNNI in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato,
devasta, che IL FLAGELLO DI DIO è nominato. Genserico re de’ vandali chiamato
dall'Africa d’Eudossia moglie di Valentiniano III imperatore, per vendicarsi di
Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame assassinamento,
sposata, ed occupato d’Occidente l'Impero; viene in Italia, ne scorre molte provincie,
DEVASTA LA NOSTRA CAMPANIA e molte città di essa avendo distrutte, in Cartagine
carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacre co’suoi Eruli, e Turcilingi,
INVADE TUTTA L’ITALIA e Re de Goti, che nella PANNONIA, ove egli no dimora,
aveano cominciato a tumultuare, gli concede l'Italia, acciocchè ne avesse Odoacre
discacciato. Ovvero, come altri vogliono, lo stesso TEODORICO senza la concessione dell'imperadore
in vase quella provincia, ne discaccia Odoacre, che poscia uccise, e re se ne fa
nominare -- Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin. in Philostorg, hist.
Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.; Augut. De Civit. Dei, Marcellin. Chron.
In Sirmond. Philostorg. hist. Eccl. In Vauclid. Chron. Idatius in Chron.
Isidor. Chron. Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb. Get. Agnel.
Pontific. Raven. in S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat, Cassiod.
in Conf. Boet. Conf.] per essersi fermati poi nell'Occidente si dillero VESTRO-GOTI.
A modo di locuste Roma II volte, ed una gran parte delle nostre Provincie -- Histor.
Miscell. ex cod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. Jian, in Murat. Rer. Ital.,
Sigebert. Chrona Jornand. de reb.Goth. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian.
Sigebert, Procop. De bella Gotb. -- Re, e circa anni pacificamente la possiede.
quista, se ne titola colle proprie forze da quella l'imperatore Zenone vedendo
di non poterlo Teodorico. Perchè discacciare, evolendosi render benevolo bella
parie del suo impero la con Regi non. -- Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de
Gest. Langob. ex cod. Ambrosian., i Reginou. Chron. Socrat. hist. Ecclesiasi., Jornand.de
reb.Goth. de re- Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success.
Anon Valesian. rer. Ital. Munic. Marcellin. Chron. in Sirmond. L. de Tironib.
C. Theodos. Z fimus Jornand. de reb. Goth. e Idat. Chron .in Du-chesn. de
regnur, success., Prosper. Aquitan. Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin. Coron.
in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor, Chron.
Goth. Aimon. de Gest. Francor. Sozomen. histor. Ecclesiast. Sigebert. Chron.in an.Vales.
la to Marii Aventic. Chron. in Duchesne, Evagr. Scholast. hist. Eccl. Histor. Miscell.
ex cod. Ambros. in Valef. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. In rer. Sigebert. Chron.
Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii Aventicenf. Chron.in Du-Chesne, pa I
Anon. Cuspin. --. Ma dopo di avere e codesto principe, ed alcuni suoi
successori in tal regno per molti anni signoreggiato; circa l'anno della
salutifera divina incarnazione l'imperadore GIUSTINIANO delibera di toglierlo a
codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi non avea vendicata la
morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda Belisario, che in
breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione furono in ajuto de' Greci
i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava: i quali dopo , che fu
l'Italia pacificata , ivi, e d in casa degli Amici più difordini commettevano, che
contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè Narsete caricandoli di doni,
contenti nel loro paese oltre a ciòavea discacciato dall'Italia i francesi, che
sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè
egli era rimastoin nome dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella
Provincia , che avea all' Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più
vili, e fecciəsiluoghi alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi ,
e più chiari , ad istanza de’ Romani fu datal Governo da Giustino che è succeduto
a Giustiniano Imperatore, rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè egli
era Eu. le se vissuto, non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue
l'effetto, dappoichè ritiratosi in Napoli, stimola co’ [Melli Comorimurtom
Marcellini Chronic. Aimon, de Gest. Francor.
Joan. Diac. Chron. Jornand. de regnor. Success. Landul. Sagac. additam.
Ad Miscell. Procop. DE BELL. GOTH. De bell. Goth. Aimon. de Gestis Franccr. Agath.
de bell. Goth. Gregor. Mag. Dial. Excerpt. ex Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor.
Anast. Biblioth. Invita Joan. III. Paul.
Disco de Gest. Langobard.] eunuco l'imperatrice Sofia gli scrive che fosse andato
in Costantinopoli a dispensar la lana alle fanciulle; alla qual cosa si dice,
che Narfete sdegnato risposto avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch’ella
mentre avesse vis i longobardi a
conquistare l'Italia copiosa di tutte le naturali ricchezze, la sterile
Pannonia abbandonando. Il quale in vito allegri que’ BARBARI sotto il loro re
Albuino vennero abbracciando in Italia. Nello spazio di VII anni la maggior
parte colla [ut citm puellis in Gynaceo. Gregor. Turon. histor. lanarum faceret
pensa dividere. Anast. Biblioth. in Benedict. I. Landul. Sagac. additam. ad
Miscellap. Aimon. de Gest. Francor.] delle armi ne conquistarono. Forza è fama
Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno de loro Re fino conquiste, che
in Regio fusse pervenuto, e che avendo e dindi parte dell'Italia, éd iessa il rimanente
dall'Eunuco Narsete, che a Belisario succede, dopo xvini, anni di asprissima
guerra è interamente [Aimon. de Gest. Francorum] la Sicilia rimandolli. Avea
Narsete vinto i Goti , ed eziandio gl’unni [Histor. Miscell. Aimon . de Gest.
Francor. Isidor. Hispal. Marius Aventic. Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell.
Gotb. Paul. Diac. Paul. Diac. Gregor. Turon. hist. Histor. Miscell. Paul. Diac.
Joan. Diac. Chron. excerpt. Cron. per Fredeg. Scholaft. Landul. Sagac. additam.
ad Miscell. pa hist. Miscell. Aimon.de Gest. Franc. Paul. Diac. Sigebertus,
alii. Joan. Diaz. Chron.] ivi ivi tra le onde del mare una colonna ritrovato
l'avesse collasta per cossa, ed avesse detto, fin qui saranno de’ Longobardi i
confini. Delle terre occupate da Longobardi in Italia se ne forma un Regno il
quale poscia ha alcuni re francesi, e dopo essi altri di diverse nazioni. È
l'Italia in tempo de’ Re Longobardi in II Principati solamente divisa, in
quello dei longobardi, ed in quello de Greci. Ma passato il Regno a Carlo Magno,
surse in quella bella parte del mondo il principato di Benevento, da cui non
molti anni dopo nacque quello di Salerno, e finalmente quello di Capua. Nel
tempo de’ quali Principati per le guerre, che arsero fra di loro furono in
trodotti nelle nostre parti i saraceni, i quali non però, comeche molte terre
avessero conquistate, a varii capitani ubbedirono, almeno pressodi noi non mai
e uno stato formarono. Ed i medesimi Principati di Benevento e di Salerno e di
Capua durarono finchè sono da Normanni che nella Puglia sonsi stabiliti,
interamente conquistati. Imperochè alcuni pellegrini di codesta nazione
ritornando dopo da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare, ajutarono
il Principe di Salerno da’ saraceni assediato; e rimandati da costui a casa con
grandissimi doni, allettarono a venire nelle nostre Parti i Paesani loro, i
quali discesivi, ed ora al soldo del uno de’ nostri Principi, ora a quello dell'altro
rimanendo, alla fine s’istabilirono nel luogo che diceasi in Octaba, e la Città
d'Aversa ivi edificarono. Uno di loro, chiamato Rainolfo per capo, conte, o sia
console stabilendovi. Impresero i Greci in quel tempo di liberare la Sicilia da
saraceni che la tenea no per quasi II secoli sottoposta, ed è capo dell'esercito
greco Maniaco, il quale chiama a’ suoi soldi una parte de Normanni, che sono in
Aversa fermati, e costorovi andarono. Mi dopo qualche tempo disgustati della
sua avarizia, abbandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo
conosciuto un certo Auduino a’ Gieci ribelle, propose a Rainulfo di mandare una
parte della sua gente in Puglia a torla al Greco Imperatore, che vi
signoreggiava ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo, un buon numero de’
suoi capitani e i mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi città di
quella provincia, ed indi altre terre; fissarono in Melfi la sede loro e
diedero principi o ad un altro Principato, che continuoffi sotto i figliuoli di
Tancredi, Conte d’Altavilla, Gentil-uomo anche egli Normanno -- i quali in varii
tempi nelle no il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto
i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione.
Conquistarono tutte le terre, che i Greci aveano in quele nostre Parti. Tolsero
a’Saraceni la Sicilia ed a’ longobardi il Principato di Benevento e di Salerno,
e fino a'lo ro medesimi nazionali il Principato di Capua, siccome finalmente da
una gran parte del ducato di Spoleti i Re d'Italia discacciarono e di tutti
così fatti principati un regno essendosi formato in sul principio Regno di
Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di Napoli è nominato.
Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più intrigata ed
oscura è quella che vien compresa dalla SECONDA VENUTA de’ Longobardi in
ltalia, finchèle nostre Provincie da’ Normanni, stabiliti nella Puglia, inun solcor
po forono ridotte .xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori di Rainulfo
aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di Calabria, e del
Principato di Capua fi diske, ed in di in II Regni diviso, uno fu detto di Trinacria
alcuna volta ed pl , è detto, ed il quale per anni è de LONGOBARDI, o fia d'Italia
discese Carlo Signoreggiato. Ma verso da re di quella nazione il re Desiderio
ultimo re Longo in quella Provincia, ed avendo preso Magno, senza mutarne la
natura il Regno bardo, trasfere nella sua persona sopradetto che Regno I va. [Paul.
Diac. Paul Diacon. Supplem. Longobar.
varj Principati, i quali in così fatto spazio di tempo, siccome si è veduto, te
la natural forma diesse fide e a gran fatica, e molto dubbio sa mente
indovinare. De’ Principati che sursero nelle Provincie le quali ora compongono
il Regno di Napoli, in tempi così dubbiosi ed oscuri, io ho deliberato di scrivere
in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più ragguardevoli Officiali, gl’anni
de loro Regni ed ufficii, e delle loro morti, i loro matrimonii; e
sommariamente i fatti, che quelli o sovrani od in alcuna maniera dipendenti o tributarii
posso dimostrare ei diritti delle loro signorie anno stabilito. Ed oltre a 7
ciò dellistesi Principati una, per quanto io ho potuto esatta e particolare
Geografia. E nella Tavola Cronologica io hor accolto tutto ciò che da' varii
filosofi, o Sincroni, o quasi Sincroni, o molto antichi nella proposta materia
si legge scritto, e narrato, come che discordie gli no siano tra loro ramente
appariscano. Senza volerli corregere, ove avesli potuto, o concordare; di
esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a d’altrui,
che mi voglia in ciò precedere, riserbando. Contentandomi per orà di fornire
solamente secondi semi di un’esatta e diffusa storia delle nostra li cose me
Geografia non va ancora sotto il Torchio, in un foglio quella parte di essa
ch'è necessaria alla presente opera, esponere, e dimostrare ho voluto e dalla
Tavola dame scritta il titolo di SAGGIO ho apposto, conoscendo che in essa
moltissime altre cose essere potrebbono a diritta ragione, o d’altri, o da me
stesso pervenisse a' principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e
quale fuffe la natura degl’ufficii, a cui in essi il reggimento di Terre cra
affidato, presso il Popolo, o presso una parte di esso, o presso un solo uomo.
Dice Cicerone. “Respublica res est populi.” Cum bene, ac juste geritur, sive ab
uno rege. La seconda perchè suole essere degl’optimati: ARISTOCRAZIA. E
l'ultima si chiama “MONARCHIA,” osia REGNO, il qual nome non perde quantunque
eomi, due, o tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente
tra Romani Imperadori e quasi sempre tra Principi Longobardi, de quali noi descriviamo
la Serie; imperocchè una tal forma di stato essendo molto più distante dall'aristocrazia
che dalla monarchia dalla più vicina piuttosto che dalla più lontana, dee prender
esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltre aciò quello ch'è stra-ordinario non dee
caggionar nell’arti divisione regolare. Nè codesti pochi principi costituiscono
un collegio legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior parte dee seguitare.
Ma ognuno riguardo alla sua amministrazione libero senza alcun fallo rimane.
Scrive Ubero. Monarchiam esse Io note, e più oscure. Ed acciocchè il tutto con
chiarezza si abbia ad intendere, dappoichè la promessa. Quali siano le varie
forme di governo, ed i varj modi di acquistare i regni -- fursero in quella
felice parte del mondo, ora si aggrandirono, ora si diminuiropo, ora dalle potenze
maggiori furono interamente absorti, e quasi distrutti. Tal volta in essi si
viddero eliggersi i principi, tal volta si viddero in essi succedere a’ padri i
figliuoli nella signoria. Quei, che vi regnavano, furono soventi sia te uccisi,
ed i privati il loro luogo occupando, trasmisero a’ loro Posteri l'iniquamente acquistato
Impero. I BARBARI chiamati per difesa di alcuni sistabilirono per ruina di
tutti -- e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que tempi assai
diversa da quello ch'è prima, e che è poi, e la sua Geografia non mai stabile osservossi,
e costante. Nè di tutti così varii, e moltiplici accidenti vi fu chi la storia
distintamente scrivesse. Ma da pochi e quali a frammenti quelli, e BARBARAMENTE
sono esposti, o piuttosto accennati. E le opere de’ filosofi di quei tempi da sin egli genti Copistifurono traseritte, che
spesse fia , > ) 9 > no . in un'altra Edizione, che sene facesse, aggiunte.
Ma prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni di
codeste forme di regimenti con voci greche. La prima si dice “DEMO-CRAZIA”,
feve a paucis optimatibes, sive ab universo populo CICERONE, DE REPUBBLICA. Edit.
Venoye. Se unius imperium solo satis vocabuli argumento constat. Qicod tamen
ita præci Je captari nolim, rat quasi escumque plures in uno regno romini esostitere,
toties Reipublicæ formam mutaris tatuamus. Neque enim recte existimaturus videtur
qui in Romano imperia si quando plures OTTAVIANO fuere, PRINCIPATVM defiisse
contenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab ARISTO-CRATIA, quam a
monarchia distet, confentaneum est, ut ab ea specie, cui proxima est,
appellatio petatur. Ita Lacedemoniis II Reges fuerunt – DIA-ARCHIA --, id que
Regnum vocabatur nec non verum fuisset Regnum,fi potestas vere summa fuisset. Præter
quod extra ordinarius, atque ut ita loquar, accidentalis ile plurium concursus plerumque
habetur. Unde formas peculiares DYARCHIAS out TRI-ARCHIAS in Artem introducere nec congrueret,
neque expediret; tamet si fatendum monarchiæ vocabulum tunc elleminus commodum.
Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbis similes a Germanis Jurisconfultis
appellantur, non constituant collegium, adeoque nec mus plurium sententiam
sequi compellatur. Nam ut hocjuris fit, opus est. parto, Condomini autem
Imperium Civitatis habent eodem jure, quo plures eandem remi fine tractatus Societatis
pro indiviso tenent. Quo casu notum est; quemque liberum Juc partis arbitrium,
nec reliqucrum consensui obnoxium, retinere la 28. ff. c o m m .divid. Altri
poi vi aggiungono IV altre forti d’imperi, cioè i III sopra-detti, quando sono corrotii,
ovvero ingiusti, ed il IV da’ due oda III già esposti insieme uniti. Ma
CICERONE stesso con diritta ragione afferma che ne’corrotti imperi la repubblica
non più esiste. Onde di ella non possono essere così fatti imperi. Cum vero in iustus
est Rex, quem tyrannum voca:aut injufti optimates, quorum consensus factio est.
Aut in justus ipse Populus cui nomen usitatum mullum reperio nisi ut etiam ipsum
“tyrannum” appellem. Non jam vitiosa, rola, dappoiche essa nulla alla mia
intenzione può giovare. Or, nella monarchia, o sia nel regno, abbia avuto egli
il suo principio dalla FORZA, o dal volere de cittadini, o dall'utile, o dalla paura
stimolari, abbiano questi la facoltà di stabilire solamente i regnanti, o di conferirle
anche l'impero. Aliter, dice Ubero, ediam etro instituunt, qui imperium
immediate a deo esse volunt. Hi negant, imperium ullo modo a voluntate populi
perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam monarchie,
aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos inter Ziegle rus ad Grotium
Ethidictum P. Apostoliano bisali quoties adduetum, quod imperium sit humanæ
creationis, interpretantur, quod sit hominibus proprium, vel ratione cause
instrumentalis, quia per homines exercetur utuntur argumentis e sacris, de potestate
solvendi ligandi sacramenta administrandi, quce ministro ecclefice competit. Quem
ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert potestate millam nec conferre
potest, quia non habet eam ipse, nihil que agit, quamut personam eleectam potestatia
deo immediati proficiscenti applicet. Sic etiam populu, quando eligit regem,
non confert pote [Huber. de Jur. Civit. Gudling. De Jur. Nat. ac Gent.] omnino
nulla respublica est, quoniam non est res populi sed cum tyrannus eam factiove capesat.
Nec ipse populus iam opulus est, si sit in justus, quoniam nonest multitude juris
consensu et utilitatis communione sociata. E Bodino egregiamente dimostra che
il composto di alcuno o di tutte le suddette III forme d'impero non può una città,
o sia republica che tale sia secondo il fine che si è proposto, cio è la pace ed
il giusto, costituire. Onde Gudlingio ebbea dire. Talem rei publice speciem qui
appellant “mixtam”, ferendi quadantenus sunt. Si mixtum idem fonet atque
irregulare, della qual cosa io non faccio più pa. [Edit. Ven. C. edit. Francf.
an. Hobbes de CICERONE fragm. DE REPUBLICA. Bodino de Republ.] fta Cive. Bodino
de Republ. Hobbes de Civ. Huber. Edit. Francf.] statem imperandi, sed personam
electam producit eamque abhibet exercitio potestatis illia deo immediate conferendse
ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat. Necquo minus populus imperium
retineat, si id expedire judicet, deus intercesit. Multo minus quo parte mali quam
imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde ministerio ecclesiæ institutoque
matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel regno dico, a sia nella monarchia i principi
anno II sorti di diritti. L’una, che ne costituisce l'impero in mezzo a' Popoli
loro. L’altra, che determina il modo di averlo -- o sia per la quale il principe
regna, o l’impero pofliede che modo di acquistarlo si può anche direttamente
chiamare. Altera cautio est, dice Grozio, aliud efede requærere aliud ese modo
habendi, quod non in corporalibus tantum sed et in in corporalibus procedit (2)
Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi
funt velordi narii, vel extra-ordinarii. Priores duo sunt electio, do successio
Extra-ordinarii per inde duo, matrimonium O jus belli. De jure belli o
matrimonio dié tum quod satis sit, in superioribus. De forte nihil quidem, sed
nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud Per fasin
Dario H. Staspide. E Gudlingio. Id queri dignum, an per duret vita O anima civitatis
una, etiam fi vel electio obtineat, vel successio. Et putem id contingentibus
ad numerandum que unitatem nec efficient pror sus, nec tollunt. Scilicet electio
et successio per Jonas tangit, non autem modum regnandi definit, nec illum
impedit imperanti dominica in subjectos, tamquam in servos proprios potestas competit.
Appellatur etiam Dominatus. La qual forma di Regno se giudico, che mai si possa
ritrovare fra gl’uonini, salvo la teo-crazia, bene del suo popolo, e non già di
lui, dee ordinare le cose. Scrive Bodino. Rex est, qui summa potestate constitutus
naturæ legibus non minus obsequentem se præbet, quam sibi subditos, quorum
libertatem, ac rerum domini ac eque ac fucetuctur, fore confilit. Subditorum
libertatem, ac rerum dominationem. adjecimus -- ut Jus Soc., Gent. Huber. De Jur.
Civit. Gudling. de Jur. Nat. ac. Gent. Guiling, pergo Nat. Ac Gent. c. vel
collate. Nec sequitur, cedunt e populi elientis voluntate. Primeva succedere
videntur. Riguardando la prima di codeile II sorti di diritti ne procedono III
forme di reggimento, osiano: di monarchie una in cui il regnante de’ Corpi,
Beni de’ Cittadini dispoticamente dispone, e che perciò Erile o, o lia “barbarica”
vien nominata, scrivendo Ubero. Dominatus finitur, quod sit imperium, quo princeps
sibi subjectis ut pater familias servis imperat, omnium quetam quod ad o
civilium naturam maxime ab effectibus vesti mandammo, rerum moralium, cuius
limites excedere non licet imperii formam, et tenorem Si Deuscertam, electionem
persone fatemur ejus juris vim in fringerenon populis, præscripserit potest auferre
jus ligandi e Solvendi suispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest.
Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum.
Hatenus quidem de imperio civitatis a deo, cui omnis anima debeat bere aliquem
ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita ex cestise subiecto non tamen res quam
corpora dominus existens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit.
Ed Arrigo Koehlero: Imperium dominicum seu despoticum dicitur osia governo di dio.
E l’altra delle suddette forme di monarchia è quella, nella quale il Principe
pel [Grot. De Jur. bell. Ac pac. Huber. de Jur. Civit.] tum promover. Imo successi
opere nec mul ab antecedente electione pendet. Unde qui luc o de' in quo nec
sequitur, ita pergit Zieglerus, homines ab initio Sponte adanéti in s ocietatem
civilem coierunt ex hoc ortum habet potestas civilis. Ergo talis potestas origine
est humana. Sic enim per indeliceret argumentari. Adam et Evas ponte adducticcierunt
in matrimonium. Ergo matrimonium institutione NON est divinum. Huber. De Jur.
Civit. Heinr. Toebl. Jus Soc., ut Regis, ac Domini distinctionem certam
adhiberemus. Ed essa dicesi civile – leggendosi
in Ubero. Nobis igitur plures monarchie species non sunt considerande, quam
hee duce, Regnum, & Dominatus, five Imperium, ut ARISTOTELE DAL LIZIO
loquitier, außacidendo, aut Baplaponèv. Regnum verum et plenum est, ubi princeps
habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod ere a petita., qui ed appresso. Ex his tertia
resultat differentia, a fine diverso ristabiliti, est utilitas regnantis. Quae nec
ipsa tamen absque commodo subjectorum potest custodiri. Ex his relique differentie,
inter dominum, &. Reczorem, servos ac cives, de quibus Claudius ad Meherdatem
apud Tacitum [TACITO (si veda) Annal. quæque similia per se intelliguntur. Ed
anche comune; Scrive Kochlero: Imperium civile est jus præscribendi ea, quæ ad
commune civitatis bonum promovendum faciunt. Eiusmodi imperium civile dicitur commune
ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza delle II sopra-dette
forme composta che mista vien detta. Scrivendo Grozio. Quisibi singulos subjicere
potest servitute personali, nihil mirum est f li i d o universos sive ili Civitas
fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi potest subjectione sive mere
civili, sive mere herili, suve MIXTA. Riguardando poi la seconda forte degl’esposti
diritti sorgono III altre forme di nellaquale il principe regna per elezione
del suo popolo forma dicesi ELETTIVA. La II, in cui il principe riceve l’impero
per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da questo
ricevuta, per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima legge, viene
stabilito; sia egli il primogenito del preterito regnante, o calui, che
glinacque nel regno. Sia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il
NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca
finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o la linea del primo nato,
la qual forma di regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, ed a molti una specie
della prima, cio è una diversa sorte d’ELEZIONE essere si crede. Dappoichè scrive
Ubero: Plane, origine cujufqueci vitatis inspecta, nullum non regnum ex voluntate
populiortum, fuit electivum. Sed diversitas est in Regno Civili ordinaliter
utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest.
In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della sua vita
solamente. Venga co tale ELEZIONE, fatta o espressamente, o per via di sorte, o
di deputati. E codesta electionis et successionis deincep sorta est, cum quædam
ex imperiis ita funt delata principibus, ut identidem fedes vacua per electionem
repleretur. Quædam it aut successio secundum ordinem certum propinqui sanguinis
ab uno in alium devolveretur, ex prescripto Legis. Hanc quidem vocant electionis
speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure
familie hereditarium, sed totum a populo dependens, quod G' in Anglia multi
opinantur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionis primevæ continuationem,
nihil errarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM
[STATO] disputationis supra aliquotie speractze. Qua per electionem, ipsum jus Imperii
independenter alienari posse probavimus, ad vitam, vel etiam pro heredi bus. Quie
tunc est successio, non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie
propria, per actum alienationis. Gudlingio: Id quæri dignum, an perduret vita
in anima civitatis una, etiam sive lelečžic obtineat, vel successio. Bodin. De Republ. Grot. De jur. bell. ac. pac. Regni. La prima,
3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di princ: de jur.
Nat. ac Gent. Huber. de jur. Civit. Gudlingio, communi videbitur, Salva tamen civium
libertate, proprietate rerum cim.V. de Imp. Civ. cum Et xvii et putem id contingentibus
ad numerandunt, quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt. Scilicet eleftin,
o luccelio personas tangit non autem modum regnandi definit, nec illum impedit,
nec multum promovet ; imo fuccessio pene ab suo. Antecessore , ed ha l’arbitrio
di lasciarlo a chi più gli piaccia, come della sua eredità privata fare ei
potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di
regni sono comprese, siccome sarebbe agevole il dimostrare, tutte le
differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si sogliono fare. Ele quali
Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam
fu m m e potestatis colligunt. Primo enim sotto posti. Ma quando vennero in Italia
vi fondarono il regno, che è detto de Longobardi, osia dell'ITALIA e dil quale,
e sotto i re loro, e sotto i re francesi, edi altre nazioni finchè dura è sempre ELETTIVO. Che EREDITARIO è il Principato
di Benevento. Che fimile a lui è il Principato di Salerno. Che non diverso da essi
in tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte
difficil cosa è il determinare daloro principii espo fie forme de sopradetti principati.
Quindi è, che ne conviene sovente immitare
i più saggi investigatori del vero nelle produzioni della natura : iquali non
potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti
loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramente le deducono. Scrive Newton
tra quelli filosofi senza alcunfallo il più famoso. Ideo que EFFECTUUM
NATURALIUM EIUSDEM GENERIS E ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis in homine doo
in bestia. Descensus Lapidum in Europa in qualitates corporum, que intendi o
remitti o nequeunt, queque corporibus omnibres competunt , in quibus
experimenta instituere Ticet nun, a sibi semper consona. Extensio corporum non
nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus
omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur;
Oritur autem durities totius a duritie par tium, et in de non horum tantum corporum
quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras
merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; sed sensu
colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole;
reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus
IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia
efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete,
ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS,
Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. De jur. Civit. antecedente
electione pendet; unde qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva succedere
videntur. E finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno per
volere del git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io dico che
i lombardi sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu , pro qualitatibus
corporum universorum habende sunt TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER
EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT
QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT. De quemimi non possunt auferri. Certe
contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia
recedendum temere confingendo est, cum ea simplex esse soleato, qua forma
Reipublice Civitas gubernetur, Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile regnum
Patrimorium imperio. Et in Monarchia , sit ne Populo volente an invitofit
conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non
an successionegaudeant imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel
magnitudine civitatum jus jummi nullis quoque Species hominum judicia sæpe
perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius,
oritur ab extensione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium:
inde concludimus omnes omnium corporumpartes minimas extendi, et durasele, o
impenetrabiles et mobiles viribus inertice præditas. E nella festa maniera scrive
Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi morerum
moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè quando non
ne è conceduto di avere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia de'Principati,
di cui ragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi, quando
estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni
suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di
leggieri gl' Imperi Ereditari da Successori con regola cosi fatta si possono
distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo
Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso
avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento, o senza nomina real. cuno
Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere,
che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu
prima Successivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia, provincia detta
VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI erano chiamati furono
poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE, ovvero ,
secondo scrive Guntero, che altri affermino da’ popoli della Sassonia detti
Bardi. Furono costoro inprimada Duchi eposcia da Refignoreggiati; ed il regno
loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton,
Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist.
Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt. mobilitate, 9 appreso elettivo non potendosi
che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti, gli Estran gli
abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato, de qua agimus,
nihil aliud est, quam tacitum testamentum ex voluntatis conjectura. Quintilianus
pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: et ita, si
intestatus qui sacfine liberis decefferit. Non quoniam utique jufium fit, ad hos
per venire bona de functorum. Sed quoniam reliéta et velutin medio posita nulli
propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER
proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt,
nec eorum liberi extent ita ut gratie Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob.,
istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur.
bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc
Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli Q. Agle relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi
possono argomentare diverse cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis
of the noble is complicated – noble is the male who merits recognition from his
community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di
Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords:
implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia,
lombarda, lunga barba. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library. Laurino.
Grice e Lazzarelli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- ermetico-esoterica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Severino Marche). Filosofo italiano. Grice: “I
would call Lazzarelli a Pythagorean; most Italian philosophers are, as most
English philosophers are Lockean!” -- Grice: “I would call Lazzarelli what
Italians call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts all my desiderata for
conversational clarity!” Il documento più importante per ricostruire la vita di
L. è “Vita L.” scritta da Filippo L. e indirizzato all'umanista Colocci. L. e
educato e vive a Campli, in Abruzzo, dove frequenta la biblioteca del Convento
di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua opera i Fasti Christianae
Religionis. Riceve da Sforza un premio per un poema sulla battaglia di San
Flaviano. Ha contatti con i più importanti filosofi dell'epoca ed e seguace
dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di FICINO, l'Asclepio e tre trattati
sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici. Autore
di saggi a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con il
sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di PICO (si veda),
con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti a carattere
allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come il “Bombyx”.
Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii, Padova; “De gentilium deorum
imaginibus”, dedicato a Borso d'Este e a Federico da Montefeltro; “Fasti christianae
religionis” dedicato a Sisto IV, Ferdinando
I d'Aragona e Carlo VIII, Bertolini, Napoli; Epistola Enoch, Brini, in Testi
umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones Asclepii”; De bombyce, Lancellotti, Aesii; “Crater
Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate
Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina”; “ Item Crater
Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum ( Brini, in Testi
umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della duchessa d'Atri,
Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca
universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i
versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli);
epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere
letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De
Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C.
Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e
esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de
Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi
sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, L.. rivista
Campli Nostra Notizie. L. Nacque di nobile famiglia di Campli. La tradizionale
data di nascita è stata recentemente corretta da Tenerelli sulla base di
un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal
fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio
riferita da Aleandri, secondo cui il padre risulta già morto. L. stesso ama definirsi
"Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei
pressi dell'odierna San Severino Marche. Alla morte del padre, L. si
trasfere a Campli, presso Teramo, dove riceve la prima educazione e - stando
alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la
morte - egli dimostra precocemente inclinazioni filosofiche, tanto da comporre un
carme sulla battaglia di San Flaviano che gli merita le lodi di Sforza, signore
di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum
simia". L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che
permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dalla cronologia, della vita
fitta di spostamenti condotta dal L. E dapprima ad Atri, con l'ufficio di
istitutore del figlio del signore della città, Capuano, dove compose un carme
esametrico per la morte della duchessa Balzo, indirizzato con un'epistola
accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che,
nella sua biografia, la define "sententiis quidem refertam quam optimis
ultra eius aetatem". E a Teramo presso Campano, "ut eiusdem Campani
fratrem amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate
doctior fieret" (Lancellotti), dove si applica allo studio della filosofia.
Il fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con
un tal Vitale ebreo, che nega la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche
grazie all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passa a
Venezia, dove perfeziona lo studio del latino alla scuola di Merula. Il
componimento esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione
dei giochi e nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi sono
comparati a personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente
accademico patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen
bucolicum, costituito da X egloghe dedicate ai principali misteri della vita di
Cristo: l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine,
l'incarnazione del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli
inferi, la resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo,
l'assunzione di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più
importante riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L.,
l'incoronazione per mano dell'imperatore Federico III, nella chiesa di S. Marco
a Pordenone. Secondo il racconto del fratello, L. si reca presso
l'imperatore, di passaggio nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia,
gli avrebbe declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso
dall'imperatore che spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. L.
stesso celebra poco più tardi l'evento nell'egloga Laurea. Una serie di
stampe, del tipo dei tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di
Venezia, fornì al L. lo stimolo per la composizione dei due libri De gentilium
deorum imaginibus, poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più
rilevanti testimoni dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica
Vaticana (Urb. lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una
serie di sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca
dei tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica
del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che
Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per
riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e
quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo
ducale di Ferrara da parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo
il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i
passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una
seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo
ducale di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere
in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716
vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche
corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di
Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente
occorso al duca nel novembre 1477. L'originaria dedica a Borso d'Este è
perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non
estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di
"appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte,
secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma iL. intende riscattare dall'uso
ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che
"triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas et
simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e
sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché
"invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra
deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis
asseruere suis.. Nel primo libro sono presentate e descritte, in successione,
le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme
conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti,
identificati con gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le
rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti
che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie
astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta
le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone,
Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in
versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici
urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e
integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver
ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino. La vicenda
compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno di L. a
Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere
all'educazione del nipote Fabrizio. L. intraprese quindi la stesura di un nuovo
ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una
prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di
Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e
astrologici. La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal
fratello) addotta a documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i
sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam, livore atque invidia
perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum
negromanticis magicisque artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita
Lodovici, p. 7). L. avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e
guarigioni, ma sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione
dell'assistenza divina. Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda
compositiva dei Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti
(tra cui il ms. Vat. lat., autografo, nel quale si depositano varie fasi
redazionali) e delle indicazioni cronologiche interne, che permettono di
riconoscere tre redazioni: una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta
entro il 1480; una seconda dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a
suo figlio Alfonso duca di Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il
1482; una terza più tarda, dedicata al re di Francia Carlo VIII, probabilmente abbandonata
dopo il fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto
poema in sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani. Sono
descritte e celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro
successione nel calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di
carattere astronomico e saltuarie indicazioni relative alle attività agricole.
I primi tre libri celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici
successivi sono dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta
del Giudizio finale. Il poema ricevette onorata accoglienza da
parte dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di
Paolo Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti, nei
quali il poeta è celebrato come una sorta di OVIDIO (si veda) reincarnato. Al
Platina sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei
quali in morte. Secondo Foà, al 1481 daterebbe la conoscenza con
Correggio, alla quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la
propria conversione alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al
rapporto fra i due e al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento
risale però all'11 apr. 1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di
Sisto IV, quando assistette all'apparizione romana di Giovanni da Correggio
che, a cavallo e coronato di spine, attraversò la città e, pur privo di
qualsiasi istruzione grammaticale e retorica, predicò al popolo compiendo atti
e riti simbolici e manifestando una sapienza teologica dovuta a una sorta di
mistica ispirazione che gli valse anche incontri con il pontefice e vari
prelati. Gli studi di Kristeller hanno infatti dimostrato l'appartenenza
al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac portendenti apparitione novi atque
divini prophetae ad omne humanum genus, dove è diffusamente narrato il viaggio
romano di Giovanni da Correggio seguito da una dichiarazione dell'autore di
piena adesione e di conversione: "quod novae ac tantae rei sacramentale
mysterium ego attonitis aspiciens oculis, mecumque ipse attente et ex totis
animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior obesset mora, relictis Parnasi
collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon primus eum sum protinus
insequutus" (ed. Brini). Con lo stesso pseudonimo di Enoch il L.
firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti dello Pseudo Dionigi
l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi contenuti nel ms. II.D.I.4
della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una raccolta completa del
corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino, integrato dall'Asclepius
attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii (ignote a Ficino perché
mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta dallo stesso Lazzarelli.
Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L. indirizza la sua opera di
raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio, nel tono solenne e sacrale
dell'iniziato, affermando il sincretismo tra teologia cristiana e teologia
ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore antichità di Ermete
Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria conversione dalla poesia
agli studi sacri come una vera e propria rigenerazione: "quondam poeta
nunc autem per novam regenerationem verae sapientiae filius"
(Kristeller). L. entra quindi in rapporto con Colocci quando questi, avendo con sé il
nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli
Satriano. Secondo Fanelli, i Colocci passarono nel Regno di Napoli: poco prima
andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De
bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis
puerum". La datazione dell'opera è controversa e il più recente
editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si
concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di
Colocci, che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore
esemplare ("lege sollicito mea carmina visu"), vero e proprio filius
da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il
Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato
all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie
già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di
una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la
quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite,
terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida
regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum
penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id
fieri possit, mox forte docebo, hic
gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema
della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere
riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater
Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti
poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di
proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha
ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai
vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste
indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il
1492 e la morte del re. Il recente editore, Moreschini, ha anche
riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della
Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La
differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella
prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non
indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta
desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del
titolo è in un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato
d’Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere
così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione
dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che
lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da
parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si
rende così simile a un dio. Moreschini osserva come nella seconda redazione il
L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo
(lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via
Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che
tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica)
nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie
conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano
patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.
Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati
da LANCELLOTTI, che invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini
ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un
trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri,
presentate da L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma
di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica
il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est
naturalis magia et vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di
essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia
[…] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi" (ed.
Brini). Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità
divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive
oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe
anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di
distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a
stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum
imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY; Fasti Christianae religionis,
a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice
generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi
umanistici sull'ermetismo, Roma; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in
appendice a Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di
Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova;
le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di
Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e L.. Contributo alla
diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola
superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters,
Roma; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix.
Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina, a cura di Lancellotti, Aesii, e
ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur
und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di
Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel corpus
di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii
Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii
liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano,
Parisiis, in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna,
parzialmente, a cura di Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, e,
integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Id.,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo
latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di Brini, in
Testi umanistici sull'ermetismo. Ampie sillogi di scritti del L., frutto di
compilazioni sette-sono contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San
Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel
ms. della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno
sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA
medioevale e umanistica. Il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella
Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection; una silloge di carmi
di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E.
della Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi
l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di
Baltimora. Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.;
due copie di Lazzarelli, Vita L. Septempedani poetae laureati per Philippum
fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa
da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii; Vecchietti - Moro,
Biblioteca picena, V, Osimo, Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni
tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia L. di Sanseverino
(Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, Ohly, Ioannes
"Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, Thorndike,
A history of magic and experimental science, V, New York, Donati, Le fonti iconografiche
di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi
è riferita la lettura di Campana della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller,
Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento, e il
manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, in
Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche, a cura di
Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia
medioevale e umanistica, Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V.
Fanelli, Città del Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L.,
in Res publica litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in
Quaderni dell'Istituto sul Rinascimento meridionale, Tenerelli, L. ed il
rinascimento filosofico italiano, Bari, Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà,
Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma, Walker, Magia
spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L.
umanista settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in
Studia picena; Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii
Aevi, VII, pp. 159-161.Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico
Lazzarelli. Lazarelli. Keyword: implicatura ermetica, mascolinita romana,
religione officiale romana, campo marzio, marte, dio della guerra, marte come
pianeta, il simbolismo di marte nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte
e Nietzsche --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Leanace: la
ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean.
Giamblico.
Grice e Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Treviso). Filosofo italiano.
Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for morality; I’m
interested in morality as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice:
“I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His
analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.”
Grice: “Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I
reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus
‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a
rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing of
‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La
Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics
like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L.
spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni
contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della
filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica
della morale, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (Hume, Smith).
Ha inoltre indagato criticamente i problemi della meta-etica. In bio-etica, L.
si prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate
alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica
gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno
prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e
"dovere" (Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La
lume della ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza);
“Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma, Laterza); “La
morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica
secolare – senza Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma,
Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano, Cortina); “Senza Dio – gl’atei
romani” (Bologna, Mulino); -- la religione officiale in Roma antica – “Sul
senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica Comitato Nazionale per la
Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di vista morale di L. sulla
nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di L. sul Senso della Vita
In Riflessioni. I significati di simpatia tra conversazione comune e
letteratura “La molteplicità di usi di simpatia” È possibile
riconoscere diversi significati nel termine simpatia che di solito è
accompagnato da un significato positivo, anche se in realtà è possibile
estendere il suo significato fino a usarlo con connotazione negativa. Nel
dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine, dall’attrazione
sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o posizione politica. Come
nota Hume, è molto difficile parlare delle operazioni della nostra mente in
termini del tutto esatti, perché il linguaggio comune raramente fa delle
sottili distinzioni. Il termine “simpatia” viene compreso dalla gran
parte delle persone, ma paga la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che
ad esso si accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la
simpatia, sia in forma implicita che esplicita. Hunt suggerisce che la
nozione di simpatia sia la prosecuzione di quella che nei testi
illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia
assimilata alla compassione. Già nel diciottesimo secolo Rousseau,
assimilando la simpatia e la compassione, la considerava una forma di
pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la considerano
come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli animali, di
partecipare attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose.
E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui il rafforzarsi della simpatia
fra gli esseri umani nella cultura europea (reso possibile dai romanzi) portò
a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento
erano stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le
emozioni e la partecipazione simpatetica del pubblico.Verosimilmente
anche molta della forza espressiva del cinema può essere identificata
nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli
stati d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi.
(discorso su Kundera) “Un percorso di approfondimento” Lo sforzo di
conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa
a quanto la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della
pratica morale diffusa tra gli esseri umani. Cercheremo di capire se la
simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le
argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può
essere considerata necessaria per la nostra vita etica, ma non
sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine conoscitiva tramite
la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una
reazione affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui.
Concordando con Stueber, andremo verso la simpatia intesa come
preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in
base ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte
quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e
istintiva, un contagio emozionale automatico; 2. Dall'altra quello
che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e
che comporta un minimo di riflessione. L'impostazione adeguata è
quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le
cose, presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione
tra simpatia e la pratica non solo della moralità, ma della giustizia,
della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di
civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul
piano normativo che vede in essa ciò che è necessario e sufficiente per
la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga
tradizione nella storia della filosofia. La prima importante nozione di
simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le
cose del mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia
utilizzata per richiamare una connessione armonica che unisce fra loro
esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella
filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel
mondo fisico e solo secondariamente in quello umano, infatti gli stoici
si riferiscono ad una simpatia universale per indicare l'affinità
oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per
l'influenza che ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e
Smith. In Plotino troviamo un'immagine che verrà ripresa da Hume. Questo
concetto naturalistico della simpatia è il fondamento della magia e verrà
ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia ha
un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno
universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione
automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione
positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è un'importante
innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico
delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il
sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è “empatia”
(oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due poli” La
simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica
a Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come
essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson
che però, pur riconoscendo agli esseri umani un grado di apertura
affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella
completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury,
infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia
come una trama che si estende al di là del mondo umano, creando armonia
fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il
termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio
emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea
perché incapace di cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la
riflessione. Ciò non toglie che le analisi di Hutchenson siano tornate
attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e
si può individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni
che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel
considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia
umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico
che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani;
per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra
ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste
diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e
moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo
necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel
“Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea interpretativa
ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume
un principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti
fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo
quelle fra esseri umani, nonostante coinvolga anche relazioni con gli
animali e tra loro stessi; Nella natura umana esiste una gran tendenza a
prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in noi
stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione
della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di
questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali
suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume distingue
due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall'
infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo
indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata che
genera i sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può essere
ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e
simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in
grado di rendere conto della distinzione che facciamo tra virtù e
vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione
della simpatia alternativa a quella di Hume. Infatti, a Smith non
interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la identifica
come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e
passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere
su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa
simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato
complesso e articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di
ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta
sofferenza o piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato
dall'approvazione o disapprovazione che si dà della condotta altrui;
infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre
approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia
come approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella
generica analizzata da Hume, ma molto più aperta per ciò che riguarda il
ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come approvazione
morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica
l'intervento di uno spettatore immaginario capace di far valere le
esigenze di una più completa ricerca delle informazioni rilevanti.
Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla
simpatia col ter. Grice: “While his
research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his
philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for
Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to
the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a
post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the
romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter
of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated
the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I
would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus,
ennico, a pagan, or heathen!” !LE DISCIPLINE
FILOSOFICHE o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do
SAU VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi ‘ORGONO
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ILCELC “tazione delle regole TAN c0 pri «e giù disponibili Q/ we da
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Guanto l'etica assorba i sé 4 AGUA dall'economia per fare
valere 77) generale Pa ‘va (esa a lenee distinte concettualmente
CALO, da. In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio N
www.scribd.com/Filosofia_in_ Ita3 Eugenio Lecaldano (Treviso,
1940), è ordinario di Storia delle dottrine morali al- l'Università «La
Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli XVII
e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971),
all’edî- zione italiana delle Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi
lavori sulla filosofia inglese dei secoli XVII e XVIII vanno
dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî- zione
italiana delle Lettere a Serena di JohnToland (1977), all’ampia antologia
L’ily- minismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica
contemporanea (1991). All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri,
i volumi Le analisi del linguaggio morale (1970) e Introduzione a George
Edward Moore (1971). www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
Eugenio Lecaldano ETICA STEAS
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 TEA - Tascabili degli Editori Associati
S.p.A. Corso Italia 13 - 20122 Milano © 1995 UTET, corso
Raffaello 28, 10125 Torino Proprietà letteraria riservata. Senza il
permesso scritto dell'Editore, sono vietati la riproduzione, la
memorizzazione elettronica e l'adattamento anche parziali, in qualsiasi
forma e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie
fotoscatiche) Edizione su licenza della UTET dal volume ITI
della Fi/osoffa, diretta da Paolo Rossi Prima edizione TEA
settembre 19%6 Ristampe:1 2 3 4 5 6 7 8 9 1996 1997 1998
1999 2000 www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
ETICA www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 Sommario. - 1.
Introduzione. - 2. La natura dell'etica. 2.1. Meta-erica e meta-morale, 2.2. La
conce- zione dell'edonismo egoistico. 2.3. L'etica come insieme di
comandi divini. 2.4. L'etica come co- mando di una q ualche
autorità. 2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. 2.6. L'etica come
pre- scrizione universalizzabile, 2,7. La negazione dell'etica: libertà e
determinismo. - 3. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l'epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemolegia. 3.2.
La conoscibilità della legge divina. 3.3. La fondazione dell'etica attraverso
un calcolo prudenziale. 3.4, La natura umana come fondamento dell'etica:
la via metafisica. 3.5. La natura umana come fondamento dell'etica: la
via empirica. 3.6, L'appello a una ragione universale come via per la
fon- dazione dell'etica. 3.7. LI ricorsa a una facoltà morale per la
fondazione dell'etica. 3.8. La giustifi- cazione procedurale delle
opzioni etiche: il contrattualismo, 3.9. Il non-cognitivisma e la
giustifica. zione logico-argomentativa del punto di vista etico. 3.10.
Dalla giustificazione alla spiegazione del- l'etica. 3.11. I problemi centrali
per Ia fondazione della morale; «legge di Hume» e possibilità di una
«logica delle norme». - 4. Le etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1.
Etiche conseguen- zialiste e deontologiche: principi, mezzi è fini
nell’etica. 4.2. Il valore intrinseco nell'etica. 4.3. L'etica
giusnaturalistica e la legge naturale. 4.4. L'etica contratrualistica e le sue
forme. 4.5. Un'etica dei diritti. 4.6. L'etica kantiana e la persona
umana. 4.7. Le etiche utilitaristiche. 4.8, La scelta ra- zionale come
criterio normativo, 4.9, Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo
etico. - 5. Dall'etica teorica all'etica pratica. 5.1. Dall'etica teorica
all'antropologia: motivazione e obbliga. zione, 5.2. Il ruolo
dell'identità personale nell’etica. 5.3. Erica del carattere 0 dell'azione.
5.4. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. 5.5. I
principali campi dell'etica applicata. - 6. Le dimensioni dell'etica.
6.1. La morale e le relazioni personali. 6.2. Il diritto e i sistemi
codificati. 6.3. La politica e i fini del governo. 1.
Introduzione. Con il termine etica ci si riferisce all'insieme di
scritti e discorsi nei quali si presentano riflessioni sui problemi che
si pongono per gli esseri umani quando agiscono e cercano regole e
principi da seguire nelle diverse dimen- sioni della loro vita pratica.
Fa parte integrante di questa ricerca la valuta- zione delle regole e dei
principi già disponibili o fatti valere da altre persone.
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 8 ETICA Affronteremo
più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica as- sorba
in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una pro-
spettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In
questo senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione
dotta italiana si collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso
ampio comprende dunque tutta una serie di più determinate specificazioni
che riguardano di volta in volta i problemi morali, quelli di pertinenza
del diritto e della legge e quelli che più propriamente rientrano nel
campo della politica o dell’azione del go- verno. Usando un altro
linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo dei valori e delle
norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia la morale, sia
il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici e
specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria
dell’ordina- mento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere
efficaci le san- zioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di
governo e i rapporti tra i vari poteri non sono di pertinenza dell'etica
come qui intesa. Verranno dunque brevemente trattate le questioni
relative al diritto e alla politica solo per indi- viduare con più
precisione gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in queste
aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col.
locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che
affron- tare partitamente i loro problemi specifici. La scelta
concettuale fatta com- porta che si lasci completamente da parte la
pretesa di occuparci dell'etica 0 della morale in un senso più
sociologico, ovvero come insieme di costumi di un popolo, o in un senso
più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclina- zioni e abitudini a
determinati tipi di associazione mentali effettivamente rico- noscibili
nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel
senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il
pensiero impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione
del costume o delle pratiche effettive. La scrittura di
questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una parte si è cercato
di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX. Anche se
probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco tra
secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una prospettiva
che è largamente influenzata dalla considerazione di quei problemi morali
che nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si stanno ancora
affrontando, per la prima volta, quali ad esempio le questioni della
bioetica, o dell'etica am- bientale, del trattamento degli animali ecc.
(cfr. infra $$ 5.4 e 5.5). In secondo luogo chi scrive assume la
prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la quale una vera e
propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo con il XVII
secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della www.scribd.com/Filosofia_in
Ita3 INTRODUZIONE 9 sua autonomia e un certo impegno
in senso professionale riguarda solo la se- conda parte di questo secolo
(Parfit, 1989: 574-575). Ed è dunque a questa etica moderna e contemporanea
più che a quella antica e medievale che in questo scritto si farà
principalmente riferimento per dare spessore storico alle distinzioni e
conclusioni che si avanzeranno. Anche se l'etica si presenta come
una disciplina già consolidata e con una tradizione di sapere costituito,
si può indicare una strada che permette di ac- cedere ai problemi di cui
si occupa muovendo dall'esperienza comune e quo- tidiana. Infatti la
pretesa dell'etica — come del resto di quasi tutti i rami della
riflessione filosofica — è quella di occuparsi di problemi che tutti gli
uomini affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica
teorica è frequente — anzi — trovare affermata la pretesa di essere più
vicina e direttamente ri- levante per la vita delle persone di quanto
siano altri ambiti della filosofia, quali poniamo la gnoseologia (con la
sua elaborazione teorica sulla conoscen- za), 0 l'epistemologia (con le
sue riflessioni sulla teoria della verità) ecc. Questa pretesa di
una più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompa- gna spesso nelle
elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore pretesa per
cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più impor- tante
delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e
centralità regolativa rispetto alle altre. Nella vita quotidiana si
presentano numerose situazioni problematiche che possono essere
considerate come punti di partenza per la riflessione etica. Suggeriamo
di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due distinte
tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di
conflitto — per così dire il versante privato o soggettivo dell'etica —
sono quelli in cui noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione
valida a un problema etico 0 perché i nostri principi tradizionali
risultano inadeguati o perché non riu- sciamo a risolverci appunto tra
differenti principi egualmente rilevanti. Casi di disaccordo — per così
dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica — sono quelli, molto
frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui petsone
diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere
la stessa situazione moralmente rilevante, î Il cammino verso
l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non già quando le
regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre esigenze, ma
piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà
nel campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita
pratica procede in modo del tutto ordinato all’interno di una routine
consolidata non vi è quella base necessaria per un'elaborazione critica,
Il presentarsi di una diffi. coltà nell'applicazione dei codici normativi
tradizionali è, in genere, il punto www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
10 ETICA di partenza per l'elaborazione dell’etica nel
pensiero moderno e tale quadro problematico è diventato costitutivo della
teoria etica nel pensiero etico con- temporaneo. La stretta
connessione della riflessione etica con situazioni di conflitto e di
disaccordo sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale
spetta di proporre una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi
specifici del- l'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò che è bene
o giusto fare in situa- zioni particolari. Una pretesa che nel corso
della nostra ricostruzione delle varie posizioni riconoscibili nell’etica
moderna e contemporanea avremo l’oc- casione di valutare
criticamente. L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo
più sistematico in questo scritto si colloca in un quadro generale
individualistico. A monte in- fatti della nostra rivisitazione dell'etica
vi è l’assunzione filosofica che in gene- rale i problemi con cui si ha a
che fare riguardano individui ovvero persone umane. L'etica così intesa
si muove in un contesto — che può essere conside- rato come proprio del
pensiero moderno da Cartesio in avanti — in cui i pro- blemi di fronte ai
quali ci si trova sono problemi che nascono per esseri umani particolari
e finiti. Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la rifles-
sione era volta a fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura
umana complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da
problemi pra- tici di individui ben determinati. Il lettore troverà
dunque privilegiata nel- l'esposizione seguente una tradizione
empiristica e naturalistica nella quale, tra il XVII e il XXX, si sono
collocati tra gli altri: Thomas Hobbes (1588- 1679), John Locke
(1632-1704), David Hume (1711-1776), Adam Smith (1723-1790), Jeremy
Bentham (1748-1832), John Stuart Mill (1806-1873), Henry Sidgwick
(1838-1900). La riflessione sulla morale di Immanuel Kant (1724-1804)
malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta presente per la sua
capacità di far valere l'ottica di una responsabilità individuale auto-
noma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e della filosofia
analitica hanno contribuito nel corso del XX secolo a questo approccio
più generale nei confronti dell’etica — e il loro contributo sarà largamente
presente nelle pagine seguenti —, che è stato più recentemente
caratterizzato esplicitamen- te come «individualismo metodologico». Una
linea di ricerca ampiamente percorsa — anche se non senza differenze —
in Italia, ad esempio, da Er- minio Juvalta, Nicola Abbagnano,
Giulio Preti, Uberto Scarpelli e Norberto Bobbio. È vero che
i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano
effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili
laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari
di www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 LA NATURA
DELL'ETICA 1l quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita
dell'etica e il fiorire della rifles- sione pratica a cui abbiamo
assistito nella seconda metà del secolo XX (dai disaccordi pubblici sulle
questioni di giustizia distributiva e di discrimina. zione che hanno
caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni Ot-
tanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere di fronte
alle nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli esseri
umani) mostrano l'ampio radicamento nella vita comune di questa
dimensione filosofica. Pro- babilmente riflessioni e decisioni si
svolgono in modo meno esplicito e più impersonale (attraverso la
meditazione della discussione pubblica intersogget- tiva) di quanto
risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle pagine
seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere,
renderemo conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni
elaborate per avere a che fare con quelle scelte individuali che sono
influenzate da ragioni etiche. 2. Lanatura dell'etica.
2.1. Meta-etica e meta-morale. — La riflessione sulla natura dell’etica
ha una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e
critica alla cui genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si
tratta infatti, in primo luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a
cui si riflette econseguente- mente di individuare quali siano i criteri
cui si può ricorrere per risolverli 0 mettere alla prova la validità
delle soluzioni alternative che ci si presentano. Un esempio
particolarmen te rappresentativo di questo percorso logico troviamo
delineato da George Edward Moore nei suoi Prircipis Ethica (1903). Moore
chiarisce che il problema centrale dell'etica — a suo parere, l’unico
problema dell'etica — è quello di fornire una definizione delle princi-
pali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni
di buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte
le no- zioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella
fondamen- tale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive
Moore: Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo
contrario «cattivo», il solo oggetto semplice di pensiero che appartenga
peculiatmente all'etica. La sua definizione, di con- seguenza, è il punto
essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo punto
porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che
qualsiasi altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è
pienamente compresa è non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il
resto dell’etica ha un valore praticamente nullo dal punto di vista della
conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che,
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 12 ETICA finché non
si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un
giudizio etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come
scienza sistematica è dì fornire ragioni corrette per pensare che una
cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla nostra domanda tali
ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49). Secondo
l’impostazione di Moore dunque — che faremo nostra — i me- todi di prova
e confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere iden-
tificati solo dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di
pro- blemi di fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte
morale della nostra esistenza. Cominciamo quindi con il
passare in rassegna criticamente le più impor- tanti concezioni sulla
natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per riferirsi a
questa parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è
molto dilungati sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui
que- ste etichette in un senso generico e che le rende equivalenti senza
investire la distinzione tra etica e morale su cui invece ci soffermeremo
nel $ 6). Una de- terminata concezione meta-etica o meta-morale si
colloca sul piano conosci- tivo e logico. Essa si propone infatti, prima
di tutto, di farci capire qual è la natura dell'etica e quali sono i
metodi di prova e dimostrazione in essa in vi- gore. Tutto ciò è
preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a sotto- scrivere
una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi non
solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere
come del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe
dunque, per usare formule che piacciono molto ai filosofi, di
identificare preliminarmente ciò che è comune a tutti i punti di vista
etici in quanto etici, per eventual- mente passare poi a sottoscrivere
una determinata etica a preferenza di altre. Naturalmente vi sono
anche pensatori che negano che una meta-etica neu- trale e del tutto
priva di implicazioni normative sia possibile. In questalinea troviamo un
autore di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la na- tura
prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione di una
particolare meta-etica (Scarpelli, 1982: 102-112). Ma anche autori del
filone postanalitico come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la
validità dell'assun- zione che distingue tra forma e contenuto,
distinzione a monte della tesi della neutralità delle teorie meta-etiche
(H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992). Questa controversia riguarda però
più propriamente il modo di intendere il lavoro filosofico e il modo di
concepire le relazioni e connessioni tra analisi concettuali e logiche e
opzioni valutative e normative e dunque in questa sede laasciamo da
parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione di quale si
debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche. Se
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL'ETICA 13
cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio
morale — come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e
specialmente gli esponenti della filosofia del linguaggio
ordinario come ad esempio Charles Leslie Stevenson, Richard Mervyn Hare e
Patrick Horace Nowell-Smith (si veda C. L. Stevenson, 1962; R. M. Hare,
1968; P. H. Nowell-Smith, 1974), o possano essere caratterizzate in modo
meno ristretto. Più recentemente, ad esempio, Bernard Williams ha
suggerito di considerare come oggetto proprio delle analisi sulla natura
dell'etica — in coerenza con una concezione più li- berale
dell'analisi filosofica — non solo i discorsi, ma anche esperienze,
azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello
generale di questo scritto potremo fare tesoro di questa proposta
liberalizzatrice e con- siderare come campo della meta-etica o della
meta-morale l'insieme delle di- verse dimensioni della vita etica degli
uomini. 2.2. La concezione dell'edonismo egoistico. — La via più
ovvia per identi- ficare la natura generale dei problemi che sorgono
quando stiamo scegliendo o decidendo tra differenti alternative che ci
stanno di fronte è quella di soste- nere che in realtà siamo esitanti
solo perché non ci risulta chiaro cosa ci con- viene fare di più. Ovvero
— lasciando da parte la questione di una differenza tra le più specifiche
caratterizzazioni di che cosa intendiamo con la formula «ciò che ci
conviene di più» —-ciò su cui stiamo deliberando è solo l'indivi-
duazione del corso di azione che farà maggiormente il nostro proprio
inte- resse, 0 ci darà più piacere o ci farà guadagnare di più ecc.
Questa concezione meta-etica riconduce quindi le azioni in gioco in
questa dimensione della no- stra vita pratica all'interno di un
contesto che riguarda le azioni umane in generale: tutte le azioni umane
sono rivolte a ottenere il proprio personale piacere e a evitare il
dolore. Si tratta di una concezione che riconduce l'etica
all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che — con una certa
ap- prossimazione interpretativa — viene attribuito a pensatori come
Epicuro e Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law
Natural and Politic (1640, Elementi di legge naturale e politica)
sostiene: «Ogni uomo, dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per
lui dilettevole, bene; e male ciò che gli dispiace; cosicché, dato che
ognuno differisce da un altro nella co- stituzione fisica, così ci si
differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla co- mune distinzione di
bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos, vale a dire il bene
assoluto» (Hobbes, 1985: 50-51). Questa concezione della natura
dell'azione umana in generale in realtà porta a negare che vi sia una
dimensione etica nella vita degli esseri umani. Infatti ci troviamo di
fronte a una posizione che propone di tradurre tutti gli www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
14 ETICA enunciati 0 giudizi etici in questioni che hanno a
che fare esclusivamente con valutazioni, pro 0 contro una certa linea di
azione, sulla base di un criterio esclusivo che è quello del proprio
personale tornaconto. La natura dell'etica non viene certo caratterizzata
in questa direzione da tutti coloro che presen- tano delle teorie
meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da un punto
di vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte le
diverse concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e
sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e
valu- tazioni che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che
vanno al di là del solo interesse personale. Naturalmente una
caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura non interessata,
imparziale e generale del punto di vista che essa coinvolge pone come
questione preliminare quella più propriamente empirica e psicologica della
possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da motivazioni
non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine seguenti (cfr.
jn- fra $$ 3.3, 4.8 e 5.1) che una delle grandi questioni intorno a cui
sono conver- gentemente confluiti gli sforzi di melti pensatori è
proprio quella di riuscire a salvaguardare nel comportamento umano uno
spazio per le azioni mosse da ragioni etiche e dunque non strettamente
egoistiche. In questa sezione ci limi- tiamo dunque a fissare in via del
tutto preliminare il punto su cui convergono le diverse concezioni sulla
natura dell'etica e della morale di cui renderemo conto in questo
paragrafo. In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche
cercano di rendere conto di un fatto considerato più o meno acclarato
ovvero che nella vita degli esseri umani esiste una sfera di azioni,
scelte, valutazioni che è di pertinenza dell'etica e della morale. Questa
sfera ha a che fare comunque con valori, principi, criteri, norme, regole
che riguardano la condotta degli uomini ove la si veda come non
esclusivamente indirizzata verso la realizzazione di obiettivi
strettamente egoistici ponendosi dal punto di vista di ciascuno degli agenti.
Vi è cioè secondo le diverse teorie meta-etiche che ora passeremo in
rassegna una dimensione sovraindividuale e intersoggettiva (se non
addirittura univer- sale) coinvolta nelle azioni umane e che sarebbe
appunto quella di pertinenza dell'etica. Sulla base di questa premessa
comune le meta-etiche si differen- ziano poi per il modo di rendere conto
di questa dimensione e conseguente- mente delle vie per fondare e
giustificare scelte e giudizi etici corretti. 2.3. L'etica come
insieme di comandi divini. — Una delle teorie meta-eti- che più antica
e fortunata è quella che ritiene che al centro dell’etica vi siano una
serie di doveri e di obblighi che ricavano la loro origine, validità e
forza www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA
DELL'ETICA 15 dal fatto di essere comandi di un’autorità superiore.
In genere poi all'interno di questa concezione meta-etica si tende a
identificare l'autorità i cui comandi vengono messi in pratica nell'etica
con una qualche divinità, si tratti del Dio di una delle diverse
religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della religione naturale,
o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni po-
liteistiche. Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è
stata presentata nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo
provvidenzialistico del XVII secolo e in particolare la si trova difesa
approfonditamente da Locke negli Essays on the Law of Nature (1660-1664,
Saggi sulla legge naturale). Si tratta di una concezione meta-etica che
proprio per il riferimento essenziale ai comandi di una autorità
sovrannaturale considera primarie e centrali per ren- dere conto di
questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbliga- zione, dovere
e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di buono,
giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi
strettamente connessa con la religione. Infatti se tutto ciò che è
in gioco nelle nozioni eti- che è un qualche comando o legge di
un’autorità divina che rende obbligatori i suoi dettami attraverso
sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire al- lora un'etica così
intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove del- l'esistenza
dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili
difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di
un essere che trascende la natura. I fautori della concezione che vede
nell’etica una serie di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità
divina, giunti a questo punto o riterranno scomparsa l'etica
dall'orizzonte della vita degli uo- mini 0 dovranno indicare una qualche
autorità terrena da cui fare dipendere la validità dei principi etici 0,
infine, dovranno abbandonare del tutto la meta- etica che rende conto dei
principi morali come di comandi di una qualsiasi autorità. Una
trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hob- bes
portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico.
Ma più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad
oggi, con una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna
e con- temporanea come un processo di progressivo allontanamento della
meta-etica in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal
soggetto che sceglie, decide o giudica eticamente. Laddove si
istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono le due
diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene
che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti
ritenere che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale
oppure — alla lucedi una concezione volontarista — può concludere che ciò
che è buono è www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 16
ETICA tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo
sulle difficoltà presenti in queste due distinte vie teoriche. In
particolare l’intellettualismo sembra andare incon tro alta
difficoltà di rendere in qualche modo il bene pre- cedente e superiore a
Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea ovvero con la
questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la necessità di
ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso. Si può
ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate — una narrazione di
queste difficoltà si può trovare nei volumi di S. Landucci (1986)e M. E.
Scri- bano (1988 e 1994) — nel corso del XVII secolo nel delineare in
modo coe- rente e accettabile queste diverse strategie per fare
dipendere il bene morale dalla legge divina, hanno segnato una delle
cause del crollo della concezione meta-etica che stiamo esponendo. Sulle
macerie di questa concezione si sono andate consolidando le meta-etiche
che ritengono costitutiva per una ricostru- zione adeguata di questo
campo il pieno riconoscimento dell'autonomia del- Petica.
Cerchiamo di delineare sia pure sommariamente le principali
argomenta- zioni che giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica
alla legge divina. Nella sezione successiva ricostruiamo invece il
tentativo di connettere comun- que l’etica ai comandi di un'autorità, non
già però sovrannaturale, ma solo terrena e positiva. Come si
è detto la biografia intellettuale di Locke è particolarmente signi-
ficativa per chi sia interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e
con- tro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello
di conciliare questa concezione meta-etica con ragioni che potessero
essere accettate an- che, al di fuori della metafisica innatistica del
pensiero medievale e cartesiano, da chi si muoveva accettando
un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni vantaggi a favore di una
concezione della morale e dell'etica come una legge divina presente nella
natura umana. Quest'impostazione permetteva di risol- vere in modo
semplice le complesse questioni della motivazione propria della condotta
etica e dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra
con chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in
defini tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in
cui i prin- cipi venivano appunto considerati come eterni e universali e
obbligatori per tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente
ripete Locke — e non solo negli Essays on the Law of Nature, ma anche in
An: Essay concerning Human Understanding (1690, Saggio sull'intelletto
umano) e negli scritti pubblicati dopo il 1690 — un'adeguata filosofia
morale deve riuscire a delineare le con- dizioni che rendono vincolante
principi e regole, ovvero la legge naturale, per tutti gli esseri
umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL'ETICA 17
di una filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio
è vincolante e obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché
noi rico- posciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo
concependo la legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio.
Solo questo in- fatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente
presente în tutti gli esseri umani e vincolante in modo efficace in
quanto tutti sanno che qualsiasi defezione alla legge sarà punita da Dio
senza scampo in una vita eterna. Locke nella sua presentazione
della natura dell'etica come una legge natu- rale non solo si sforzava di
insistere sulla natura obbligante di questa legge facendola derivare da
un comando divino, ma di rendere possibile la conosci- bilità di questa
da parte della coscienza umana senza doverla presupporre come innata o
ammettere un consenso universale non riscontrabile empirica- mente.
Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da
un processo che univa senso e ragione portava Locke a considerare tale
legge come costitutiva della natura umana. Locke finiva dunque con il
congiungere la concezione che vede l'etica come il campo dei comandi
divini con un’altra concezione che vede piuttosto l’etica come
l’esplicitazione di quelli che sono i caratteri necessari della natura
umana. Nelle sue analisi Locke non distin- gueva tra due strategie
radicalmente diverse, quella che concepisce la legge morale naturale come
un comando divino che ci viene direttamente comuni- cato da Dio o da un
suo interprete autorizzato e quella che invece vede la legge naturale
come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le leggi morali
incorporate nella condotta umana. 2.4. L'etica come comando di una
qualche autorità. — L'insistenza sulla tesi che la natura propria
dell'etica può essere colta solo mettendo al suo cen- tro principi morali
che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è presente anche in
un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale. Si tratta
di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una au-
torità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato
concettuale dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini
mondanizzati della natura vincolante della morale. Questa strategia di
traduzione dell'etica del comando divino nella meta-etica che definisce
comunque le nozioni morali in termini di imperativi o comandi sia pure di
una autorità terrena e umana fu percorsa già nel corso del XVII secolo,
ad esempio secondo alcuni studiosi di etica da Hobbes. Ma
l'interpretazione di Hobbes in questo senso è contro- versa e dunque
risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua con- cezione
della legge etica o morale considerandola come una concezione che la
riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che,
di- www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 18 ETICA
versamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad
esempio M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa
ritrovare nell'opera del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in
quanto è chiaro da un punto di vista concettuale che per un utilitarista
il criterio decisivo dell'etica non è il rinvio a qualcosa che è
comandato — secondo procedure ricono- sciute idonee — ma
direttamente a ciò che è accettabile in termini di utilità generale. Tale
concezione può dunque essere più correttamente attribuita ad autori come
John Austin o, per venire al secolo XX, ai sostenitori del positi- vismo
giuridico come Hans Kelsen. Si tratta di una concezione legalistica del-
l'etica; ciò che ha una validità etica può essere obbligante solo se vi è
un’au- torità che è in grado di fare rispettare, con opportune
sanzioni, la legge o le regole codificate. Tale impostazione non solo
esige una qualche codificazione dell'etica, ma richiede anche che vi sia
una autorità in grado di fare rispettare i suoi decreti.
Numerose sono le obiezioni che sono state mosse a questa concezione
le- galistica dell’etica e in generale a una concezione come quella che
sarà svilup- pata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di
ricondurre la to- talità del valore etico ai comandi di un'autorità
positiva in grado di fare rispet- tare con l'uso della forza i suoi
decreti. Già nel XVII secolo viene messa a punto un’ampia batteria di
critiche. Esse rendono difficile accettare questa concezione come in
grado di spiegare la natura dell’etica in generale e fini- scono con il
delimitarne la portata esplicativa, eventualmente, al solo diritto
positivo strettamente inteso (cfr. infra, $ 6.2). Ricordiamo alcune
di queste critiche. Il punto decisivo sta nel fatto che ricondurre
l'etica a un insieme di comandi non permette di discriminare — come ha
mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare, 1992: 13-30) — tra tre
situazioni che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella
di chi accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi pro-
mulga il comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio
e vincolante in quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza
effi- cace coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è
poi la posi- zione di chi accetta un comando in quanto riconosce
un'autorità a chi pro- mulga il comando. In questa posizione ricadono non
solo i fautori — di cui abbiamo già detto nella sezione precedente — di
un legalismo religioso alla Locke che vedono il comando divino come
obbligante non potendosi non avere «fiducia» nell’autore della natura che
non può regolarsi in modo di- verso da quello proprio di un padre buono.
Vi ricadono anche i fautori del positivismo giuridico (per una
presentazione ed una critica di questa posi- zione sono utili Bobbio,
1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non potere
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL'ETICA 19
non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono come le-
gittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente previste per
pro- mulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la posizione di coloro
che accettano un comando in quanto discriminano tra comandi giusti e
comandi ingiusti e dunque rispettano le leggi del loro paese fino a
quando le considerano etica- mente accettabili. Si tratta di tre
situazioni ben distinte e una meta-etica che non riesca a mantenere
autonoma l'obbligatorietà della morale dalla mera ac- cettazione di un
comando legittimo o dal timore di una qualche sanzione data da un potere
che ha la forza di costringerci risulta una meta-etica inadeguata.
Le critiche alle concezioni religiose o legalistiche della natura
dell’etica sono una chiara via pet giungere a cogliere l'autonomia
dell'etica. L'autono- mia che così viene in primo piano è quella di
decisione di ciascun soggetto individuale responsabile. L'etica ha a che
fare con decisioni autonome di in- dividui che non possono ritenere
risolti i loro problemi meramente facendo appello a una qualche autorità
che comanda loro che cosa fare. In realtà resta sempre aperta da un punto
di vista etico la domanda che conta ovvero se ob- bedire o meno al
comando riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente etico di tale
domanda ci si rivela laddove comprendiamo che con essa ci si chiede non
tantose l'autorità che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o
punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto piuttosto se il
comando è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente accettabile.
Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo giuridico non
riescono dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto. Collocandosi
al loro in- terno non trovano una spiegazione tutte le situazioni — su cui
ha molto insi- stito Ronald Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al
riduzionismo meta- etico del positivismo giuridico — quali quelle in
gioco quando ci si rifiuta di obbedire a un comando ingiusto (le forme di
totalitarismo del XX secolo hanno di continuo fatto sorgere per gli
esseri umani dilemmi del genere}. Ma più in generale partendo da una
concezione meta-etica del genere non si rie- sce a spiegare proprio la
genesi di istituzioni quali la giustizia e il governo. Naturalmente
intendiamo riferirci a una genesi che cerchi sul piano logico- critico le
ragioni della validità morale di un certo governo e della giustizia, non
già a una genesi che si contenti di qualche risposta di ordine storico 0
fattuale. Le concezioni che riconducono la validità dei principi morali a
co- mandi vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a
considerare che l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla
genesi della va- lidità del potere di un certo governo o di determinate
regole di giustizia non è altro che il mero interrogarsi sul fatto
storico se questo governo esiste o meno e se queste sono o meno le leggi
che vigono nel nostro paese. Chi riduce
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 20 ETICA l'etica ai
comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere conto del perché
distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e leggi ingiuste. In
questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso porsi il problema,
che pure sembra centrale per l'etica moderna e contemporanea, dello
spiegare quali sono le basi per cui si debba obbedire a una qualche norma
anche quando si sa che non c’è nessuna autorità in grado di osservare il
nostro com- portamento e dunque premiarci o punirci per la nostra fedeltà
o la nostra de- fezione. Se l'unica validità di una legge etica è data
dalla forza che chi la co- manda ha di farla rispettare, è evidente che
non c’è nessuna ragione di seguire una norma etica quando l’autorità non
è in condizione di raggiungerci con le sue sanzioni, Questa concezione
meta-etica dunque non solo non spiega il passaggio da una
situazio ne priva di etica a una in cui vi è un qualche princi- pio
etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta — in definitiva come
fisio- logica e legittima — la possibilità di defezionare dai comandi
dell'etica ove si sia in condizione di sfuggire al controllo
dell’autorità che li ha promulgati. 2.5. L'etica come legge
naturale 0 razionale. — Un'altra concezione sulla natura dell'etica che
ha una lunga storia dietro di sé è quella che identifica il bene e il
giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con ciò che è
razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di ragione umana
e in termini di natura umana rappresentano certamente due diverse
concezioni meta-etiche se le si vede da un punto di vista contenutistico;
infatti è ben di- verso presentare come un tratto definiente del bene e
del giusto la natura o la ragione umana. Per una lunga parte della storia
dell’etica però le due vie sono state fatte coincidere e fino al XVII
secolo la natura umana è stata appunto presentata principalmente come
natura razionale. Solo nel XVIII secolo si sono andate divaricando le due
diverse strategie che hanno ricondotto l’etica o ad aspetti della natura
umana non strettamente razionali (i sentimentalisti e Hume) o proprio
alla parte razionale in quanto non influenzata da desideri e passioni
(Kant). Per quanto riguarda queste concezioni che riconducono l'etica
alla natura o alla ragione umana va rilevato che diversamente da quanto
accade nel caso dell'etica del comando divino la definizione del campo
pro- prio del bene e del giusto non viene data rinviando a realtà al di
sopra o al di là degli esseri umani, quali sono appunto i comandi di un
Essere Supremo. Ci troviamo infatti di fronte a concezioni che ritengono
di potere rendere conto del campo della morale ricavandolo integralmente
da ciò che è interno all’uni- verso della vita umana. Si viene così a
superare una concezione eteronoma dell'etica nel senso di una concezione
che rinvia a qualcosa che è al di sopra o al di fuori della natura e
ragione umana. Non tutte però le concezioni che
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL'ETICA 21
collegano l'etica alla natura o ragione umana — e che potremmo caratteriz-
zare in un senso molto generale come naturalistiche o immanentistiche —
ne riconoscono pienamente l'autonomia, e non mancano fino al XVIII
secolo concezioni riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a
tratti generali della vita o della natura umana niente affatto peculiari.
Alle concezioni meta- etiche di Hume e Kant possiamo fare risalire il
pieno riconoscimento dell’au- tonomia dell’etica pure nell’alveo di
spiegazioni che fanno ricorso alla natura o alla ragione umana. Nel senso
più radicale di collegamento dell'autonomia dell'etica con le scelte e le
decisioni individuali dobbiamo invece guardare a un processo che si è
sviluppato solo nel XIX e XX secolo. Cerchiamo di individuare i
tratti distintivi di questa concezione meta-etica o meta-morale rendendo
brevemente conto delle tradizioni che l'hanno mag- giormente sviluppata.
In primo luogo la tradizione naturalistica che ha guar- dato — e guarda
tuttora — all'etica nei termini metafisici e ontologici propri della
filosofia di Aristotele con le trasformazioni e manipolazioni più o meno
profonde operate dalle filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo
luogo la tradizione razionalistica che possiamo fare coincidere con il
giusnaturali- smo razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno
tenute distinte da queste due strategie meta-etiche che potremmo
caratterizzare come riduzioni- stiche quelle che pur rinviando alle
nozioni di natura o ragione umana rico- noscono uno spazio del tutto
autonomo per la morale o l'etica. Così va consi- derata a parte la forma
di naturalismo presente nelle opere di Hume che rico- nosce nell’etica
una dimensione del tutto peculiare della vita umana della quale non si
può rendere conto nei termini di una generale ricostruzione on- tologica
e metafisica della natura umana complessivamente intesa. Va ugual- mente
tenuta distinta dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostru-
zione che della morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo
stretto collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia
del campo della morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione
pura conoscitiva e quello della ragione pratica. Presenteremo
dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel senso di un
giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrin-
secazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un
col- legamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno
si cer- cano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del
campo della morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una
razionalità pur sempre sovrastorica e universale ma che viene connotata
in una dimensione specifica- mente pratica distinta da altre dimensioni.
In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi che la virtà e il
bene www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3 22 ETICA
consistono per gli uomini nel realizzare il comportamento che è proprio
della loro natura. L'essere umano è dunque naturalmente etico (come del
resto è naturalmente politico), e l'etica nella sua realtà può essere
derivata solo dalla conoscenza dell'essenza stessa della natura umana.
Una prospettiva che tra l’altro rende praticamente impossibile
distinguere il piano dell’analisi meta- etica da quellodelle analisi
normative: identificare lo spazio dell'etica coincide con l’identificare
il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a rico- noscere.
Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele presenta la più
chiara formulazione di una concezione che ricava la definizione
dell'etica dalla definizione della natura umana. L'elenco delle virtù
umane e la loro ge- rarchia viene infatti derivata da una preliminare
conoscenza di quella che è la natura sostanziale dell'uomo. Anche se in
Aristotele si riconosce come propria della vita pratica una dimensione di
indeterminatezza e probabilità che la rende del tutto diversa dal sapere
teorico in cui si possono attingere sia la certezza, sia la conoscenza
dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza quando si passa a
delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini la virtù
somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia rappresenti la
virtù suprema della vita associata viene derivato logicamente dalla
definizione del- l'essenza dell’uomo come appunto animale razionale
propriamente adatto al sapere teorico e al vivere in società. Vi è
nell’etica aristotelica non solo una derivazione della definizione
dell’etica da quella che si ritiene la natura essen- ziale e sostanziale
dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica per rendere
conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto dinamico
e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per
l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa
di già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a
realizzare quello che è lo scopo ad esso più proprio. Questo
impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filo- sofia
di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come
struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il
suo peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda
Maritain, 1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere
la strategia che riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può
infatti percorrere anche la strada che vede la natura umana come di per
se stessa fornita di caratteri etici imprescindibili. L'Autore della Natura
con la sua bontà e provvidenza ha creato la natura umana in modo tale da
fornirla intrinsecamente di quel par- ticolare te/os che le permette di
realizzarela felicità e i risultati migliori per gli uomini. Realizzare i
fini propri della natura umana diventa così un comanda- mento anche per
la religione cristiana in quanto appunto nella n atura umana
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL’ETICA 23
sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della vica
etica. Ciò che è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso
ordine naturale delle cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è
buono e giusto. Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche
tratto tipico della natura umana viene percorso nel pensiero moderno e
contemporaneo anche su basi diverse da quelle metafisiche e ontologiche
proprie dell'etica aristotelica. Se il carattere comune în base al quale
caratterizziamo una meta-etica come natu- ralistica è quello di
ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è pe- culiare
della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche sono
state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e
contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana
alla luce di una concezione sostanzialistica e di conseguenza non
percorrono la strada che presenta l'etica come qualcosa di
ontologicamente o concettual- mente necessario per una definizione della
natura umana ed evitano anche di ricorrere alla strategia finalistica 0,
nella versione cristiana, provvidenzialistica, per fondare il campo della
morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche naturalistiche delineate
nella cultura moderna econtemporanea e alcune cri- tiche ad esse mosse.
Abbiamo un filone di meta-etiche naturalistiche, inaugurato dalla
filosofia di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury, che pone al centro
dell'etica un qual- che istinto 0 sentimento originario e irriducibile ad
altro: un «senso morale» proprio di tutti gli esseri umani, Qui ci
troviamo non solo di fronte a una meta-etica chiaramente immanentistica,
ma anche a una con cezione che non deriva la definizione dell’etica
da una caratterizzazione di tipo essenzialistico della natura umana, ma
da una ricognizione empirica degli esseri umani. Re- sta poi vero che
attraverso questa procedura empirica si ritiene di potere in- dividuare
qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi come tale proprio della
natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo di lui di Francis
Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato che l'etica viene
qui collegata alla disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose
del mondo sulla base di qualche sentimento o senso piuttosto che in
termini meramente intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo
XVILI vi è stata una meta- etica riconducibile a una forma di naturalismo
sentimentalistico. L'etica in- fatti ha a che fare con sentimenti e
emozioni proprie di tutti gli uomini anche, ad esempio, per Hume e Smith.
Nel caso di Hume tale caratterizzazione in termini naturalistici
dell'etica risulta temperata, sia dalla portata complessiva- mente
ipotetica delle sue spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i senti-
menti e le emozioni proprie dell’etica come in larga parte non originarie,
ma piuttosto come il risultato di un processo artificiale di sviluppo
della natura www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 24
ETICA umana. Di conseguenza da una parte l'etica si presenta come
qualcosa che ha a che fare con un risultato artificiale e non
originario della vita umana, ma dall'altra questo stesso artificio è
presentato come del tutto naturale per gli uomini nel senso che Hume ne
ricostruisce la genesi ricorrendo a cause natu- rali. Tale concezione
naturalistica è stata così vista — ad esempio da M. Ruse (1986) — come un
precedente di quella evoluzionistica elaborata da Charles Darwin e che si
trova sviluppata poi a un livello filosofico (non privo di incli- nazioni
assolutistiche) in Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico
l’etica viene considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative
ac- quisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione
evolutiva dell’etica non esclude che essa venga considerata —
specialmente laddove si insiste sulle sue radici biologiche — come
propria di tutta la specie umana. ‘Tutte queste diverse forme di
meta-etica naturalistica sono state sottoposte a critiche radicali lungo
due linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX.
Da una parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill nel primo dei
suoi Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione) dedicato
alla natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità
della nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un
qual- che criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici,
dato che sta le azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano
nella Natura latamente in- tesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad
esempio G. E. Moore nei Prircipia Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un
punto di vista logico econcettuale il naturalismo cade nella cosiddetta
«fallacia naturalistica» riducendo appunto a naturale ciò che non lo è
(cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11). Malgrado queste critiche nel XX secolo
concezioni naturalistiche dell’etica sono state pur tuttavia riproposte,
sia in termini evoluzionistici (ad esempio nel caso della sociobiologia,
specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso forme aggiornate di neoaristotelismo
(ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac. Intyre, 1988). In
contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle con-
cezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla natura
umana, in generale, quanto piuttosto collegandola strettamen te, in modo
più specifico, con la ragione umana. Tale strategia è stata percorsa
lungo due di. verse linee, Da una parte i razionalisti etici del XVII
secolo, quali ad esempio i giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf,
consideravano questa ra- gione umana come una facoltà ontologicamente
garantita in grado di cogliere l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi
obiettivi più propri (Bobbio, 1963). Questa concezione della ragione è
rintracciabile anche alla base dei numerosi tentativi nel corso del XVII
secolo di dare vita a un'etica dimostrata, un com-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL’ETICA 25
pito verso cui tendono pensatori per altri versi molto differenti quali
ad esem- pio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke. L'idea era
quella di presentare una morale che derivasse le leggi del comportamento
umano da principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi per definizione,
o radicati nella struttura metafisica del mondo. Il
razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al d
i fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o dimostrativo.
Questa è ad esempio la strategia percorsa nel modo più rigoroso ed
approfondito da Kant nella Kritik der praktischen Vernunft (\788,
Critica della ragion pratica), ma poi ampiamente ricorrente nella storia
dell'etica contemporanea. Nel caso di Kant l'etica ha a che fare non più
con la struttura essenziale del mondo, quanto piuttosto con la forma pura
della razionalità umana. Kant precisa anzi, salvaguardando la
sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al fatto, la
morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta nell'etica non è la
ragione pura conoscitiva ma è la ragione pratica. L'etica secondo
Kant non ha un con- tenuto diverso dai principi generali che
presiedono alla possibilità stessa di una razionalità pratica per gli
uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che fare con una dimensione
trascendentale che riguarda la volontà umana in ge- nerale. L'etica fissa
e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di qual- sivoglia
volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo partico- lare,
ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale. L'etica rende
così esplicita la struttura categoriale della razionalità pratica umana.
Vedremo nel paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi precisi a cui
Kant giunge muo- vendo da questa concezione meta-morale; qui ci limitiamo
a sottolineare al- cuni tratti della meta-etica kantiana. Nel
caso della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant
risulta del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle
dimensioni della conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci,
1993): la raziona- lità pratica umana è infatti in grado da sola di
fondare la validità della vita morale. Anzi nella concezione kantiana gli
stessi contenuti principali della re- ligione sembrano presentarsi come
risultati dell’azione della razionalità pra- tica umana in quanto suoi
postulati che garantiscono la validità della vita mo- rale.
Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche altra
cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della netta
di- stinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura pratica, sia con
la nega- zione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed emozioni
naturali degli uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi sentimento o
emozione partico- lare degli uomini come in grado di rendere conto della natura
della morale, Kant ritiene anche di poter giungere a garantire
l'universalità della legge mo- www.scribd.com/Filosofia_in
Ita3 26 ETICA rale. Questa teoria meta-etica ha come
sua conseguenza un pregiudiziale ri- fiuto rigoristico di considerare
come bene una qualunque cosa che possa sod- disfare un sentimento,
un'emozione 0 un desiderio individuale. Malgrado l'impegno con cui
Kant si è sforzato di salvaguardare l’autono- mia dell’etica non sono
mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche di coloro che vi
trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella pre- sente
nell’etica naturalistica. Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è
ridotto a quella che è la legge e la struttura della volontà. E ancora che
nei suoi scritti vi è la riduzione di tutte le ragioni pratiche dei
singoli esseri umani finiti a una razionalità universale e assoluta. Si
rileva poi che l’uso di una no- zione come quella di trascendentale è una
traccia del permanere di tentazioni di tipo ontologizzante ed
essenzialistico. Va segnalato che — come avremo modo di documentare
ulteriormente — l’impostazione kantiana ha avuto co- munque una grande
fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni filo- sofiche molto
diverse — quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel — la
ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare l'imposta»
zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica
come qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della
razionalità pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione
umana in gene- rale o con le presupposizioni della vita civile.
Coloro che elaborano il modello della razionalità pratica kantiana
giungono così per quanto riguarda la natuta dell'etica a conclusioni non
molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici del prescrittivismo
non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima sezione.
2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. — Nel corso del XX se-
colo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è quella
preoc- cupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo
tale da se- gnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al
piano della cono- scenza empirica e scientifica; potendosi oramai
ritenere già del tutto acquisito, sul piano teorico, il processo che ha
portato a segnare il distacco dell’etica dalla religione. La distinzione
dell'etica rispetto al campo della scienza e della conoscenza empirica è
stata poi tracciata su basi molto diverse, rimanendo dunque costante la
tendenza a definire la natura dell'etica come campo del tutto
irriducibile e peculiare della cultura umana. Così proprio
all’inizio del XX secolo Moore consolida in modo definitivo la tendenza a
segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla cono- scenza
empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni
eti- che con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare.
Conclusione www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA
NATURA DELL'ETICA 21 quest'ultima che verrà rifiutata da coloro
che più rigorosamente negheranno che l'etica abbia a che fare con una
forma qualsiasi di conoscenza, ovvero da quei teorici del non-cognitivismo
preoccupati piuttosto di salvaguardare la di- mensione prevalentemente
normativa o prescrittiva al centro della morale. Ma la soluzione di Moore
era quella di indicare nelle proprietà oggetto dell’intui- zione etica —
ovvero nel bene e nel dovere — delle proprietà del tutto uniche e
irriducibili ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come
pe- culiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che
non ave- vano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle
proprietà etiche se- condo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore
logico da lui chiamato «fallacia naturalistica», errore consistente prima
di tutto nel ridurre ciò che non è naturale al naturale. Su
basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta di-
stinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della morale
arriveranno anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred
Jules Ayer in Lan- guage, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e
logica) — allargavano la loro analisi verificazionista del discorso fino
a presentare conclusioni a propo- sito della natura dell'etica. La tesi
generale di Ayer era quella dell'impossibi- lità di rend ere conto
dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative che rendono conto
delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma Ayer non si
limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche
e l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della generale teoria del
significato accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le proposizioni
empirica- mente verificabili, sia pure in linea di principio, hanno un
significato — che l'autonomia dell’etica è data dal fatto che i suoi
enunciati, proprio per l’uso di nozioni quali buono, giusto e dovere non
sono verificabili in termini empirici e dunque sono privi di senso. Ayer
non si limitava però alla conclusione nega- tiva, ma aggiungeva anche una
caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer in- fatti riconosceva alle
proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di esprimere le
emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Pro- prio
sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura
dell'etica Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non
esistono modi razionali per cercare di superare il disaccordo in morale
(cfr. srfra, $ 3.9). Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and
Language (1944, Etica e lin- guaggio) l'autonomia dell'etica collegandola
agli atteggiamenti, mentre le altre specie di discorso hanno a che fare
principalmente con le credenze. Gli stru- menti teorici generali di
Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non già quelli del
neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una
ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti
secondo www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 28
ETICA Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in
cui chi parla espone appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne
di analoghi anche negli altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in
quella dell’«ernotivismo mode- rato» di Stevenson viene riconosciuto il
ruolo peculiare del discorso etico come pienamente significante sia pure
collocandolo su dì un piano non cono- scitivo. Rispetto al neopositivismo
(ma anche all'intuizionismo di Moore) il punto di svolta sta nel
riconoscimento che non solo le conoscenze sono signi- ficanti. Rispetto a
quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica precedente quello che
per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non è solo riu-
scire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla conoscenza, ma
anche specialmente dello stretto collegamento che essa ha con l'azione e
la pratica effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella riflessione
meta-etica la sal- vaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto si
occupa la conoscenza e il deve che è di pertinenza della morale.
I fautori della meta-etica non-cognitivistica si impegnano
particolarmente lungo una linea analitica rivolta a rendere esplicito il
collegamento del discor- so etico con l’azione fissando in termini di
regole precise e non già di espres- sione di emozioni questo ruolo del
linguaggio umano. In questa direzione sono stati elaborati numerosi
tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessio- ne europea
sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine della
seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo.
Rendiamo qui conto della più fortunata tra le concezioni
non-cognitivisti- che, quella di Richard Mervyn Hare, già delineata fin
dal 1952 con The Lan- guage of Morals (Il linguaggio della morale) e poi
ripresa e sviluppata, prima sul piano epistemologico nel 1963 con Freedom
and Reason (Libertà e ragione) € poi su quello normativo nel 1981 con
Mora! Thinking. Its Levels, Method and Point (Il pensiero morale).
Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui
fun- zione è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra
parte del di- scorso umano: la funzione propria del discorso etico è
quella di dare voce a «prescrizioni universalizzabili soverchianti».
Tutti questi tratti dell'etica ven- gono spiegati dettagliatamente da
Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filo- sofiche generali di L.
Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli stru- menti per dare
corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrit- tiva
dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni
morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di
chi ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è
necessaria- mente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per
cui si imparenta con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso
alle nozioni di dovere e www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
LA NATURA DELL'ETICA 29 obbligo. Si tratta appunto di quel
nucleo prescrittivo che veniva perso di vi- sta da quelle concezioni
meta-etiche — quali l'intuizionismo sostenuto da Moore — che tendevano invece
a rendere conto dell'autonomia e specificità della morale in termini di
una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in alcun modo una
conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni ri- volte a ciò
che deve essere. Un altro punto importante della concezione
meta-etica di Hare è quello che insiste sul farto che i nostri discorsi
morali non solo sono prescrittivi, ma in realtà trasmettono prescrizioni
universali, ovvero prescrizioni che si riten- gono valide per tutti i
casi simili. Il riconoscimento di una universalizzabilità dei giudizi
morali così come affermata dalla meta-etica non-cognitivistica vuole
rendere conto di un'esigenza peculiare di coerenza e strutturazione pro-
pria della vita morale, per cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi
di gusto 0 di preferenza relativamente ai quali tale esigenza non viene
abitual- mente fatta valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi
di preferenza della quale invece non riuscivano a rendere conto le
meta-etiche emotivisti- che. Attraverso questa via
dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti re- cuperano e
includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato
fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che
ne riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un
tentativo di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della
moralità così come già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere
che Hare riconosce come proprio dell’etica nel suo modello
non-cognitivistico: il fatto di essere sover- chiante. Ciò significa
riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescri- zioni
universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchi-
camente preordinate rispetto ad altre prescrizioni. Il
non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda metà
del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria del-
l'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni
universalizzabili soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici
tedeschi dell'etica del di- scorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel,
1977; Habermas, 1985). Non sono mancate le critiche a questa concezione
che è stata considerata — ad esempio da B. Williams (1987) — non tanto
come una spiegazione o un’ana- lisi neutra di quella che è l'etica per
noi, quanto piuttosto come una posizione che cerca di imporre una ben
precisa concezione, rigida e superata, della moralità. Altre critiche
hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere ne- gare, sul piano
logico, la possibilità — invece del tutto aperta a ogni essere umano — di
restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di
rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non
so- www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 30 ETICA
stiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della
propria vita prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto
piuttosto che non si può rendere conto in modo logicamente corretto della
natura dell'etica e della morale fuoriuscendo da questo quadro
esplicativo. Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori
della meta-etica non- cognitivistica e avremo occasione di fermarci su di
essi nei prossimi capitoli. Proprio in quanto la meta-etica
non-cognitivistica si presenta, secondo chi scrive, come quella più
adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame affrontandone anche
le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr. $ 3.10),
alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi
eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7). 2.7. La negazione
dell'etica: libertà e determinismo. — Nel rendere conto delle posizioni
che si sono occupate in generale della natura dell'etica dob- biamo
soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia
uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste
posi- zioni — molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX —
distin- guiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano
mai agire realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una
qualche respon. sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che
gli uomini possano agire liberamente, negano che possano essere
effettivamente motivati dalla ri- cerca di obiettivi non strettamente
personali. Le negazioni dell'etica dell'ul- timo tipo nascono da quelle
teorie psicologiche che non ammettono che gli esseri umani possano essere
mossi ad agire da prospettive imparziali o valori più o meno
universali. Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una
libera scelta da parte dell'uomo sono chiamate abitualmente
deterministiche. Va subito precisato però che qui ciò che è in gioco non
è tanto la questione su cui sembrano con- trapporsi deterministi e non-
deterministi se vi possano mai essere per gli es- seri umani azioni del
tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto la questione se
gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che vogliono
fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili,
comprese le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che
noi proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità
etica degli uomini non si colloca nel quadro di discussione sul
determinismo e indeter- minismo proprio della filosofia medievale,
incline a identificare la libertà degli uomini con un irrealizzabile
libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in assenza di qualsiasi
motivazione. In alternativa va invece accettata l’imposta- zione delle
analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte va-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL'ETICA
31 lere nella linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke,
David Hume. Secondo questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si
vuole addirittura es- senziale) con il riconoscimento di una libertà e
responsabilità morale nelle azioni umane, una posizione che considera le
azioni umane sempre determi- nate o motivate da una qualche causa o
ragione (W. K. Frankena, 1981: 155- 162). Il punto decisivo nella
diatriba non è dunque se le azioni umane siano o no sempre motivate da
ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno sce- gliere liberamente
di fare le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In que- sto senso
la libertà delle azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza di
motivi o ragioni che determinano la volontà, quanto al fatto che gli
esseri umani sono costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o
che vi siano comunque delle cause — che essi non possono in alcun modo
controllare — che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero
liberi, non farebbero. Si è costretti a concludere che gli uomini non
sono liberi € l'etica non ha alcuna possibilità di sussistere laddove si
ritenga non tanto che tutte le azioni umane abbiano {o debbano avere) dei
motivi, delle cause o delle ragioni, ma si ri- tenga che tali cause e
motivi agiscano necessariamente anche laddove gli uo- mini credano di avere
altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste uno spazio per
l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a rite- nere
tutte le azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai diffe-
renti individui umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi
esseri umani singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una
qualche influenza. Esistono numerose concezioni che
specialmente nel corso del XIX e XX secolo hanno insistito sulla completa
assenza di spazio per una libera scelta nelle azioni umane nel senso che
abbiamo appena definito. Non possiamo qui rendere conto di tutte le
concezioni del genere; ricordiamo solo quelle più importanti e certamente
inquietanti per chi crede a una qualche realtà ed ef- ficacia delle
distinzioni morali. Già Darwin, nei primi appunti stesi in
collegamento con le sue prime ri- flessioni tra il 1833 e il 1840 sulle
sue scoperte intorno alle trasformazioni delle specie viventi, suggeriva
le implicazioni per la morale di una concezione evoluzionistica (Desmond
e Moore, 1992: 293-320). Tutto il processo evolu- tivo è dominato dal
caso e dalla sopravvivenza dei più adatti in termini mera- mente
biologici e sessuali. Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in
ter- mini evolutivi riguarda non già i singoli individui, ma le specie
nel loro com- plesso. In questo quadro tutte le azioni umane si
presentano come frutto di cause che riguardano complessivamente la specie
umana. Questa prospettiva biologica sulla vita degli uomini è stata
sviluppata e approfondita da autori
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 32 ETICA che hanno
elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di là
delle opzioni apparentemente libere che si presentano alle scelte umane,
in realtà tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti
in ter- mini di ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie
complessiva- mente intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza
di una dimensione cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è
altro che un effetto dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che
ne conseguono sono del tutto istintive e sottratte al nostro controllo.
Del tutto illusoria è dunque la prospettiva dell'etica che vi siano dei
contlitti, disaccordi e scelte drammati- che di fronte agli uomini e che
essi possano responsabilmente e liberamente dare ad esse una soluzione.
La vita umana è sottoposta alle leggi generali della vita e del tutto
casualmente si realizzano processi e trasformazioni, i quali tutti vanno
dunque al di là di qualsiasi libera scelta individuale. Un'altra
concezione che sembra negare qualsiasi spazio alle scelte libere e
responsabili di cui tratta l'etica è quella che viene considerata come una
con- seguenza dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di
Sigmund Freud. È dubbio che una tale schematica concezione sia presente
in Freud, che, se leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929,
Il disagio della ci- viltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto
della genesi della coscienza morale all’interno della sua generale teoria
sulla dinamica psichica, senza vo- lersi dunque impegnare su di un piano
essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi è comunque una vulgata che considera
una conseguenza dell’impostazione psi- canalitica la tesi che le azioni
umane individuali non possono essere viste come frutto di scelte
consapevoli, ma sono il risultato piuttosto di motivazioni inconsce che
sfuggono a qualsiasi controllo individuale. Quando noi rite- niamo di
avere di fronte determinate alternative tra le quali scegliere razional-
mente la migliore, in realtà siamo spinti a percorrere una certa strada da
pul- sioni profonde (amore- odio ecc.) che sfuggono completamente al
nostro con- trollo consapevole e che dettano — anche tenendo conto della
nostra storia psicologica personale — i nostri comportamenti in modo
necessario. Una analoga riduzione delle motivazioni consapevoli ad altre
più profonde cause si troverebbe nella concezione di Carl Gustav Jung e
in tutte quelle dottrine che elaborano una qualche tipologia o
caratteriologia. Rispetto a questi approcci alle azioni umane che
negano all’etica un qua- lunque ruolo va mossa una critica preliminare.
Queste tesi hanno un valore se sono presentate come ipotesi scientifiche,
ma se vengono presentate come tali la loro validità non può essere estesa
appunto al di là di quella propria di spiegazioni empiriche per un campo
ben determinato di comportamenti umani. Rendere conto delle azioni umane
secondo una spiegazione evoluzio-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LA NATURA DELL'ETICA 33
nistica non può essere presentato — pena l'abbandono del piano
scientifico di discorso — come l’unica e necessaria spiegazione di
qualsiasi azione umana, come una sorta di caratterizzazione
essenzialistica e sostanzialistica della na- tura delle cose. Gli stessi
teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evolu- zionismo — come ad
esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992) — non hanno mancato di temperare
in vari modi questa semplicistica negazione del- l'etica. Da una parte
hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e non necessaria
delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto una ca- pacità
degli esseri umani, non solo di essere consapevoli dei processi
evolutivi, ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai meccanismi
dettati dall’evolu- zione, Infine si sono impegnati ad elaborare
spiegazioni che rendono conto della superiorità, sul piano evolutivo, di
quelle culture che realizzano al loro interno un equilibrio selettivo
stabile intorno ad abitudini cooperative, ri- spetto alle culture
dominate dal completo egoismo individuale. Una estensione dunque su
di un piano ontologico o metafisico dell’evolu- zionismo risulta
effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione o
interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una
fuoriu- scita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione dell’evoluzionismo
in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita la
generalizza zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a
tutte le situazioni in cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La
fertilità della psicanalisi è indubbia laddove è presentata come una
spiegazione di ben precise azioni e di situazioni patologiche del
comportamento umano. Ma non si può se non im- propriamente estenderla in
modo tale che essa pretenda di spiegare tutte le azioni umane in
qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce su cui richiama
l’attenzione, Un'altra strada è stata percorsa sempre più
insistentemente negli ultimi due secoli per negare qualsiasi spazio
all'etica. Si tratta qui di quella posizione che sostiene che gli uomini sono
in definitiva mossi solo da motivazioni del tutto personali ed egoistiche
e che dunque cercano sempre e solo la soddisfa- zione dei loro interessi.
È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi interessi in
termini strettamente economici. La negazione dell'etica in questo senso
deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana che identi-
fica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione del massimo
vantag- gio da un punto di vista economico. Secondo alcuni — ad esempio
Louis Du- mont (Dumont, 1984) — è questo il tipo di prognosi sulla
civilizzazione umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard de
Mandeville (Mande- ville, 1987) e in Smith e che dovremmo realisticamente
fare nostra. La tesi generale è che la realizzazione e il consolidarsi
delle società dominate dalla
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 34 ETICA logica del
mercato rende praticamente impossibile la ricerca da parte di cia- scun
essere umano di obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe
quindi, paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle
società di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una
spiegazione pluralistica — ancora legittima nel secolo XVII — dell’azione
umana che la riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora
saremmo dunque costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la
quale le uniche ragioni delle scelte e decisioni sono economiche, e tra
l'altro quasi mai sotto il con- trollo dell'individuo. Secondo questa
filosofia della civilizzazione sono dun- que del tutto scomparse le
condizioni che permettono azioni mosse da ragioni etiche, altruistiche 0
universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che può avere una sua
fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce poi con
il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano
essenzialistico. Tutte queste concezioni contestano la possibilità
dell'etica sulla base di una pretesa ingiustificata di caratterizzare in
termini sostanziali ed essenziali l'azione umana. La ricostruzione che
dell'azione umana viene offerta da chi ammette l'incidenza delle ragioni
etiche è una delle possibili spiegazioni che restano aperte nella nostra
cultura. Certo non l’unica, forse nemmeno quella più importante e significativa,
ma di sicuro una spiegazione fertile sul piano esplicativo e non priva di
forza prognostica. Se si cerca di rendere conto delle azioni umane sulla
base dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire anche da ragioni
etiche si riesce — come ha recentemente in vari modi mo- strato Amartya
K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) — a rendere conto di alcuni
comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo
non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre spiegazioni.
3. Fondazione, giustificazione e spiegazione: l’epistemologia
dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia. — La ricerca
rivolta a identificare la natura della morale, il senso delle nozioni che
operano nell'etica, rappre- senta un passaggio preliminare prima di
affrontare un altro genere di que- stioni decisivo per l'etica, quello
relativo alle vie disponibili per fondare, giu- stificare, o
eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi normativi. Sapere che tipo
di domande ci poniamo quando siamo alla ricerca di ciò che è bene ©
giusto fare in una data situazione è appunto preliminare — da un punto di
vista logico e concettuale — per arrivare a individuare le procedure
mediante le quali si può trovare la risposta adeguata.
Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo
le quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere,
fondare 0 www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 35 giustificare le norme e i valori con
cui l'etica ha a che fare. Nel corso del se- colo XX vi è stato, prima,
uno spostamento deciso dal problema di come sono conoscibili i valori
etici, a quello di come sono fondabili i nostri giudizi normativi e le
nostre decisioni pratiche. Successivamente l'elaborazione filo- sofica ha
visto affermarsi una prospettiva che in luogo della tesi della fonda-
bilità delle conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la
possibilità di giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in
gioco. In questo para- grafo renderemo anche conto di un altro approccio
che si è andato sempre più consolidando nella riflessione etica del
secolo XX rivolto non più a fon- dare o giustificare le conclusioni
normative, quanto piuttosto a spiegare la ge- nesi dell'etica e delle
distinzioni che in essa vengono istituite. Quest'ultimo approccio che
abbandona le pretese di elaborare criteri gnoseologici ed epi-
stemologicì per passare ad un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge
solo le posizioni (di cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano
la validità delle distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo
troviamo in chi occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare
sul piano più diretta- mente prescrittivo e normativo, fissando così i
limiti dell'intervento riflessivo nella determinazione della natura
dell'etica, dei tipi di procedure gnoseologi- che ed epistemologiche che
essa coinvolge e dei meccanismi genetici che l'hanno costituita.
Nel rendere conto dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici
rico- noscibili nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la
prospet- tiva storica con quella critica e teorica. Per procedere con
questo bilancia- mento delle due prospettive le partizioni di questo
paragrafo non seguiranno l'ordine di quelle esposte nel precedente
paragrafo, né riprenderanno in modo esclusivo le distinzioni già fissate
a livello di meta-etica. Dal punto di vista gnoseologico ed
epistemologico alcune delle partizioni fatte valere sul piano meta-etico
risultano infatti o troppo strette o troppo larghe, nel senso che un
approfondimento analitico permette di riconoscere diverse procedure epi-
stemologiche alla base della stessa concezione meta-etica o procedure episte-
mologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul
pia- no meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente
delineato di concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo
paragrafo. 3.2. La conoscibilità della legge divina. — Come si è
già avuto modo di sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di
riferimento essenziale per chi voglia rendere conto dello sviluppo
dell’etica teorica nel senso in cui ne stiamo trattando in questo
scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le so- luzioni a proposito
dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 36 ETICA esserti
umani, finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che
viene ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva
di ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è
ad esem- pio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre
arrestandosi alla sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le
verità etiche all’analisi in termini di dubbio e di ricerca della
certezza a cui egli sottopone le altre verità, e proprio in quanto non
intraprende tale indagine si arresta a quella che lui stesso chiama una
«morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente dalla tradizione e
che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa
sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa
ri- nuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude,
del resto, la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle
basi antropologi- che della vita morale e una rivisitazione, per molti
versi scettica, delle conce- zioni tradizionali di virtù e felicità
(Canziani, 1980). Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene
invece esplicitamente av- viata, nel secolo XVII, da pensatori come
Hobbes e Locke. Negli scritti di Locke troviamo in realtà percorse
diverse strategie gnoseologiche ed episte- mologiche per l'etica e il suo
problema fondamentale fu proprio quello della conoscibilità della legge
morale e degli articoli della fede religiosa (Colman, 1983; Fagiani,
1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di come sia
conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la
legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente
diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a
cono- scere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro
inadegua- tezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una
indicazione delle di- verse procedure epistemologiche a cui può fare
appello chi accetta la tesi che l’etica sia in definitiva un insieme di
comandi divini, sia l'indicazione dei limiti propri di queste procedure e
dunque la difficoltà complessiva di dare una base razionale al tentativo
di derivare l’etica da tesi di ordine religioso. Una prima
strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della
legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è
rivelata. Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo
appello ai testi rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The
Reasonableness of Christianity, as de- liver'd in the Scriptures (1695,
La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso ai testi sacri per
la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano peda- gogico e
retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le
religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un
aiuto e una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere
altri, ma non può però rappresentare una via adeguata per giustificare
una conclusione etica www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 37 per tutti gli esseri umani,
Il collegamento della verità etica conoscibile con la lettura di qualche
testo in cui la divinità ha espresso i suoi comandi — oltre il problema
della molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del
testo — comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella
parte del- l'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della
rivelazione come del tutto priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda:
considerare del tutto privi di morale coloro che sono in disaccordo con
noi su alcuni dei punti caratterizzanti la religione rivelata che noi
accettiamo. Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale
nei confronti del ten- tativo di ricondurre la base di validità di una
tesi etica al fatto che si tratti del comando di una certa divinità. Si
tratta di una critica contro il volontatismo di quei teologi che
considerano invece questa strategia come in grado di fondare la moralità.
La critica generale presente negli scritti di Locke — già negli Es- says
(Saggi) del 1664 (Locke, 1973) — è che il fatto di trovare un certo co-
mando espresso in un testo che — più o meno fondatamente — crediamo
espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su
que- sto piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di
fronte ad un comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene
comandato è giusto. I sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno
sempre considerato come ne- cessaria e sufficiente la coincidenza tra
volontà divina e legge morale, ma la riflessione moderna e contemporanea
ha invece fatto valere sempre di più l'autonomia dell'etica. Questa
autonomia viene affermata già a livello concet- tuale distinguendo
nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno rife- rimento a ciò
che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il
riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano
epistemologico e gnoseologico e porta a fissare con precisione la
diversità delle procedure gnoseologiche con cui si conosce la volontà
divina rivelata nei testi sacri ri- spetto a quelle con cui si conosce la
legge morale valida. Prima di illustrare le vie percorse in
positivo da Locke per cercare di fon- dare razionalmente le conclusioni
etiche soffermiamoci invece su una strada da lui rifiutata. Si tratta di
quella concezione che indica in una particolare coscienza 0 facoltà
morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere diret- tamente i
comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e cono- scere
l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione del-
l'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega
che alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in
morale e la nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario
delle assunzioni innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul
piano empirico (Locke, 1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci
comanda direttamente — senza www.scribd.com/Filosofia_in
Ita3 38 ETICA per questo servirsi della rivelazione —
la legge morale, e che noi abbiamo una cognizione diretta di tale legge
attraverso la nostra coscienza, è stata svilup- pata, nel secolo XVII, da
alcuni neo- platonici di Cambridge, e in particolare da Herbert di
Cherbury con la sua dottrina delle notiones comsmunes. La stessa linea fu
poi riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e
sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così
Joseph Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività
intuitiva di una pe- culiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di
autorevolezza, e Hutche- son indicava nel «senso morale» la base di quel
particolare sentimento che ci fa cogliere la virtà in un mondo ordinato
dall’Autore della Natura. Contro la tesi che Dio ci rende noti
direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi sono alcune
argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza non può
essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre di
almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche
criterio che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra
coscienza che sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo
un qualche fonda- mento che ci autorizzasse a ritenere — laddove
sorgessero disaccordi — che ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è
veramente la legge morale per tutti gli uomini, anche per quelli che con
i loro discorsi e con le loro azioni testimoniano di non trovare nelle
loro coscienze principi analoghi ai nostri. Rifiutata la via della
coscienza Locke invece si impegna positivamente nel cercare di conciliare
una concezione che vede la morale come caratterizzata da comandi divini
con una strategia empiristica. L'accettazione di una episte- mologia e
gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indi- retta
di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come co-
rando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad
accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo
avere percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come
all'Autore della Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale
che essi effettiva- mente siano in condizione di ottenere la loro
felicità. Ovviamente questa stra- tegia comporta l’assunzione che ciò che
Dio comanda non può che essere il bene per gli uomini, un passaggio verso
l'accettazione dell’intellettualismo etico che non vede più nella volontà
divina l'unico fondamento del bene e rende del tutto secondario il valore
dei testi rivelati. La strategia di giustifica- zione della validità
della legge naturale morale avanzata da Locke comprende diversi passaggi:
in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo si risale a un
autore della natura; poi si postula una natura divina buona e razionale
per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli es-
seri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia
trasmesso www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 39 agli esseri umani un insieme di
leggi naturali, universali ed eterne, per realiz- zare la loro felicità,
ma anche che abbia messo gli esseri umani in condizioni di conoscere tali
leggi con certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali del senso e
della ragione; infine si assume che conoscere tali leggi naturali equi-
vale a essere obbligati a obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le
cir. colarità presenti in questi vari passaggi risultavano già evidenti
allo stesso Locke che nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare
di ovviare ad esse. In effetti la procedura di giustificazione
lockiana della validità delle leggi naturali come comandi divini comporta
il continuo passaggio dal piano empi- rico a quello sovrannaturale, dal
piano dell'essere a quello del dovere. Con l’aiuto di questa strategia si
potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipo- tetiche a favore di ciò
che noi siamo già giunti ad accettare come un comando divino del tutto
indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure gnoseologiche ed
epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava nel- l’ultima parte
della sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa come
una via per confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cri-
stiana. Una volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del
disegno e le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura
que- sta strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui
far dipen- dere la validità della legge morale, nulla garantisce che
l’autore della natura sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in
grado comunque di farci su- perare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di
una norma come comando divino e il nostro accettarla come obbligante.
Locke stesso cercò di superare questo abisso, ma legando la validità e
l'efficacia della legge morale naturale non tanto al riconoscimento che
si tratta di un comando divino in sé giusto, quanto piuttosto al timore
per la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita in caso di
infrazione verso di essa. Ma questo tentativo di agganciare la vali- dità
e l'obbligatorietà di un principio etico a una qualche sanzione che segue
una infrazione verso di esso, è una strategia che non possiamo più
percorrere — indipendentemente dall’accettabilità o meno delle credenze
sull’immorta- lità dell'anima e sull'esistenza di uno stato futuro — ove
riconosciamo l’auto- nomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione
ultraterrena infatti al mas- simo riesce a giustificare o fondare che noi
si faccia qualcosa perché temiamo la sanzione o cerchiamo i premi che una
certa autorità lega a questi compor- tamenti, Ma percorrere questa strada
impedisce di vedere che il piano concet- tuale investito dall’etica è
quello che comporta fare ciò che è giusto o bene fare e non già quello
che comporta fare una certa cosa solo perché teniamo la sanzione di una
qualche autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo obbedire ai
suoi comandi. www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3 40
ETICA 33. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo
prudenziale. — Un'altra strada percorsa per fondare l'assunzione di un
punto di vista etico è quella che cerca di riconnettere la ricerca
individuale del bene personale con la con- siderazione pet il bene
comune. Naturalmente non si tratta di quelle conce- zioni che sulla base
di considerazioni empiriche e a posteriori concludono che la ricerca del
bene personale risulta essere l’unica via che consente di realiz- zare un
incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso alla base
della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è
stata esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986).
Affron- tiamo invece in questa sezione la questione se si possa o meno
fornire un fon- damento razionale all'esigenza di essere morali: dove si
considerano razionali solo le argomentazioni che rinviano alla
soddisfazione di propri interessi o piaceri e con «morale» si intende il
rispetto di qualche regola generale o norma di cooperazione quali — ad
esempio — mantenere le promesse, rispet- tare i contratti e obbedire alle
leggi del proprio paese. Questa impostazione è presente in modo del
tutto esplicito nelle pagine di Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà
allo «sciocco razionale» nel capitolo XV del Leviathan, or tbe Matter,
Forme and Power of a Common-wealth Eccle- siasticali and Civili (1651, Il
leviatano; Hobbes, 1976: 139-143) è rivolta a cer- care di mostrare che,
calcolando sulla base degli interessi in gioco, la salva- guardia di un
minimo di principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi
individui. Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di
elaborare una giustificazione di ordine prudenziale a favore del
riconoscimento dell'op- portunità di rispettare i principi dell'etica. La
razionalità in gioco nel calcolo prudenziale è stata sistematicamente
delineata — nei suoi assiomi e nelle sue deduzioni — nel corso del XX
secolo dalla «teoria della scelta razionale 0 teoria delle decisioni»
(Axelrod, 1985; Resnik, 1990). Proprio tra i teorici della scelta
razionale di questo secolo vediamo ripresentarsi il problema di Hobbes
formulato in un diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè di indivi-
duare se e in che modo sia possibile provare la razionalità dell’accettazione
di un minimo di regole cooperative anche quando quest’accettazione sembra
es- sere in contrasto con i nostri interessi più immediati e diretti e ci
si trovi in una situazione in cui un’eventuale nostra defezione
unilaterale potrebbe sfug- gire al controllo altrui. Già in
Hobbes troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore
dell'accettazione di regole © principi etici contro le pretese dello
«sciocco razionale» di fare sempre e comunque ciò che è per lui più
vantaggioso e dunque di defezionare o sospendere la propria fedeltà nei
confronti della re- gola o del principio etico quando ciò è per lui più
conveniente o quando www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 41 comunque può sfuggire alla sanzione
altrui. Torneremo su queste argomen- tazioni quando — nel $ 4.8 — affronteremo
i tentativi di presentare come una vera e propria teoria etica normativa
la teoria della scelta razionale. La situa- zione dello «sciocco
razionale» è molto simile a quella di cui si occupano i teorici della
scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal «dilemma del prigioniero»,
e si impegnano nell’analisi del comportamento del free rider. Già Hobbes
elaborava alcune argomentazioni che insistevano sulla rischio- sità di un
comportamento di defezione unilaterale e sulla probabilità di rica- vare
un danno nel momento in cui gli altri — prima o poi — giungeranno a
scoprirlo. Negli ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in
vari modi inter- pretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica.
Particolarmente stringente è stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier,
1986) ha cercato di fondare la preferibilità di avere una morale in luogo
di esserne privi all'interno di quella posizione che ha caratterizzato
come «contrattualismo reale» per distinguerla dal «contrattualismo
ideale» di Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il quadro concettuale di
Rawls con l'assunzione in partenza della validità del principio di equità
implica già l'accettazione di un piano etico e dunque dà per dimostrato
quella che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare invece una
teoria in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale origina-
rio che garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere
da condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno
dei contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità
personale. Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare
all’interno della teoria della scelta razionale come sia più conveniente
e vantaggioso essere un «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di
qualche principio etico inter- personale, piuttosto che un
«massimizzatore diretto» che tende sempre e solo alla soddisfazione dei
propri interessi immediati. Gauthier elabora tutta una serie di argomenti
che fanno emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attra- verso la
via della massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con le
disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la
massi- mizzazione diretta propria di chi procede come un free
rider, Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera
influenza le op- portunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di
deliberare proprio di un massimizzatore vincolato potremo aspettarci che
egli consenta volontaria- mente con i termini di un accordo precedente,
anche se questo comporta che egli così vincoli il diretto perseguimento
dei suoi interessi. Ma sulla base di tali aspettative il massimizzatore
sarà il benvenuto come partner în progetti cooperativi reciprocamente
benefici. Se invece consideriamo il modo di deli-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 42 ETICA berare
proprio di un massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci
che consenta con i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non
contribuisca direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla
base di questa aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote
diretto sarà estromesso come partner nelle iniziative cooperative in
quanto non si può ge- muinamente avere fiducia in lui. La conclusione di
Gauthier è dunque che il massimizzatore vincolato può aspettarsi di
godere di opportunità che invece il massimizzatore diretto può solo
prevedere che gli saranno negate. Si tratta di una differenza che
evidentemente opera a tutto vantaggio del massimizzatore vincolato. Sulla
base di questa argomentazione Gauthier conclude che si può ritenere
razionale incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è
razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed
è chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a
proposito della soddisfazione dei propri interessi. La teoria
di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume di potere
dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo per
realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma
l'elabora- zione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che
mostrano come sia ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini
prudenziali la preferibilità di una vita etica. Infatti da una parte,
legando il saldo attivo che ricava il massi- mizzatore vincolato alla
fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra dovere fornire un
criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fidu- cia è
bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio
del genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso
non sia disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da concedere
a un qualche partner, si debba oscillare tra una valutazione diretta,
caso per caso, 0 una assunzione di trasparenza delle motivazioni del
partner o una qualche circo- larità. L'altra difficoltà di ordine
generale dell’argomentazione di Gauthier (e più in generale di quelle
strategie che tentano di giustificare l’etica in termini prudenziali o di
salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere dimostrare
che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vin- colo
etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di
par- tenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non
riduzionistica di «interessi» (concerns) non definendoli in termini
strettamente economici, ma lastiandone indeterminato il contenuto mediante
un rinvio alle preferenze di ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica
secondo Gauthier rende possibile soddisfare con esiti migliori i propri
interessi di partenza — di qualsiasi tipo essi siano — che vanno quindi
vincolati secondo le aspettative degli altri. Re- sta difficile da capire
come si possa mettere su uno stesso piano interessi che
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA
43 esigono soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più
importa, vincoli ben diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si
possa assemblare e conside- rare vincolabili alla stessa stregua
preferenze di partenza per beni diversi (po- niamo, beni condivisibili e
beni esclusivi). Difficile capire come si possa co- struire in modo
unitario il «massimizzatore vincolato» tenuto conto che in genere gli
interessi degli esseri umani — si intende dello stesso essere umano in
tempi diversi — sono molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche
ordinamento interno. Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa
della teoria di Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere
chiunque — solo sulla base di un calcolo strettamente interessato — della
convenienza a interiorizzare una disposizione a rispettare gli accordi.
Sembra opinabile che questa mossa possa risultare efficace anche laddove
per esempio non si avesse già una disposizione a rispettare gli accordi o
non vi fosse una qualche base motivazionale, emotiva o psicologica, sulla
quale fare leva per radicarla o raf- forzarla. Vedremo poi in
una sezione successiva (cfr. $ 4.8) un'altra difficoltà intrin- seca
all'approccio prudenziale o della teoria della scelta razionale. Vedremo
infatti che per restare coerenti con questo approccio finiamo, in alcune
situa- zioni, con il tendere a risultati niente affatto ottimali.
3.4. La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. —
Vi sono però strategie per la fondazione dell'etica molto più antiche di
quelle che abbiamo appena ricordato e ad esse si continua a ricorrere
anche nel- l'etica moderna e contemporanea. Ad esempio quelle strategie
che ritengono che nella natura umana siano rintracciabili dei caratteri e
delle proprietà che fondano una particolare considerazione e rispetto per
gli esseri umani, conse- guenza del riconoscimento di uno status
privilegiato e unico dell’uomo nel- l'universo. Abbiamo visto sopra ($
2.5) che vi sono cacatterizzazioni dell'etica che vedono al suo centro
una legge naturale razionale e dunque concepiscono il comportamento
morale come realizzazione di alcuni tratti propri delia na- tura umana. È
costitutivo di questa strategia argomentativa il tentativo di de- rivare
ciò che si deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale.
Due passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano
fondazionale. In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una
forma di cogniti- vismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi
ritenga di disporre di una concezione che coglie in modo assoluto e
compiuto la natura umana. In effetti le etiche che procedono lungo questa
strada presentano come loro pre- messa una qualche definizione
sostanziale della natura umana e in genere ren- dono conto del suo posto
nell'universo in termini metafisici o ontologici. Tro- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
44 ETICA viamo percorsa questa linea nella tradizione
aristotelico-tomistica di cui Jac- ques Maritain ha reso conto, nel XX
secolo, in modo simpatetico (Maritain, 1971). In questa strategia il
contenuto dell'etica viene derivato da una defini- zione dell’uomo
concepito come persona con una propria peculiare natura so- stanziale che
ne garantisce la dignità. La difficoltà per questa strategia sta nella
discutibilità della caratterizzazione della natura della persona, una na-
tura della quale linee di pensiero diverse hanno reso conto in termini dei
tutto alternativi e incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985:
181-203; Preti, 1989: 63-95). Nell'elaborare la concezione della persona
morale si procede di solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli
elementi concreti, o presen- tando l'individuo umano in vesti tanto
astratte e ideali che una tale rappresen- tazione finisce con il non
avere alcuna presa sul piano delle azioni concrete. Un'altra via che pone
al centro della morale una definizione della natura per- sonale dell’uomo
è quella che connota la persona con una serie di tratti che non sono
altro che l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o reli-
gioso. Una tale costruzione — e conseguente uso — della nozione della
per- sona come fondamento dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo
nei documenti ufficiali su questioni morali della Chiesa Cattolica.
Un altro limite di questa impostazione sta nel commettere in modo
evi- dente l'errore logico di ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si
tratta di quella «fallacia naturalistica» ovvero di quella offesa alla
cosiddetta «legge di Hume» sulla quale ritorneremo più distesamente più
avanti ($ 3.11). Infatti le diverse caratterizzazioni della natura umana
in termini ontologici e sostanziali non fanno che richiamare ciò che è
già proprio di tutti gli esseri umani. Ma allora non si riesce a capire
in che modo da ciò che è già proprio dell’uomo in quanto tale si possa
ricavare ciò che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto dovrebbe ancora
realizzare non può logicamente già essere. Proprio questa indebita
riduzione del dovere all'essere è stata al centro di una serie di conte-
stazioni contro tutte le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti.
Tali critiche sono particolarmente decisive contro quelle forme di
ragionamento che presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il
dovere per gli omini ricorrendo a una definizione di quella che è la loro
natura essenziale. In gene- rale va quindi detto che chi procede per la
strada di una fondazione ontolo- gica dell’etica compie tutta una serie
di errori logici; il tentativo di ridurre i valori a fatti ovvero a
realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere la pecu- liare funzione
prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici;
l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare
in etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte
discipline metafi- siche per descrivere o spiegare il mondo come è.
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA
45 3.5. La natura umana come fondamento dell'etica: la via
empirica. — Vi è stata un'altra strategia che ha cercato di indicare come
procedura propria della fondazione della morale un esame della natura
umana. In questa linea non ci si propone di risalire a una qualche
definizione metafisica o ontologica della natura umana, ma di cercare di
cogliere, attraverso l’esperienza e l'osser- vazione, quale è per gli
esseri umani il comportamento più consono ed ade- guato. Anche questa via
di fondazione epistemologica dell'etica si presenta come destinata al
fallimento. Da una parte la ricerca empirica sulla natura de- gli uomini
ben difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale, ma
finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri
degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben
precisa cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia
tipica di tutte le forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere
a ciò che è. Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare
sistematicamente il ten- tativo di provare attraverso un’indagine
empirica che cosa è bene o giusto si colloca certamente l'evoluzionismo
erede di Darwin, specialmente nella forma che esso ha preso con Herbert
Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo secolo negli Elements of
Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in quanto
riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta
linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione
evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede
attraverso continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello
delle definizioni implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto
e ciò che è buono con la linea evolutiva che si ritiene avere scoperto
empiricamente in realtà si è intro- dotta una definizione etica per cui
ciò che è più evoluto è moralmente supe- riore, Proprio per queste
difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo etico dopo
l’ubriacatura dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologica- mente
avvertiti come R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di pre-
sentare le loro concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non
è certo possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità
pratica, ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un
problema etico con- nettendola con un corso di azioni migliore
evolutivamente, ovvero che favori- sce la sopravvivenza del genere umano
o del gruppo di cui facciamo parte biologicamente. Non vi sono procedure
empiriche che consentono di arrivare a confrontarsi con un’aliernativa
secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza del genere umano e ciò che
l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi empirici per decidere se
una certa linea di comportamento è più o meno in contrasto con i bisogni
della specie umana. Né può rappresentare una fuoriu- scita dalle
difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a po-
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 46 ETICA
steriori può essere poi dimostrato — ammesso che ciò sia possibile — che
ciò che gli uomini fanno è quanto rende possibile la loro sopravvivenza.
Si tratta di procedure dubbie perché finiscono con il razionalizzare
catastrofi e guerre e comunque si tratta di ricostruzioni che vengono
date dopo che le azioni sono state compiute e che poco dunque possono
aiutarci sul piano delibera- tivo o della costruzione di una qualche
concezione etica. Difficoltà insormontabili si presentano per tutti
gli altri tentativi di ricon- durre il bene e il giusto a delle proprietà
del mondo che, non diversamente dalla forza e dall’energia, possono
essere verificate, misurate e quantificate. Ma più in generale e su un
piano meno materiale sono destinati al fallimento tutti quei tentativi di
ricondurre le procedure di fondazione dell'etica a quelle in uso in scienze,
quali la psicologia e la sociologia, più direttamente rivolte allo studio
degli uomini. La via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più
volte percorsa nel corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei
suoi Fragen der Ethik (1930, Problemi di etica) quando indicava nel bene
ciò che è considerato più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole
mantenere l'armonia con il gruppo sociale di cui fa parte. Una
definizione che, ammesso sia in grado di suggerire un qualche criterio di
valutazione, dà per scontata la preferibilità — sempre e comunque —
dell'armonia rispetto alla disarmonia, con ovvie implicazioni
conformistiche. Un più recente tentativo di ricondurre le procedure della
deliberazione etica a quelle in uso nella psicologia è stato fatto da Richard
Brandt in A Theory of the Good and Right (1979, Una teoria del bene e del
giusto). Brandt si è sforzato di mostrare come il processo deli- berativo
dell’etica sia assimilabile alla tecnica usata nella terapia psicologica
cognitiva per mettere alla prova i desideri e gli obiettivi sulla base di una
va- lutazione della loro razionalità. Brandt sostiene che nell’etica come
nella tera- pia cognitiva si tratta di valutare razionalmente se i
desideri che abbiamo sono o meno adeguati: ovvero tali che li confermiamo
avendo tutte le informazioni empiriche necessarie, tali che ci propongono
obiettivi per realizzare i quali disponiamo dei mezzi necessari e infine
tali che non comportano delle conse- guenze inaccettabili. Questi sono certamente
passaggi a cui si può ricorrere quando è in corso una deliberazione
etica, ma va aggiunto che parte dell’etica sembra consistere nel valutare
se noi riteniamo che determinati desideri deb- bano essere accettati da
tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I riscontri empirici
ci dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le distribuzioni
statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i desideri
da privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da
controllare ad ostacolare. Non mancano coloro che non si fanno
influenzare da questi dubbi sulla
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA
4? validità conclusiva in etica di un metodo di deliberazione e
giudizio che cerchi di controllare empiricamente come stanno le cose per
quanto riguarda gli uo- mini e le situazioni in discussione. Fautori di
un naturalismo ingenuo, sosten- gono che noi di fatto già sappiamo che
certe azioni sono negative e malvagie (per esempio l'assassinio o il
furto) e che certe istituzioni (per esempio i con- tratti, il
mantenimento delle promesse e la fedeltà verso un certo governo) sono
giuste. Si può ammettere che questa strategia naturalistica aiuti a
indivi- duare inclinazioni e tendenze ira le più radicate negli esseri
umani, ma il punto è che tali inclinazioni e tendenze non possono essere
giustificate con la mera argomentazione che di esse già disponiamo di
fatto, o che sono univer- salmente presenti tra gli uomini (il che tra
l'altro non si riesce a dimostrare). Ancora una volta si fa appello a
predisposizioni o inclinazioni così generiche e indeterminate che il
rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i concreti
problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nes-
suna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a risolvere la
que- stione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi
controversi (per esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento,
o alcuni casi di eu- tanasia volontaria). Inoltre forse egualmente
naturali e per così dire universali si presentano inclinazioni
all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risenti- mento, e alla
gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro dif-
fusione e riscontrabilità empirica. 3.6. L'appello a una ragione
universale come via per la fondazione del- l'etica. — Un'altra concezione
epistemologica per l’etica è quella che fonda le sue conclusioni non
tanto genericamente sulla natura umana, quanto più specificamente sulla
ragione umana, ovvero su quello che è considerato il tratto più peculiare
degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del XVII secolo si
presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e Pufendorf si
impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in
generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo
è presente anche — accanto ad altre vie — in Locke. La possibilità di
edificare la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da
Locke dalla na- tura del tutto artificiale delle principali nozioni
morali (come egli sostiene si tratta di «modi misti»), ciò che permette
dunque di stringere con un collega- mento logicamente necessario tutti i
giudizi in cui ricorrono nozioni morali (Locke, 1971: 632-636). Ma questo
rigore dell’etica, questa sua struttura di- mostrativa, e la sua completa
dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in quanto si sono svuotate
di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavan- dole
integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita a
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 418 ETICA
definizioni essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di
razionali smo etico si unisce con una qualche fondazione
contrattualistica dei principi dell'etica nel senso di un qualche accordo
sulla definizione delle sue nozioni centrali. Ma la procedura
contrattualistica può fondare una validità solamente convenzionale —
ovvero limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il patto — e
dunque le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risul- tano
del tutto esili (cfr. $ 3.8). Il razionalismo seicentesco ha
presentato anche tentativi di dare una por- tata realistica alle
conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così ad esempio in
autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si pre- senta
come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è
pos- sibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e
l'ingiusto siano identificabili individuando quali sono le relazioni
adeguate alle cose in se stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro
che una relazione di adegua- tezza tra l’azione e lo stato delle cose;
per Wollaston il giusto non è altro che un collegamento veritativo tra
l’azione e lo stato complessivo delle cose (così come l’ingiusto è
dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa pro- spettiva che
riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza o
inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due assunzioni
che saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da una parte
la con- vinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia ben
definita — la grande catena degli esseri — che distingue nettamente tra
livelli separati on- tologicamente e forniti di valore diverso. Solo
sulla base di questa assunzione si può ad esempio, all’interno di questa
prospettiva, considerare inadeguata quella azione in cui l'animale sia
preferito a un essere umano, o un essere umano trattato in modo
inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della gerarchia tra gli
esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzioni- stica del
XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corri- sponde a
una scala di valore; non mancano inoltre i casi di confine difficil-
mente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si
pre- sume siano al fondo della scala degli esseri. La seconda assunzione
dei razionalisti realisti è che dare un giudizio sulla giustezza o meno
di un atto {o di un evento) si possa identificare con l’individuare una
qualche relazione tra le cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da
Hume che mostra con chia- rezza (Hume, 1987: I, 481-497) come un giudizio
di relazione tra cose non possa in alcun modo esaurire lo spazio di un
giudizio morale. È infatti indub- bio che relazioni dello stesso tipo di
quelle in gioco nell’incesto sono rintrac- ciabili tra animali, o che tra
le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli che si hanno nel
parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA
49 giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle piante. La
pretesa di ri- durre i giudizi morali a formule matematiche o a
conclusioni razionali dimo- strative risulta del tutto fallace.
Un tentativo — ma in una forma del tutto diversa dalle precedenti —
di fondare l’etica sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro
che ne riprendono il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è
la stessa ra- gione pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica
certi principi morali che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle
nostre conclusioni etiche. Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere
quindi individuato conformando la nostra scelta e decisione alle
presupposizioni che vincolano qualsiasi vo- lontà umana razionale. La
razionalità pratica in quanto tale implica certi prin- cipi formali che
sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti vamente
giuste o ingiuste (Kant, 1970a; Landucci, 1993). È questa la strategia
fondazionale seguita da Kant per ricavare le diverse formulazioni
dell'impera- tivo categorico (si veda $ 4.6) dalle regole trascendentali
che presiedono alla volontà umana. Critiche alla procedura epistemologica
alla base dell'etica kantiana vengono mosse su due piani. In primo luogo
si obietta che la pro- spettiva kantiana in realtà concepisce
la volontà umana in termini sostantivi e dunque inttoduce fin
dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e neutrali del
volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben preciso
esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero appello alla
coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla costrizione
in gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi
di consi- derare come effettivamente insostenibile uno stato di
incoerenza. In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio
dunque mia la pro- spettiva critica che rileva che la ragione in quanto
tale può solo permetterci di trarre delle conclusioni che si esprimono in
quelle che chiameremo deduzioni o giudizi analitici. Ma se così stanno le
cose ciò che è eticamente rilevante o è già dato nelle premesse del
nostro discorso — e allora occorrerà spostare la discussione su come sono
state costruite queste premesse — o non potrà certo essere raggiunto
ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razio- nalità e la
ragione umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote, ma se
si guarda poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta
l’in- sufficienza più generale, dal punto di vista fondazionale, di
portare a conclu- sioni © esiti che non risultano direttamente motivanti.
Scoprire che vi è una certa relazione tra le cose, o che date certe
premesse se ne ricavano per via analitica determinate conclusioni è cosa
ben diversa dall'essere mossi a fare ciò che è bene, giusto, doveroso fare.
La ragione può dunque solo aiutarci a identificare ulteriori situazioni a
cui estendere i nostri principi etici, una volta
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 50 ETICA che noi già
abbiamo — sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e pas- sioni —
discriminato tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprez- ziamo o
svalutiamo. 3.7. Il ricorso a una facoltà morale per la fondazione
dell'etica. — Il col. legamento con la ragione umana — concepita come la
parte migliore e più alta, quasi una patte divina, della natura umana — è
spesso sembrata la via maestra per garantire alle conclusioni dell'etica
sia una strategia peculiare sia una superiorità rispetto a tutto il
resto. Ma nel pensiero moderno e contem- poraneo la consapevolezza
dell’autonomia della morale ha portato ad abban- donare questa strada.
Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica veniva già raccolta
da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali. stico, attraverso
l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri
pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione
del- l'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc
del tutto pecu- liare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia
ai vari sensi che contribui- scono a dare agli uomini il bagaglio delle
loro esperienze. La strada dell'individuazione di una vera e
propria facoltà ad hoc per la vita morale è stata percorsa in modo
sistematico e nel dettaglio da Hutcheson (Hutcheson, 1725). Nei suoi
scritti infatti egli presenta articolatamente uno specifico «senso
morale» che permette di cogliere direttamente le distinzioni morali e che
non è riducibile né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri sensi.
La ricostruzione che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà del
tutto peculiare che permette di fondare oggettivamente le conclusioni
eti- che sembra giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una
concezione intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale
di Hutcheson è in grado di cogliere direttamente delle vere e proprie
qualità delle azioni e situa- zioni naturali da giudicare, Hutcheson si
impegna anche a ricostruire il modo in cui proprietà e qualità etiche
sono collegate necessariamente con le altre proprietà oggettive e reali
delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in Hutcheson possiamo
trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso, al di fuori di
alcune pretese sensistiche, nel secolo XX. Infatti intuizionisti
come Sidgwick e Moore {o in parte H. Prichard, A. Ewing e D. W. Ross; si
veda Hudson, 1980: 74-104) insisteranno nel tro- vare nel campo
dell'etica la presenza di peculiari proprietà non-naturali, ben distinte
dalle qualità naturali ordinarie, che solo una intuizione del tutto spe-
ciale può cogliere. La strategia di fondazione propria dell’intuizionismo
etico viene criticata in quanto perde di vista che al centro dell'etica
non c'è tanto la questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o
quella proprietà non- www.scribd.com/Filosofia_in Ita3
L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA dI naturale — sia poi questa
proprietà considerata come sopravveniente o come una accanto a quelle
naturali —, quanto piuttosto di essere motivati o sentirsi obbligati a
fare certe cose considerate buone, giuste o doverose. Natural- mente
questa difficoltà può essere supetata sostenendo che le proptietà non-
naturali con cui l'intuizione etica ci mette direttamente in contatto si
presen- tano come costitutivamente motivanti e obbliganti. Ma un
aggiustamento del genere non sembra nulla di più che uno stratagemma
convenzionalistico. Per ovviare a questa difficoltà è stata
elaborata una strategia — già in parte riconoscibile secondo alcuni
interpreti negli scritti di Hutcheson — che con- cepisce la facoltà in
gioco nella conoscenza morale non tanto come uno stru- mento
intellettuale e conoscitivo di registrazione e individuazione, quanto
piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale e dunque motivante e
ca- rica di energia attiva. In questa linea si collocano tutte le analisi
sviluppate a proposito dell'etica dai sentimentalisti del Settecento come
ad esempio Shaf- tesbury, Hume e Smith. Ma in questa stessa direzione
vanno le analisi di co- loro che nel XX secolo sostengono (come è il caso
di David Wiggins, 1987 e John McDowell, 1981) sia rintracciabile
nell’etica una peculiare sensibilità che risponde appunto con una
qualificazione di valore a certe azioni o situazioni. La strategia epistemologica
del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal quadro fondazionale e
muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderata- mente giustificativo
0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive se- zioni di questo
paragrafo. Infatti questa sensibilità peculiarmente morale si
presenta come qualcosa che va ricostruita e delineata nella sua
specificità attraverso un esame a poste- riori degli esseri umani.
L'appello poi a questa base di giustificazione non per- mette certo di
edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e uni-
versalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un
oriz- zonte fondazionale. 3.8. La giustificazione
procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo. — Rifiutando la
strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi sono
alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si
può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale.
Percor- rono questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico
considerano l'etica € la morale come un universo di principi e norme
frutto di decisioni 0 scelte individuali e intersoggettive. Questa linea
di giustificazione è propria ad esem- pio del contrattualismo etico. Il
contrattualismo è stato inizialmente presen- tato — specialmente nel XVII
e XVIII secolo da pensatori come Hobbes, Locke, J. J. Rousseau e Kant —
come una teoria mediante la quale rendere
www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3 52 ETICA conto
della genesi della società civile e delle istituzioni politiche (Gough,
1986). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è stato spesso
presentato anche come una procedura in grado di dirimere in generale i
disaccordi pub- blici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In
particolare nel XX secolo il contrat- tualismo è stato ripreso e
sviluppato, ad esempio da Rawls e Gauthier, come la teoria etica e la
procedura di giustificazione di regole e principi capaci di impostare
meglio le questioni di giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a
presentare sinteticamente le concezioni di Hobbes e di Rawls viste come
due forme tipiche di tentativi di derivare la giustificazione delle
conclusioni etiche da procedure contrattuali. In realtà il
contrattualismo si lega strettamente alle forme di giustificazione
prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo 3.3. Le differenze
che qui richiameremo non riguardano il tipo di ragiona- mento — in genere
appunto prudenziale — che porta ad accettare il contratto come una
procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le differenze con-
cemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale interviene,
le sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per quanto
riguarda il carattere vincolante degli esiti. Nel caso di Hobbes il
ricorso a una procedura contrattuale in etica si svi- luppa dopo la presa
d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del bene e del giusto
in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle «
passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non
per- mette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti
che è pro- pria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene,
male, giusto e ingiu- sto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno
stato di pace e conver- gere su qualche bene considerato comune (che
certo comunque non potrà essere trattato come un bene assoluto) bisognerà
limitare la completa discre- zionalità naturale concordando
sull’accettazione di una procedura che per- metta di realizzare patti
condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un con- tratto è in grado di
vincolare i singoli individui all'accettazione di principi etici che non
siano direttamente riconducibili agli interessi egoistici di qual- cuno.
Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava tutta una
serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia.
Da una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi —
secondo Hob- bes le «leggi naturali» — che venivano considerati giustificati
razionalmente, in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei
alla conservazione in vita dei contraenti e al mantenimento della pace
tra loro. Dall'altra parte la necessità di rendere vincolanti gli
equilibri che vengono identificati mediante la procedura di
contrattazione porta a un completo trasferimento della forza coercitiva a
un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 L’EPISTEMOLOGIA DELL’ETICA
53 del contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è
una conse- guenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede
appunto gli esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un
irrefrenabile impulso pos- sessivo in una condizione di scarsità di beni.
Infine va rilevato che laddove in Hobbes il potere non può avere limiti
esterni, esso ha un ampio limite in- terno. Ciò dipende dalla convinzione
di Hobbes che leggi contrattualmente definite possono valere solo per i
corpi di coloro che stipulano il patto, men- tre sentimenti, emozioni e
pensieri sono al di fuori della portata dell’applica- zione di principi e
regole create con la procedura condivisa. AI modello di
contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose cri- tiche. In
particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei principi
etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni
viene da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta
dell'etica e che rilevano la parzialità e la limitazione di una
derivazione da un qualche con- tratto di regole e principi etici. Le
leggi concordate mediante il patto possono valere solo quando si è sotto
il controllo di un potere totale e completo come quello appunto
ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad escludere
defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare una
risposta a queste critiche quando ammette la validità delle leggi naturali
anche «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender,
1974), ma risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in
questo caso delle leggi naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da
quei pensatori che — come ad esempio Hume — pur condividendo una
spiegazione artificiale della ge- nesi di principi e regole etiche,
prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo contrattualismo per il
particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco. L’obiezione
in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano — il
considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta
consapevole di una serie di individui razionali — risulta del tutto
inadeguato quando si tratta di rendere conto della genesi di regole e
principi etici. Vedremo nelle ultime due sezioni di questo paragrafo în
che senso il convenzionalismo etico di Hume presentava un modello
artificialistico di spiegazione dell'etica del tutto alternativo rispetto
a quello di Hobbes. Un altro modello di giustificazione procedurale
dell'etica è quello presen- tato nel modo più sistematico ed argomentato
da Rawls (Rawls, 1982, 1994). Si tratta di un modello che viene ora
abitualmente chiamato «contrattualismo ideale» per distinguerlo da quello
di Hobbes e da quello detto «contrattuali- smo reale» sviluppato da Gauthier
(cfr. $ 3.3), Il modello epistemologico del «contrattualismo
ideale» sostiene pur sem- pre che i principi giusti dell'etica possano
essere individuati attraverso ac- www.scribd.com/Filosofia_in
Ita3 54 ETICA cordi, ma poi fa valere tutta una serie
di vincoli relativamente alla procedura considerata idonea per realizzare
accordi equi. Rawls delinea tale procedura come una «posizione
originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli indi- vidui che
entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi di
giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già come
sin- goli individui concreti. In secondo luogo, gli individui
rappresentativi scel- gono tra le diverse opzioni a loro aperte in una
condizione caratterizzata da «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina
che gli individui nella posizione originaria non debbano sapere quale
sarà la loro condizione effettiva e il loro status concreto nella
società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione originaria
debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama del
maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa
che permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi
dello stato peggiore. La linea argomentativa di Rawls in
realtà non si presenta come un tenta- tivo di giustificare o fondare il
nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come un tentativo di decisione o
risoluzione dei conflitti una volta assunta una de- terminata definizione
della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della «posizione
originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che vengono
incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei prin- cipi
di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le
soluzioni da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non
spende nem- meno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo
che sono co- stitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls
si preoccupa prin- cipalmente di questioni di giustizia sociale o di
distribuzione delle risorse, tro- viamo che egli fa valere il citato
criterio di waxiziz. Contro questo criterio numerosi studiosi di etica
(ad esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiet- tato che esso ha delle
conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maxi- min ci
costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può
migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza
mini- mamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le
condizioni di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto
tra i diversi corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della
probabilità effettiva che si realizzi ciascuno di essi,
Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi
dal giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la
natura dell'etica e il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso
dallo stesso Rawls che ha riconosciuto che la sua ricostruzione della
natura dell’etica è adeguata a rendere conto delle intuizioni morali di
un cittadino di una società caratteri? www.scribd.com/Filosofia_
in Ita3 L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 55 zata, come quella
statunitense, dalle istituzioni liberal-democratiche. Spiega Rawls che la
sua etica è tale da non avere una portata metafisica, ma che si presenta
come prevalentemente rivolta a rendere conto di un ben preciso con- testo
storico e dunque politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustifi-
cativa delineata da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie
di intuizioni o credenze morali già date. La linea argomentativa del
contrat- tualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls
stesso presenta come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre
intuizioni di partenza e i risultati più equi e giusti raggiunti
attraverso una correzione delle distorsioni e parzialità di tali
intuizioni. Caratteristico di questo modello è la caduta della
pretesa di una fonda- zione assoluta e compiuta dei principi etici. Il
contrattualismo ideale di Rawls in definitiva riesce a generare accordi
solo in quanto parte già da un accordo dato in partenza tra tutti i
membri della stessa società. Nulla può essere fatto per convincere ad accettare
l'etica da parte di coloro che non sono già citta- dini della stessa
società ideale che condivide il contratto. Laddove la posi- zione
hobbesiana sembrava incapace di generare accordi se non presuppo- nendo
il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la forza; la posizione di
Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il modo in cui già di fatto si
rea- lizzano accordi, nelle società liberal-democratiche, tra coloro che
accettano politiche progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti
tra individui rappre- sentativi di società profondamente diverse (quali,
poniamo, quelle del mondo occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o
dell'Asia). La procedura contrat- tualista di giustificazione etica ha
sicuramente un ampio spazio laddove con- trasti e conflitti sorgano tra
individui già vincolati a un certo patto e all’accet- tazione di una
certa procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può offrire
laddove si affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come
giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non
avere nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare
l'opzione di conti- nuare a rispettare il contratto, in luogo di
defezionare, anche quando ciò dan- neggia i nostri interessi
personali. 3.9. Il non-cognitivismo e la giustificazione
logico-argomentativa del punto di vista etico. — Una teoria della
giustificazione © argomentazione etica è stata messa a punto anche dai teorici
del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6). Laddove gli emotivisti
consideravano del tutto fallace la convinzione che si potesse avere una
reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-co- Bnitivismo
trovano possibile indicare una serie di procedure come peculiari del ragionamento
etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 56 ETICA sul piano
della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano episte-
mologico, tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti.
Infatti lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende
centrali del- l'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da
quanti — come ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre, 1988) — assimilano
rigidamente emo- tivismo e non-cognitivismo, Nel caso degli
emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di Stevenson. È
appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la posi- zione più
radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in una
discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come
sono andate le cose e, per il resto, sia da considerare comeeffettivo in
una discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul
come sono andate le cose e, per il resto, sia da considerare
come del tutto illusoria la pretesa di aprire una qualche
discussione criticamente valutabile sulla rile- vanza etica di ciò che è
accaduto, In definitiva connotando eticamente qual- cosa ciascuno esprime
solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è noto, sui gusti
non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven- son, 1962;
cfr. qudo eticamente qual- cosa ciascuno esprime solo i propri gusti
morali del tutto personali e, come è noto, sui gusti non si può certo
disputare. La posizione di Stevenson (Steven- son, 1962; cfr. qui sopra $
2.6) è meno riduttiva, ma finisce con il sostenere che tutto ciò che
possiamo fare da un punto di vista argomentativo o episte- mologico in
morale è divenire pienamente consapevoli del come usare nel modo
appropriato, come un potere causale, la forza emotiva presente nelle
nozioni etiche, vuoi per persuadere altri ad accettare i nostri standards,
vuoi impedendo che altri ci persuada con il mero ricorso a delle
definizioni persua- sive, Ma non resta nessuna possibilità pet discutere
in una qualche forma ar- gomentativa l'appropriatezza etica di un
determinato giudizio morale. Lad- dove consideriamo l’etica come un
linguaggio emotivo — sia pure, come fa Stevenson, come un linguaggio
guidato da regole nel suo uso — tutto ciò che possiamo fare sul piano
epistemologico è richiamare l’attenzione sulla pre- senza di tecniche di
persuasione che possono essere utilizzate sia da una per- sona che voglia
fare passare dei valori giusti, sia da chi invece voglia imporre dei
valori ingiusti, L'argomentazione etica, così come ce la presenta
Stevenson con il suo emotivismo moderato, non ci permette di discriminare
tra questi valori, ma solo di sostenerli nel modo migliore ed egli quindi
riconosce in questo campo solo uno spazio per procedure di tipo retorico
o propagandi- stico. Nel caso invece del non-cognitivismo,
come sostenuto ad esempio da Hare (Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno
a elaborare un'epistemologia per l’etica che fornisca criteri di
discussione e critica anche per il nucleo peculiare di valori che è in
gioco nel discorso morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra, $ 2.6)
secondo questa concezione meta-etica la morale è costituita di prescri-
zioni universalizzabili soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione
della www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
L'EPISTEMOLOGIA DELL’ETICA 57 natura della morale un
non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi di- stinti. Si tratta, in
primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per convincere
razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale così
intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo.
In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative
sono disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali
possibili al fine di individuare, per la situazione in cui ci troviamo,
quale è la migliore prescri- zione universalizzabile soverchiante.
Esponiamo qui di seguito le due diverse strategie argomentative così come
vengono delineate da Hare. Per quanto riguarda il livello di
discussione che si apre nei confronti di chi non intende in alcun modo
ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo non c'è molto da fare.
Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a usare il linguaggio
della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare che lo ha
usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano l'uso.
Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argo-
mentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro
che non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di
costoro si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non
strettamente argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due
diverse strategie cui si ricorre per far si che le persone facciano
propria la forma di vita che in- clude la morale. All’interno
della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argo- mentare
contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà non
rispetta le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia
parte del linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà
parte del discorso morale solo in quanto si presenta come una
prescrizione universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con
chiarezza coloro che pretendono di dare una portata morale alle loro
affermazioni, ma compiono degli errori logici (oltre che morali}. Le
analisi di Hare sono rivolte a delineare il tipo di argomentazione che
può essere sviluppata contro il più comune errore nell'uso del linguaggio
morale, quello proptio dei fanatici morali. Le posizioni dei fanatici
morali nascono in quanto si prescrivono dei principi che non vengono
fatti valere — come la loro natura di principi morali esigereb- be — in
modo analogo per tutte le situazioni simili indipendentemente dal posto
occupato da coloro che sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la
concezione della morale propria del non-cognitivismo, può essere fatto
per contrastare il fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente
che è quella del razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha
trattato anche del caso di un medico che in nome dei suoi doveri
professionali fa proprio www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
58 ETICA l’accanimento terapeutico: Hare, 1989). Si tratta
di chiedere al fanatico di im- maginarsi in una situazione in cui egli
occupa il posto di colui nei confronti del quale egli vuole fare valere
in modo diseriminante i suoi pretesi principi morali. Che cosa fa il
razzista anti-semita quando una nuova informazione for- nisce le prove
che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può con.
siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come
un’esten- sione epistemologica della sua concezione meta-etica.
Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene
individuata muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali
avanzata da Hare non si limita — come nel caso del formalismo kantiano —
ad avanzare la ri- chiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un
requisito contenutistico. In linea del tutto pregiudiziale un giudizio
potrà essere incluso nell'universo dei giudizi propri del discorso morale
solo se prescrive un qualche principio che si è pronti a far valere in
modo analogo per tutti i casi simili indipenden- temente dalla propria
collocazione nelle situazioni investite. Lavorando su questa condizione
epistemologica della concezione che vede la morale come insieme di
prescrizioni universalizzabili soverchianti, più recentemente Hare (1989)
ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le prese di
posi- zione etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche
si è incam- minato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate
— su basi so- stantive — quelle conclusioni che vengono ricavate
dall’utilitarismo dell’atto. In quanto ci troviamo di fronte ad
un’argomentazione che ricava da una me- ta-etica una ben precisa etica
normativa, ce ne occuperemo in un prossimo paragrafo (cfr. $
4.7). 3.10. Dalla giustificazione allo spiegazione dell'etica. —
Proprio nel no- stro secolo la riflessione filosofica sull'etica ha
elaborato una serie di analisi conseguenti a un radicale mutamento di
approccio. L'effetto di questo cam- biamento è che anche per quanto
riguarda le procedure argomentative in uso in morale l’obiettivo cui si
tende è di ricostruirne il complesso delineando an- che il contesto in
cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone dunque di
fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio strutture
argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni complessive
rivolte a comprendere qual è il posto che l’etica occupa nella nostra
vita. In definitiva è la prospettiva che Hume aveva sviluppato nella sua
scienza della natura umana che viene recuperata, tradotta nel linguaggio
del nostro secolo e resa più rigorosa e determinata. L'etica viene così
considerata come un presuppo- sto della nostra forma di vita che non
tanto va giustificato o fondato quanto piuttosto spiegato nella sua
concretezza. Si tratta dunque di un programma
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 L'’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA
59 esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come
costitutive della nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte
analogo a quello kantiano impegnato a identificare le forme generali
della nostra esperienza. Ma questo approccio esplicativo non percorre poi
la linea aprioristica kan- tiana dell'analisi trascendentale,
proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi empiriche sulla natura
dell'etica e le forme di argomentazione in essa correnti (Preti, 1986).
; Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole
espansione parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal
piano fondazionale a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick,
1987). Una prima differenza tracciabile in questa linea filosofica, come
si è detto, è relativa al tipo di spie- gazioni, ovvero alla natura
logica delle presupposizioni a cui ci si richiama, caratterizzate o in
una direzione trascendentale oppure come ipotesi empi- riche. Su
basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente nelle analisi
di Putnam (Putnam, 1991). La tendenza a esprimere giudizi morali è
secondo Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di
catego- rizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione
sostantiva per certi contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul
piano empirico si trovano, tra le altre, le seguenti spiegazioni della
morale. Da una parte abbiamo una concezione come quella di J. L. Mackie
(Mackie, 1977) che ritiene che l'etica sia una produzione artificiale
della cultura umana con cui gli vomini cercano di fare affermazioni su
specifiche proprietà del mondo, ovvero i valori o le qualità etiche; ma
queste affermazioni sono tutte false in quanto tali proprietà non sussistono
realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni proiezioniste, quale ad
esempio quella di S. Blackburn (Blackburn, 1984), secondo le quali invece
si guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura che ci consente
di fare riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà
morali) che noi abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da
ricordare le analisi sensiste di Wiggins {Wiggins, 1987) e McDowell
(1981) i quali ritengono vi- ceversa che si debba considerare l’etica come
il campo che gli esseri umani costituiscono in quanto forniti di un
peculiare senso o sentimento che li mette in grado di cogliere delle
proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moral- mente rilevante una
qualche situazione) che hanno poi su di essi una forza motivante e
vincolante. Infine in un contesto più evoluzionistico A. Gibbard
{Gibbard, 1990) indica nella morale un insieme di norme che gli uomini
anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare che li muove a
discu- tere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come sentire a
proposito delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti questi
diversi modelli esplica- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
60 ETICA tivi dell'etica e della sua genesi come si può
vedere ne rendono conto in ter. mini universalistici; l'etica si presenta
cioè come un'istituzione del genere umano che include al suo interno il
ricorso a procedure pubbliche pet con- trollare la validità delle opzioni
privilegiate. Larga parte di queste concezioni esplicative sono rivolte a
trovare una collocazione per la credenza che il con- trollo fattuale
giochi un ruolo importante nella discussione etica. Una cre- denza del
genere sussiste anche se i fatti morali non esistono, 0 sono solo delle
nostre proiezioni o tali che noi li cogliamo perché forniti di una peculiare
at- trezzatura percettiva. 3.11. I problemi centrali per la
fondazione della morale: «legge di Hume» e possibilità di una «logica
delle norme». — In questo secolo un ampio dibat- tito si è sviluppato
intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si ponga
l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche. In
primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative alla co-
siddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare una
conclusione etica su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il punto di
par- tenza per questa linea di riflessione viene indicato in un passo del
Treazise di Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought
paragraph», in cui si richiama l’attenzione sulla differenza tra
proposizioni in cui è presente la co- pula è {:5) e quelle in cui compare
la nozione deve (ough)). A questo passo si sono richiamati tutti coloro
che hanno criticato come logicamente inaccetta- bile la derivazione di
una conclusione normativa, e in generale etica, da pre- messe
descrittive, assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Car-
caterra, 1969; Oppenheim, 1971; Scarpelli, 1982: 165-178; Celano, 1994).
Sul piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non
fosse direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio
logico rela- tivo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto
piuttosto a segnare con precisione la «grande divisione» concettuale tra
conclusioni con l'è e quelle con il deve. Importa però qui richiamare che
nel XX secolo invece si fa rile- vare che proprio da un punto di vista
strettamente logico-formale e sintattico si deve ritenere del tutto
scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione che pretenda di
ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da con-
siderazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose. Questa
posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo con
articolazioni lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva con
decisione sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra
conclu- sioni avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e
decisioni o assun- zioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare
(Weber, 1958; Rossi, www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61 1971: 249-315; Hennis, 1991).
Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità dei valori o doveri dai
fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accu- sate di essere
cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore, 1964; cfr. $$ 3.4 e 3.5).
Così da una patte vengono denunciate come frutto di un errore lo- gico
tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che concludono
che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che è
già indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella società.
Non diver- samente viene considerata fallace quella specie di
argomentazione etica pro- pria dell'approccio consequenzialista che
considera come completamente ri- solvibile un qualche problema morale
ricostruendo con precisione —— am- messo che tra l'altro questo sia
fattibile — quali sono le conseguenze delle diverse opzioni tra cui
dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione quali sono le
conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per ricavare
una conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione — se
attendibile — ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice
sul punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno
ad altre e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio
questa l’argomen- tazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry
concerning the Principles of Morals (1751, Ricerca concernente i principi
della morale; Hume, 1987: II, 302) contro i tentativi di derivare le
distinzioni etiche dal principio di utilità. Contro l’uso di questa
critica come ghigliottina decisiva per numerose concezioni etiche si sono
schierati quei pensatori — particolarmente nume- rosi nell'ultirna parte
del XX secolo — che hanno negato che si potesse net- tamente distinguere
un piano di descrizioni neutrali del mondo da un piano di opzioni
valutative su di esso. Questo tentativo di superamento del quadro
concettuale che sorregge la cosiddetta «legge di Hume» è stato principal
mente rivolto a contestare la concezione della scienza dei neopositivisti
che sembra sorreggere una forte divaricazione tra fatti e valori, essere
e dovere. Questa divaricazione è stata criticata e giudicata superata da
numerosi pensa- tori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam
(Putnam, 1982 e 1985). In secondo luogo indubbiamente rilevante per
il problema della fonda- zione e della giustificazione dell’etica è tutto
il dibattito — specialmente vivo nella seconda metà del XX secolo —
relativo alla possibilità di costruire una logica delle norme.
Collocandosi dunque sul piano della ricerca di una sin- tassi di un
discorso etico che voglia fare valere al suo interno principi di coe-
renza e non-contraddizione è stata contestata la stessa possibilità di
enunciare una logica delle norme. Una posizione del genere è presente
nelle conclusioni a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua
vita (Kelsen, 1985). Ri- levando che le norme sono, dal punto di vista
del significato, dei comandi, e
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 62 ETICA che dunque
come tali non possono essere valutati in termini di verità e falsità,
Kelsen negava che si potesse costruire un sillogismo logico in cui premesse
e conclusioni fossero degli asserti normativi. Le implicazioni della
sintassi logica possono valere solo in presenza di proposizioni empiriche
o asserzioni scien- rifiche, ovvero laddove premesse e conclusioni si
collocano sul piano della ve- rità e dunque da premesse vere (o false) si
traggono conclusioni vere (o false). Ma un enunciato normativo non è in
alcun modo vero 0 falso e dunque non può funzionare da premessa di
nessuna conclusione logicamente derivata, Così se presentiamo nella
premessa maggiore un enunciato normativo di ca- ratrere universale,
laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione di una
fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata nella
premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a presentare come
una conclusione logicamente necessaria una qualche azione o omissione
{con relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità di una
logica delle norme obiettano infatti che comunque il linguaggio normativo
esige sempre che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto subito
prima del compi- mento di qualsiasi azione. Sia le «legge di
Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una «logica delle norme»
risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si muove
all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una
qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo
sul piano dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del
piano della spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose
risultano più complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta
«legge di Hume», sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle
critiche rivolte al tentativo di ricavare le proprie conclusioni etiche
semplicemente da una ricostruzione dei fatti in gioco, o da una mera
raccolta di informazioni, o dall’accumulo di una congerie più o meno
estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la nostra preferenza per
un qualche principio da fare valere in modo analogo in tutte le
situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni
e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a noi agire
facendola prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa
ammissione di una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle
ricostruzioni empiri- che della situazione e quello di una valutazione —
e conseguente decisione — delle diverse opzioni che ci stanno di fronte
non deve essere spinto però fino ad esiti eccessivi. Così risulterà
insostenibile sul piano metodologico una rico- struzione della natura
dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto di quanto le
nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti dalle teorie,
ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né sarà accetta-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE NORMATIVE
63 bile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere
la rilevanza — in un certo senso come condizione necessaria anche se non
sufficiente di un’argomentazione etica — dell'impegno sia a verificare
come stanno real- mente le cose nella situazione in esame, sia a
immaginare quali conseguenze seguiranno una volta incamminatici lungo
l’uno o l’altro corso di azione. Non diversamente a proposito della
questione della possibilità di costruire una logica delle norme è
difficile negare la nostra capacità sia di squalificare certe prese di
posizione etiche perché in contraddizione con principi già as- sunti, sia
di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi
logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato.
È probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è
esat- tamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto — come
ha sugge- rito Nowell-Smith (1974: 86-91) — delle implicazioni di una
logica pragma- tica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in
termini di «stranezza logica». Ma la rilevanza e la portata di strategie
di tipo sintattico o logico resta innegabile se si abbandona la pretesa
di muoversi sul piano di un'etica dimo- strata in modo assiomatico e
geometrico. Va, infine, sottolineato che — malgrado le obiezioni di
fondo dei puristi della logica — larga estensione hanno avuto nella
seconda metà del XX secolo i tentativi di elaborare simbolismi e
formalismi idonei al trattamento di norme. Ben al di là dei tentativi o
delle enunciazioni di principio si sono spinti tutti coloro — da G. H. von
Wright (1968) a C. E. Alchourron e E. Bulygin {1971) — che si sono
impegnati a elaborare la logica deontica e la logica delle norme. I
risultati raggiunti con tutta la loro complessa articolazione mostrano la
fertilità di un tentativo di dare vita a un trattamento simbolico della
sintassi delle norme e di inserire in un contesto logico le relazioni tra
obbligazioni eti- che. Difficile peraltro che tali modelli di linguaggi
perfetti o ideali per le norme o le valutazioni etiche possano essere di
aiuto per ciascuno di noi quando, nella vita comune, siamo alle prese con
i nostri problemi etici concreti. Tali linguaggi invece illuminano
certamente il lavoro di giuristi, politici, scienziati sociali im-
pegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno stabili, efficienti,
chiari e comprensibili da tutti coloro per cui tali norme debbono
valere. 4. Le etiche normative: concezioni in contrasto.
4.1. Eriche conseguenzialiste e deontologiche: principi, mezzi e fini
nel- l'etica. — Quando si tratta di classificare le diverse concezioni
etiche pos- siamo ricorrere a differenti criteri formali che si
intersecano. È quanto faremo n questo paragrafo, esponendo le differenti
concezioni normative esistenti www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
64 ETICA usando diverse strategie di classificazione. In
primo luogo distingueremo le etiche normative in generale sulla base di
una loro struttura di fondo che col. lega la valutazione etica 0 a un
riferimento a principi 0 a una considerazione delle conseguenze.
Renderemo così conto della differenza tra etiche deonto- logiche o
tuotanti intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte principal-
mente alle conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di
elaborare etiche miste. Passeremo poi a rendere conto delle diverse
etiche normative classificandole sulla base di un diverso criterio
formale che ritiene essenziale la distinzione tra etiche che fanno uso di
una nozione di valore intrinseco, in quanto contrapposta a quella di
valore estrinseco, ed etiche che invece rifiu- tano tale distinzione.
Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che identifichiamo come
le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica nel secolo XX.
Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di for- nire le
ragioni delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra
prefe- renza critica per una di queste etiche. Un modo
ricorrente per distinguere tra le diverse concezioni normative è dunque
quello che contrappone l’etica che ruota intorno a un appello ai prin-
cipi a quella che tiene piuttosto conto delle conseguenze dell’azione. Si
tratta di una distinzione che è centrale, ad esempio, nella riflessione
di Max Weber, che però se ne è valso non tanto per distinguere due tipi
diversi di etica quanto piuttosto per richiamare l'attenzione su due
piani diversi della vita etica: quello proprio del moralista che fa
appunto appello alla rilevanza dei principi e quello di chi — come il politico
o chi sia comunque impegnato in una dimensione tecnico-pratica — invece,
muovendosi nel quadro di un'etica della responsabilità, deve badare
principalmente alle conseguenze dei diversi corsi di azione in cui si
impegna (Weber, 1966). Dietro queste due diverse strategie possiamo anche
ritrovare — come subito vedremo — un diverso modo di considerare il
rapporto mezzi-fini nella vita pratica. Sono state presentate
concezioni deontologiche dell'etica diversamente strutturate. Avremo così
diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pon- gano al loro
centro uno o più principi, e a seconda che concepiscano tali prin- cipi o
come assoluti e aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in
generale rivedibili. È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come
un'etica deonto- logica che ruota intorno a un solo principio di fondo,
assoluto e a priori, dato dall'imperativo categorico, e le diverse
formulazioni offerte, dell'imperativo categorico, non presentano in
realtà principi diversi (Kant, 1970a). Nel caso di alcune etiche del
comando divino (come ad esempio l’etica cristiana o car- tolica) vi è
invece una tendenza a presentare come costitutivi della vita morale
diversi principi tutti assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che
co- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE
NORMATIVE 65 stituiscono la legge naturale). Un'etica deontologica
pluralista si trova di fronte al problema (quasi mai invece affrontato
esplicitamente in queste eti- che) della necessità di disporre di un
criterio chiaro per ordinare i diversi principi e risolvere quei casi in
cui più principi assoluti entrano tra di loro in conflitto. Ma una
concezione etica deontologica non è logicamente costretta a considerare i
principi al centro della vita morale come assoluti, immutabili e di
derivazione non empirica. Non mancano infatti analisi della vita etica
(ad esempio quella dell'evoluzionismo filosofico di H. Spencer — H.
Spencer, 1893 — o di certe forme contemporanee di intuizionismo — si vedano
ad esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing, 1948) che pur ritenendo
costitutivo della vita morale l’appello a principi, non rendono conto del
costituirsi di questi principi lungo l’asse dell’impostazione kantiana o
di quella religiosa. I principi dell'etica vengono piuttosto considerati
o come regole fissatesi nel corso dell'esperienza quali abitudini o come
assunzioni — più o meno con- venzionali — preliminari, o anche come
ipotesi più o meno rischiose da avan- zare in situazioni risolvibili
difficilmente con gli strumenti ordinari. La questione centrale per
una valutazione critica delle etiche deontologi- che è quella di
chiederci fino a che punto le si possa seguire nella loro assun- zione
che i principi e la coerenza sono il criterio determinante della vita mo-
rale senza che st debba tenere conto delle conseguenze di un'applicazione
di questi principi. Le etiche deontologiche incontrano in realtà
difficoltà insor- montabili in quanto si presentano come la struttura di
riferimento di tutte le forme di fanatismo morale, ovvero di quelle
concezioni che ritengono che l'unico modo per elaborare decisioni e
giudizi eticamente validi sia quello di dedurre coerentemente le
implicazioni suggerite da principi considerati come indiscutibili e non
modificabili. Il fanatismo nasce laddove si spinge la fedeltà ai principi
fino a non tenere in alcun conto le eventuali conseguenze disa- strose di
questa fedeltà. Le etiche deontologiche partoriscono quindi spesso
moralisti che riaffermano continuamente vecchi principi che, in realtà,
non sono più in consonanza con la vita effettiva degli esseri umani,
Paternalismo e rigidità sembrano essere sul piano pragmatico alcune delle
possibili implica- zioni delle etiche deontologiche. Tali conseguenze
sono evitate attraverso l’im- pegno a formulare elaborate casistiche che
prevedono un'ampia gamma di condizioni in cui si può fare un'eccezione
alle regole, Mentre sul piano psico- logico non è infrequente che tali
etiche generino forme più 0 meno estese di ipocrisia per cui regole e
principi assoluti sono enunciati solo verbalmente e in pubblico, ma non
seguiti nelle scelte effettive e in privato. Proprio come
correttivo di questi eccessi formalistici e rigoristici sono state
presentate come più adeguate le teorie etiche che mettono al centro della
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 66 ETICA vita
morale una considerazione delle conseguenze delle azioni. Si tratta di
eti- che in cui è centrale la considerazione per la dimensione della
responsabilità. In luogo di una stretta fedeltà ai principi
l'atteggiamento etico è quello di chi è impegnato in una continua
valutazione dei risultati. Si tratta di quelle con- cezioni dell'etica
che già nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richia- mavano
l’importanza della prudenza per rendere conto del nucleo centrale della
vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande
sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono divenute la struttura
por- tante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico non è però corretta
un’assi- milazione tra conseguenzialismo e utilitarismo. Infatti
l'utilitarismo è una delle varie forme che può prendere il
conseguenzialismo, quella che considera come criterio di valutazione dei
risultati la realizzazione del massimo bene per il maggior numero. Altre
forme di conseguenzialismo possono assumere, come criteri di valutazione
dei risultati, concezioni del bene o del valore da realizzare del tutto
alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo. Però
proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e conseguenziali-
smo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale delle
concezioni conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti una
concezione che mette in primo piano per la valutazione morale la
considerazione delle conse- guenze delle nostre azioni non sembra in
grado di rendere conto pienamente del giudizio etico, in quanto tale
giudizio non può limitarsi a esaminare quali saranno le conseguenze di certe
scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di ben precisi criteri di
valore. Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che già richiamava
Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che una considera- zione delle
conseguenze può informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi da
valutare del tutto indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per
quanto possa essere incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su
quello che è un passaggio necessario per le nostre valutazioni e
decisioni; la considerazione appunto di ciò che la loro accettazione
comporta. Anche se poi questo ap- proccio non può esimerci da una
valutazione dell’accettabilità o meno dei ri- sultati che si
raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce a
rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed
esige di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei
risultati. Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra
mezzi e fini in etica va anche detto che specialmente nell'ultimo secolo
varie forme di naturalismo etico si sono impegnate nell’approfondire e
render meno semplicistica una considerazione esclusiva dei mezzi come
passaggio obbligato verso i fini, riflu- tando così di considerare i
mezzi come una dimensione incompiuta della vita pratica. In questa linea
si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory
www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3 LE ETICHE NORMATIVE 67
of Valuation (1939, La teoria della valutazione) che ha insistito nel
richiamare l'attenzione sul processo mediante il quale gli stessi mezzi
possono trasfor- marsi in fini e nel mettere quindi in crisi una
concezione che vede i fini come un risultato finale, per sostituirvi una
prospettiva che nella condotta umana trova un conzinuute di azioni che da
mezzi si trasformano in fini che a loro volta si trasformano in mezzi
ecc. Dall'altra parte vi sono stati teorici che hanno concepito il
conseguenzialismo come autosufficiente laddove non si considerino i fini
come valori intrinseci o valori in sé, ma piuttosto come va- lori
estrinseci (cfr. $ 4.2). 42. Il valore intrinseco nell'etica. —
Dal punto di vista normativo le di- verse etiche possono essere
differenziate anche sulla base del ricorso o meno alla nozione di valore
intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un uso centrale
nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante fenomenolo- gico
nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler, 1944: 121-130).
Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione nella teoria etica
è stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare da pensatori
pragmatisti {su questa discussione è da vedere G. Pontara, 1974, che
presenta anche una difesa dell’uso in etica di tale nozione). Vi sono
stati altresì tentativi di de- lineare una nuova caratterizzazione della
nozione ad esempio da parte di R. Nozick (Nozick, 1987). La
nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica una
dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la
no- zione di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose
fornite di valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che
non è defini- bile riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il
valore intrinseco è la contropartita a livello ontologico della tesi
gnoseologica che riconosce nel bene una qualità del tutto unica, semplice
e indefinibile. D'altra parte il rife- rimento al valore intrinseco fa sì
che si consideri il bene come qualcosa che viene conosciuto come presente
nel mondo oggettivo e non già come un modo di sentire soggettivo. In
questo senso Moore riteneva che le proprietà etiche avessero una loro
realtà e sussistessero indipendentemente dall'essere percepite,
La tesi che vi sono degli interi forniti di valore intrinseco (come ad
esem- pio per Moore le relazioni personali e le cose belle) permette di
identificare il normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto
peculiare e che dunque non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La
posizione che ammette l’esi- stenza del valore intrinseco nega che ogni
azione possibile sia fornita solo di valore estrinseco e strumentale e
che possa essere sostituita da qualsiasi altra
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 68 ETICA azione. La
concezione del valore intrinseco si accompagna dunque all’elabo- razione
di una teoria normativa che riconosce l'autonomia dell’etica e ritiene
anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per fondare le conclusioni
dell'etica. Anche Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco
come mezzo teo- rico per arrivare a riconoscere alle realtà al centro
dell'etica un'oggettività e una forza vincolante indipendenti dalle
motivazioni individuali. Nozick, come Moore, collega la nozione di valore
intrinseco con quella di unità organica e anzi propone una gerarchia
delle realtà sulla base del diverso grado di valore intrinseco, nel senso
che sarà fornito di maggiore valore intrinseco quell’inte- ro che
connette in modo più organico, ovvero più stretto e unitario, un maggiore
numero di parti differenti. In questo senso la nozione di valore
intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un gran numero di esseri
e permette misurazioni e graduazioni. La moltiplicazione di esseri
forniti di valore intrinseco nella teoria etica di Nozick è confermata
dalla tesi che questo valore può essere creato o costituito (in quanto
«valore contributivo» alla totalità di valore intrinseco già esistente
nel mondo). Nozick poi delinea una precisa lista di realtà fornite di
valori, suggerendo che in particolare sono le persone e i sé ad avere una
maggiore quantità di valore intrinseco e a poterne creare di nuovo.
Riprendendo la gerarchia degli esseri della tradizio- ne
aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il vertice tra
le realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé personali
possono sceglie- re di costituire unità organiche molto originali e
strette, unificando l’insieme molto differenziato di parti rappresentato
dal fluire delle loro vite. Nozick sembra dunque essersi impegnato a
riproporre su una base laica e empiristica la concezione religiosa e
spiritualistica che indicava negli esseri personali realtà fornite di un
valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione
strumentale. Un'etica che faccia uso della nozione di valore
intrinseco va incontro alla difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in
una serie di pretese metafisiche dif ficilmente accettabili una volta
sottoposte a controllo empirico. Così nel caso di Moore la nozione di
valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura essenziale e
sostanziale delle cose buone che può essere direttamente cono- sciuta
solo ricorrendo a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce
in parte a depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco
da queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca
tutta la sua teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su
quello esplicativo, Ma procedendo per questa strada non si capisce più
perché sia strettamente necessario usare in etica la nozione di valore
intrinseco. Infatti se rale nozione
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE NORMATIVE 69
viene introdotta solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si
dà per scontato siano presenti nel nostro modo di vivere la dimensione
etica, po- tremmo rifiutarla negando di trovare in noi tali assunzioni e
intuizioni, oppure sottoponendo le assunzioni e intuizioni presupposte a
una critica che ne fac- cia risultare l’artificiosità e l’inaccettabilità.
La nozione di valore intrinseco può avere un suo uso nel campo
dell’este- tica quando si tratta di spiegare il valore di cui una certa
opera d’arte come un tutto è fornita, valore che non è riconoscibile
nelle diverse parti che la costituiscono. Ma sembra difficile accettare
come pacifica un'estensione di tale nozione alla vita morale, In realtà
affermando l'imprescindibilità dell'etica dalla nozione di valore
intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obie- zione che contro le
concezioni conseguenzialiste muove — come abbiamo visto — chi fa appello
all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica dei principi
rimarca che la considerazione delle conseguenze esige comunque una loro
valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi ritiene
ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco rimarca
che una considerazione etica in termini di valore strumentale rinvia
sempre a qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0 finale. Con
questo lessico la critica al conseguenzialismo si carica di allusioni
ontologiche, metafisiche e oggettivistiche che è difficile possano avere
un riscontro sul piano dell’analisi empirica, 4.3. L'etica
giusnaturalistica e la legge naturale. — Passando al piano più sostantivo
un'etica normativa chiaramente identificabile è quella giusnaturali-
stica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di
sostenere come il giusnaturalismo e la concezione della legge naturale
vadano incontro a profonde difficoltà epistemologiche, ma resta fermo che
anche nel corso del XX secolo — benché con minore fortuna che nel passato
— sono riconosci- bili dei sostenitori di un concezione giusnaturalista o
della legge naturale (ad esempio Finnis, 1983), Si tratta di quella
posizione etica che ritiene che gli uomini hanno per natura determinati
doveri e obblighi e che tali doveri e ob- blighi siano determinabili
prima e indipendentemente dal costituirsi di qual- siasi istituzione giuridica
o politica. La tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la
presentazione da parte di Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della
legge naturale, una ripresa e una formulazione sistematica nel corso del
XVII secolo da parte di autori come Grozio e Pufendorf. La concezione
della legge naturale è stata poi varie volte ripresentata nei secoli
successivi e tuttora costituisce l'etica prevalente nelle visioni
cristiane e religiose. Le concezioni della legge naturale ruotano
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 70 ETICA intorno al
riconoscimento di una serie di obblighi e di doveri propri della na- tura
umana. Proprio conseguentemente a questo riconoscimento i teorici della
legge naturale fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi possiamo
ritenere che la diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale
linguaggio sia una ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però
sottolineato come sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno
nelle concezioni giu- snaturalistiche rispetto a quello che essi hanno
nelle teorie etiche dei diritti propriamente dette. Infatti i diritti
affermati da un'etica giusnaturalistica non sono mai illimitati e
assoluti, ma trovano una delimitazione nell’obbligo o dovere che occorre
comunque rispettare facendo valere il proprio diritto. Le diverse
classificazioni dei diritti rinviano quindi a un contesto di leggi,
doveri e obblighi che resta primario. I teorici della legge
naturale concordano nel ritenere che gli uomini in quanto tali hanno
tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio, l’esi- stenza
di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna al dovere del
rispetto della vita di costui da parte degli altri. Tra gli obblighi più
frequente- mente richiamati dai teorici della legge naturale ricordiamo i
doveri verso se stessi, i doveri verso gli altri (distinguendo in questo
ambito tra i doveri verso i propri familiari e i doveri verso i propri
concittadini) e i doveri verso Dio. I doveri verso se stessi sono spesso
identificati con tutta una serie di massime di tipo prudenziale, sulla
base di un più generale principio che considera la vita umana — più
specificamente la propria vita — come non disponibile. All’in- terno del
quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il suicidio è general
mente considerato inaccettabile. Per quanto riguarda poi la
dimensione dei doveri verso gli altri una prima proposta è quella che
distingue tra i doveri in senso più stretto nei confronti dei propri
familiari e i doveri in senso più generale verso i propri simili.
Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del giusnaturalismo è quella
tra doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di fronte a doveri perfetti
laddove a questi doveri non si può disattendere in quanto sono legati a
un corrispon- dente diritto da parte degli altri e dunque con una qualche
codificazione. Così in questa classe rientra il dovere di non ledere gli
altri o di ottemperare a una promessa o patto sottoscritto. Nella nozione
di lesione si fa spesso rientrare non solo il danno fisico, ma anche il
danno relativo ai beni ovvero alla proprietà. Vi sono invece tutta una
serie di doveri imperfetti: essi riguardano azioni che non siamo sempre
tenuti a realizzare perché gli altri non le possono pretendere da noi
come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da generosità 0
beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico. lare
posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo nella
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE NORMATIVE 71
famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre nella
società. Non mancano tentativi fatti dai teorici della legge naturale
specialmente nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf, Althusius e Thomasius
(Bobbio, 1980) di esporre in forma compiuta e sistematica tutto il codice
di obblighi e doveri. I teorici della legge naturale
riconoscono uno statuto del tutto peculiare al dovere nei confronti del
governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbe- dienza 0 lealtà nei
confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la rifles- sione
intorno a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel
corso del XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale.
In- fatti Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di
un'etica della legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate
essenziali: da una parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra
un qualche diritto a resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la
soluzione nel rimettere al governo attraverso il patto tutti i diritti e
dunque complessivamente anche il diritto di resistenza, lasciando però
all'individuo la possibilità di salvare con la fuga la propria vita
quando in pericolo. La concezione giusnaturalistica dunque è
entrata in crisi non solo sul piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche
per la sua incapacità di fornire soluzioni pratiche effettive ai problemi
etici che di volta in volta si sono pre- sentati agli uomini. Quanto più
le condizioni di vita degli esseri umani sono andate collocandosi in un
ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla na- tura è risultato
decisivo e chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di resistenza
del cittadino nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiu-
ste è risultato inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei
doveri a cui rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o
lacunosi quando le condizioni di vita si sono andate trasformando
radicalmente nel corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il
prevalere di condizioni artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle
profonde trasformazioni che hanno subito le relazioni familiari. Da
queste trasformazioni deriva la vuotezza di quelle concezioni che pensano
di potere risolvere i conflitti facendo appello a ciò che è naturale. Le
questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i sensi non
trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una
presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e
lode- vole secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e
dei rispet- tivi doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va
incontro il giusnaturali- smo si pensi come al suo interno sia arduo
trovare risposte per i problemi che nascono con le nuove professioni o le
nuove responsabilità etiche (pensiamo a chi si occupa di gestione o
trasmissione delle informazioni o delle imma-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 72 ETICA gini, o a
chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge
naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per
l'eternità doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo
cinquant'anni fa erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta
essenza della condi- zione umana può risolvere queste difficoltà in
quanto per questa via le norme ricavate dalle leggi naturali si
presentano con una formulazione tanto astratta e generica da risultare
del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione giusna- turalistica si
è andata sempre più svuotando della sua forza pratica e l'appello alla
legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e ideologico, unito
alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto
gene- rali quali «non uccidere», «non rubare» ecc. 44.
L'etica contrattualistica e le sue forme. — Il contrattualismo come
teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del XVII secolo proprio
come superamento del giusnaturalismo cristiano e medievale. La
possibilità di indi- care nella natura umana un fondamento adeguato per
l’etica veniva messa in crisi da Hobbes indicando la completa assenza,
nella natura originatia degli uomini, di tendenze che rendessero
possibili la pace, l'ordine e la coopera- zione sociale. Proprio in
quanto la natura umana immaginata in uno «stato di natura» è incapace
secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione tra il bene il male,
tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a una
procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu am-
piamente usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da
autori — molto diversi tra loro — come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke
{Gough, 1986). Un tratto tipico comune del contrattualismo del XVII
secolo sta nel fatto che il contratto è presentato come un criterio che
può riuscire a fondare solo una parte del contenuto dell'etica — quello
che ha a che fare con le leggi giuridiche e con le istituzioni politiche
—, ma non la totalità dell'etica e în particolare non può rappresentare
un criterio adeguato per fondare la morale nel senso stretto in cui ne
trattiamo in questo scritto. Proprio perciò i teorici nel XVII secolo, al
di lì dello spazio garantito dal contratto, rinviano a una diversa base
come fondazione per la morale propriamente detta. Ad esempio nella teoria
di Hobbes troviamo che o — secondo la maggior parte dei suoi interpreti —
vi è una completa assenza di morale nello stato di natura e prima del patto
che dà vita all’ordine civile, oppure — ad esempio secondo H. War- render
(1974) — la morale viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine —
ad esempio secondo Bobbio (1989) — la si fa dipendere da un calcolo
prudenziale. Pufendorf e Locke invece ritengono che il contrattualismo
per www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE
NORMATIVE 73 quanto riguarda l'obbligo giuridico e politico possa
(e debba) essere accom- pagnato dall'accettazione del giusnaturalismo per
quanto riguarda l’obbliga- zione morale propriamente detta. Una
prospettiva che restringe la portata della procedura artificialistica del
contratio è presente anche in un autore come Jean-Jacques Rousseau che
pure indica, nel contratto sociale (Rousseau, 1966), l’unica via per
correggere le distorsioni generate dalla corruzione pro- dotta dallo
sviluppo della società e ricostituire così condizioni etiche più con-
sone alla natura degli uomini (Rousseau, 1988). Solo con il XX
secolo il contrattualismo si è presentato come criterio etico generale
non ristretto alle situazioni di pertinenza del diritto e della politica.
È infatti con Rawls e la sua «teoria della giustizia» (Rawls, 1982) che
la conce- zione contrattualista viene proposta come strategia adeguata
per individuare i principi etici in generale. Va però rimarcato che il
«contrattualismo ideale» di Rawls riesce a funzionare da criterio
generale per l’etica solo in quanto si de- linea come una procedura che
ha incorporato in sé un altro requisito ritenuto caratteristico
dell’etica: quello dell’imparzialità o dell'assunzione di un punto di
vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $ 3.8) i limiti del
contrattualismo di Rawls per quanto riguarda le procedure epistemologiche
a cui si richiama; sul piano normativo va rilevato che tale criterio è in
grado di indicare solu- zioni — ad esempio nella distribuzione dei beni
disponibili — solo in quanto tutti coloro che sono coinvolti accettano
già alcuni vincoli. Perché la proce- dura contrattualistica possa risultare
decisiva bisogna, dunque, ritenere che ci sia già un qualche accordo nel
considerarsi cittadini di una stessa comunità; oppure, in alternativa,
bisogna ritenere che ci sia un’armonia prestabilita (un residuo del
provvidenzialismo settecentesco) che garantisce la confluenza de- gli
interessi individuali nel bene generale. Proprio come correttivo di
queste limitazioni Gauthier ha presentato una procedura delineata come
una forma di «contrattualismo reale» (Gauthier, 1986). Questa strategia
si sforza di mo- strare che un certo esito identificato come un
equilibrio di contrattazione ri- sulta per tutti coloro che sono
coinvolti più conveniente in termini di soddi- sfazioni personali. Resta
però da dire che in questo caso il criterio etico deci- sivo sembra
presentarsi — al di lì del contratto — in una sorta di «egoismo
razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo
migliore per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su
eventuali soste- gni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3).
In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo
che non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica,
ma che ha bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o
egoismo razionale) ove lo si voglia fare valere al di là del piano
giuridico e politico. www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
74 ETICA 45. Un'etica dei diritti. — Anche l'etica dei
diritti si è andata svilup- pando nella cultura moderna e contemporanea
come un correttivo della con- cezione giusnaturalistica. Una prima fase
dell'etica dei diritti nel corso del XVII secolo fu la via attraverso la
quale si cercò dì garantire la sfera di auto- nomia delle persone nei
confronti dell'intervento della legge e del potere po- litico. I diritti
che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque
prevalentemente come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un
po- tere esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si
fermarono a lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla
proprietà dei beni ed altri autori — come ad esempio Anthony Collins
(1990) — e in generale i free-tbinkers — cercarono di far valere il
diritto alla libertà di pensiero. Il pro- cesso teso a garantire i
diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie Dichiarazioni
dei diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiara- zione
dei diritti della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988).
Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX vi è stata una
conte- stazione della teoria etica dei diritti, da una parte dagli
utilitaristi sul piano epistemologico e, dall'altra, dai marxisti sul
piano di una critica storico-so- ciale. Ma — come rileva Brenda Almond
(Almond, 1991} — una ripresa del- l'etica dei diritti si è avuta dopo la
seconda guerra mondiale in particolare come reazione alla soluzione
finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così assistito a un
progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che Bobbio
ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di
«età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto
ricorso al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in
precedenza lo avevano criticato, come ad esempio l’utilitarismo — che
l'aveva riftutato come del tutto privo di sensatezza — o l'etica
cattolica — che l’aveva attaccato come espressione del trionfo di una
mentalità moderna anarchica e priva di eticità. Nella seconda metà del
secolo XX si è altresì assistito a una espansione della sfera dei diritti
affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente etica dei
diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi
ma ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti
positivi (ad esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma
in questa sede non possiamo limitarci a prendere atto della larga
diffusione a livello di opinione pubblica del linguaggio dei diritti;
dobbiamo piuttosto impegnarci a identifi- care e valutare criticamente le
concezioni teoriche che hanno visto nell’affer- mazione dei diritti il
criterio etico fondamentale. Nel corso del secolo XVII laddove i
sostenitori della legge naturale prefe- rivano richiamare sul piano etico
il primato dei caratteri essenziali della na- tura umana intesi in modo
complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE NORMATIVE 75
un'etica dei diritti — pur conservando la convinzione di una legge naturale
o divina che fonda in modo assoluto l’etica — facevano proprio — sia pure
in modo grezzo e schematico — il quadro teorico dell'individualismo
metodolo- gico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte
della storia del- l'etica dei diritti possiamo accettare il quadro
esplicativo proposto da autori come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson
(1973) che identificano questa sto- ria con quella della lotta di una
nuova classe in ascesa — la borghesia 0 ceto medio, ovvero il ceto di produttori
— per giungere a un ticonoscimento delle sue esigenze da parte della
legge o del potere politico. Dunque una prima fase dell'affermazione dei
diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli uomini
contro lo strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase
che possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in
cui si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà,
all'autonomia, alla resi- stenza, alla proprietà ecc. In questo quadro,
oltre ai teorici del liberalismo settecentesco, possiamo collocare anche
autori che, come Rousseau, sono im- pegnati a recuperare una serie di
esigenze naturali degli uomini contro le li- mitazioni progressivamente
delineatesi nella storia della corruzione umana. Nel corso del XX
secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cer- cato, sempre su
un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare a favore del
riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri umani
avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con
le loro istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi
rien- trano ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più
genericamente alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o
alla felicità. Laddove nella prima fase erano i diritti dell’individuo o
del cittadino che si cercava di considerare come criterio decisivo
dell'etica, nella fase più recente si pren- dono a guida piuttosto i
diritti della persona umana più ampiamente intesa. Va però rilevato che
ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompa- tibilità tra
l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi. Come
ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di
difesa dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di
concordare una lista precisa dei diritti da includere in questo programma
e di convergere su una loro ge- rarchia) non può che essere realizzata
dando al potere politico e giuridico una qualche autorità per limitare
eventualmente i diritti negativi individuali che, se illimitati, non
permettono il raggiungimento per tutti i membri di una so- cietà dei
diritti sociali. Dal punto di vista teorico nel nostro secolo
l'appello ai diritti è stato col- legato, sul piano fondazionale, non
solo con la legge naturale, ma anche con altre strategie etiche. Non è
mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
76 ETICA quadro generalmente contrattualistico (ad esempio
Rawls, 1982), o di recupe- carne un qualche riconoscimento anche in un
quadro utilitaristico (ad esem- pio Hare, 1989), anche se in queste
concezioni i diritti non hanno più una collocazione primaria e originaria
ma solo un ruolo sussidiario e derivato. Non sono poi mancate profonde
divaricazioni per quanto riguarda il tipo di tradizione etico-politica al
cui interno sono state calate le affermazioni dei di- ritti. Da una parte
si è fatto ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto insistito
sui diritti negativi degli individui nei confronti della società civile e
spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche
di R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia — che ha trovato
espres- sione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più
totalitaria nei re- gimi comunisti — che in nome della realizzazione dei
diritti sociali dei citta- dini ha proposto limitazioni più 0 meno estese
delle libertà negative. Una storia del progressivo espandersi e
modificarsi delle rivendicazioni dei diritti può essere una strada molto
fertile per ripercorrere la storia della mo- rale e del costume sociale
nelle società occidentali, ma non permette di arri. vare a identificare
un preciso criterio etico. In questa direzione già Bentham mostrava le
fallacie e le insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo
parere non poteva che confluire in un'etica della legge naturale e dunque
in una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981).
Un'alternativa alle concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa
dall’etica dei diritti è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe
propria di Hobbes, il quale identifica i diritti con le prerogative che
ciascuno individuo si trova di fatto ad avere a ragione delle sue
condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue capacità, forza
ecc. Una impostazione che però rende praticamente impossi- bile un
qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo può far valere
come decisivi. Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese
conflig- genti di diritti in una condizione come quella umana nella quale
per la scarsità delle risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non
sono contemporanea- mente soddisfacibili tutte le esigenze di
tutti. L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore inadeguatezza
sul piano critico e teorico proprio nella seconda metà del XX secolo,
quando realizza il mag- giore successo dal punto di vista della sua
diffusione come forma di discorso prevalente nell'opinione pubblica.
Infatti proprio in questo periodo vi è stato un fiorire di nuovi diritti
ed un indubbio processo di democratizzazione (ov- vero di allargamento
della base di coloro che avanzano le pretese di diritti), fenomeni che
ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere di nuovi.
Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere della forma di
rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un riacutizzarsi dei
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LÉ ETICHE NORMATIVE
77 contrasti in campi quali quelli della nascita, della morte,
della cura, dell’am- biente, del trattamento degli animali, della
considerazione delle generazioni future ecc. Da un punto di vista
puramente descrittivo — e lasciando sospeso il giudizio di merito su
questi fenomeni — si può rilevare una crescita espo- nenziale di nuovi
soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con la
pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni
poli- tiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai
diritti, invece, da un punto di vista teorico e fondazionale restano
valide le strategie del passato con cui si era già cercato di
giustificare il primato dei diritti presentandoli, di volta in volta,
come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emo- tivo
particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di bri-
scola» (Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981),
Ma il tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come
risolutiva va incon- tro a difficoltà insuperabili quando si tratta di
fornire criteri sicuri per deci- dere quali nuovi diritti riconoscere
effettivamente come meritevoli di codifi- cazione giuridica o di tutela
morale. Non diversamente, il contesto teorico dell'etica dei diritti non
è in grado, di fronte a casi concreti, di offrire una strada
argomentativa per superare contrasti e conflitti proprio relativamente a
diritti da riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti
epistemologici l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria
valida e coerente, come una retorica pubblica largamente usata oggi nella
nostra cultura. 4.6. L'etica kantiana e la persona umana. — Un
modello del tutto pecu- liare di etica normativa è quello che si trova
negli scritti di Kant. Come ha sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci
troviamo di fronte a una ben pre- cisa forma di «deontologismo della regola»
{Frankena, 1981). L’universalità richiamata dall’etica kantiana si
collega, su un piano epistemologico, con una forma di intuizionismo che
attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un realismo etico che
esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica non-
cognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di
trovare in Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente
procedurale. La legge etica di fondo dell’etica kantiana — ovvero
l'imperativo catego- rico «agisci in modo che la massima della tua
volontà possa valere nello stesso tempo come principio di una
legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) — si presenta come decisiva e
capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti e disaccordi etici.
Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è stato più
frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i cri-
tici come una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà
che per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di contenuti
e si www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 78 ETICA
rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle effettive
opzioni presenti nelle situazioni reali. La comprensione
della proposta etica kantiana passa attraverso una più precisa
individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant si tratta
di una massima che è universalizzabile solo se può essere voluta senza
contraddizione come legge universale, cioè se e solo se qualcuno può
volere, senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti questa massima
e agisca secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è la prova
dell’accettabi- lità morale di una massima dell’azione e conseguentemente
della condotta» (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è
un principio morale e come tale non ha molto a che fare con
l’universalizzabilità che Hare riconosce come carattere proprio dei
giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno nelle prime affermazioni
che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi sulla logica del
discorso morale. Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica
normativa kantiana non ci si può limitare alla componente
universalistica. Vi sono altri tratti che la ren- dono storicamente
riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il nucleo
essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e
passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona.
Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici
na- scono proprio negando — in nome della libertà — interessi egoistici e
desi- deri individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere
punti di vista imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli
aspetti caratteristici dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere
il discorso delle etiche asceti- che cristiane che indicavano
un'incompatibilità tra la ricerca del proprio be- nessere e il piano
morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge solo a fissare una
distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano etico, ma
procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che nega
recisa- mente — contrapponendovisi — tutta l'impostazione delle etiche
eteronome che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in
questo senso l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della
scelta responsabile e razionale della legge universale, in contrasto con
qualsiasi tendenza a consi- derare la felicità individuale come obiettivo
finale dell'etica. La posizione kan- tiana si presenta, dunque, come del
tutto alternativa rispetto a quella fatta va- lere sempre più decisamente
nella tradizione empiristica — da Hume all’uti- litarismo, al
prescrittivismo universale — secondo la quale solo desideri, sentimenti e
preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non eti- che) e
la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna per
dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del tutto
eccen- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE
NORMATIVE 79 trici aleuni tentativi contemporanei — ad esempio
quelli di J. Rawls e R. M, Hare — di conciliare l’universalismo kantiano
con un bilanciamento dei desi- deri e delle preferenze effettive di
coloro che sono coinvolti. Kant rifiutava tutte quelle etiche che
facevano discendere la determina- zione della moralità da motivi diversi
da quelli propriamente etici. La sua teo- ria è del tutto in linea con
l'affermazione nella cultura moderna e contempo- ranea dell'autonomia
della morale. In particolare Kant rifiutava come etero- nome tutte quelle
etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che dipendeva o
dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o dal
sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla per-
fezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e
altri moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé,
i senti- menti e le preferenze personali non sono in grado di costituire
il punto di vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi
essa è chiaramente eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della
ragione può motivare autonomamente. Nel primo caso si hanno solo
imperativi ipotetici e precetti prudenziali, mentre nel secondo caso si
giunge agli imperativi categorici mo- rali nella loro peculiarità.
La concezione etica kantiana infine riconosce un posto centrale alla
per- sona. Kant presenta una caratterizzazione della persona umana in
termini es- senzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua
realtà sostanziale continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive
alla stessa morte}, anche se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza
e si presenta come collocata sul piano noumenico. Ecco ad esempio una
definizione dell’essere umano, non priva di implicazioni assiologiche,
offerta da Kant nella Axtoropologie in prag- matischer Hinsicht abgefasst
(1798, Antropologia dal punto di vista pragmati- co): «Che l’uomo possa
avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza infinitamente al di
sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò egli è una
persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i mutamenti che
subisce, una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune
limitazioni epistemologiche nell’affermazione di un personalismo
essenzialistico Kant considera decisamente come tratto definiente della
persona umana — che è l'unico soggetto-oggetto dell'universo morale — la
sua razionalità. La centra- lità della nozione di persona nell’etica
kantiana risulta esplicita in una delle formulazioni dell'imperativo
categorico che suona: «agisci in modo di trattare l'umanità nella tua
persona come nella persona di ogni altro sempre come fine e mai soltanto
come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla base della persona è fondata la
tavola dei doveri presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La
metafisica dei costumzi). Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai
giusnatura- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 80
ETICA listi (in particolare Pufendorf e Thomasius) tra doveri
positivi e negativi (che si intreccia con quella tra doveri verso Dio,
verso gli altri e verso se stessi), riformulandola come una distinzione
tra doveri perfetti {quelli verso se stessi stabiliti da massime
universali per le quali persare un'eccezione equivale a una
contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la
contraddi- zione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant,
1970b: 269-374). Le critiche alla concezione kantiana dell'etica
sono state mosse lungo di- verse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano
più decisive: la mera forma dell’universalità o è vuota 0 può essere
soddisfatta dalla coerenza e fedeltà verso qualsiasi valore anche
negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave rigidamente
rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana che
non potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti.
Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale
com- porta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a
rendere conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non
razionali (animali, ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di
colorazione egoistica in una prospettiva che si muove esclusivamente in
un contesto di persone in qualche modo distinte e separate l'una
dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta va- lere in particolare da
Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro concettuale che — come quello
elaborato da Parfit — dia una spiegazione riduzionistica e complessa per
quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà permet- tere di
non considerare le singole persone umane come unità di misura finale pes
l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini ontologici
della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di un'etica
effetti- vamente universalistica e altruistica. 4.7. Le
etiche utilitaristiche. — Una concezione etica molto diffusa e for-
tunata è quella utilitaristica. Si può trovare un appello generico
all’utilità come criterio di scelta etica in molti pensatori
dall’antichità ai giorni nostri. Ma prendendo in esame l’utilitarismo
propriamente detto facciamo riferi- mento a quelle concezioni che
riprendono da Bentham lo sforzo di svilup- pare, in termini precisi e
rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale con al centro
l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piacere-
dolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia
dell’utilita- rismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è
molto ampia e non si può qui ripercorrerla se non in modo sommario
limitandosi a delineare alcuni dei filoni principali in esso
riconoscibili. Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo
proviamo a differen- ziarle sulla base della diversa caratterizzazione
che viene offerta della nozione www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
LE ETICHE NORMATIVE 81 del bene che alla fine si deve
ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre ricondotta ad una più
determinata nozione di bene che identifica con più precisione in che cosa
risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di distinzione che
sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezio- ni che
applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti
partico- lari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le
regole o norme in generale. Occorre precisare preliminarmente
— una precisazione particolarmente necessaria in una cultura come quella
italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi dall'essere studiato e
discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato come una forma di
egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora
l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni
sulla morale cattolica nel 1819 a fare testo) — che l'etica
utilitaristica va tenuta net- tamente distinta dalle cosiddette
concezioni egoistiche. È tipico dei fautori dell'etica utilitarista fare
riferimento a un’utilità che non riguarda mai il sin- golo agente, ma che
riguarda — a seconda della formula privilegiata — la massima utilità
generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità di
tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse
conce- zioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva
sottoscritta per quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere
presente nel calcolo utilita- ristico. Vi è la tendenza a considerare la
massima utilità che va cercata come coinvolgente tutti coloro nei quali
può essere rintracciato il tipo di stato men- tale che va massimizzato,
che si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o altro. Proprio
in questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una
concezione della morale che estende la sua portata anche al di là
dell’ambito delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri
viventi in cui si trovi lo stato mentale (ad esempio la sofferenza o il
piacere) che il criterio deve mi- nimizzare o massimizzare con il corso
di azione prescelto. Già in Bentham {Bentham, 1970: 282-283) era presente
quell'apertura a una considerazione etica del mondo animale che troviamo
poi largamente sviluppata nell’utilita- rismo contemporaneo.
Per quanto riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato
una differenza classica è quella tra concezione edonistica che distingue
tra i piaceri solo su basi quantitative e quella che riconosce differenze
qualitative. Così in Bentham troviamo sviluppata l’idea che la
misurazione quantitativa del pia- cere € del dolore è l'unico criterio in
grado di dare una base esterna, valida e pubblicamente discutibile, alle
prese di posizione etiche. Bentham quindi cri- tica tutte le etiche
alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un criterio
del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misu-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 82 ETICA
razione della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che
coinvolgono più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio
sull’inadeguatezza, ad esempio, del criterio offerto da Bentham si sono
concentrate le critiche degli avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata
tra l’altro l'impossibilità di ridurre a una base unica piaceri diversi e
l'impraticabilità di quei confronti interperso- nali di piacere e dolore
che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la critica che la
ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sem- bra
lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta
del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di
azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se
questo risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di
tale piacere o benessere e addirittura accentua la distanza tra individui
che ottengono grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una
ridottissima. Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo
rispetto a questioni di giustizia distributiva, e più in generale a
questioni di diritti. Una diversa forma di utilitarismo fu
delineata da John Stuart Mill in Ut litarianism (1863) in parte già come
risposta a queste critiche e difficoltà del particolare edonismo di
Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative riguardano
l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insi-
stenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione
delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni — laddove non
procu- rino danno agli altri — vanno incorporate nel criterio
utilitaristico. Mill nei suoi scritti non si limita ad assumere come
rilevante la distinzione qualitativa tra piaceri più elevati e più bassi,
ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto della quale risolvere eventuali
contrasti, e ciò che più conta usa questa distin- zione per proporre
sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del trattamento
delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà e
della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti
relativi ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che
essi possano essere risolti facendo appello all'opinione — che si esprime
nella discussione pub- blica con l'approvazione o la disapprovazione
morale — di coloro che cono- scono tutte le forme di piacere in gioco. La
posizione di Mill per quanto ri- guarda la distinzione qualitativa dei
piaceri è stata spesso criticata e denun- ciata come contraddittoria, in
quanto mescolerebbe due differenti criteri di valutazione (cfr.
Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta un’etica mista,
ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione, ma non.va
data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione nor- mativa
che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli
valere a diversi livelli etici. www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
LE ETICHE NORMATIVE 83 Ma la grande svolta nella storia
dell'utilitarismo è segnata da quel mo- mento in cui il criterio passa a
prendere in considerazione non tanto le com- ponenti del piacere e del
dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di coloro che sono coinvolti
nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle prefe- renze che si
sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento decisivo
del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità di
misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando
come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e
dun- que identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la
soddi- sfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze possono
tendere verso oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo delle
preferenze dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile,
recuperando e ampliando — in un senso ancora più liberale e
individualistico — quell’esi- genza di pluralismo fatta valere da Mill
contro il riduzionismo oggettivistico e paternalistico dell’utilitarismo
di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989). L'utilitarismo delle
preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di trovare una risposta
per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare sono stati
messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine diverso, quali
quelle antisociali di un sadico e quelle benevole o altruiste. Così John
Harsanyi (Har- sanyi, 1985: 75-126} ha considerato rilevanti per l'etica
solo le preferenze be- nevole considerate imparzialmente, mentre Hare ha
identificato come etica- mente significative le preferenze
universalizzabili (Hare, 1989). Infine non sono mancati utilitaristi che
hanno proposto complesse tecniche di valuta- zione critica delle
preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di accettare, dopo averle
sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole preferenze
razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente informati
(Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come, a
livello teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso
specifico al cri- terio della massimizzazione si affianca quello della
selezione delle preferenze in base alla loro universalizzabilità formale
o imparzialità sostanziale. Malgrado questi tentativi di evitare il
riduzionismo, l'utilitarismo è stato insistentemente attaccato (Smart e
Williams, 1985; A. Sen e B. Williams, 1984) contestando la legittimità di
un approccio che considera come decisive le preferenze che di fatto un
certo individuo si trova ad avere. Procedendo in questo modo
l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti pos- sono
essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni
reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986)
ha obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce
con il con- solidare le distribuzioni di beni inique di fatto già istituzionalizzate.
Gli utili www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 84
ETICA taristi hanno cercato di rispondere a queste critiche
indicando che l'esigenza della massimizzazione delle soddisfazioni delle
preferenze può essere ottimiz. zata solo laddove si accetti l’esistenza
di una soglia per ciascun individuo al di là della quale un incremento
della soddisfazione delle sue preferenze realizza risultati meno validi
di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle preferenze di
individui che stanno peggio (Pontara, 1988). Nella storia
dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto anche su di
un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di fare valere
nella massimizzazione una qualche regola o principio distributivo. In
questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme di utilitarismo
della norma © della regola. Sul piano storico vi è stata una tendenza a
considerare Bentham come un tipico esponente dell’utilitarismo dell’atto
e a trovare in- vece in Mill una posizione che anticipa le esigenze
dell’utilitarismo della re- gola o della norma (J. Urmson, 1953). Il
problema principale affrontato da questa parte della riflessione teorica
interna all’utilitarismo è stato quello della possibilità o meno di
ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo del- l’atto. Nel
caso poi in cui si è concluso per la specificità dell'utilitarismo della
regola, la questione è stata se una teoria che fa valere un qualche riferimento
a regole, principi e norme non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguen-
zialista proprio dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione
sullassibi- lità di conciliare l'accettazione primaria dell’utilitarismo
dell’atto con un rico- noscimento di un qualche ruolo nella vita etica a
principi e norme, partico larmente interessante risulta un tentativo come
quello di Hare. Hare ha presentato una teoria dei due livelli di pensiero
etico: uno, più intuitivo e di senso comune, all’interno del quale
valgono le regole e le norme, e l'altro — che si colloca invece sul piano
della riflessione critica — nel quale, vice- versa, si applica
ditettamente alle singole azioni il criterio utilitaristico della
massimizzazione della soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che
sono coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da ritenere però quei
tentativi di pre- sentare un utilitarismo della norma e della regola come
itriducibile — sul piano normativo — all’utilitarismo dell'atto. Così ad
esempio procede Brandt, che ha più volte fatto valere la sua posizione
come una forma di utilitarismo della norma ideale. In questa teoria il
criterio etico decisivo è quello che iden- tifica le soluzioni
rappresentandosi le norme da accettare in una società idea- le rivolta a
soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi cittadini (Brandt,
1992). Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo va
infine ricordato quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto
di realizzare un saldo attivo di piaceri, quanto di minimizzare le
sofferenze e i dolori (R, N. Smart,
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE NORMATIVE 85
1958). Questo tipo di utilitarismo negativo è stato spesso criticato —
ad esem- pio da J. J. Smart (Smart, 1985) — come paradossale in quanto
implica che la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il
numero di esseri sen- zienti esistenti, in quanto per questa via si
procede certamente a una ridu- zione della quantità delle sofferenze. Ma
se si va al di là del piano speculativo sul quale si muove l’etica
teorica sembra chiaro che proprio il criterio di una riduzione delle
sofferenze inutili ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti più recenti
sull’etica pratica. È stata questa la via principale mediante la quale si
è allargato l'ambito del discorso etico anche alle questioni del
trattamento degli animali ed ancora è questa la via mediante la quale —
riprendendo le critiche di Bentham nei confronti delle etiche ascetiche —
si continua a fare emergere l'inaccettabilità di quelle soluzioni
fittizie ricavate dall’imposizione di antro- pologie astratte.
4.8. La scelta razionale come criterio normativo. — Consideriamo
poi quella concezione normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto
fare, in una qualsiasi situazione che ci presenta diverse alternative,
può essere deciso cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel
senso di ciò che soddisfa massimamente i propri interessi e bisogni. Una
concezione etica della scelta razionale è riconoscibile in particolare
negli scritti di alcuni teorici che difen- dono l'economia di mercato,
sostenendo che proprio la ricerca da parte di ciascun individuo della
massima realizzazione delle proprie esigenze consente di ottenere i
risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e Buchanan,
1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione normativa sta
nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò che è
razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In
questa luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una
posi- zione che tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno
consideri come massimizzante la propria utilità interpretata in termini
di benessere o vantaggio economico personale — una teoria etica che muove
dal riconosci- mento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra
una posizione che interpreta la scelta razionale come quella che
massimizza, ad esempio, i biso- gni più profondi ed elevati della persona
che sceglie. La teoria che ritiene eticamente preferibile come
criterio per le scelte pub- bliche il comportamento che tende a
massimizzare l’utilità attesa da ciascuno degli agenti negli ultimi
decenni è stata attaccata lungo due linee: una rivolta a mostrarne le
difficoltà interne laddove venga presentata come teoria norma- tiva da
adottare per identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta
a farne risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa.
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 86 ETICA Il primo
ordine di difficoltà si esprime specialmente osservando che, col.
locandoci all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non
di- versamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro
avversati egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben
noto dilerzizza del prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più
individui razionali in una situazione che li coinvolge in competizione si
fanno guidare per decidere la via da seguire dalla ricerca del migliore risultato
prevedibile — sulla base del. l'attribuzione di un calcolo eguale agli
altri individui — saranno costretti a privilegiare corsi di azione che
porteranno a un risultato niente affatto otti- male. Ll risultato
migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la mas- sima
utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo com-
portamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe
realizzare solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo
cooperativo da parte di tutti gli individui presenti nella scena.
L'altro tipo di critica — avanzato ad esempio da Sen (1986) — è rivolto
a mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta
razionale in quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte
le nostre scelte in situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se
pensiamo a scelte che ri- guardano la disponibilità di beni quali strade,
servizi ecc. ci rendiamo conto che ciò che di fatto facciamo laddove
privilegiamo una decisione che porti alla creazione o all'uso regolato di
uno qualunque dei beni pubblici — creazione e uso regolato che risultano
costitutive della nostra forma di vita — non può essere in alcun modo
spiegato come esito di una scelta ispirata dalla teoria della scelta
razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti
regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi che si
preoccupano esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe
impossibile la conver- genza sulla creazione e l’uso regolato di un bene
pubblico, Tale teoria non riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di
una larga fetta della nostra realtà sociale. Va però
segnalato che i teorici della scelta razionale sono tuttora impe- gnati a
elaborare modelli, coerenti con le loro assunzioni, con cui rispondere a
tutte queste obiezioni. In particolare si sono sforzati di mostrare come
nel quadro teorico della cosiddetta teoria della scelta razionale o dei
giochi — ov- vero in una situazione in cui sono presenti più agenti
razionali con obiettivi in competizione — è possibile spiegare
l'insorgenza di norme e regole coopera- tive che permettono di convergere
sui risultati ottimali. In questa linea si è mosso ad esempio R. Sugden
{Sugden, 1986) che ha molto lavorato nel cer- care di mostrare come una
teoria della scelta razionale che preveda scelte ri- petute, con la
ricerca da parte degli agenti di un aggiustamento reciproco in
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE ETICHE NORMATIVE 87
vista di un equilibrio più stabile, permette di arrivare a rendere conto
dell’ac- cetrazione sociale di norme con un minimo di contenuto
cooperativo. Questo modello cerca di rendere conto dell'ordine sociale in
generale sviluppando alcuni tratti della ricostruzione della genesi delle
istituzioni cooperative già presente in Hume (Magri, 1994). Questi
modelli esplicativi valgono solo in quanto a posteriori rendono conto di
quello che si è già realizzato, ma è dif- ficile usarli come criteri
normativi per scegliere comportamenti rivolti al fu- turo. I modelli
della scelta razionale sono stati adottati in modo indubbia- mente
fertile per rendere conto, all’interno di un generale quadro evoluzioni-
stico, di come tra gli animali superiori si rafforzano abiti cooperativi
in alternativa a quelli o del tutto egoistici o assolutamente benevoli
(Dawkins, 1992). Ma questa teoria nulla può dirci quando si tratta di
decidere quale, tra le differenti alternative di comportamento che ci
sono davanti, dobbiamo scegliere. 4.9. Pluralismo,
tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. — L'esistenza di
differenti concezioni etiche — il loro conflitto sempre risorgente — non
solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri per
affrontare razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema di
come conciliare la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche con
il riconoscimento al- l'etica di una qualche validità. In
primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineli-
minabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di
fatto, ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè
considerata più apprezzabile una società pluralistica che una società che
in forme più o meno coercitive impone il prevalere di una sola etica.
Quest'ultima assun- zione valutativa non è però condivisa dalle
cosiddette concezioni comunitarie (Ferrara, 1992) che invece privilegiano
società in cui si realizzi una forte con- vergenza sui valori e anzi al
limite siano caratterizzate da un'unica morale {MacIntyre, 1988). Ma al
di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e delle tentazioni per
una società segnata da una forte uniformità, vi sono argo- mentazioni e
distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratte- rizzate
da una pluralità di etiche in competizione. Tutta la tradizione
liberale trova nella fioritura pluralistica una condi- zione che
favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative
presenti nella natura umana. Tale posizione — presente ad esempio in
pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,
19814) — ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di
vivere Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche
accentuando www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 88
ETICA le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e
un progresso delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una
completa atro- fizzazione di queste capacità. Una posizione a
favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a tenere ben
distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che ri- guarda
quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative che
sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche sta-
bilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare
coni modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda
lo stile di vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e
gli ideali etici un confronto tra progetti anche alternativi può segnare
un arricchimento e uno sviluppo della cultura umana. Sul piano più
ristretto dell'etica minima in gioco laddove si tratta delle basi della
convivenza è invece difficile ritenere adeguato un pluralismo di fondo.
Ritorna qui dunque una distinzione già pre- sente nella tradizione
giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e quello dei
doveri imperfetti. Questa posizione di apprezzamento per un contesto
sociale e culturale segnato dal pluralismo etico o pluralismo dei valori
va tenuta però distinta da una concezione che sottoscriva un completo
relativismo. Va, infatti, tenuta chiaramente distinta una posizione che,
sul piano descrittivo, prenda atto che si confrontano diverse concezioni
etiche, dunque tutte relative e non assolute, da una posizione che assuma
da un punto di vista normativo le conclusioni del relativismo. Il
relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo ragioni per
ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione a
un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna validità
alle distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e ingiusto. È
invece carat- teristico del nostro tempo il fatto che si riesca a
sostenere con decisione e forza di convinzione la propria soluzione etica
ai problemi pur rispettando è tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma
in questo caso l'ammissione di altre posizioni etiche non equivale a
ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben detto (in particolare da
parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello teorico la posizione
era stata già illustrata da Juvalta, 1945 ed è stata più recentemente
derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli, 1982) la
situazione è — per paradossale che possa sembrare — quella di chi si
impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto di
vista etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore
che fa valere un altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza
che il proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e
buono consente di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il
nostro punto di www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE
ETICHE NORMATIVE 89 vista a valere di più — ad essere più buono e
più giusto — fin quando non ci verranno presentate ragioni o non faremo
esperienze che ci costringeranno ad abbandonarlo. Le
distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia
completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in ge-
nerale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione
propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «po-
liteismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile
conciliare pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il
proprio punto di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve
avere a che fare con qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva
nel XX secolo è larga- mente inattuale e perdente, in quanto certamente
non può essere conciliata con una meta-etica che pretenda di avere dalla
sua una qualche verità e capacità di rendere conto della nostra effettiva
esperienza morale. Proprio la persistenza di questa prospettiva
assolutistica dell'etica continua a gene- rare confusione e conflitti e
contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo la coesistenza, in
quanto mossi da forme di fanatismo morale che non tollerano le
differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il pas- saggio da un
contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad uno che
accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può essere
vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che vivono
il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e da un
regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti a
valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo
nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi
è alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità
e mancanza di senso. Dall'altra — e chi scrive si riconosce in questa
seconda linea — vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un
guadagno in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La
credenza in va- lori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di
pericolosi e insanabili con- trasti. L'alternativa non è il nulla o la
perdita di senso della nostra esisten- za ma piuttosto un'etica che muove
da un piano più realistico e empirica. mente fondato. I valori derivano
quindi da scelte e decisioni che gli uomini assumono responsabilmente
tenendo conto delle loro emozioni, delle loro limitate capacità
intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere que- sto non
equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puada- gnato una
prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un piano di
parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi
pratici. www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 90
ETICA S. Dall’etica teorica all'etica pratica. 5.1.
Dall’etica teorica all’antropologia: motivazione e obbligazione. — La
storia dell'etica è ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative,
specifi- che concezioni antropologiche relative alle motivazioni, i
bisogni, i desideri e gli interessi degli esseri umani. Potremmo anzi
sostenere che è comune che a un'etica teorica si accompagni un’etica
antropologica, ovvero una psicologia della morale che su basi più o meno
empiriche pretende di descrivere come gli uomini sono fatti e procedono
nelle loro scelte. Questa commistione tra piano normativo e piano
descrittivo ed empirico risulta largamente praticata specialmente dal secolo
XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja conce. zione innatistica
della legge naturale, che riteneva la legge morale natural- mente
obbligante in quanto presente originariamente nella coscienza di tutti
gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo segna il tramonto di
que- sta soluzione innatistica nel collegamento tra legge morale
obbligatoria e base motivante negli esseri umani e dunque per l’etica
moderna e contemporanea diventa essenziale non solo la questione di ciò
che è bene o giusto, ma anche di ciò che rende effettivamente obbligante
per gli uomini il bene e il giusto (cfr. Fagiani, 1983). Si avvia quindi
una ricerca sistematica sulla motivazione e la base psicologica che rende
obbligatoria una condotta etica, Nel pensiero moderno è ricorrente,
per quanto riguarda la motivazione morale, una concezione che nega che
ciò che viene scoperta 0 trovato con l’aiuto della sola ragione possa
avere di per sé forza obbligante o motivante, Un residuo di attribuzione
di forza obbligante alla ragione in quanto tale {cfr. $ 2.5) si può
trovare nella concezione di giusnaturalisti come Grozio (Grozio, 1625) o
in quei pensatori che — come ad esempio Joseph Butler (Butler, 1970) —
nel corso del Settecento indicano nella coscienza non solo un prin- cipio
in grado di trasmettere la consapevolezza della legge morale, ma anche di
obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici dell'etica è piuttosto
quella alternativa di negare alla ragione la capacità di motivare
all’azione e dunque di negare forza obbligante alle norme e leggi
scoperte attraverso l’uso del solo intelletto. Muovendo da questa
premessa è dunque necessario procedere a uno studio empirico della natura
umana e in particolare della condotta per vedere che cosa muove ad agire.
Viene così ampiamente ripresa nel corso del XVII secolo la tesi
edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muo- vono
all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento
al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto
esclu- sivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes
quanto Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale
esclusiva- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
DALL'ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 91 mente sul potere di
sanzione. Nel caso di Hobbes il potere sanzionatorio viene legato a un
calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai danni che nel corso della
vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi naturali. Locke lega
invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e dunque la sua
forza obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che si
potranno otte- nere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che
lega la forza obbligante e la capacità di motivare della morale e
dell'etica in generale a qualche san- zione viene spesso riproposta nel
pensiero moderno e contemporaneo, ad esempio rinviando alla forza
sanzionatoria data da qualche piacere o dolore fisico comunque in gioco.
Erede di questa tradizione può essere considerato Bentham con il suo
tentativo di agganciare al potere sanzionatorio del sovrano la forza
della legge giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato il
positivismo giuridico del secolo XX. Proprio l’approfondimento
della conoscenza della natura empirica degli uomini porta tra la fine del
XVII secolo e la metà del XVIII a elaborare una concezione della forza
obbligante dell’etica che, pur non riconducendola a una capacità
automotivante della ragione o delle facoltà intellettuali, non la tiduce
però al sanzionamento in termini di piacere e dolore fisici, generica-
mente intesi. Questa ricerca di una base specifica di motivazione per la
morale è già presente alla fine del secolo XVII in Shaftesbury, che
proprio dall'osser- vazione empirica degli uomini fa derivare la scoperta
di un peculiare «senso morale» che non solo porta gli uomini ad approvare
le azioni virtuose, ma anche a sentirsi spinti a compiere tali azioni e
ove tali azioni non sono com- piute a provare emozioni di disagio e
sradicamento da ciò che è più proprio del genere umano, È dunque la
struttura passionale degli uomini a presentare un'inclinazione — in parte
già colta dall’antropologia aristotelica — a com- piere azioni in generale
cooperative. Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora
nel corso del XVIII secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di
questa ricostruzione della forza obbligante del comportamento etico sta
nel mostrare nella psico- logia degli esseri umani una base motivazionale
del tutto autonoma e specifica che spinge a fare azioni eticamente
rilevanti. Questi autori poi si differenzie- ranno tra loro in quanto
presenteranno o meno come motivazione universali- stica tale base
psicologica. Così mentre da una parte troveremo pensatori come
Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o benevo-
lenza più o meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume, ricono-
scetà come motivante solo una benevolenza limitata che si estende piuttosto
ai legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il
senso morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate
non solo da www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 92
ETICA un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno
estesa. La stessa approvazione del senso morale costituisce poi una
motivazione aggiuntiva al comportamento virtuoso. Risulta
dunque chiaro in questa strategia analitica che la condotta etica trova
una sua base motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una
forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un
aspetto teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà
il loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica.
Accanto a coloro — come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson — che
considereranno la motivazione a fare azioni cooperative come originaria
per la natura umana, vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto
come risultato o prodotto di un processo evolutivo o di civilizzazione
piuttosto lungo. Nel corso del XVIII secolo la spiegazione delle basi
motivazionali del comportamento morale sarà inserita sempre di più in un
quadro artificialistico ed evolutivo, Una spiegazione genetica
evoluzionistica e artificialistica della motivazione alla condotta etica
è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene svilup- pata
estesamente da Hume e poi — in una direzione ancora più ampia — da
pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono
impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII
se- colo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi
della teoria stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in
quattro stadi diversi (della caccia e pesca, dell’allevamento,
dell’agricoltura, e del commercio) la storia dell'umanità (Meek, 1981).
La prospettiva impegnata a delineare il pro- cesso artificiale attraverso
il quale gli uomini giungono a disporre di una base psicologica e motivazionale
specifica per il comportamento etico (0 coopera tivo) viene realizzata
nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea
associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni
propriamente etiche viene spiegato come un risultato di ripetute
associazioni. Significativo — anche per un lettore del XX secolo — il
contributo analitico di David Hartley, il cui associazionismo è
propriamente fisiologico, e poi di alcuni esponenti dell'Illuminismo
francese (ad esempio Claude-Adrien Helvétius, Etienne Condillac, Paul
Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili taristi come James
Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni cooperative
sarà collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico da Darwin
e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica — che
coinvolge il livello biologico — della genesi di una base motivazionale
ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso
del XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una
vera e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990),
si è piut: www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
DALL'ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 93 tosto impegnato a mostrare
analogie e differenze tra gli istinti cooperativi pre- senti negli uomini
e quelli rintracciabili negli animali. La ricerca rivolta a
individuare una base motivazionale nella natura emo- tiva degli uomini a
cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di là delle
concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro che
hanno indicato come carattere distintivo della specie umana la capacità di
es- sere motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il solo
gusto o senso del dovere da compiere, e dunque per il solo essere
richiamati da ciò che vale: una strategia che risulta percorsa da Kant e
da coloro che a lui si richiamano come ad esempio K. O. Apel {Apel,
1977). Al polo opposto si colloca la strategia di analisi, scettica e
riduzionistica, che ha del tutto negato che negli uomini sia
rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o scegliere
liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai
piaceri e ai dolori degli altri esseri umani. Nel XX secolo entra
in crisi la pretesa di disporre di una antropologia uni- versalistica che
sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti pre- senti in
tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani generalmente
intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica, piuttosto che
rinviare a una base motivazionale comune, si impegna ad elaborare più
strategie me- diante le quali si può spiegare la forza obbligante delle
regole morali. Risulta pur sempre difficile riuscire rendere conto del
ruolo obbligante dell'etica lad- dove si ritiene che gli esseri umani
siano mossi dal più rigido egoismo; stanno a dimostrarlo la crisi e le
difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta razionale (cfr.
$ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che — per dirla
con B. Williams (Williams, 1990: 302-322) — nessun discorso può riu-
scire a rendere motivante per un essere umano un principio etico
cooperativo se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già presente
(proba- bilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla
cultura umana) un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un
altro essere urnano. Da questa prospettiva come da altre il contesto
dell'etica coinvolge diretta- mente non solo la capacità di chi agisce di
presentarsi come essere fornito di una sua identità, ma anche di
riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dun- que a rendere conto
della portata delle analisi sulla natura dell’identità perso- nale
nell’etica teorica. 5.2. Il ruolo dell'identità personale
nell’etica. — Nell’etica medievale il rinvio all'anima sostanziale
rappresentava un fondamento e un preciso criterio per risolvere le
questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della sostanza
spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 94 ETICA
l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva
a disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione
dell’ambito mo. rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota
intorno a una sostanza che è la persona umana e che non è riducibile ad
altro, nello stesso tempo oggetto e soggetto esclusivo della vita morale,
è entrata in crisi tra il XVII e il XVIII secolo quando l’identità
personale non è più risultata riconducibile a una sostanza.
Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire
il superamento critico della concezione sostanzialistica della persona
umana e dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che
concepisce tali realtà come complesse e cerca di spiegarne la natura
riconducendola a qualcosa d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione
delle concezioni complesse e ridu zionistiche dell’identità personale si
presenta la difficoltà di riuscire a rendete conto del soggetto morale
con quel minimo di stabilità necessaria per dare una base a nozioni
essenziali per l'etica — quali responsabilità, merito, deme- rito ecc. Un
altro problema a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche e
complesse dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a
ren- dere conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da
una considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo
anche con una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La
connessione tra la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi
morali è al centro, ad esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi
delineata da Hume e Smith e sembra tanto profondamente radicata nel senso
comune morale da non poter essere soppiantata da una qualche teoria che
indica come eticamente rilevanti le sole azioni. La riflessione di marca
empiristica e analitica sulla natura dell’identità personale si è dunque
sempre più impegnata dal Settecento a oggi nell’elabo- razione di una
spiegazione della continuità e stabilità dell’io che, senza dover
ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile
con l’uso di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali
responsabilità, merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc.
Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a
livello di ricostruzione della vita morale — oltre che sul piano
conoscitivo — viene avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods
of Ethics (I metodi dell'etica), ed è stata poi sistematicamente
realizzata nella seconda metà del secolo XX da pensatori come Nagel,
Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che questa recente fortuna di
un'analisi dell'etica che muove da una concezione complessa dell'identità
personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fe- nomeno più
generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita del
Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali, la
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 DALL’ETICA TEORICA
ALL’ETICA PRATICA 95 grande quantità di novità che quotidianamente
ciascun essere umano deve raccordare con l’esperienza passata e con i
punti di equilibrio in essa raggiunti hanno reso sempre più frammentaria
la continuità della vita interiore e diffi- coltosa l'operazione di
recuperarne una qualche stabilità. Va peraltro sottoli- neato che le
concezioni complesse e analitiche dell'identità personale più che essere
impegnate in lamentele e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto»
cercano di elaborare una concezione dell’essere umano eticamente
responsa- bile che sia adeguata alle trasformazioni culturali degli
ultimi secoli, trasfor- mazioni che hanno reso il rinvio a un qualche
Soggetto sostanziale solo un mito privo di qualunque fondamento
empirico. Le analisi di Parfit sfociate nel volume del 1984 Reasons
and Persons (Ra- gioni e persone) presentano lo sforzo più approfondito
di sviluppare gli spunti presenti nell'opera di Sidgwick e di ridefinire,
muovendo da una nuova con- cezione — appunto riduzionistica e complessa —
dell’identità personale no- zioni come quelle di responsabilità morale,
merito e demerito ecc. Se tuito ciò che troviamo dietro la soggettività e
l'identità di una persona umana è una qualche continuità psicologica più
o meno stretta, ne consegue che i nostri giudizi morali © giuridici
dovranno essere del tutto a posteriori e investire in- terrogativi quali:
«quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di quella che ha
compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha compiuto si
inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue abitudini e del suo
carat- tere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio
empiri- stico all’identità personale comporta dunque non già
l’eliminazione delle no- zioni etiche tradizionali dal nostro lessico
morale, ma una loro ridefinizione in modo tale da presupporre connessioni
più deboli e meno definitive: tra le azioni e la persona che le ha
compiute; tra la persona come attualmente è e la sua storia passata; tra
il tipo di intervento che possiamo fare sulla persona attuale e la
sicurezza che, utilizzando determinati mezzi, potremo ottenere certi
risultati che coinvolgono il suo io futuro. In generale ci si muove verso
una concezione meno assolutistica e necessitante dell'etica di quella che
ac- cetta chi crede nella persona come sostanza. Ed è ovvio che una
prospettiva del genere risulta del tutto in linea con l’epistemologia
empiristica, ma — e si tratta di ciò che più conta — anche forse,
oggigiorno, fertile sul piano espli- cativo e predittivo,
L’approccio all'identità personale che la considera come una successione
di io che hanno tra di loro una connessione psicologica più o meno stretta
è ben lontano dall'essere diventato «senso comune» e ranto meno sembra
cor- rispondere intuitivamente a quella concezione della persona che
troviamo ra- dicata nella parte morale del nostro «senso comune», una
parte che tende a www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 %
ETICA trasformarsi con più lentezza e prudenza di quella
intellettuale. Vanno però messe in luce le implicazioni normative che
accompagnano le analisi di tipo complesso e riduzionistico dell'identità
personale, anche se per ora occorre confinatne la portata solo alle
premesse intellettuali di un sistema morale che pretenda di essere
costruito su credenze vere. Un approccio all'identità personale che
metta in secondo piano una con- cezione sostanzialista e semplice della
persona umana favorisce anche un complessivo riassetto normativo. In
primo luogo questa linea epistemologica porta al rifiuto di una
concezione statica e sostanziale del bene morale, la presa di distanza da
un modo di intendere la responsabilità morale come le- gata a colpe,
peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di cono- scere la
struttura sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli esseri
umani, può giustamente distribuire. La responsabilità morale in questa
pro- spettiva ha invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma
principal. mente con ciò che effettivamente si compie in un campo di
azioni pubblica- mente osservabili. In secondo luogo poi tale
approccio contribuisce anche a scalzare le basi analitiche che sorreggono
l’impianto normativo dell’egoismo razionale. An- cora a Parfit si devono
dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta la prospettiva
complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata una
preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle
vite attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una
preoccupa- zione esclusiva — su base egoistica e prudenziale — per i
nostri io futuri non risulta affatto giustificata una volta che si
diventi consapevoli della comples- sità di passaggi che muovendo dal
nostro io attuale porta ai nostri io futuri laddove non si postuli più la
persistenza di una stessa sostanza semplice. Tra il nostro io attuale e
quello che saremo fra numerosi anni vi sono connessioni più dubbie — e
dunque relazioni più deboli — rispetto a quelle che possiamo istituire
oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella costruzione di
un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra dunque
avere tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale
intrapresa dalla fi- losofia empiristica. Infine risulta del
tutto indebolito il ruolo della nozione di persona come categoria
essenziale per la determinazione dell'universo di esseri per i quali
valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è più solo la
pre- senza di qualche peculiare sostanza semplice di natura spirituale,
ma gli atti che si compiono più o meno responsabilmente, nulla vieta che
divengano eti- camente rilevanti anche atti che non coinvolgono persone
umane. Passando attraverso atti responsabilmente connessi con dimensioni
quali la sofferenza e www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
DALL’ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 97 il danno o il
piacere e la soddisfazione di bisogni e desideri, possono diven- tare
rilevanti per l’etica gli animali, o gli oggetti che costituiscono
l’ambiente, o realtà — di certo non personali nel senso di essere
effettivamente presenti ora come sostanze semplici con una loro propria
individualità — quali, ad esempio, i membri di generazioni future molto
lontane. È questa dunque la via epistemologica che porta ad abbandonare
quella concezione ristretta del- l'etica che si ha quando si è costretti
a passare sempre attraverso la cruna d'ago fornita dalla persona. In
particolare sono le etiche utilitaristiche e con- seguenzialiste che si
sono impegnate in questo sforzo di fornire indicazioni normative
congruenti con le concezioni di derivazione empiristica dell'iden- tità
personale e dell’universo degli esseri moralmente rilevanti. 5.3.
Etica del carattere 0 dell’azione. — Come abbiamo visto le diverse
concezioni etiche si distinguono sulla questione di quale sia da
considerare l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la
differenza più rile- vante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto
peculiare di valutazione etica sono le azioni e le loro conseguenze e chi
invece ritiene essenziale il riferi mento al carattere 0 comunque a
qualche qualità interna (intenzione ecc.) di chi agisce. Le due diverse
concezioni hanno entrambe dei punti a loro favore. Si può anzi suggerire
che la concezione più adeguata sia quella che non ri- corra in modo
esclusivo o all'uno a all’altro approccio — o azione o tratti del
carattere — ma piuttosto sappia integrare entrambe le esigenze. A
favore della concezione che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni
vi è l'esigenza — fatta valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo,
ma an- che dal garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) — che ciascuno
possa essere ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente
compiuto e non possa essere giudicato negativamente sulla sola base di
presunte predisposi- zioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro
rinviano a una pretesa capacità di cogliere l'essenza o vera natura di
una persona. Il riftuto della concezione so- stanzialistica della persona
umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo di ricollocare l'etica su
un piano più esterno e comportamentale. La considera- zione prevalente
delle azioni effettivamente compiute segna anche il tramonto di
valutazioni che investono i piani del peccato o della colpa.
Considerando come positivo il superamento di un approccio etico che
pretenda di presentare valutazioni assolute basate su di una presunta
cono- scenza finale del carattere o della natura di una persona, va però
segnalato un limite di questo approccio. Un'etica che pretenda di
derivare in modo esclu- sivo le sue valutazioni dalla considerazione dei
comportamenti esterni degli esseri umani sarà costtetta a omologare
azioni criminose e incidenti colposi e
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 98 ETICA non sarà
comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in contesti
motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica non sembra
potere prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco siano
responsabili e dun- que frutto di intenzioni e non del tutto casuali o
determinate da costrizioni al di là della portata di chi agisce.
Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche la
responsabilità delle azioni considerate rappresenta un argomento a favore
delle concezioni che pongono al centro della loro considerazione il
carattere di chi agisce. In questo si sono impegnate le cosiddette etiche
della virtà. Una tradizione che — diversamente da quanto è stato
recentemente sostenuto (MacIntyre, 1988) — non è certo confinata alla
cultura antica e medievale, ma ha trovato anche nella cultura moderna e
contemporanea dei sostenitori. La concezione dell'etica che ritiene
centrale la considerazione del carattere sembra salvaguardare alcune
esigenze essenziali per una adeguata teoria della valutazione morale.
Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi, ÎNon solo risulta
dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giu- dicare una
persona condannabile per il solo fatto che ha determinate inten- zioni,
ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può
portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi
o convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente
diver: gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere
giustificati atti gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni
benefiche di chi li com- pie. Un'etica dell'intenzione o del carattere
corre il pericolo di sottoscrivere posizioni morali esclusivamente
predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali comunque non corrisponde
alcun effettivo comportamento. Nella conciliazione, tutt'altro che
semplice, delle due concezioni sull’og- getto della valutazione morale
sono impegnati in particolare i fautori dell’uti- litarismo della regola
o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione delle
considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle
inten- zioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle
quali si sono impegnati — specialmente nella seconda metà del secolo XX (cfr.
$ 5.4) gli esponenti dell'etica contemporanea. Ad esempio,
larga parte della discussione etica contemporanea su situa- zioni
concrete quali quelle legate alla nascita — e in particolare all'aborto —
€ alla morte — e in particolare all’eutanasia — è legata alla riflessione
sul ruolo più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi
di un ruolo es- senziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte
relative all'inizio e alla fine della vita umana ha portato ad elaborare
la dottrina del «doppio effetto» (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con
questa dottrina si è ritenuto di potere
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 DALL’ETICA TEORICA ALL'’ETICA
PRATICA 99 distinguere tra diverse ricorrenze della stessa azione,
considerandola rispetti- vamente o come una conseguenza diretta e voluta
dell'intenzione di ottenere questo risultato o viceversa come effetto
secondario e non direttamente vo- luto dell'intenzione rivolta a un
risultato benefico. Laddove l'effetto diretto della nostra intenzione è,
ad esempio, garantire la nascita di un bambino, solo un doppio effetto
non voluto è la morte della madre; o — all’altro confine della vita —
laddove effetto diretto della nostra intenzione è l’azione rivolta a
un'attenuazione delle sofferenze di un morente, è solo un effetto
secondario non direttamente voluto la morte della persona, quale
conseguenza dell’uso di farmaci per attenuare il dolore. Ma questa
concezione va incontro a un’insor- montabile difficoltà di ordine
epistemologico, in quanto ovviamente non sono disponibili procedure
affidabili per discriminare tra una dichiarazione di in- tenzione del
tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In que- sto
senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità dell’intenzione si
pre- senta come il residuo di una fase in cui l’etica teorica era
impegnata a far va- lere per il giudizio sulle azioni umane un punto di
vista ideale o divino. Un'’etica fatta su misura per le esigenze della
specie umana, pur riconoscendo la rilevanza delle motivazioni delle
azioni, indebolisce però la portata delle intenzioni considerandole come
componente aggiuntiva e sussidiaria del giu- dizio etico e non già come
aspetto decisivo ed esclusivo. Fa parte della riflessione
sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche an- che la discussione
sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di vista
assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene considerata
sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer, 1989) proprio da
quelle concezioni che — come l’utilitarismo — hanno messo al centro della
valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze.
L’utilitarismo contemporaneo fa propria in realtà una nozione non
riduttiva di azione, data la quale risulta chiaro che il non fare
qualcosa quando si ha la possibilità di farlo è eticamente rilevante non
meno del compimento effettivo di un atto. Ciò che conta è la nostra
responsabilità — che si agisca o non si agisca — per conseguenze nella
situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da nostre scelte e
decisioni. Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi
secoli della storia della cultura occidentale la struttura del nostro
discorso morale si sia trasformata nel senso di un'estensione della
portata del lessico legato primariamente alle azioni e di una correlativa
riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico legato a emozioni,
sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da que- sta ipotesi
si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della
predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore
uni- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 100 ETICA
versale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi
in se- condo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica
rivolta a indivi. duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi.
L'appello a sentimenti quali l’amore o una benevolenza universale sembra
essere del tutto irrilevante quando siamo impegnati a identificare il migliore
comportamento effettivo nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono
di fronte. Certamente tale ap- pello può continuare a mantenere un ruolo
decisivo laddove siano in gioco concezioni super-erogatorie e ideali sul
dovere (che coinvolgano ad esempio la santità e l’eroismo), che hanno
però un ruolo sempre più marginale nella morale di senso comune di
società altamente complesse e popolate come quelle nelle quali viviamo.
La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole più modeste e limitate
che incidano però effettivamente sulle azioni o omis- sioni della nostra
vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri stili di vita
siano benefiche — o quanto meno non disastrose € dannose — per le
generazioni future. 54. La svolta normativa e l'irruzione
dell'etica applicata. — Nel corso del XX secolo l'orizzonte di
riflessione che muove dai problemi pratici concreti degli esseri umani è
stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di pensatori che
hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente meta- etica e
astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi
nella riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni
Settanta, con l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco
e Fox, 1986). Que- sto appello all'etica applicata è stato fatto valere,
successivamente, con due diversi obiettivi critici. In un primo periodo
l'appello era rivolto a fare sì che punto di partenza e punto di arrivo
della riflessione etica fosse considerato non già la conoscenza della
natura della morale e delle forme di ragionamen- to in essa valide, ma la
ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo — a partire dagli
anni Ottanta — si sono contestate le stesse risposte norma- tive offerte
dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata è
stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le
questioni etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare soluzioni
più determinate e settoriali in grado di risultare rilevanti per una
delle diverse dimensioni pro- blematiche riconoscibili all'interno
dell'etica pratica. La prima esigenza fatta valere negli anni
Settanta è stata dunque quella di trasformare la teoria etica in modo
tale che in essa l’obiettivo principale fosse non già quello
logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque una
conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di un
risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 DALL'ETICA TEORICA
ALL’ETICA PRATICA 101 D. Gautbier, il neo-utilitarismo di }.
Harsanyi e poi di R. M. Hare e R. Brandt, le diverse teorie dei diritti
di R. Nozick e di R. Dworkin ecc. — tutte conce- zioni a cui abbiamo già
fatto riferimento specialmente nel paragrafo 4 — sono alcuni dei
tentativi più influenti di elaborare teorie etiche impegnate prevalen-
temente sul piano normativo. Le differenti teorie etiche normative
presentate nel corso degli anni Set- tanta sono, di volta in volta, la
riproposta sotto una nuova veste di opzioni già formulate a partire dal
secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e Gau- thier tiene largamente
conto dell'elaborazione contrattualista precedente da Hobbes a Kant. Il
neo-utilitarismo ha largamente discusso e riproposto le pre- cedenti
impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I teorici dei diritti non hanno
mancato di tenere conto delle analisi di Locke ecc. Restano dunque in
larga parte operanti le stesse concezioni che nel corso dell'età moderna
e contem- poranea sono state indentificate come utilizzabili da chi fosse
alla ricerca di un criterio generale per risolvere i problemi pratici
degli esseri umani. Al livello dei principi o procedure più generali non
sembra si possa segnalare la nascita di nuove etiche, ma si assiste solo
allo sviluppo e all'approfondimento delle linee etiche normative già
disponibili. La novità principale nell’«etica teorica» {e qui si
intende una teorizza- zione etica con obiettivi esplicitamente normativi)
del XX secolo sta dunque nelle forme che prendono le diverse concezioni
normative, una trasforma- zione che in realtà era stata già anticipata da
H, Sidgwick con i suoi Methods of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo
le diverse proposte normative non fanno più parte di una ricerca
filosofica generale. Chi si occupa di etica e con- tribuisce ad essa non
colloca la sua ricerca in una più ampia prospettiva che ad esempio
affronti questioni generali sulla conoscenza umana, la natura umana ecc.
Si parte dando per scontata una sorta di specializzazione per cui chi si
occupa di etica e di problemi normativi guarda esclusivamente a questi. I
teorici dell'etica contemporanea sono dunque eredi dei professori di
filoso- fia morale come Hutcheson o Smith, più che di filosofi come
Hobbes, Locke € Hume (per non dire che nulla hanno a che fare con
personalità quali quelle dei fondatori di morali come Cristo, Budda o
Gandhi}. Laddove Hobbes, Locke e Hume — ma ovviamente anche Kant —
collocavano la loro atten- zione per i problemi etici in un contesto
filosofico generale, i teorici dell'etica contemporanea limitano invece
le loro analisi ai soli problemi pratici. Questo si accompagna non solo
con la specializzazione che abbiamo sottolineato, ma anche con un più
limitato orizzonte critico che viene fatto valere nelle pro- poste etiche
contemporanee. Tutti i diversi teorici dell'etica muovono nelle loro
analisi assumendo la validità di tesi più generali sulla conoscenza, la
ra- www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 102 ETICA
gione ecc. In questo senso le diverse etiche teoriche acquistano senso
solo vi. ste sullo sfondo delle diverse prospettive filosofiche generali
elaborate dai pensatori — che abbiamo più volte richiamato — del XVII e
XVIII secolo, Questa più marcata limitazione del contesto
dell’etica teorica contempora- nea è in molti di questi pensatori
esplicitamente riconosciuta e programmati. camente affermata anche per
quanto riguarda il piano dei valori di riferi. mento. Così molti dei
teorici dell’etica contemporanea ammettono di muo- versi in contesti
storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che dì validità
alle loro teorie normative con quello delle credenze etico-politiche
condivise nelle società liberal-democratiche occidentali (Rorty, 1989;
Rawls, 1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei la tesi che
l’etica è una riflessione critica che non solo muove da intuizioni 0
credenze morali di par tenza che sono già date, ma che in realtà non può
operare al di fuori di un qualche contesto di credenze condivise. Questo
orientamento segna di fatto non solo una specializzazione dell’etica
teorica, ma anche l'abbandono in essa del quadro universalistico in cui
si muovevano i filosofi del XVII e XVIII secolo.
Parallelamente con questo restringimento della base del discorso
dell’etica teorica troviamo viceversa — e specialmente nelle opere
sisternatiche elabo- rate negli anni Settanta — uno sforzo di
approfondimento analitico molto più marcato, con la pretesa di realizzare
un'elaborazione coerentemente sistema- tica e un’argomentazione
persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti alle opere principali
dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro. mole e complessità
rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre. sciuta.
La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento
analitico è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava
del tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In
questa direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio:
o con una dettagliata tassonomia — dovuta in particolare agli
utilitaristi — delle diverse forme di preferenze; o con una
classificazione — che troviamo principalmente negli scritti dei
neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti — delle principali
differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo — e qui sono i teorici
della scelta razionale ad offrire il maggiore contributo — delle diverse
forme di ra- gionamento con cui possiamo valutare le linee di azione che
coinvolgono con- seguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure.
Ll terreno dell'etica teorica appare dunque certamente come più limitato
e ristretto — un campo che si cerca di tenere distinto da quelli
confinanti — ma esso viene scavato con una profondità maggiore che nel
passato in tutte le sue parti. La convin- zione che muove questo
approccio è che le radici delle questioni etiche pos-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 DALL’ETICA TEORICA ALL’ETICA
PRATICA 103 sano essere raggiunte non già derivandole da un altro
campo di ricerca, ma andando sempre più a fondo nello scavo dell’area
dell’etica considerata come autonoma e autosufficiente. Quello che lascia
particolarmente insoddisfatti è che i tratti generali del paradigma della
ricerca si trovano messi in pratica e ripresi acriticamente senza nessuna
elaborata valutazione della loro adegua- tezza. Né vi è una sensibilità
per la questione — a mio parere decisiva — di come la vicenda dell'etica
teorica contemporanea possa essere raccordata — acquistando con questi
raccordi senso e rilevanza — con i lasciti e i residui della passata
elaborazione. Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa
di sistematicità e di coerenza interna, così come della massima
completezza possibile. In questo senso l’etica teorica si muove prendendo
a modello le teorie scientifiche in generale. Proprio per questo tentativo
di strutturarsi in analogia con gli uni- versi scientifici prevale tra le
diverse concezioni normative una tendenza al monismo etico e nello stesso
tempo assistiamo ad un progressivo allargamento dell'ambito di casi e
fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo nor- mativo era
presente anche nelle etiche tradizionali che insistentemente anda- vano
alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una volta caduto l’oriz-
zonte fondazionale il monismo etico si presenta come la ricerca di un unico
criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche nella convinzione
che la presenza di più criteri non può che originare conflitti e
disaccordi insanabili. Nei sistemi normativi degli anni Settanta
troviamo infine approfondito lo sforzo di argomentare in modo persuasivo
e convincente a favore della posi- zione fatta valere. La dimensione per
così dire retorica e persuasiva diviene esplicita e diventa primario
l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teo- ria una risposta
alle critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono quindi
nell’etica teorica contemporanea le esigenze di una discussione pub-
blica. Le diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi
si- stematici e razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati
per convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito
della pre- feribilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti
spiegano nello stesso tempo, da una parte la maggiore concretezza delle
etiche teoriche contempo- ranee rispetto a quelle tradizionali e,
dall'altra, il loro minore respiro e la loro collocazione in un contesto
storicamente più limitato. 5.5. I principali campi dell'etica
applicata. — Ma come si è detto un’ulte- riore svolta ha segnato l'etica
teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono contestate ora le stesse
teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi normativi,
denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 104 ETICA
pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il
piano delle concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli
anni Ot- tanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare
l'etica — come si esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved
Etbics, in De Marco e Fox, 1986: 265-281) — nel senso che i nuovi
problemi etici generati dagli svi- luppi della medicina e della biologia
ponevano in modo urgente una richiesta di soluzioni che non poteva essere
soddisfatta dai grandi sistemi normativi classici o contemporanei.
Laddove infatti i sistemi normativi degli anni Set- tanta avevano al loro
centro i problemi della giustizia sociale e della cittadi- nanza, le
questioni della guerra giusta e delle relazioni internazionali, vice-
versa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte
e cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente
di- verse, Inizia così un processo di articolazione e sviluppo
di una miriade di settori nuovi nell’etica applicata che, in parallelo
con la tendenza della cultura ame- ricana alla specializzazione e alla
professionalizzazione, porta al consolidarsi e istituzionalizzarsi di
vari campi dell'etica pratica considerati come autosuffi- cienti. Compare
così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero del- l'esperto
dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione etica
guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente impegnata
nel- l’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per specifici e
peculiari problemi applicativi va incontro ai limiti del settorialismo e
della iper-specializzazione. Dopo lo sforzo di scomposizione e di
indagine ravvicinata dei singoli campi problematici che ha accompagnato
il fiorire delle varie dimensioni dell'etica pratica è ora auspicabile un
lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifi- chi i principi e i
criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni d'in- sieme
della vita etica. La maggior parte dei diversi settori dell'etica
applicata consolidatisi negli ultimi decenni del secolo XX ha a che fare
con i problemi pratici del tutto nuovi che sono sorti con lo sviluppo
della tecnologia e detta ricerca medico- biologica. Tutta una serie di
azioni e pratiche umane che risultavano neutre da un punto di vista etico
o che comunque erano affidate quasi integralmente a processi naturali e
biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni re- sponsabili,
sono entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai di-
versi criteri per discriminare tra scelte giuste e ingiuste. In
primo luogo si sono andate consolidando come aree largamente indi-
pendenti dell’etica applicata alcune dimensioni problematiche già colte
dalla riflessione del secolo scorso, Laddove nel Settecento trovavamo
solo degli ac- cenni in Bentham sulle sofferenze degli animali, nella
seconda metà del XX www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
DALL’ETICA TEORICA ALL'ETICA PRATICA 105 secolo si è assistito al
fiorire di una vera e propria etica impegnata nel realiz- zare la
liberazione degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse con-
cezioni generali rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per
le sofferenze degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle
utilitaristi- che a quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una
teoria dei diritti an- che per gli animali (T. Regan, 1990). In questo
caso la presentazione di una risposta normativa alla questione del
trattamento degli animali va di pari passo con una ridescrizione della
loro condizione. I libri dei teorici della libe- razione animale sono
infatti insostituibili per la ricchezza di dati e esemplifi- cazioni che
forniscono sulle pratiche invalse — il più delle volte inutilmente
crudeli — per quanto riguarda l'uso degli animali nella ricerca medica e
far- maceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento, nella
produzione in- dustriale di cibo ecc. (Singer, 1992). Una
grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i
tentativi — già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J. S. Mill su
The Subjection of Women (La soggezione delle donne) — di affrontare in
modo esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento
— nelle istituzioni e nelle pratiche sociali — di persone di sesso
diverso. Il dibattito critico sulle discriminazioni legate alle
differenze sessuali ha assistito non solo a una ricerca rivolta a
ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni nor- mative disponibili,
ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno insistito sulla
radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica delle donne e le
concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso sull’alterna-
tiva tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica maschile e
l'assunzione delle differenze di genere come orizzonte decisivo che è
proprio dell'etica femminile {Irigaray 1985). Dall'altra si è insistito
sulla tesi che il recupero del punto di vista femminile farebbe emergere
valori del tutto peculiari e in luogo di una centralità del valore della
giustizia tipicamente maschile segnerebbe l'affermazione del valore della
cura (Gilligan, 1982). Molti altri tradizionali problemi etici sono
stati rivisitati alla luce della si- tuazione contemporanea e coloro che
se ne sono occupati hanno dato vita a un'ampia produzione specialistica.
Tra i campi più significativi per la costitu- zione di un'ideale
«Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le ri- flessioni dedicate
a: le guerre giuste e l'uso — lecito o no — della violenza {Walzer,
1990); le particolari regole che governano le relazioni internazionali
tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle
discrimina- zioni di tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi
del trattamento della povertà anche riconoscendone le articolazioni
geografiche (Sen, 1981); il tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli,
1989). Una ben precisa area di etica www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
106 ETICA degli affari si è costituita per i problemi
morali posti dall'attività economica e produttiva, e qui i maggiori
avanzamenti sono venuti dall’uso di una tecnica del tutto nuova fornita
dalla «teoria della scelta razionale» (Sacconi, 1991). Infine un
incremento notevole hanno avuto le riflessioni morali — già pre- senti in
Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di Thomas Robent
Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of Political
Eco- nomy del 1848 di J. S. Mill (Prizcipi di economzia politica) —
relative alla que- stione etica di una procreazione responsabile. Tali
riflessioni hanno forte mente approfondito le questioni collegate al
contesto di decisione costituito dall’intreccio tra le previsioni sullo
sviluppo demografico e quelle sulla dispo- nibilità di risorse. Tutta
questa tematica ha portato ad elaborare una vera e propria etica delle
generazioni future. Le questioni della giustizia tra genera- zioni, della
regolazione delle nascite in previsione della presenza nel 2050 di oltre
dieci miliardi di esseri umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per
gli esseri umani futuri sono al centro di riflessioni che hanno anche
contri- buito a modificare il quadro complessivo delle etiche
tradizionali (Parfit, 1989; Jonas, 1990). Del tutto nuovi
sono invece due settori di etica applicata. Da una parte abbiamo il
consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina auto- noma che
affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo della
medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai
prin- cipali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la
nascita, la morte e la cura degli esseri umani: la fecondazione
artificiale ix vitro: l'uso nei re- parti di terapia intensiva di
strumenti vicarianti le funzioni essenziali della respirazione,
alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la diagnostica
prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica; l’accresciuta
conoscenza dello sviluppo embrionale e la possibilità di realizzare in
laboratorio le prime fasi di questo sviluppo con eventuali conseguenti
sperimentazioni ecc. Vita umana, persona umana, sanità, malattia,
benessere, diritti dei malati, dignità della morte, doveri dei medici
ece. sono solo alcune delle nozioni che ven- gono sottoposte a riesame
nella riflessione bioetica che si è concretizzata in una sterminata
letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel corso di
questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei tema: tici
specifici come nucleo della discussione (ad esempio la contrapposizione
tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere la non disponibilità
e sacralità della vita umana e un'altra che ritiene invece centrale la
preoccupa zione per una buona qualità della vita umana; Kuhse, 1987), o a
enucleare principi più specificamente rilevanti per le problematiche
della nascita, morte e cura degli esseri umani (in questo senso è, ad
esempio, frequente il richiamo www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
LE DIMENSIONI DELL'ETICA 107 a un principio di beneficenza
o ad un principio di autonomia: Engelhardt, 1991, ma anche Gracia,
1993). Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno
avuto gli svi- luppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico
a livello planetario hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni
umane con effetti più o meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La
riflessione di etica ambientale è stata caratterizzata da una molteplicità
di concezioni (Bartolommei, 1989): quella più religiosa e sacrale rivolta
a dare un valore intrinseco alla natura; quella utilitaristica tesa a
calcolare le differenti conseguenze (in termini di danno e beneficio)
sull'ambiente di differenti strategie operative; quella che cerca di
estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali ecc.
Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni dell'etica
ap- plicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo dobbiamo
limi- tarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel
senso di un arric- chimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici
effettivi degli esseri umani, sia nel senso di un incremento del processo
di democratizzazione del- l'etica (al centro di tutti i diversi settori
dell'etica applicata troviamo individui umani che affrontano
autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta dietro questo
specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica ap-
plicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il
fatto che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto
piuttosto quella confusione che nella vita pratica di ciascuno può
derivare dall’appello, in si- tuazioni diverse, a principi o criteri
etici differenti come risolutivi. Una fram- mentazione in questo senso
può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo comportamenti
incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di una unificazione
richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni dell'etica teorica di
cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un contesto uni- tario
per le riflessioni etiche può infatti essere offerto da teorie generali che
— sul piano meta-etico, epistemologico e normativo — identificano quel
nucleo comune valido per qualsiasi approccio o discorso che pretenda di
farsi valere come etico. 6. Le dimensioni dell'etica.
6.1. La morale e le relazioni personali. — Nel corso dei paragrafi
prece- denti abbiamo reso conto dei problemi generali al centro
dell'etica in modo unitario non tracciando distinzioni al suo interno.
Così finora in modo unita- rio si sono affrontate le questioni di una
caratterizzazione, definizione, giusti- ficazione o fondazione, applicazione
e formulazione sistematica dell’etica. Ma
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 108 ETICA le norme e
i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa ven- gono
in vari modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei
nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto
bre- vemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica
compren- dere i diversi piani della morale, del diritto e della
politica. Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo
rilevare che nell’età moderna e contemporanea vi è una certa convergenza
nel discriminare tra morale, diritto e politica, mentre notevoli
differenze vi sono per quanto riguar- da i criteri a cui ci si è richiamati
per tracciare queste differenze. I differenti criteri risultano — come
vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzio- nali alle diverse
opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui sono mossi coloro
che hanno proposto una ricostruzione dei campi dell'etica. Un primo
modo per caratterizzare il campo dell'etica che proponiamo di chiamare
morale in senso stretto è quello di considerarlo come quel settore in cui
sono in gioco principi e norme che guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni
che producono negli altri conseguenze positive o negative diverse dal
danno in gioco con le azioni di rilevanza giuridica e dai benefici o
danni provocati dalle azioni di rilevanza politica. Proprio in quanto
diverso è il raggio di in- fluenza con cui ha a che fare la morale
strettamente intesa essa ha anche a che fare con una sanzione del tutto
particolare che va tenuta distinta da quella in gioco con la legge
giuridica e con quella politica: una sanzione semplicemente in termini di
disapprovazione pubblica piuttosto che di concrete pene 0 multe o di
allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa caratterizzazione dei
vari campi dell’etica è largamente corrente tra gli utilitaristi ed è stata
deli- neata già nel 1859 in On Liberty di J. S. Mill (Saggio sulla libertà).
La caratterizzazione così avanzata della natura delle regole e dei
principi specificamente morali — ovviamente nel senso meta-etico di cui
qui ci occu- piamo — è in realtà pur sempre carica di normatività in
quanto si presenta come una ridefinizione stipulativa. Alcuni
avvertiranno in questa caratterizza- zione un limite dato dal fatto che
essa esclude comunque una qualunque rile- vanza etica per quelle regole e
principi che riguardano stati d'animo o azioni del tutto privati, ovvero
tali che non hanno nessun tipo di conseguenza — né benefica, né negativa
— sugli altri. Possiamo offrire un chiaro esempio di que- sto campo di
azioni del tutto private e che non sarebbero di pertinenza della morale
così intesa rinviando ad atti di auto-erotismo o al modo in cui impie-
ghiamo il nostro tempo libero. È così chiaro che stiamo proponendo
una caratterizzazione della morale più stretta rispetto a quella a cui
giungono coloro che, muovendosi all’interno di una tradizione
spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica complessi-
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE DIMENSIONI DELL'ETICA
109 vamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi
e gli altri. An- che all'interno di questo approccio all’etica, comunque,
il livello della mora- lità per così dire del tutto privato si presenta
come diverso rispetto a quello della moralità che coinvolge altri; nel
complesso poi l’insieme della morale va tenuto distinto dalle azioni con
cui hanno a che fare il diritto e la politica. Il piano delle regole
morali del tutto private e personali può essere considerato come campo di
applicazione di principi e regole super-erogatorie che hanno a che fare
con una vita santa, eroica o perfetta (Urmson, 1958): una forma di vita
che solo cedendo al fanatismo può essere prescritta universalmente. La
morale super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla morale che ha a
che fare con azioni di benevolenza o generosità che per quanto
considerate dove- rose e obbligatorie non lo sono certo nello stesso
senso delle azioni che evi- tano il danno fisico per gli altri. Vediamo
così ricomparire una distinzione tra diversi piani della vita etica, sia
pure su basi differenti. Muovendoci all’interno dell'approccio
utilitaristico già delineato sugge- riamo però di collocare al di fuori
dell'etica generalmente intesa non solo le azioni strettamente
interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni del tutto
indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo che
preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In
que- sto senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di
limiti anche per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente
intesa (Williams, 1987). i Possiamo dunque collocare l'ambito
della morale nel campo delle azioni benevole e generose che non siamo
tenuti a compiere con la stessa coercività dei nostri obblighi giuridici
e politici. La morale cioè ha a che fare con un universo di azioni — che
saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei diversi valori
sottoscritti — che gli altri non si aspettano da noi come soddi-
sfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le
no- zioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto
della mo- rale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto
da quello che tali nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte
confusioni e conflitti sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti
questi diversi livelli dell'etica, In un campo della morale così inteso
le diverse concezioni dei valori potranno confrontarsi presentando
appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La vita virtuosa si
distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'al- tra
da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del
suo paese e dalle regole politiche della sua società. : In un
approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e tenere
ben distinto, un ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 110 ETICA di
pertinenza della morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare
l’idea — messa a punto dagli utilitaristi e più recentemente da H. L. Han
(Hart, 1963) e Joel Feinberg (Feinberg, 1985) — che ci sono alcune aree
delle nostre azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di
rilevanza giuridica, ma solo danni e offese morali. Gli altri si
aspettano da noi un certo comporta- mento anche se questo comportamento
non è sanzionabile mediante l’inter- vento della legge. Il piano di
questi obblighi morali coinvolge principalmente le relazioni più
strettamente personali ovvero quelle relazioni che riguardano i rapporti
familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso, le relazioni tra per-
sone di diversa età, le relazioni collegate a diverse responsabilità
professionali o di status sociale ecc, Tutta un'area di relazioni
personali coinvolgono per ciascuno di noi obblighi relativi al suo status
(figlio, padre, marito, amico, me- dico, docente ecc.) che non fanno
riferimento a danni giuridici, ma a danni morali. Possiamo provare a
suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito della morale così
determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane hanno le
promesse che non siano state codificate in un contratto, o alle aspet-
tative che ci legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito
più strette relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è
quello che rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove
cerchiamo di ancorare la permanenza di una qualche forma di società
civile o ordine sociale al ricono- scimento di obblighi e danni
esclusivamente legali non riusciamo a rendere conto di niente altro che
di uno stato di polizia. Senza basi morali la convi- venza può essere
garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che nessuna azione
dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si tratterà
comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo da
parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del
tutto incomprensibile a meno che — con un ragionamento circolare e
vizioso — non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola
forza. 6.2. Il divitto e î sistemzi codificati. — Un ambito
dell'etica completamente diverso da quello in gioco nella morale è quello
in gioco nel diritto e nell'in- sieme delle norme giuridiche. Qui — come
peraltro con la politica — ci muo- viamo nel campo dell’etica pubblica,
laddove con la morale abbiamo a che fare con l’etica privata (Veca,
1989). Largamente condivisa è la tesi di una marcata differenza tra piano
delle regole morali e piano del sistema giuridico, nel senso che
quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di codifica- zione.
Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica
come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano Ja
distin- zione — sia pure cronologica 0 tecnica — tra il piano naturale
della morale € www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE
DIMENSIONI DELL'ETICA 111 quello civile proprio delle procedure
che caratterizzano il diritto e la politica, Significativa in questa luce
la posizione espressa da Locke nel 1690 nei Two Treatises of Government
{Due trattati sul governo; Locke, 1960: 244-246). Locke vede già presente
nello stato di natura il diritto di punire come dirit- to di ognuno, ma
individua nel passaggio alla società civile la realizzazione di una
completa delega di questo diritto a un magistrato che potrà usare — unico
autorizzato — la forza e fare rispettare le sue decisioni, che non sa-
ranno più caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello stato
di natura l’uso del diritto di punizione da parte di ciascuno.
Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio quello delle
connes- sioni tra morale e diritto. La questione preliminare è quella di
spiegare in che senso le norme del sistema giuridico — ovvero le norme
che si occupano della giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate
con l’uso della forza — sono collegate con le norme morali (ovvero
pre-giuridiche o non-giuridiche). La soluzione più semplice è quella del
positivismo giuridico che ritiene che di vero € proprio diritto non si
possa parlare se non dopo il costituirsi di un governo riconosciuto,
legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridi- che. Queste norme
saranno poi valide giuridicamente laddove siano state pro- mulgate
osservando le procedure previste nello Stato — dalla Costituzione o dalle
sue leggi fondamentali — per l’amministrazione della giustizia
(Scarpelli, 1965). La posizione del positivismo giuridico non è priva di
difficoltà in quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse,
ovvero la legge promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla
Costituzione, e la legge giusta (cfr. $$ 2.3 e 2.4). Norme del tutto in
regola dal punto di vista della validità formale richiesta dal
positivismo giuridico — come quelle pro- mulgate dal regime nazista —
possono risultare del tutto ingiuste e tali da esigere un obbligo di
resistenza da parte dei cittadini (Dworkin, 1982). Alcune posizioni
che si presentano come alternative al giusnaturalismo si distinguono dal
positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un col- legamento tra
morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin da
Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connes-
sione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche,
l'una più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita
dalla morale. Questa immagine permette di capire sia in che senso la
morale condiziona la sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del
diritto debba essere considerato più ristretto di quello proprio della
morale. Questa stessa linea di analisi è stata elaborata in modo compiuto
da J. $. Mill, I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica
— la morale e la legge giuridica — sono complessi e ineliminabili, Non
solo i limiti di applicazione
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 112 ETICA della
legge giuridica — ovvero la distinzione tra l'ambito di pertinenza della
sanzione giuridica e quello in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui
dunque vale la sola critica che si manifesta nella discussione pubblica —,
ma le stesse procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che
sono rile- vanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e
infine gli stessi modi in cui va articolata la sanzione e la pena giusta
esigono un rinvio continuo a con- siderazioni di ordine morale
(Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di un’effer- tiva responsabilità
giuridica rientra anch'esso in un discorso che esige il ri- corso ad
assunzioni di ordine morale. Non diversamente assunzioni di ordine morale
sono in gioco laddove si discute la questione della pena adeguata o
giusta o meritata pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso
della tortura, della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi
penali sta lì a mostrare questo intreccio. 6.3. La politica
e i fini del governo. — L'ambito dell’etica che invece pos- siamo
denominare «politica» è quello che rinvia ai principi e alle norme che
all’interno di una società riguardano non tanto i rapporti giuridici,
quanto l’azione del governo e il riconoscimento della sua legittimità.
Una parte della dottrina etica che coinvolge la politica riguarda dunque
l'individuazione dei principi che sono in grado di dare ai governanti
l'autorità per governare, e conseguentemente gli obblighi di lealtà dei
cittadini nei confronti dei loro go- vernanti (e di riflesso gli obblighi
dei governanti nei confronti dei loro citta- dini) e infine l’esistenza o
meno (e in quali limiti) di un diritto dei cittadini a resistere alle
leggi dello Stato. Basta volgersi alla riflessione di filosofia
politica del secolo XVII per ve- dere quanto già in quell'epoca fosse
centrale la ricerca di una base morale che desse validità alla pretesa
dei governanti di avere un'autorità sui loro cittadini, Il primo dei Tivo
Treatises di Locke rappresenta un chiaro tentativo di conte- stare la
pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero rica-
vare il loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura
diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa — secondo
una linea diretta, di successione — ai suoi eredi. La cultura filosofica
del secolo XVII presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione
assolutistica del potere politico come di origine divina, ma anche i
primi decisi tentativi di ricavare da principi più mondani il potere dei
governanti. Così Hobbes e Locke percorrevano la strada del contratto come
base del potere politico, ma le due forme di contratto a cui si richiamavano
erano tali da condurre a due diversi tipi di potere politico, l’uno
totalitario ed illimitato e l'altro invece de- terminato e limitato dal
rispetto di una serie di diritti che comunque il citta-
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 LE DIMENSIONI DELL'ETICA
113 dino deve salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra
riconoscere un vero e proprio diritto di resistenza, Locke lo accetta,
come del resto dopo di lui faranno tutti i teorici dello stato
liberale. Quasi tutta la filosofia politica contemporanea, da J.
Rawls a R. Dworkin, da A. Downs a R. Dahl, si muove elaborando le basi
etiche di una teoria libe- ral-democratica (Brown, 1986). È oramai fuori
discussione che solo l’investi- tura popolare mediante votazioni
democratiche può giustificare il potere po- litico. Così come è
largamente accettata la convinzione che il potere politico deve limitarsi
nelle sue leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti negativi
dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto in discussione — spe-
cialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari del XX secolo quali il
nazi- smo e lo stalinismo — il riconoscimento del diritto dei cittadini
di resistere ai comandi ingiusti dei loro governanti, anzi addirittura
viene riconosciuto il loro dovere di boicottarli e di lottare contro di
essi. Per quanto riguarda poi la riflessione etica sugli scopi del
governo essa ha subito a partire dal XIX secolo una radicale
trasformazione laddove si è con- siderato come uno dei compiti primari
dei governi garantire ai cittadini non solo la pace sociale, la vita, la
salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il benessere, la salute,
la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco quelli che si
considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $ 4.5) dei
cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere
autorizzato il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei
limiti ai diritti negativi dei suoi concittadini al fine di far
progredire i diritti positivi della maggioranza. Si tratta di questioni
etiche che la riflessione sul potere po- litico si è trovata davanti in
particolare all’interno della questione sociale e sulla base delle lotte
sostenute dalle classi operaie e dal movimento socia- lista (Bobbio,
1990). Molte delle questioni etiche in gioco nella politica
coinvolgono diretta- mente le relazioni internazionali tra Stati. È
oramai del tutto superata la posi- zione considerata ovvia nel XVII
secolo per esempio da Hobbes, ma anche da Locke, che riteneva i rapporti
tra Stati come costitutivamente collocabili nella sfera di uno «stato di
natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea non solo è cresciuta
l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che ispirano le
azioni internazionali dei governanti (Bonanate, 1992), ma si è an- che
affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di
principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile,
la pace. È stato Kant {Kant, 1956: 283-336) che ha fatto valere con
decisione l'esigenza di estendere anche alle relazioni internazionali
quel requisito della pace che si riteneva necessario per i rapporti
all'interno della società civile. Le
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 114 ETICA riflessioni
etiche sull'uso della forza nelle relazioni internazionali tra Stati nel
XX secolo hanno poi dovuto affrontare le questioni nuove segnate dalla
crea- zione di armi nucleari. Molto insistita è stata la conclusione che
l’uso di armi che, come quelle nucleari, mettono a rischio l’esistenza
della stessa umanità, non può essere giustificabile al di lì della sola
funzione deterrente (Kavka, 1987; Pantara, 1989). Anche sul
piano delle relazioni internazionali si è poi ripresentata in que- sto
secolo una riflessione etica che non investe solo quei fini dei governi
esclu- sivamente rivolti a salvaguardare o difendere i diritti negativi
dei cittadini del mondo, ma ancor più i cosiddetti diritti positivi. In
particolare l'incremento della popolazione mondiale, una differenza
sempre più incolmabile tra qualità della vita nei paesi ricchi e
sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi sot- tosviluppati
dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto come problema
etico primario per la politica la questione di quanto si debba rite- nere
obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale internazionale (Pon.
tara, 1988; Singer, 1989; Sen, 1994), Da un punto di vista teorico
generale, così come si è assistito a un allarga- mento dello spazio per
l’etica nel senso di una progressiva democratizzazione delle
responsabilità e decisioni che essa richiede in modo paritario a tutti i
cittadini del mondo, si assiste altresì a un analogo allargamento di questo
spa- zio nella direzione di un incremento delle questioni che ad essa si
demandano. L’ipotesi che avanziamo — ovviamente carica di un’opzione
normativa — è che ci si muova verso un allargamento delle aree
problematiche che vengono affidate alla discussione pubblica e dunque a
una regolamentazione pacifica- mente concordata, sottraendole al terreno
in cui si fa ricorso alla forza. Così sul piano internazionale vediamo
sempre più riconosciuta — almeno al livello del dover essere — l'esigenza
di un governo mondiale — democraticamente costituito e rispettoso della
libertà dei suoi membri — impegnato a garantire pace e giustizia sociale
a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi pri- vilegiate quelle
teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo adeguato delle
nuove estensioni problematiche presenti nella situazione sto- rica degli
esseri umani, Una competizione con le sole armi dell’argomenta- zione
razionale e della conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in-
dividuazione di soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta
di maggiore riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in
quanto questa riflessione — sia pure in modi più o meno indiretti —
contribuisce a rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della
libertà e della giustizia sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere
ricorre alla forza delle armi 0 alla violenza.
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NOMI: I numeri in corsivo rimandano alla Nota bibliografica
Abbagnano N., 10. Cooper A.A., v. Shaftesbury. Alchourron C.E.,
63, 116. Crusius C.A., 79. Almond B., 74, 116. Althusius J., 71.
Dahl R., 113. Anscombe G.E.M., 98, 116. Darwin C., 24, 31, 45, 92.
Apel K.O., 26, 29, 93, 1i6. Davidson D., 12, 117. Aristotele, 21.2, 115.
Dawkins R., 33, 45, 87, 117, Arrow K., 85, 116. De Marco J.P., 100, 104,
117. Austin J., 18. Descartes R., 10, 36. Austin ].L., 28. Desmond
A., 31, 117, Axelrod R., 40, 86, 116. Dewey J., 66, 117. Ayer A.J.,
27-8, 56, 116. D'Holbach P.H.D., 92. Downs A,, 113, Baier A.,
116, Dumont L., 33, 117. Bartolommei S., 107, 116. Dworkin R., 19, 77,
101, 111, 113, 117. Bentham ]., 10, 18, 76, 80.5, 91, 101, 104,
111, 115. Engelhardt H.T., 107, 117. Berlin I., 76, 68, 116.
Epicuro, 13, 79. Blackburn S., 59, 116, Ewing A.C., 50, 65, 117.
Bobbio N., 10, 18, 24, 71-2, 74-5, 113, 116. Bonanate L., 105, 113, 116.
Fagiani F., 36, 90, 117. Brentano F., 67. Feinberg J., 110, JI7.
Brown A., 113, Î16. Ferguson A., 92. Buchanan J.M., 85, 116. Ferrajoli
L., 97, 105, 112, I17. Buddha, 101. Ferrara A., 87, 117. Bulygin
F., 63, 116. Filmer R., 112. Butler J., 38, 90, 115. Finnis J., 69,
117. Foot P,, 24, 98, 117. Canziani G., 36, 116. Fox R.M.,
100, 104, 117. Carcarerra G., 60, 116. Frankena W.K., 31, 77, 117.
Cartesio, v. Descartes R. Freud S., 32, 115. Cassese A., 74, 116.
Clarke S., 25, 48. Gandhi M.K., 101. Collins A., 74, 115, Gargeni A., 59,
117. Colman J., 36, 117. Gauthier D., 41-3, 52-3, 73, 101, I17.
Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard A., 59, 117. www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
122 Gilligan C., 105, 117. Glover J., 99,
117. Gough J.W., 52, 72, 117. Gracia D., 107,
117. Grozio U., 24, 47, 69, 71, 90, 115. Habermas J., 29,
117. Hagerstròm A., 77, II7. Hare R.M., 13, 28.9, 5G-8,
76, 78-9, 83.4, 101, 117. Hart H.L.A., 110, 117.
Hartley D., 92. Hayek F.A. von, 40, 117.
Helvétius C.-A., 92. Hennìs W., 61, 117. Herbert
di Cherbury, 38, Hobbes T., 10, 13, 15, 17, 25, 31, 36, 40.1,
51-3, 71-2, 74, 76, 90-1, 101, 112.3, 115. Hudson W.D., 50, 60,
117, Humboldt W. von, 87, 115. Hume D., 10, 20-1, 23-4,
31, 44, 48, 51, 53, 58, 60-2, 66, 78, 87, 91-2, 94, 101, 115.
Hutcheson F., 23, 38, 50-1, 79, 91.2, 101, 115.
Irigaray L., 105, 118. Jonas H., 106, 118. Jonsen A.,
Iî8. Jules A., 27. Jung C.G., 32. Juvalta
E., 10, 88, 118. Kant I., 10, 20-1, 25.6, 29, 49.51, 64,
77-80, 93, 101, 113, 115. Kavka G.S., 40, 114, 118.
Kelsen H., 18, 61-2, 118. Kuhse H., 106, 118.
Landucci S., 16, 25, 49, 118. Locke ]., 10, 15-8, 25, 31, 36-9, 47,
SI, 72, 74, 90-1, 94, 101, 111-21, 115. Lorenz K., 92,
118. Lyons D., 84, 118. INDICE DEI NOMI
Mackie }.L., 59, 118. Macpherson C.B., 75, 118. Magri
T., 87, 118. Malthus T.R., 106, 115. Mandeville B. de,
33, 79, 115. Manzoni A., 81, 115, Marirain J., 22, 44,
118. McDowell J., 51, 59, II8. Melniyre A., 24, 56, 87,
98, 118. Meek R., 92, 118. Mill J., 92.
Mill J.S., 10, 24, 82.4, 87, 92, 101, 105-6, 108, 111, 115.
Montaigne M. de, 79. Moore G.E., 11.2, 24, 26-9, 31, 50,
61, 67-8, 115. Moore J., 117. Musacchio E., 82,
118. Nagel T., 94, 118. Norton D.F., 50, 118.
Nowell Smith P.H., 13, 63, 118. Nozick R., 59, 67-8, 76-7, 94, 101,
118. Oppenheim F.E., 60, 118. Parfit D., 8-9, 80,
94-6, 106, 118. Pontara G., 67, 84, 114, 118. Preti G., 10, 44, 59,
118. Prichard H., 50. Pufendorf F., 24, 47, 69, 71-2,
80. Putnam H., 12, 26, 59, 61, 118. Rawls J., 26, 41, 52-5,
73, 75-7, 79, 100.2, 113, 119. Regan T., 105, 119.
Resnik M.D., 40, 86, 119. Rorty R., 88, 102, 119.
Rass W.D., 50, 65, 119. Rossi P., 60, 119.
Rousseau J.J., 51, 73, 75, 92, 115. Ruse M., 24, 92,
219. Sacconi L., 106, 119. Scarpelli U., 10, 12, 18, 44, 60,
88, 111, 118. Scheler M., 67, 116.
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI NOMI
Schlick M., 46, 119. Sen A.K., 34, 83, 86, 105, 119.
Shaftesbury (A.A.Cooper, conte di), 23, 51, 91.92, 116.
Sidgwick H., 19, 50, 94-5, 101, 116. Singer M.G., 78, 119.
Singer P., 99, 105, 114, II9. Smart J.J.C., 83, 85,
119. Smart RN., 84, 119. Smith A., 10, 23, 33, 40, 51,
91-2, 94, 101, 116. Snare F., 18, 119. Spencer
H., 24, 45, 65, 92, 116. Spinoza B., 25, 72. Stevenson
C.L., 13, 27-8, 56, 119. Strauss L., 75, 119. Sugden
R., 86, 119. Thomasius C., 71, 80. 123
Tommaso D'Aquino (S.), 69, Toulmin S., 104, 118. Urmson J.,
84, 109, 119. Veca S., 110, 119. Viano C.A., 120,
Walzer M., 105, 120. Warrender H., 53, 72, 120.
Weber M., 60, 64, 89, 116. White A.R., 77, 120.
Wiggins D., SI, 59, 120. Williams B., 13, 29, 83, 93, 109,
II9, 120. Wittgenstein L., 28. Wolff C., 79.
Wiollaston W., 48. Wright G.H. von, 63, 120.
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 INDICE DEL VOLUME .
Introduzione . La natura dell'etica .. si ci . Fondazione,
giustificazione e spiegazione: l’epistemologia dell'etica ..............
CRA ERA 4. Le etiche normative; concezioni in contrasto ART:
5. Dall’etica teorica all’etica pratica ..............
Di 6. Le dimensioni dell'etica ............. Nota
bibliografica... Indice dei nomi .. poEugenio Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico,
antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia,
patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’
but then he would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce,
l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im-
enfatico – teorie della simpatia morale in Italia --. Lecaldano. Keywords:
illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione –
trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lelio: la
ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha fama
soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce
i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del
Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina
nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra
contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la
pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili
determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro
questo e i suoi fautori. E ammirato, se non come oratore, come uomo
politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli
dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console
della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare
romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda) Africano, che
segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo
un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla
presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una
grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa
lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato,
dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia
rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani,
mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un
grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto
che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere
degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato
decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di
ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a
Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le
stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore
e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano,
a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio
Cepione. Smith, Dictionary
of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio.
Polibio. Appiano di Alessandria, Historia
Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia.
Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le
conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano.
Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in
Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo,
L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale
Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore
Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio
Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica,
guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari.
Consoli
repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and
orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of
members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname
‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it
all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone
greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.
Grice e Leocide: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia italiana–
Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Leofronte:
la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia italiana–
Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.
Grice e Leone: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A
Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.
Alcmaeon di Crotone dedicates a ‘saggio’ to him.
Grice e Leonzio: la
ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di Giamblico di
Calcide.
Grice e Lettine: all’isola
– la diaspora di Crotona – Roma – filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Libanio: la
ragione conversazionale e la setta di Giuliano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Supports Giuliano in his attempt to
revive paganism (a charming letter survives) – “but he is also a friend and
teacher of many Christians, can you believe it?” – Loeb.
Grice e Liberale:
la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Not to be confused with Liberace,
he is staying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed by fire. A dear
friend of Seneca. He follows the Porch. In his eulogy, Seneca declaims: “While
he is accustomed to dealing with everyday difficulties, a catastrophe,
unexpected, and of such magnitude, is more
than he could handle.” Ebuzio Liberale.
Grice e Licenzio:
la ragione conversazionale e il filosofo poeta – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. He achieves
a reputation of a poet. Licenzio.
Grice e Livi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del consenso sociale – filosofia italiana – l’aporia: se
cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Grice:
“Livi is one of the few Italian philosophers who have taken Moore’s
‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies common-sense, not
unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson, collabora
con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia
la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla Common-Sense
Association, che ha come organo ufficiale la rivista "SENSVS COMMVNIS” –
cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic Logic". Tra i suoi numerosi
discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore di importanti saggi di Storia
della Metafisica, Bettetini, Arecchi, Spatola, Covino ed Arzillo. Fondatore di Vinci, membro associato della
Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia
della Pontificia Università Lateranense. Firma con Giovanni Paolo II alcune
parti dell'enciclica Fides et ratio. «Senso comune» è il termine
utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in chiave anti-cartesiana
per individuare le certezze naturali e incontrovertibili possedute da ogni
uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a priori, ma di un
sistema organico di certezze universali e necessarie che derivano
dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni ulteriore
certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and Ordinary Language,” “Common
Sense and Scepticism” --. Ha
per primo precisato quali siano queste certezze e ha provato con il metodo
della presupposizione che esse sono in effetti il fondamento della conoscenza
umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo
come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io, come soggetto che si
coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di altri come propri simili;
l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti di libertà e
responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento razionale
della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua esistenza
indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale lascia però
inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza in senso
proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica aletica su
base olistica. Tra gli studi recenti sul sistema della logica aletica
elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI, "Valori e limiti del
senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello ("L.", in
"Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del
SENSO COMUNE", in "Memoria e progresso", Fede & Cultura,
Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a
partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci, Roma ); Renzi, La logica
aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di L. (Vinci,
Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia antica,
Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed
Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione
metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, la
Scesi, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e dell'età moderna (VICO,
Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di
interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando
sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai filosofi della scuola
analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista
Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi:
“Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila: Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del
Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO COMUNE -- Logica della scienza (Milano:
Ares); “IL SENSO COMUNE tra razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo);
“Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO
COMUNE e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano:
Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico
della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità
del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della
fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica”
(Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma:
Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “SENSO
COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché
se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta
antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale; moderna;
contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica
della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO
COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma:
Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse
razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma:
Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di
valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario
critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della
metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al
vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della
scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere
l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma:
Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema
della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma:
Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al
Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene
al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa
teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca
"filosofia religiosa", su Gli
equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci); “Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella
storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson",
in Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana,
"L'unità dell'ESPERIENZA nella
gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in
chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle
scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft] in Martinez "Unità e autonomia del
sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza
Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio.
Ilgiudiziocattolico.
Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical
defence in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what
he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” –
Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would –
certainly Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone
and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection,
conceptual he thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm
and I have to reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like
‘I know that s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on
the table. Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a
conversationally appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia
dell’amore -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Leonzi – (Leonzio) Georgia di Leonzi
Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi
Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Grice: “I love Bruno Leoni; my
balance between the principle of conversational self-love and the principle of
conversational benevolence is what all his philosophy is about!” – Grice:
“Leoni has technical concepts here: his is an individualism, i. e.
subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’
inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He
doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive;
similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che
siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria
aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo
siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene
associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno
della filosofia, si inserisce nella
tradizione del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure
assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del
conflitto, fa parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di
recuperare prigionieri e salvare soldati. Insegna filosofia e ricoprendo
l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze
tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione
tipografo ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato
truffe e sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo,
Quero lo assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo
in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli
anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si
affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente
sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L.
critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore
razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del
concorso delle volontà dei singoli individui. Fondatore di Il Politico, svolge
ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per
Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi
presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi
Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e
Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali
all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo
contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della
società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere
quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore
conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della
rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel
tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche. Con i suoi saggi,
inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta
pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano
la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine
interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non
già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca
capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso. E stato quasi
dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di
lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la
cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è
pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa
frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo
intellettuale. Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i
protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche
se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi
e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso,
bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente
senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di
entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha
rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano
interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi
in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie
alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La
situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione
de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere
sulle pagine del torinese, dando vita ad
una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla
quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori
filosofi del liberalismo. Oggi. non è
più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore
delle sue tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il
carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è
stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al
potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro
modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è
oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa
ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al
normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L.,
per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più
di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della
tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che
restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro
potenzialità. Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato
fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri,
Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico,
i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della
filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana. Altri
saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli,
Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza
politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le
radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La
sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);
“La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”,
Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino, “Il
diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico
moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri, Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni
nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di
O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato
a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu,
che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek,
rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e
del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente
con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il
liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri,
“Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce
il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già
ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L..
Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della
Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e politico
italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo. Il diritto
evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità
dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno
Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice
e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione
liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale
fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo
italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Filosofo italiano. Grice: “In Italy, they like
‘renaissance men,’ but there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a
physician (to Medici) – when he died, Medici did, Leoni was accused of
malpractice (poisoning), strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di
famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa. E qui che ha modo di entrare in contatto con
la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha
contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno
dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come
il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo
VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello
stesso Lorenzo de Medici. All'indomani
della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato
il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in
un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca sostengono che il mandante dell'uccisione di
L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico
degl’Italiani, riferimenti in. Dagli
Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la
Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno
excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA,
nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare
valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo
adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva
stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno:
poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj
ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz.
D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria.
Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta
scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj
ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì
clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de
Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se
mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L,
non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo,
limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni
astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che
vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate
somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni
viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il
tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte
Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato
homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto.
Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto
Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu
solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale,
et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e
portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai.
Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la
bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li
secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et
integrità." Nella sua "Storia
della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti
dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se
medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due
famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il
quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei
parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese
contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si
conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico
della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki,
Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della
Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie
fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria
della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste
sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti,
Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di
Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di
Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e
opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune
di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori. Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier
Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library. Leoni.
Grice e Leopardi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi
fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo
italiano. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative;
admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks,
pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need
for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without
conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet,
one would first think!” -- Grice: “One
could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite
expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a
philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by
non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t
one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement,
‘leopardismo.’ Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo
Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo. È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento
italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché
una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua
riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e
materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità
lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama
letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto
oltre la sua epoca. Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura,
inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità
greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio,
Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti
romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un
esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni
materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla
lettura di FILOSOFI come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli
unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una
grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un
compiuto sistema filosofico. Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco,
durante la grande epidemia di colera di Napoli. Il dibattito sull'opera
leopardiana, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni
trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica
dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle
opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una
linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito
poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche
e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un
precursore dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato
pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più
nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età
adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I
genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte
Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi
e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna
energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni
sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di
sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui
sentiva il bisogno. In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte
dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente
indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia
domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i
sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane
Giacomo. Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro,
giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che
erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di
fervida fantasia. La formazione giovanile La casa natale Ricevette
la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini
che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola
gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della
teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon
livello contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è
conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto
insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di
studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare
nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione
delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche
composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione
della Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto dai precettori non impedì,
comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di
studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila
volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei
Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla
Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale
della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui
stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione.
Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati
puerili. La produzione dei puerili Puerili e abbozzi vari Il corpus delle
opere cosiddette puerili dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in
latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di
versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di
Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore
e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi
della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che
riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e
sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità,
eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con
la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad
esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il
periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco
ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si
immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione
da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni
alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse
sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e,
senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche
altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco
(nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il
sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale
ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di
lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune
traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la
sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta
incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia
Leopardi si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la
Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco
Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain
Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel.
Invece il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio
la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del
suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande
(presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di
Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel
Wolff. Inoltre Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della
letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e
varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i
francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi
testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia
dell'astronomia Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per
la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali
invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e
sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la
invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo.
Probabilmente infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò
alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di
Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli
di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo
dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di
Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria:
dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento,
frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare
l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici
non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a
modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come
Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua
sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di
Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo
L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi
conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per
liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune
poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno
a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della
Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in
risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de
Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal
padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di
intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo
reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la
presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni
scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia
esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione
della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e
conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite
ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita
stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo
intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua.
Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di
Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo
dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di
veramente orribile.» Egli stesso si ispira a questi seri problemi di
salute, di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento
della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e
definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non
chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente:
«Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme
e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi
la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi
più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da
Citati) è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano
la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una
normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite
tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una
sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei
legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi
disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi
gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno
predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei
genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di salute, con l'eccezione di
Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera
asimmetria del viso. Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di
probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui
poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto
difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei
disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a
parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache
numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine
psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive
che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come
lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.
«Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di
viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel
mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta,
mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera
dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla,
propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non
mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito
sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie
comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come
ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e
lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della
vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico
Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo". Dopo
il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione
di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso
non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di
immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì
l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per Leopardi, che
giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua
intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava,
un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole
ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui,
fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di
uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti
incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo
determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria
del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso
della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è
contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la
sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero
leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che
aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo
compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così
una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In
una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il
suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi
ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di
filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di
confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi
si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in
Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il
resto è noia» Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e
dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla
quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa
le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il
nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la
prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di
scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo
presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare
al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la cultura
classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona
che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei
travaglia!» (Il primo amore, v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i
figli, illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a
compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note
filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il
sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della
gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro,
nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di
Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale
provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del
primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei
"Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di
Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti
polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e
se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due
saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in
risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un
italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni
di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano
più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane
fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che
professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai
risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece,
perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto
le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di
Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel
tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo
materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico
predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni
speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità
nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del
passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella
lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (L., L'infinito. Si
riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga
e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di
famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga
fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L. elaborò le prime basi
della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e
l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso.
Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati
con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla
luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno
festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno.
Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui
confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza
dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di
recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo,
ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida e modesta al
confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i
classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute
che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una
lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato
Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso,
che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello
stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come
Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano Leopardi
visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi
Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto
di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare
nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a
Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello
sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico
o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati:
Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio
Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione
completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e
italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era
dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti,
gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30, da alcuni indicato
come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in
eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la
tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata
secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga
esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove
visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi
con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente
bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al
quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia
dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una
"Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al
Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A
Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si
innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un
anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del
fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi
si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di
lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa
del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta,
patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la
famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in
un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri
al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del
ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte
da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto
tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il
quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più
fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la
fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli
non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei
ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze,
dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i
quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a
Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per
rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico
particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e
Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece
conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente
avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte
avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se
riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare
Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private
rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi
risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che
nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a
Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata
del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica
rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e
Leopardi tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita
epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch
contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette
morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il
canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su
appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del
cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo
creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche
"grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone
libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi,
dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non
credea tornare ancor per uso a contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo
di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e
dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto
con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di
riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici:
Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a
Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle
conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn
o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima
tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora
progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute
non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati,
dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente
alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le
ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco
prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta,
Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e
il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo
denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo
periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio
borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i
recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto
che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in
sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un
canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei.» (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il
Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie
ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di
tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per
mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato
quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della
burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei
"Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse
infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro
senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di
personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio
di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati,
ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli
austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di
concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere;
Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a
Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny
Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi
Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti
e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il
cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene:
Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora
positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa
raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di
quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione
che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia,
seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia
d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli
frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e
intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la
morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna
illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e
caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si
nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce
ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione
della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi,
dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere
tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni
polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno
liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un
servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a
Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte
del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e
con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle
che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se
l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né
degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove:
gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny.
Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come
si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad
ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.» (Lettera
da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida
/ in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»
(Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo,
avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di
Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per
circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla
padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi
famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche
della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla
grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne
allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente
come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare
a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle
"Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere
epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più
fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una
fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri
vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe
trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso
nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo
al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio
Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai,
né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi
Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera
non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava
quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare
infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti
di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci
faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse.
«Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag
zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet
jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines
Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi
è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e
viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare.
Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua educazione classica e
la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore. Busto del
poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una
nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa
all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee
materialiste esposte in alcuni "dialoghi". Leopardi così ne parlava
in una lettera a Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e
qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno
eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura
dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti
nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati
nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri,
fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave,
ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già
Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema
Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo
canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto
dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi
morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna.
Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte
del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando
a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la
sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase
dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il
fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo
affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni
fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore
fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in
peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni
dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla
salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta
sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati),
talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve
moltissimi caffè. La morte Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita
di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto
realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o
il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì
male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario
delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti
cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio
e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita
fredda) verso sera. Fu colpito da malore
poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato
programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore
dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si
spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio,
Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello
stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero
registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della
parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto
"alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri
pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata
analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo.
Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con
conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore
polmonare e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a
quelle più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi
alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso
dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore"
o idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi
respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche
possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui
soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse
accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato
Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato
gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in
poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il
colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece
interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la
versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una
fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa
dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla
presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di
San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso
Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro
Giordani: «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori
d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente
coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece
Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il
ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo,
non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia
per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin
dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti
furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue
versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo
sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero
delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366
Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come
attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca
di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e
"sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che
Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota,
con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente
a cui avrebbe regalato dei pesci freschi. La lapide originale,
traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le
ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato
d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del ministro di
Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898
avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da
altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe
inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le
ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse gettati
nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti con
altre ossa. La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della
Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del comune
di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del
recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino
dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con
doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui
delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro
intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore
a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare
il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna
traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si
arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi
lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione
venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era
plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla
esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe
deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero
comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo
dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari
incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata
dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di
Recanati.Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a
Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del
passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta
dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che
ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco
Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel
quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora
sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei
pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento
venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal
Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte
dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della
riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della
Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi
resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA,
comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la
figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta
Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla
Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del
Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e
madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia Leopardi (esplicitata
dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta
(presidente fino al conte Vanni
Leopardi) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del
poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che
quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio
lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco,
si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora
autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la
disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e
non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il
Leopardi trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica
soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.» (Papini,
Felicità di Giacomo Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato,
attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto
lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e
lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue
riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad
esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e
disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no, era del resto ben presente allo stesso
Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per
ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera
filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la
poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani
A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo
Leopardi: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai
discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali
dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo.
L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre
20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del
poeta, Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si
affaccia Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa
Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi
nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un
panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta
dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale
della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e
manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai
aperto a tutti. Palazzo Antici-Mattei:
casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee
semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel
cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un
fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San
Leopardo (XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e
nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch.
La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia
Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i
Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e
abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico
cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca
ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei
Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della
Posta (corso Garibaldi), Palazzo Antici
Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso
in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in
mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"),
convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa
dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano
("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso
(oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente
magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si
vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze,
"sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi
del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di
Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi),
Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a
Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il
Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così
ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui
battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa
(lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città
oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso),
con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria
Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con
Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle
Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo".
Opere di Giacomo Leopardi. Copertina della prima edizione dello Zibaldone
di pensieri. Epistolario Di Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento
lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento
destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo).
L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che
malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di
prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per
seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione
del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L.
prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del
saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa
polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro
Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.
Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per
iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca
italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti
entrambi inediti sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà
dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle
istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi
alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si
tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più
vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e
quella latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione
poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali
della poesia leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione.
Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle
quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari.
Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario,
essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi
iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi
agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso
scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve
trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che contraddistinguono
la società italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità
delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera Leopardi giunge all'amara
conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo
poco civile per godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed
Inghilterra), ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura»,
come accadeva nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia.
Secondo manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le
parole dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di
capricci malinconici»: è ancora Leopardi a descrivere la propria opera in una
lettera indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che
regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di
prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette,
oggi considerate la più alta espressione del pensiero leopardiano, racchiudono
l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione
esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza
della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono
trentasei liriche composte da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei
Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il
passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra
e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica
leopardiana. Le ultime opere Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse
due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è
un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa
«continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane,
ovvero un'opera pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro
la finzione comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari
napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari,
mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i
granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli
esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di
facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono
numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio
colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida",
"improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa
di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento
purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici,
di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un
caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò
accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della
lingua italiana. Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo
Leopardi, musica di Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di
morti, versi di G. Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie,
Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre
liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi,
Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario
collettivo Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto
dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte
locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le
principali: studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la
Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva
anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi: 10 disegni originali
realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una
scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in
osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede
greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione
scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane")
ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione
prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel breve
documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione
Marche. Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella
Canzone per Piero di Guccini e in Stai
bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno
(di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo),
entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio Gaber, nella canzone
"Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del
1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i
poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi.
Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato
da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato
da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma
televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve
documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche.
Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo
Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con
Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo
Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore
Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita
solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]:
Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva
per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che
gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot
turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman
che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari;
"A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa
Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un
Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella
puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado
Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la
vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro
e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più
importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman:
L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la
tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra
(o Il fiore del deserto) Alla luna, La
sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di
un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito,
Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il
fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio
Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia:
L'infinito, Lavia dice Leopardi; Alberto
Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la
prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima
parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La
Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese
per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria
offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso
un video, per la regia di Giampiero Solari, trasmesso sui principali canali
televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore
statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver
interpretato ad Ascoli Piceno il film di Pietro Germi "Alfredo,
Alfredo", assieme ad una giovane Stefania Sandrelli. Questa la
descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione
turistica: «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura
italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è strettamente
legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge
la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando
fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere
questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare
la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e
riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che
accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé:
l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito
nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma
difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la
poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e
raggiunta.» (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman
tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal
suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da
suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di
Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a
scrivere: «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche
Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante
«performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non
peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal
pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di
sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte
geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los
Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo
livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di
un’esposizione poetica?» (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione
promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico letterario, da
Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e
presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot
con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo
perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non
definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi
21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.
Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna
promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi
leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera",
nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante
dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un
racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito
amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la
gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna
promozionale del Dustin Hoffman fu
sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque
l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del
successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario
Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie
di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del
territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un
"movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti
del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un
breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro
Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il
riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta
recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di
Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che,
rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del
Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione
(Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani,
Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti
marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci
paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi
Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920;
poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia
(Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi,
Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia,
le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano:
Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna:
Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi,
Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il
mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati,
Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel
primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di
Studi Leopardiani. Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi
su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico,
artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente
il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli
stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di
cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a
Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo
Leopardi, su emsf.rai). Forse la
malattia di Pott o la spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla,
Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione
diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia
a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non
felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro
decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei
problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e
ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la
diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che
Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria
cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno
scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e
possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città,
gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta
(Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de'
maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia
della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e
editi», Milano, Bompiani 1972
Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe
BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano,
Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da
lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore,
raccolto e ordinato da Prospero Viani,
I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in
Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con
sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato
dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di
Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre,
RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua
utilizzata nelle lettere allo Jacopssen
Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche.
Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e l'Oriente.
Atti del Convegno Internazionale, Recanati a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di
Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri
Paulian su data.bnf.fr. Un episodio
della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero
della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso
nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una
coperta di lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri
maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo leopardi, le
malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico,
Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su
Rotari Club Fermo, «Di contenti,
d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà
su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella
giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso
all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna
poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me
stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su
torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la
malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e
considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di
Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici
pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete
giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di
Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo
cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o
malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni
napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì
vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre.
cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo
Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché
basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della
frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi
affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come
tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.
Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia,
Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G.
Leopardi453. E. Galavotti, Letterati
italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad
Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone,
autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi
critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla
Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una
battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e
scrittori della letteratura italiana, 3,
tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove
privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di
cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma),
mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che
sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente
tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate
una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in
Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e
dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un
interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi
non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà
che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le
quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono
così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione
dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato
solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito
("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi
Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere
della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph
Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13
anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia
di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su
casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti Citati 226 e segg. Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri
per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e
Pensiero, Fotografia della maschera
(JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro
nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura
"G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre
Palinodia al marchese Gino Capponi
Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis
«Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo
di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura per L. Archiviato in.; mentre fu più meditato e indulgente il
giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi
stesso. Introduzione alla Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani.
Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo
Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di
G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito
venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco
Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni
dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani,
La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia non
già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in
cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo
Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in
Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione
Garzanti Donne fatali 2: Giacomo
Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...",
su sulromanzo. "Tu vivi / bella non
solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre
avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti e link in. Giovanni Mèstica,
Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica, (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto
alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio
nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del
poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze
di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo
Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu,
pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's
who in gay and lesbian history, 1, ad
vocem Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca.
repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario,
BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti,
Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi
in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle
abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari
irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser
longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni
di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece,
appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele Scherillo, Vita di
Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le
donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina),
su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta
della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte
del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro
(cfr. Sfrondando gli allori della poesia)
Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta
anche Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di
morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.
Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia
Plautina, cfr. anche Notizia della morte
del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato,
congestione, coma diabetico o indigestione
Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su
spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che
uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere.
in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di
A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G.
Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer Editore,
Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.;
"Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di
petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are
LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia
Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano,
McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui,
su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la
Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro
Giordani, Scritti editi e postumi di
Pietro Giordani, VI, pubblicati da
Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta
lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi,
edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore,
da Antonio Ranieri, Firenze, Successori
Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre in..
Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su
pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento
(JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela in. da
Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del
passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier
Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA,
MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta
Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi,
Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”,
recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo
Leopardi, Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale
ufficiale delle persone presenti. E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra
sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita L., sito gestito dal CNSL Si torna a parlare dei resti di L., nato
comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati.
Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia,
Milano, Mondadori, Cfr. in proposito
anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare:
Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi
(Firenze, Sansoni). Paolo Emilio
Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia
del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
Novecento, Roma, Ed. di Storia e
Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica
del mondo Peter Lang, In Saggi critici, Russo,
Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org.
Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In
viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi,
tratte da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare,
da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali,
su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a
Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (),
Istituto dell'Enciclopedia italiana.
Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di
Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro
culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara
Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro
permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima
nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia
di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea,
su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".
"Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito della Fondazione
Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo
Archiviato il 6 settembre in. vedi il testo dell'Operetta morale in Operette
_morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il
corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno
del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia"
con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi- il-rivoluzionario/25794/default.aspx
"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della
rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio
Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi-il-rivoluzionario/ 25794 /default.aspx
in. Rai Storia, "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa",
Guzzini del Centro Studi Leopardiani
mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione
al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/
multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7fEJyVoUSrazy1H/
pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di
Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo Leopardi", intervista di
Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di
Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E
"Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco
D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma
televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia
sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può
salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su
youtube.com. Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il
29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di
festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene interpreta L'infinito: youtube.co Carmelo Bene interpreta Passero solitario:
youtube. com/ watch?v=IZz Qbnzpaok
Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com
/watch?v=ZqzVXF3Fx4Y C. Bene interpreta
Alla luna: youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk
Carmelo Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v=qydGUiV1wwI Carmelo Bene interpreta Il sabato del
villaggio: youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4
Carmelo Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane:
youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE vedi su
Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista
Archiviato il 15 settembre in. leggi il testo di Inno ad Arimane
init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15
settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Foà
interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Foà interpreta
A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v=aWOJfMZeCVo Foà interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v=
hL 855FC_juA Foà interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v=
zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il
tramonto della luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN
HqhHiIqok Arnoldo Foà interpreta Alla
luna: youtube. Com /watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito:
youtube. com/watch?v= BLmhOx6IuCw
Archiviato il 1º giugno in. Gazzolo
interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A Lavia interpreta
L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao
Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima della "dizione"
delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo:
youtube Elio Germano, nel film Il
giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz
Qvi75rQ Germano, nel film Il giovane
favoloso di Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano,
nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e
Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone,
interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/
Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM
La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato
in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su
"La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati,
"Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna
meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il
Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila
visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle
Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato il 6 settembre ). vedi la serie di spot "Le Marche non ti
abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la
regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione
Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di
Leopardi, su qelsi, su Giacomo Leopardi.
Edizioni delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario
Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere,
Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi
«Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e
Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano:
Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati
Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri,
Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano:
Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba scelto e annotato con introduzione e indice
analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario,
pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La
Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume
III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni,
saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori
«Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica
dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola
normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti
annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli,
Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli:
Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I
Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del
piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo
Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici leopardiani,
Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio
Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice
tematico e analitico di Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto
e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica
Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti con note per
cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo, Canti: commentati da lui
stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose.
Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e
tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie
disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F.
Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo
Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette Morali L. Operette morali;
edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione
cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici»,
Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori
«Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton
Compton, «Mammut», poi da sole nella
collana «GTE», Giacomo Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri
Giacomo Leopardi, Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione
cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana
Giulio Bollati e G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie
del primo amore Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo
Leopardi Leopardi (famiglia) Opere Pensiero e poetica di L. TreccaniEnciclopedie
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Italiana. Giacomo Leopardi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica,
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degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. accademicidellacrusca.org, Accademia della
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Leopardi, su Liber Liber. Opere di L.,
su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di L., su
LibriVox. L., su Goodreads. italiana di
L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.
Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci LLC. Centro
nazionale di studi leopardiani Recanati, su centro studileopardiani. Classici
Italiani e opere complete interbooks.eu
Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di L. dai manoscritti autografi della
Biblioteca Nazionale di Napoli, su bnnonline. Il Pessimismo in Leopardi e
Schopenhauer [collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali in più
volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere
di Giacomo Leopardi, testi con concordanze, lista delle parole e lista di
frequenza Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare
la vita o arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle
Lettere su classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo
Leopardi, la satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e
Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del
Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Angelini, "Sereno in L.",
su cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito",
su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica
della letteratura italiana d’Ancona,. Il secondo nella Critica. Il
terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti
di Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’
Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi *. E una
dissertazione di laurea, e reca infatti l’impronta comune a tutti i
lavori giovanili. L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro,
un po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che
non vuol essere propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema
filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore
con le stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte
sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo
alquanto ingenuo e da scrittore che non vede ancora la necessità, chi
voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue
parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi
dentro, mettendosi allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in
grado di rielaborare il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze
storiche a cui è legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui
logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la
inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita nuova del
sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del
sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro
difficile, certo, e che non riesce felicemente se non agli scrittori
provetti; ma che nessuno ordinaria¬ mente crede di potere schivare, se
non limiti il proprio ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne
escono alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li ha
intesi. L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere
insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando come fil filo un
pensiero si svolgesse dall’altro; e dove la connessione non appariva
evidente nelle parole del testo, ha supplito di suo i legamenti
opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi:
proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie
di riflessioni già via via segnate sulla carta a schiarimento del proprio
pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il
rischio, e stavo per dire la responsabilità, a cui andava incontro, facendo
parlare per la sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone
stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al
seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione degli stessi
materiali leopardiani, la statua del filosofo sul piedestallo finora
vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse
implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro- varvelo e
dimostrarvelo non poteva essere questa scelta dall’autore. Ma
veniamo all’argomento. L’autore, come già altri, ha creduto che, se le
opere edite ci avevan dato il Leopardi poeta, questi inediti Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci
scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello
Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui il nuovo studioso
manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della
filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle quali il dolore
sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa
natura; donde prima una concezione storica del pessi- niismo, e poi una
concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul valore sistematico di
questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume
dei suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette morali, veniva
in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni dello
Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi aveva
fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle
Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello
Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che
lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è
noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli
pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo
Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si
formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso ben
(juindici anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella
del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78.
Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale del poeta,
e offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a
tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui stesso
pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo, per dir
così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello spirito,
non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo
dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le
proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel
lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa»
2 ont e Leopardi. Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca
accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che
qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E
la sua ragione sarebbe questa : «Tali salti, mentre da un lato ci
forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della
profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione cosmica
del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di
rifare spesso a ritroso coll’ im¬ maginazione la via già percorsa dal
pensiero allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa
strada, e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,
allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata
altra via da battere per giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito
bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter
addurre pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra
ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento sostanziale di
pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta con l’immaginazione la via
già percorsa col pensiero, e già superata. Ci sarebbero certi « pensieri
di ritorno », o « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti,
non bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente
acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza sentimentale
alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi
temperamenti, torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza
filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un ritorno siffatto
nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella coerenza
di certi pen¬ sieri definitivi, è evidente che non può essere altro
che una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto,
quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria
inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal Leopardi, nelle sue
stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella
natura di tali confessioni. E non era neppure nella natura
dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta,
ma non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante
volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del
Leopardi, più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei
sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di
sopra di costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che
possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio punto di vista
chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva ragione il Leopardi ; perché
in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi
poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare
così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬ sofia del Manzoni,
dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei poeti non
è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e
non distruggerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più
notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta
può averne una, se è capace di averla, in ogni singola poesia;
laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina,
non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno diritto, come poeta, di
affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con
considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla
virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve
stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬ pardi è
infatti una situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso
dolore che domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia
nuova, che solo trascurando le differenze essenziali, che in una
poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può
rappresentare come sempre identica. Egli è che il poeta,
checché si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una
filosofia: ma esprime soltanto un suo stato d animo, occupato,
deter¬ minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti. Abbozza
in se medesimo (e quindi in un diario intimo) una filosofia provvisoriamente
sufficiente ad appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi
grandi in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in
quanto profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa
materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa
leopardiana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi
stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per
lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il Leopardi fa di
costringere il sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica,
satirica, che gli fece appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in
realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia tetra
e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo grande
amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha
studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del
suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver
niente del¬ l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una
liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività;
è una contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in cui il
filosofo, come persona particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi
dolori, e di tutte le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di
Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di somiglianza con
quelli del Leopardi non presenta nes- Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza,
nella Rivista d’ Italia, asuna traccia, non offre nessuno indizio di
sentimenti personali. K veramente una visione del mondo sub specie
aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del filosofo
scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo
dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia.
Onde una volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in
tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬ stema di
concetti, in sé. Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio
netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬
diano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi
ottimistici, così logicamente frammen¬ tario e contradittorio, e d’altra
parte così poeticamente coerente e vivo, che lo scambio non è possibile.
Noi pos¬ siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita del
suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto, molto delicato;
perché in esso non bisogna mai lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a
cui bisogna aver l’occhio, non è questa filosofia in se medesima,
astratta materia della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella
filosofia è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace
di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬ dere la
poesia, e valutata in quanto poesia, per quella vita poetica che riuscì a
vivere nello spirito del Poeta. La pubblicaizione dello Zibaldone
ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è
trovata innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella
tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso, e che, per
quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di mettere in
pubblico: quella filosofia, che egli destinava a far materia di
espressione più per¬ fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne
in parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma
merita di essere particolarmente studiato). E dimenticando che pel L.
tutti questi materiali non avevano valore per sé, ma l’avrebbero
acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno
s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.! — No, questi
sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non
avvivò, non tra¬ sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e
trasfigu¬ randolo nel suo canto e nella sua satira. E produce
davvero una strana impressione il proce¬ dimento seguito dal dott. Gatti,
che riferisce nel testo certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a
sussidio di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,
in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il perfetto fatto
servire all’imperfetto; la poesia ridotta a documento d’un suo
documento! Ecco un esempio di filosofia documentata con
poesia. In un pensiero Leopardi s era domandato. Che vale per noi
questa «miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa
egualmente che artificiosa macchina e mole dei mondi? A che serve,
dunque, questo infinito e misterioso spettacolo dell’esistenza e della
vita delle cose », se « né resistenza e vita nostra, né quella degli
altri esseri giova veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser
felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,
scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza,
anzi l’unica utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in
verità c’ e tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue
interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che,
non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale
possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa
costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima
finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata
la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente
espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il
dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo
suo per¬ petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento
filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà
ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a
confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno
Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note
fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del
canto. E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra
me pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria
infinita, e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della
stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile
famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni
terrena cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là
donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so.
Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che non ci sia un
fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio
che irrompe neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle,
quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità
dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande commozione,
com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità della solitudine attorno alla
propria persona non dimen¬ ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe
perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia, ma
l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che gh desta lo
spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si
sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico :
semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse
s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio
pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma
come elemento o momento della lirica grande. La pubblicazione
dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale
indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi,
e che non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio
deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno
che scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo
il fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta
non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.
Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo
schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa
sua perso¬ nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene
appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse
storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio,
mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima,
bastano a giu¬ stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come
degb epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più
gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce
col credere che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa
giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta,
sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo
sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni
modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore
che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la
conclusione definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si
potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto.
Bisogna vedere al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti,
ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬ spondere con un
altro discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso
genio possa essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia
un’attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica.
Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi
costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo
spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel
sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più
intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della
filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre
perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che
son pure astratti concetti: unità, che non si finisce e non si finirà mai
di studiare nella Divina Commedia ». E preferisco perciò una risposta
particolare e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso
generale io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla
quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza
grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera, come arte e
come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta. aver letto
attentamente il saggio di Gatti. Libro, che non ò certo inutile, perché
molti schiarimenti particolari a concetti del Leopardi da uno studio così
attento e minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti,
oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente
istituiti tra pensieri del Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau,
di Maupertuis e degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a
dimostrarci la tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del
Leopardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a
dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato che ci dà dei
Pensieri leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è.
C’ è la travagliosa meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le
accorate riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono
il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non più di questo. Il
Leopardi lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi canti e nel
sorriso amaris¬ simo e pur soave delle prose. 11 materialismo
della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo
finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono
nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi
costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici,
anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito
addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le
sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬
vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose
Giacomo Leopardi. In lui non trovi né anche una critica della
ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi
somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e
accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni
pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai.
Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e
stu¬ dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬
siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica
ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio
Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce
neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come
Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo
pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del
pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello
scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita
alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa.
Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la
volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale,
che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo fondamentale.
Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso dell’animo,
che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e bastano a
confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato.
Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore
del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non sono scettici,
benché in realtà abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono
nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica: ma unificano
le due attività, e immedesimano la verità con l’utile, in modo che quel
che giova credere, sia esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe
credere, secondo Leopardi, sarebbe né più né meno che un’ illu¬
sione. La differenza tra Leopardi e James è la differenza profonda tra lo
scetticismo di tutti i tempi e il nuovo prammatismo, che si professa
dottrina essenzialmente dommatica e positiva. Gli studi del Gatti
furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra gh
studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e competenti
interpreti del pensiero leopardiano; ma con altro criterio e altro
intendimento. E io son lieto di leg¬ gere al principio del suo libro le
seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal
Cantella, di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri
dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva essere altro che
infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza
disegno prestabilito, per lo spazio di circa quindici anni, da quando
prima il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo
cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli argomenti
principali che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente
d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi
speculativi di cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia
(anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta, la cui forma definitiva
va piuttosto cercata nei prodotti più maturi, dove parve all’autore
d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle
Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio del Levi, e
conferma pienamente il mio giudizio sul va¬ lore e sull’ interesse dello
Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce
netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta com’ è dall’autore
ad andare in compagnia di certi prin- cipii direttivi, che oscurano, a
mio avviso, la visione esatta di taluni momenti dello sviluppo del
pensiero leopardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi,
quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone
ogni interesse speculativo, per la qualità stessa dell’autore; il quale
sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,
dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole
e spesso contradittorio », egli, da una parte, esagera e àltera il mio
giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.; e
dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬ bito dopo di
dichiarare esplicitamente), il quale non gli può consentire una
ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma razionalmente
giustificabile del pensiero leopardiano. In primo luogo, non è
esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse speculativo
allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi
sono disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi non
abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, che
il problema speculativo, nei termini, s’intende, in cui egli poteva e
doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia
del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse negli
scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del L.,
fosse già pervenuto a quel punto di maturità spirituale, di verità, in
cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso
volle entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa
nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva licei componere
magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si prepara ai suoi lavori, e
che, compiuti questi, quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il
succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle
note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano venute correggendo
e integrando in più logica compat¬ tezza ' ; 2) che si possa
adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto
di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni
dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le critiche
profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno spirito,
che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col L., il
Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: «
Fii detto che la pubblicazione del Diario sia stata un'indelicatezza,
quando il Leopardi medesimo di questa pubblicazione non aveva pregato
nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi
bene aperti d’un pubblico di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo
gli errori del grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato
ad amarlo e a vene¬ rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante
le sue reliquie... ». Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel
che scrissi io nella Rass. bibl. tett. U., mi rincresce di dovergli rispondere che
egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬ mazione. La quale mirava
soltanto a chiarire che dello Zibaldone non ci si può servire se non come
di documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo
per altro cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse
l'autore, e pubblicò egli stesso come sole degne di sé. nel Gesuita
e nella Protologia), in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né
pur a quelle dello Zibaldone. L vero che « nei sistemi filosofici
le parti più caduche sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema
». Ma ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬
mostra che è: perché gli errori di questo genere non si scoiarono dal
critico se non come errori della costruzione del sistema, ossia come
divergenze dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle
verità fondamen¬ tali intuite d<al filosofo. E se U critico non
rifacesse per suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe
modo di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato
dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché un giudizio che
affermasse immediatamente : questo è vero, e questo è falso, senza
dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio per
davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è
privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i
filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti
quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare,
ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos intra
muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema, ce n’
è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non
possiamo parlare di Omero poeta e di Platone filosofo senza un
concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia:
le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la
concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla
filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare
caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto
tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte
le funzioni concorrono in un’unità concreta, in cui il poeta, essendo
anche filosofo, partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e
il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello
spirito che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle
funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della
storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due
schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni prevale il
momento poetico e negli altri il momento filosofico; onde la distinzione
e però la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni
volta, funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi
va considerato come poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il
Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci
vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa,
compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha
della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che
egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo
occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per
lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è
per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma
nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso
che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un
concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente
alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci
sono principii astratti ed estrastorici che pos¬ sano segnare a priori i
limiti della filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma
ciò non toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e
che non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta,
il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed
assolute. Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in
fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica
che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo
nei poeti, di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di
più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare
e cercare un’attività etica con un suo senso determinato e costante ».
Ond’egli si propone di cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie
egli giunse alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬
giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso Ebbene,
tutto questo è molto vago perché possa servire di criterio alla storia
del pensiero di un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una
sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le
differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è
in fondo venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica
determinata. E se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia
azione, posto, com’ è necessario, che le suddette forme della I
grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la
suprema esigenza etica, ci saranno (dato pure c non concesso che questa
sia la radice di tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita
sia poesia, e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci
riflette bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la
sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento
dell’uomo di fronte all’universo : poiché ; quest’atteggiamento o è
un pensiero, o l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una
filosofia, non può non essere anche una poesia. In realtà, quel che cerca
il Levi nel poeta, non è la ! soddisfazione di una esigenza etica,
bensì una metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o
del regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa
mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del
valore poetico e del valore del contenuto filosofico della poesia,
egli non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il
problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al
giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma si restringe a tracciare la
linea di svolgimento del pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia
assunto la sua forma finale in una specie di individualismo
romantico corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò
bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire nel
pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più che
etico, di questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur
in questo concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,
qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è
necessaria anche a una filosofia individualistica. Il risultato
degli studi del Levi, in breve, è questo. Nel pensiero del Leopardi
si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e dissoluzione
dell’uomo, l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo
stesso; il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !
mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo periodo, e si
aderge in tutta la sua grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o
piuttosto la coscienza della sua p infelicità. 11 primo periodo
terminerebbe verso la fine | del 1823, e sarebbe rappresentato,
sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a
poco, nel J gennaio 1824, quando il Leopardi pose mano alle Operette
morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- # mente ; « Fa
onore al buon gusto e al senso critico del 1 Leopardi l’aver lasciato da
parte tutto quello ch’egU l sentiva estremamente ipotetico nelle sue
teorie inrorno jS alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa
natura, ?. e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il
nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù e alla felicità
umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo jelle indagini
e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i primi sei giungono al 23 aprile
1824): il periodo, in cui il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora
non si ri¬ trova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del
suo speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di
felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in questo
periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe addosso a quest’ ideali,
che erano la vita dello spirito leopardiano; e non riesce a
giustificarli, anzi h corrode e distrugge. Che cosa è il bello ? e il
bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo
spi¬ rito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello
spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane pensatore, poiché
perdono tutti la loro assolutezza, la loro apriorità. Ma da ultimo la
vita stessa, che prende in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’
ideah, si desta nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una
espressione ingenua della verità disconosciuta: espressione, che
ferma giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa
segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo dello
svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere interpretata alla stregua
del difettoso concetto che egli ha delle attinenze della poesia con la
filosofia, e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del
secondo periodo. 11 Leopardi, il 27 novembre 1823, scriveva nel
suo Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza dciranima
dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede neH’animo. L’uomo è tanto
più infelice generalmente quanto è più forte e viva in lui quella parte
che si chiama Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più
forte, ciò per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né ac¬
cresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più dei rispetti
[l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione inversa della forza
propriamente corporale.... La vita è il sentimento dell’esistenza. — La
materia (cioè quella parte delle cose e dell’uomo che noi più
pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può
esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente coll’esistenza, la
quale, considerata senza vita, non è capace di amor proprio, né d’
infelicità. Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬ timento
vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi, « è manifestamente
la coscienza ». Ma continua : « Di qui innanzi egli negherà ancora in
astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha avuto cura
di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo
che noi chiamiamo spirituale ’ e ' quella parte delle cose e dell’uomo
che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il
suo bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato e il
falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma,
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con suffi¬ ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è
di natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio
del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la sua
interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario c’ è la coscienza
della vita, ma non c è la coscienza (il concetto) di questa coscienza; il
Leopardi sente la pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli
esseri inferiori, e la propria grandezza come Leopardi sugli uomini
comuni, come potenza di essere infehce. ma non pone mente che egli è
grande, non perché infelice, ma perché conscio della sua infelicità ;
cioè non vede 1 esser cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del
dolore, e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto
asserire che possegga la nozione della propria natura spi¬ rituale e
della propria dignità di contro alla natura. Infatti il possederla
praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che significa
se non che non la pos¬ siede come nozione, bensì con quella immediatezza
onde 10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza
di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il
contenuto della sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe
superato; poiché sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto
od oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria sulla
natura, come opposizione e limite dello spirito, e quindi sorgente dell’
infelicità. Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col
con¬ cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬
fonda ripugnanza che prova il L., — pur quando intravvede nella vivacità
stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale, che è
sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà
che non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si
chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni «
quella parte dell’uomo che noi chia¬ miamo spirituale » ecc. ;
circonlocuzioni, che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi
non si solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se
questo concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con
tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei sentiva negli
entusiasmi spiritualistici dei romantici », con tutto « il suo bisogno di
concretezza », come avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e
non vedere che 11 sentimento dell’esistenza, non essendo
materia..., non è materia, e che la presunta concretezza della materia
come tale non è altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può
esser nota altrimenti che pel senti¬ mento che ne ha il vivente ?
Orbene questa contraddizione intrinseca tra il senti¬ mento, non
elevato a concetto, dell’umana grandezza, e il concetto (contenuto della
poesia leopardiana) della nullità dell’uomo di fronte alla natura e
quindi della fa¬ talità assoluta del dolore, questa è la grande
situazione poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente
dal De Sanctis nel saggio sullo Schopenhauer » : « L. produce l’effetto
contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa
desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio
inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi
accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non
abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre
non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti
desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha
così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la
onora e la nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo
concetto e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua
poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli opposti motivi che
vi concorrono senza scoppiare dentro il contenuto (astrattamente
considerato come filosofia) in manifesta contraddizione logica, come
avviene nella Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so.
Certo, la forma leopardiana si regge sull’equilibrio di questi opposti
motivi, che sono la personalità del poeta e il suo mondo pessimistico:
equilibrio che si mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto
di Saffo, ‘ Saggi critici, à nel canto A
Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico, nei versi All' infinito,
dove la personalità si dimentica nel suo mondo, lo pervade e ne è la
forma poetica : laddove, appena vi si contrapponga, come parte di
contenuto (che qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto
al¬ l'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare
l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale
contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per interpretare il Leopardi,
non vedo abbia chiara coscienza; e però scambia la forma col contenuto
dell’arte leopar¬ diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a
lui d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima, e cioè
la poesia del Leopardi. Tralascio i bei capitoli, che il Levi
consacra alla storia della concezione storica del pessimismo, quale si
disegna già nella critica dello Stato e della civiltà, della
scienza e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso
10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione nei
primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel
pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e Inno ai Patriarchi.
’E vengo al secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza
che il Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza dopo
la dimora che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del
Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza
dell’umano intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente
comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.... E veramente quanto
gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri è
l’uomo, tanto sono più capaci della conoscenza, e del sentimento della
propria piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui
' Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del
genere umano, Dialogo della Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e
di un Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note
sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo dall’uomo il Leopardi
ritrae la causa del dolore universale nella natura; alla concezione
storica del pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte alla natura
ineso¬ rabile artefice del nostro doloroso destino e imperscruta¬
bile prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo s’accampa questo
con la coscienza del proprio valore: dell’uomo, secondo intende il Levi,
in quanto individuo, e pur creatore del suo valore nel virile disdegno
d’ogni illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬
l’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore. Onde il
Leopardi acquista una serenità, una sicurezza ignota a quell’angoscioso
piegarsi e stridere dell’anima sotto il dolore, che è l’atteggiamento del
primo jieriodo. Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione
del Levi, il suo modo d’intendere questa forma suprema dello spirito
leopardiano. Ma contro questa interpretazione vedo due
princijiali difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre
con qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere
interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i documenti dell’
interpretazione del Levi per ciò che riguarda l’individualità dell’uomo,
che in questo secondo periodo starebbe di contro alla natura.
Nell’allegoria dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la
designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e
magnanime », che vengono a provare « piuttosto verità che rassomiglianza
di beatitudine », comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto
il L.: ma non come individuo che crea se stesso, col suo valore. Non è
coscienza del dovere dell’ individuo. che può nello spirito
vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da questa
contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la cui
serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il
dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di
ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo,
e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira
intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione,
né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate
dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato
dalla Verità, quantunque ini- micissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬ pardiano.
Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella
individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del
pessimismo cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua
infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto
negazione: « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra
ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. In altri
tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto di se medesimi;
e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio
più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti
si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà
farsi una caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta,
per esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che
guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno;
e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo
contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di
sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator
dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo
pe¬ riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e
suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più d’una volta
tormentata affinché risponda docilmente ai preconcetti filosofici
costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬ mento sarebbe celebrata « con
gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su
tutto, e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non
ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il Leopardi
canta: Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni; Sopire in me gli affanni L’ingenita virtù.
Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L'infausta verità . . . Pur sento in me
rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E de’ suoi proprii
moti Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione della
poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento
dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché
tale. j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità
della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché
meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi
al subito rianimarsi del mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia
è svanita. Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se
stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,
disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬ soluta solitudine
della sua grandezza » ; e cita i versi ; Non vai cosa nessuna
I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui
la solitudine della grandezza, se il Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai
moti stessi del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a
nulla, e tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco
sotto r immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il
Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo
conte¬ nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me
sembra una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura,
onde il poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’
interrompere la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti
in versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’
immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la
straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di
questa nasce da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva :
e questa è l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato,
e la potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla
natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene
opprimere ». — Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa
grande per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la
poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬ menti che
interrompono davvero la poesia, il Leopardi, mi pare, sarebbe stato più
grande non interrompendo la sua poesia; dato che la grandezza della
poesia non possa essere altro die il carattere eccellente di una
poesia, tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e
tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persua¬ dere ad
esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale; poiché questa parte
appunto (oltre che la polemica contro la filosofia del secolo XIX e
contro il Mamiani) è quella in cui è compromesso l’equilibrio lirico
della poesia; ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle
meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata dell’universo e la
piccolezza deU’uomo, o ciucila della descrizione dell’eruzione,
dall’organismo, dalla vita di tutta la ])oesia, dove é la vera e sola
bellezza, da cui le altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la
bellezza della ginestra, del fior gentile, immagine del Leo¬ pardi, che,
mentre tutto intorno una mina involve, al cielo Di
dolcis.simo odor manda un profumo. Che il deserto consola:
l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana. E dove
il Levi afferma con intenzione, che la bellezza non so se della
descrizione delle eruzioni vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce
da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a
una dottrina estetica, che dice altrove di non poter accettare,
noterò che egli mostra di non aver forse compreso che s’intende in
questa dottrina per espressione : perché l’intensità tragica che egli vi
contrappone non è niente di diverso dalla espressione, se di questa
intensità tragica intende parlare in quanto la vede nella
Ginestra] poiché l’espres¬ sione va cercata nell’atteggiamento
individuale che lo spirito assume di fronte a una certa materia, e
questa, quindi, in lui. Ma c’ è poi quella personalità, che
si colloca di fronte alla natura.... senza lasciarsene opprimere ? — Qui
sa¬ rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né supplicazioni
codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra non supplica
semplicemente perché, più saggia dell’uomo, non crede sue stirpi
immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno al futuro
oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si contrappone
alla crudel possanza, ma la serenità pacata della coscienza della
sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che affermazione
romantica dell’umana personalità. In conchiusione, anche al nuovo
schema filosofico la poesia leopardiana si sottrae e repugna, per
richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos
lirico. ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con
alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente
lettera : Egregio Professore, Mi par difficile
discutere delle interpretazioni parti¬ colari di questa o quella poesia o
altro documento del pensiero leopardiano senza rimettere in discussione
il concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro.
Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬ futare singole
opinioni e determinati giudizi, né a mo¬ strare piccole infedeltà ed inesattezze,
sì bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale
con cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si
possono leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a
talune delle mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato
sfuggire r intento generale e il significato complessivo del mio
articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo citato dello
Zibaldone con vita o sentimento dell’esistenza H L. intenda la
coscienza, 10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il
concetto, della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale,
in quanto parte di una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella
aveva bisogno per cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia
individualistica, in cui Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia
leopardiana. Con ciò io non dovevo attribuire al L. soltanto
11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa dire), che
sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un senso vago o, se vuole, una
nozione imperfetta, o magari un concetto, che però non era un vero
concetto, della coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza,
ma non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza è come
se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e
rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con sufficiente sicurezza
la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità
». Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé e
dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo essere non il
contenuto (la filosofia, il concetto) della poesia leopardiana, ma la
forma (la poesia, la lirica, l’espressione della personalità del poeta,
superiore alla sua filosofia). Così, sarà verissimo che il
Leopardi si creda infelice perché grande, piuttosto che grande jierché
infelice. Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione che,
se egli avesse avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la
propria grandezza in un grado spiri¬ tuale che è al di sopra del dolore e
della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la
coscienza vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia
del dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬ sione
sub specie aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il
soggetto. Nel Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far
dipendere l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra.
L’Anima domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle
anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i
generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi
il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’
infelicità propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove
è chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè
eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è
sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste
l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare
la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la
nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma
quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i «
mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi
annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori,
e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella
al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è
quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma possibile
del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza,
e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella vita
dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il contrasto
interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a quello che
ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato
da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della
personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità
spirituale, propria del con¬ tenuto della sua poesia. Del
Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto che il primo periodo
citato da me sia ; « E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole precedenti
erano state pur da me riferite immediatamente prima fino a Tristano
che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo al destino,
né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma queste parole non
potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce il
pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dia¬ logo, una
negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella
dice, della propria per¬ sona empirica; perché la morte, pel Leopardi,
non di¬ strugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere
dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis
{Studio sul Leopardi). Leopardi ha la forza di sottoporrei il suo
stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬
bricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza
di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su
una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e appunto perché
può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare] Bruto e Saffo,
non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono stati momenti di
felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del
filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella contemplazione,
esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina la
faccia. Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra ;j
pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e Porfirio o VAmore e
morte, dove si anela alla morte, ma la si attende serenamente, deposto
ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non occorre negarla per non
vedere né anche nei componimenti più tardi quella coscienza jel valore
della propria individualità, che Ella ci vede. ^'el detto Dialogo non si
cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella robusta fede nella
grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a
se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice che
«la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non
dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla ». E, se
non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della
tol¬ lerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni
sono bensì la critica del pessimismo materialistico del Leopardi, ma
restano nella forma di sentimento, baste¬ vole a conferire al dialogo
quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e sono veramente
l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello spirito, di
cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione
e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; 0 non
essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente,
ma di barbaro. Non far ninna stima di addolorare colla uccisione propria
gli amici e i do¬ mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo
curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso
non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità
propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e
tutto il genere umano; tanto che in questa azione del privarsi di vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e
men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». Se
prendessimo atto di questa critica del suicidio — che. risolvendosi in
una serie di asserzioni, vale certo come effusione di stati immediati deU’animo,
ma non come filosofìa — che filosofia diverrebbe questa del Poeta
che ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo sia
racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo all’uomo non si
rappresenti se non nella breve sfera del piacere e del dolore suo
individuale ? Ma, d’altra parte, senza questa contraddizione interna tra
la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta è
avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr. la Ginestra) e
che pervade tutta la conversazione intima di Plotino con Porfirio, dove
se n’andrebbe la poesia del commovente dialogo ? Nell’
intendere come ho inteso il Risorgimento posso sbagliarmi; e la sicurezza
con cui Ella crede si debba intendere altrimenti, mi fa dubitare forte
del mio giu¬ dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto
persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle domande: «Chi
dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta ? Che virtù nova è questa ?...
Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ; Da
te, mio cor, quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto
mio Solo da te mi vien; ed è vero che nella quartina
precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa
risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la poesia :
l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬ chio cuore. E quindi
il sentimento che regge tutta la poesia mi pare la meraviglia. Ragione,
invece. Ella ha certamente nel correggere il significato da me attribuito
‘ In un periodo ora non più ristampato dello scritto
precedente. agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur
dopo la correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla
tesi dell’affermazione della propria grandezza, gi a quella del grido
della disperazione, comune a quasi tutta la poesia leopardiana. E
nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia- luato, della
personahtà del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della
natura ? Ma bisogna vedere quanto questo motivo sia attenuato qui
dall’umile coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua. Confessa
il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale...; ma non
eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle. Né sul deserto.... »
ecc.), e quasi rammoUito e sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia
tutti gli uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice
che, commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la ginestra,
un profumo di dolcissimo amore, che consola il deserto. Anche la
ginestra, che piegherà il suo capo innocente sotto il fascio mortai,
insino allora non piegherà indarno codardamente supplicando innanzi al futuro
oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza del fiore di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante, né alla solenne rassegnata
pacatezza del vero sapiente cantata dal Leopardi. Certamente,
tutte queste cose meriterebbero di essere chiarite con un’anahsi più
accurata degli scritti leopar¬ diani; e io voglio sperare che questa discussione
possa invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro
grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non staccarsene senza
prima avervi gittate su la luce di nuove ricerche. Maestro di vita
Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi > si è proposto appunto di «
raccogliere dagli scritti di Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme
unità gli elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le
feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre
neUe pagine del Nostro; quanto di attivo e di energico, pur nello stesso
dolore, risulta dal senti- j mento, e dal pensiero di lui.... allo
scopo di integrar, ^ se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per
dire la ' cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- |
j strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1
leopardiana. 1; Elementi che non mancano certamente nella
detta 'i poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo
j pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- ' ctis
nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo stesso concetto aveva
accennato un ventennio prima * Alessandro Poerio, in una sua lirica
rimasta inedita); , e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente
e de- I solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. |
E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i da Negri,
nelle sue Divagazioni, che pare siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma
c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una
J direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il ,
carattere dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l timismo
edonistico od estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi,
Un rft vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna,
/a nichelli, igi?- stratto e superficiale può vedere in
alcuni aspetti della sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi
è la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della lenza
dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama, a cui
non trova posto nel mondo, guar¬ dato come cieco crudele meccanismo
naturale; ma che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più
vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo
purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente
spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio
particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita
dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto.
In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono
che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender
la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due
elementi contradittorii. 11 Bertacchi invece crede di poter quasi
cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬
lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in
rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una
sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la
sua poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale
ravvivata dal¬ l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita;
ossia una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe
attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il
sereno di natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa
», e poi « l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o
impre¬ gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o
contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti
e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso
sensibile le conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e
il Poeta studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore »
apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a
fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia e
ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui
sarebbe maestro il Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato
dalla intuizione estetica della natura. Tesi in parte ingenua
e oziosa, in parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il
Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar
vita estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così
del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun
bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque
essa sia, è rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un
interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo
un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la
pretesa d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico della
bella natura una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi
che questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra
squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne accorgesse,
fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa s’effondesse
sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e giustificabile soltanto
col criterio dal Bertacchi candidamente esposto fin dalla prima pagina
del suo libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.
Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che l’opera d’uno
scrittore non valga solo per sé, ma anche per il modo diverso ond’essa,
quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché « spesso dalla parola d’un
autore, acco- r stata alle anime nostre, si svolgono sensi
ulteriori che l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e
le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare.... Il
creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di significazioni e di
uffici ». Sicché il Leopardi maestro di vita è il L. dei sensi ulteriori
e non il L. storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato,
s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto
di creare, non è più legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e
storico è legato alle opere che intende interpretare; e può scegliere tra
gli scritti leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle
parti soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma- I gine
del maestro di vita che desidera raffigurare. Così comincerà con lo
scartare le prose ; perché « nella voluta terribile aridità » di queste,
« il pensatore sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo
agio di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;
«egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella
sua logica amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del
Leopardi, e non c’ è la na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini
belle: il che non è poi vero, se si considerano almeno la Storia
del genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese, La
Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette
morali sono filosofia e non poesia. — Da scartare poi le poesie in cui il
Poeta «trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la
maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale,
dalle pur rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi
caratteri il Bertacchi non si pe¬ rita di designare, oltre 1 ’ Epistola
al Pepoli, la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero
dominante. Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di
bella donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di
sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il
Leopardi parla bensì diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se
stesso, Aspasia), ma can¬ tando se stesso non esce dall’ambito umano e
sdegna ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal
caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto
essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia
provato esso stesso ». — Da escludersi infine i canti civili {AW Italia,
Monumento di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un
vinci¬ tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si
resta, sebbene con ampiezza maggiore
nell’ordine voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il
Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto
della natura: «vive con la natura, o almeno, nella natura. E questa
natura, poi, è quasi sempre serena ». Qui il ])oeta Bertacchi, creatore
del creatore, può spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi
ulteriori. Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi in
cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati
nei loro aspetti più belli ; soleg¬ giati sono i suoi giorni; le sue
notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica
in un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,
riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata
dal sole che entro vi trema sorgendo». E questa presenza della natura «
non è senza effetto per noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà
bene, contro ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune,
o le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile
dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei suoi tristi
argomenti, veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir
vivo il contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi,
non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel sereno
che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a sé,
quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi,
dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti
profonde vi si raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà
avver- t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana, un
senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come il Dante della novella
sacchettiana), ma non ha più niente che vedere colla poesia del L. E dove
pare si accenni a un giudizio critico, non può essere altro che una
vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore. Così il
Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la
tempesta « il poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa
pienezza nel cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che
trabocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un errore,
perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬ nazione deU’ idea stessa
del filosofo, che nel Sabato non si esibisce già nella sentenza finale («
Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia;
Diman tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la
rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la gioia d’una
speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità della
fanciullezza ma non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange
l’uomo già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬
guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere
questa pietosa malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già
dalla malinconica donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar
del sole, cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare
d’un dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano
al filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e
1 altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza,
la¬ sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a
queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬ spensione
fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio
stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma
esprime nettissimamente il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare
l’età del proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua
soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema
(neU’anima, s’intende, del poeta, e quindi in ogni parte della sua
poesia) tra la fresca c solenne beUezza della natura e il sospirante
solingo muto, che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai
miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,
alla reina FeUcità servi, o natura »). Ma in tutto il
volumetto non si trova una pagina in cui propriamente il Bertacchi affisi
la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.
Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo per
esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬ ta, «poi è
naturale, è umano che noi, da parte nostra, riviviamo tutti quei sensi di
vita che, sia pure a cagione di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che
essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure
qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa
e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e j viah odorati
e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da noi, alle
sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano,
troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia
sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità, non so
vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del
Ber- tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed a noi, godendo
e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della
complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa
di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli
aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui,
che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle
mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura
d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e
aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la
giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea,
sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di
canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura
di poesia.... i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la
stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio
indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama
troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori
gli soccorrono più lenti alla fan¬ tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa
d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi
liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti
medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in
qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi
in cuore un’eco di quei canti stellati, e ripensando al poeta
congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli
è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria
ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non
direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio
che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze
ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture
leopardiane che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel
1927 presso quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne
pronunaiato il 13 feb¬ braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia.
A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è
da essere assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si
assume. E ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si
rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una
cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere
perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire
a vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e
di allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie
forze e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere.
Oggi sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di
grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare
nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione
della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del carattere
nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei giovani e nel
popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia non
si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa vita e
l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla? Motivo grave
di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non turba tanto l’animo
mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella
istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una
elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene che il suo
pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo
spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e
negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl individui
e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già altri poeti e
sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel pubbhco, diventi anche lui
materia di quel malfamato genere letterario che troppo è stato
coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi delle «conferenze»;
genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e potesse ormai relegarsi
tra le smesse abi¬ tudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’
Italiani si persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le
grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile, realmente
concorrente con gli altri popoli che sono alla testa della civiltà nel
dominio del mondo materiale e morale, bisogna romperla col passato. Dico
col jiassato dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e
delle cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e colti
signori in cerca di onesti passatempi, più o meno noiosi; in cui ogni
argomento era buono purché legger¬ mente, discretamente, spiritosamente
trattato, o agitato con oratoria adatta a mover gli affetti e
guadagnare gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori
debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o di ascoltare, a
sentire seriamente, schiettamente, con tutta l’anima, e a pensare, a
trarre da quel che si dice o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme
di con¬ dotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si
dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui
oratore e pubblico, in buona fede, e anche in mala fede, compiono
un’azione e si pre¬ parano a compierne altre; e non vuol essere una
predica, che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che
nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio, nessuno vi si
riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno Si ge ne
torni a casa con lo stesso animo — vuoto con è venuto alla
conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si
sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori
il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬ damente per tutto
il suolo del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi strani e
burleschi che attestavano es«i stessi la frivolezza dei propositi e la
spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano; accademie,
che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla nietà del
Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬ stono al sorriso, al
sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla storia, e
vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle
provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a
danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬
cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime e priva d’un
profondo contenuto e interesse religioso, morale, filosofico, umano;
poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla moda, erudizione per
l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione, né anche nella
letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona e la
persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui
l’uomo non era cittadino della sua patria, né padre della sua
famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di
astratte forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà
degl’ interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari
pieni zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e
raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né
amori. Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,
cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla
frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso
sentimento e ad ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile,
MaiXrZoni e L.. Chi non conosce queste debolezze dello spirito
italiana nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^
risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella cultura e di
quella letteratura, e con Parini ed Allieri ha cominciato a sentire che
il poeta dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni altra forma
d’ingegno, vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa
che j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le
genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una
creazione effimera ed insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza
Italiani che cominciassero a unire e a fondere insieme quel che avevan
sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la
scienza e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola
finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica e con tutta la
vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il dire e altro è il fare »,
per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente, a
sentire come proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a
quella della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a
sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi
non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di
dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno
lo slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si attenuò e fu
meno sentita; e nei riposati tempi di pace e di raccoglimento succeduti
al periodo agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,
certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla; nel rifiorire
della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo
scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere condizioni
acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c
arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante;
e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze
prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu
imitato jn tutte le principali città, e i conferenzieri più
brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando
j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro pagine
patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva, del lor^^ pubblico
di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a certe conferenze, con
certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi hanno il
coraggio. L. non può esser materia di conferenze. Vi si
ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i
luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi
in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito;
dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte
della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo
cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo spirito tormentato
dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e
orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e
far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a
un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di
frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il
Poeta, non tollereranno che anche L. venga alle mani dei pedanti, dei
letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto
di vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che
fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante
coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per
cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e
presente L. poeta, che è il L. degli
uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei
pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap.
passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples. sione e si
precluse la via a ogni godimento della vita per la furia con cui nella
età più giovanile si gettò sugli studi per puro amore di sapere. Per
molti anni aspirò, finché la perduta salute e la vista indebohta non gli
ebbero create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo
consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici,
fu anche lui studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto,
per la coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più
perfetta dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la
sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne
servì come di strumenti a vedere e sentire più addentro nel proprio
animo, e di grado in grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la
prova più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse
sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando la vita, studiando
gli uomini, speculando sulla natura e sull’anima umana, indagando i
destini dei mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel
suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il
suo pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in
forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge
agli interni occhi trepidanti. Leopardi, con diversa temperie
spirituale e cultura diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio
di quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e ne
sente il valore e la serietà; profondamente differente da quella
anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad
accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo;
l’uomo, che è legaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti
della sua vita a una divina realtà, governata da leggi che domano
e annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una realtà, in
cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo da cui si diparte morendo,
ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni
sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o
sen¬ timento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello
jella morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di superstizioni e
di dommi, è uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia
del destino: incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo,
e di prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è
sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato
accoramento dell’uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure
nel mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso
dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in
particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua
costituzionale religiosità Leopardi non fu soltanto un poeta, ma fu anche
un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna
intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno
che Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee
speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti più affini
al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale,
perché non furono fecon¬ date da una sua speciale ispirazione. Accettò,
riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza
svilupparlo, ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità.
In una storia della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque
di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura
filosofica della prima metà del secolo passato. In questo senso,
d’accordo, Leopardi non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in
cui si deve parlare della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa
filosofia dei filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può
interessare tutti gli uomini, e non essere una malinconica
fantasti¬ cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello per
cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è
anche la filosofia di quelh che, senza inventarne, li cercano questi
sistemi nei libri dove sono esposti, e leggono questi libri, li studiano,
ne fanno prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza
dello spirito, in cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal
fondo della loro anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non
saprebbero reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori
sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa
intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza
tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è
privilegio né monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in
fondo allo spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,
c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi
esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità
da non portare in tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua
personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé
cerca, trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo.
In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi fu
squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi intenti,
ansiosi, sopra il mistero della vita, quale ad ogni uomo che sente e che
pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il
confuso agitarsi passioni svariate che gli tumultuano
incessantemente pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può
vivere così spensierato e abbandonato all’ istinto da non av¬
vertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua sopr^ un letto
già scavato e terso. Sono sempre ostacoli da superare, bisogni da soddisfare,
desideri! non ancora appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore;
e la gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in
mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie e
sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni, giubilo e
scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire totale di tutto, un
disseccarsi e inaridirsi definitivo della sorgente stessa, a cui l’uomo
accosta ad ora ad ora le sue labbra assetate; il nulla, la morte. La
morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e an¬
nientando intorno a noi tante delle nostre persone care, con cui ci era
comune la vita, in guisa che la morte loro ci pare la morte di una parte
di noi. E che è questa morte ? e che questa vita che precipita fatalmente
nella morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non
arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una tutte le nostre
speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci priva di tutti i nostri
beni, ci chiude dentro mille osta¬ coli. ci combatte, c’ insegue, ci
sbarra la via, e non ci concede tregua finché non ci abbatta per sempre ?
Nascere è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede
sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre più agguerrita, per
vincere una battaglia sempre più aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto
o tardi, pronti 0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura,
del destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per
soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la no¬ stra giornata.
Per gli uni la vita sarà più facile, o men difficile: ma per tutti è una
scala, che bisogna salire; salire sempre; da un gradino all’altro: sempre
più senza fermarsi mai. Ma, appena l’uomo che ha un cuore,
sente quest affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la
catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta
ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.
sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi confida a
volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per conquistarsela la
sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la vagheggia, filiera
dai mali la cui minaccia mette in moto la sua attività; e se egli non
debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco
inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel turbine,
o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato movimento
non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo di volontà
non può essere, esso mede¬ simo, al pari delle idee e dei sentimenti che
lo solleci¬ tano, se non un necessario effetto di una causa
necessaria predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui
si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa neUa sua natura
e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso, tutt’uno con
tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza irresistibile del
destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di fronte a
ciuesto mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra volontà,
e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo naturale col nostro
amore, con l’impeto dell’animo no¬ stro innamorato dell’ ideale,
instaurare una legge che sia la norma del bene e di un mondo spirituale
dotato di un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo mondo
superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è una verità che si
oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso mondo inferiore e
quella natura spie¬ tata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui
afferma¬ zione implica che si ritenga vera? E se a questo
mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello
spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se
ne contrappone un altro che è la nepzione della hbertà, come si farà ad
ammettere che sia libera la natura umana, circondata e condizio¬
nata da una natura che è l’opposto della hbertà ? Pensieri, che il
filosofo più esperto mette in formule stringenti, e scruta a fondo; ma
che confusamente, e non perciò meno tormentosamente, affiorano in
ogni umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la
fede di cui ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1
uomo non dà un passo senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è
una mèta innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona
per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi, e gli manchi del
tutto, allora non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera
Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che
pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai
cosi acutamente come il nostro Leo¬ pardi. nessuno vi pensò mai con tanta
insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il Leopardi
se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta in senso
stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni filosofiche non gli
rimasero nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i si abbarbicarono, e
furono la sua persona, lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento,
in cui \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione
della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche idee, ma queste si
fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma della sua passione viva, e
quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha
di proprio, a differenza della scienza ragionata e del sapere
speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e si stende in una
tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e
viverne anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da sé, e
mediandosi, cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo
vivente della sua individualità, in guisa da parere che non senta
più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella
contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da
sé il soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente
così come esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente
nel brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel
suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e
disindividuato. Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti,
astrattamente obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di
occhi umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il
poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o
qual’altra passione gli detta dentro le parole in cui egli si
esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello
spirito poetico è il segreto della miracolosa potenza della poesia,
raffigurata dagli antichi nella virtù incantatrice della lira di Orfeo,
che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere
che solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda anch’essa
cultura e finezza spirituale, risultato di studio e di educazione,
s’appiglia al cuore dei semplici e delle moltitudini, invade gli animi,
conquide e trae seco non per virtù di persuasivi e irresistibili
raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino
miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte è senza
paragone superiore a quella della filosofia. Perciò quella
filosofia, che fu nel Leopardi sentimento e diventò sublime poesia, ha
una potenza infinitamente maggiore di qualunque più sistematica
filosofia; e se si chiudesse nel gretto circolo di una concezione
pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di
educatori del popolo italiano erigere qui una cattedra a commento ed
esaltazione di essa. I filosofi, per raggiungere la loro verità, devono
salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per
solito in una solitudine magnanima, anche a malgrado della
moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti si traggono
dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro
arte che « tutto fa, nulla si scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia
del suo canto è la sua filosofia. E qual è dunque il contenuto di
questa sua filosofia ? Quello che abbiamo già detto dei problemi
filosofici, che spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero
umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale
e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi martellò il
suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che scossero
profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o massimi
della filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno di assicurare
all’uomo la fede che gli è indispensabile per vivere: la fede nella
propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di
esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi
un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e
non dibattersi vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi.
Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬ sofia materiahstica, evidentemente,
è una filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si
risolvesse da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad
abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al
suicidio. Ora Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare di
proposito una professione di fede, fu esplicito nel manifestare la sua
adesione alla filosofia sensualistica e materialistica; e il Frammento
apocrifo di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è
una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per altro, si
ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso. Poiché
da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata
nel Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e non
si cura dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme,
infinita, la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che
pretende di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla
alle proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita
bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere in concorrenza
della dura, quadrata realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che
sia, spezza ogni umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio
universale delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma
tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa che lo determina,
non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o volere,
che non deriva da un principio autonomo, che si faccia centro di
una vita superiore e indipendente, avente in sé la propria misura,
ma è effetto del generale meccanismo, che si abbatte sulla così detta
anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste
producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in
conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere che c’ è
due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche : uno proprio degh
spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi si
rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui
adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle senza
reazione di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se
non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la
manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con
tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa
personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di
quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da
restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e
cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce
appunto da questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a
fare l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto
vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una parte, la natura
disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬ lumina la via dello spirito si
spengono; e dall’altra, questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde
dentro di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano e
vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di una affermazione, in
cui lo spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie forze e nella
propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al
primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica,
chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di
libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello
spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di attributi
contrari a quelli con cui vien pensata l’altra. E per ammettere questa,
bisogna ammettere prima quella ; senza la quale mancherebbe lo stesso
pensiero, a cui si chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice
libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero,
con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride alle menti
innamorate; il mondo della verità, delle cose belle e buone, a cui il
nostro cuore tende con irresistibile slancio ? E come spiegar l’ali, onde
noi vorremmo in- nalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano
sul muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe
da tutte le parti, dalla nascita alla morte ? Ecco l’esperienza del
Leopardi, ecco la sua lìlosofìa, che è molto ]ùù complessa del
semjjlicismo materialistico; ed essa è il reale contenuto della poesia
leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho
detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non si
rassegna alla pura affermazione materialistica, perché la ricca e
sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la negazione del
materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni poeta crede nel
suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più
luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri
che questo è uno dei caratteri principali dell’arte : che laddove l’uomo
pratico, lo scienziato, l’uomo religioso, lo stesso filosofo può sentirsi
legato a una realtà che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca
scientifica, alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in
sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arren¬ dersi e
subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia
dalla realtà preesistente, celebra la sua assoluta libertà, arbitro della
nuova realtà che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo
naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria: sì che il
suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a orizzonti infiniti, e
gli fa sentire il gusto deH’cterno e del divino. La poesia del Leopardi
ribocca e freme di tre¬ pidante tenerezza per le vaghe immagini figlie
dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono e
poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla corrente di quella disumana
realtà, che ignora il dolore che essa cagiona ai cuori teneri e gentili.
E insieme con le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una
volta egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non ancora
giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non ancora spinti dalla
malsana riflessione alla disperazione (ji quella mezza filosofia, che è
il materialismo: le beate lar\e, che allietano e confortano la vita agli
uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e
della gioventù quando non ancora si sono appressate le labbra all’amaro
calice della vita; e nelle prime ore del mattino, (juando incomincia il
giorno e Tuomo non ha riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con
1’ immaginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica. Le beate
larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte, cioè, le idee che
formano il pregio della vita, e che quella filosofia materialistica non
potrà giustificare come dotate di un legittimo fondamento, e pur non
potrà sradicare dallo spirito umano. Perche illusione la
virtù ? Perché illusione ogni idea onde ebbe pregio il mondo ? Perché la
vita che noi cono¬ sciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione.
Ricordate il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere
? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante cose belle; ma il
passeggere è scettico; «quella vita eh’ è una cosa bella non è la vita
che si conosce, ma (jueUa che non si conosce ; non la vita passata, ma la
vita futura ». La quale però un giorno sarà passata, e allora si
conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata; brutta,
come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo che vi finge lo spirito;
il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male
e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore;
lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non è il mondo
reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga, e diventi passato. La
realtà realizzata, quale noi possiamo averla innanzi a noi, ed
effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra che la
virtù è un nome vano. e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più
cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo conchiuda o per
condannare come semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che
la vita non si può governare se non in rapporto al reale all’esistente,
al mondo qual è (che è poi il passato); o per risolversi animosamente a
dir no a questo mondo reale (che è il passato senza futuro) e a
governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di
es¬ sere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore di
una vita superiore a quella puramente naturale. E Leo¬ pardi dice questo
no con tutta la forza del suo animo, con tutto r impeto della sua
possente poesia. Egli è tutto proteso verso il futuro, verso l’ideale, e
torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che incatena
l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di morte. Egli, di cedere
inesperto, disprezza il brutto poter che ascoso a comun danno impera e V
infinita vanità del tutto. Per lui Nobil natura è quella
Ch’a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun
fato. E quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire
: Erta la fronte, armato, E renitente al fato.
I.a man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente
Non ricolmar di lode. Non benedir.... Solo aspettar
sereno Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto Nel tuo
virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima
umana pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn
uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice. Infelice perché
grande; perché sentire la infehcità è solo jelle anime grandi, che con la
loro gagharda natura si jnettono al di sopra del mondo, che le fa
soffrire, e regnano sovrane in quella superiore realtà che è propria
dello spirito. Leopardi sa che la grandezza del suo dolore si commisura
alla grandezza del suo pensiero che lo sente e analizza e ne fa materia
al suo altissimo canto; e che un’anima volgare e torpida non saprebbe
provare tutto il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e
irride. Leopardi sa che la coscienza dell’umana miseria è già segno
di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi di¬ letti il vero: che
l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro gusto che piace. E poi quando
l’anima, disillusa e stanca della vita che non mantiene mai le sue
promesse, si ri¬ duca infatti all’estremo della infelicità, che non è la
di¬ sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore né
piacere, ma il sentimento della nullità, questo terri¬ bile privilegio
degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha neppur sospettato
che l’uomo vi potesse cadere; quella noia che, a simiglianza
dell’aria «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti,
e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non
gli rimpiazzino », « corre sempre e immedia¬ tamente a riempire tutti i
vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’
; ebbene, anche allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo
Leopardi, « la noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti
umani. Il non potere essere soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma
molto più piacevole della noia. La natura ha provveduto, ha medicato
tutti i nostri mali possibili, anche i più crudeli ed estremi, anche la
morte, a tutti ha misto del bene, a tutti.... fuorché alla noia»
(Zibald.). Zibald., — Giuntile, Manzoni e Leopardi.
alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare
l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬ mero e la mole maravigliosa
dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo
proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo
infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più
grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬ mento e vóto, e pero noia,
pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della
natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬ sun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su
tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole sterminata di
quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬
gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la hbertà, quindi
la possibilità di crearsi una vita superiore degna delle più nobili
aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel Leopardi, poca scienza
pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce
la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che
la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è
pur quella natura che mette nel¬ l’animo nostro le illusioni; e se non
sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo
non più contento delle condizioni naturali della vita che egli
dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà,
con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci consolazioni
e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura che governa
Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi oscuri e
favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età di
ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬ ginare la speranza
nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore torna
sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità
piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,
quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬ tato il calice
amaro, torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del
materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11
savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è
alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto
travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero,
dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici
della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il
filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio
piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre
nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso un certo senso
dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al suicida
ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della sua
morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita, il
filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e
soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo :
e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci
conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti,
cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò
Sanctis paragonando Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario
tra n filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più
mette in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto
più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce
ne accende vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura
del Leopardi non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi
saprà leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso
per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più
sani e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬
nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni
fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la
stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il
suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel Leopardi, come s’ è veduto, ciò che dà verità più che rassomiglianza
di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte
Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle Altre il
mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una bellissima
fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore: E
sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni saggio
core. Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica,
come merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo
leopardiano, Treviso, bongo e Zoppelli,
Il Poeta sente che Quando noveUamente Nasce nel cor
profondo Un amoroso affetto. Languido e stanco insiem con
esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so:
ma tale D’amor vero e possente è il primo effetto. Il
Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi riesce. Ma
ben sente che quando si ama, non ha più valore la vita naturale dell’
inditdduo chiuso nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita
natura che fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per
l’amore scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che
bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi r involucro della
sua individuahtà naturale, centro di ogni egoismo, per attingere la vera
vita. Perciò la morte opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la
morte è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli onde
ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo
agli altri esseri e forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare
è redimersi, en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.
Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia
del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste
letture, che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più
chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane
(Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G.
L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette
morali come una raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso,
sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non
sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria
precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a
Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate
la prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del
Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e di quello di
Tristano e di un Amico; tornano ora alla luce ricorrette
notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Intanto, non tutte le Operette furono
pub¬ blicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse, come «
primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’
Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo
Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle
che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori
composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane
della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed.
Mestica, li, fa sicura testimonianza con
le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al
13 dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo
in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o
ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi.
Giacché con qual fonda¬ mento si toglierebbe l’una o l’altra delle
Operette a docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti
atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di
Simonide (apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e
l’epistola Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono
caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già
osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che
sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati
senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un Ecco le singole date, già
in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra,
e da me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva
tra le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere
umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte;
Proposta di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio;
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno e di
Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della
Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un Metafisico;
Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del suo
Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini,
ovvero della gloria; Dialogo di Ruysck e
delle sue Mummie; Detti me¬ morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e
di Gutierrez); Elogio degli
Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris,
Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle
carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo,
sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le
mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo,
che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di
un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto.
Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari degli
antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa cosa del Saggio),
e quindi subito dopo: « Comento e ri¬ flessioni sopra diversi luoghi di
diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un capitolo del F.
Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è
delle ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono per¬
tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in qual modo
spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima l’autore
parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva neppur composti i
Detti me¬ morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi
a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ? Comunque, in altra
serie di appunti, relativi, come par probabile, a dialoghi tuttavia da
scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra
gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia
pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e mondo) Il sole
e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo della Natura e
di un’Anima, ma ac¬ canto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che
l’autore abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza con¬
durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve risalire. E
secondo lo stesso docu¬ mento, contemporanei sono i disegni primitivi di
altre [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo,
riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬
pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. io8
quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché, oltre il
Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico, qui son pure facilmente
ravvisabili in Egesia pisitanato la prima idea del Dialogo di Plotino e
di Porfirio > ; e nel Salto di Leucade quella del Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore
quella del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento
certamente dimostra che del Plotino e del Copernico, scritti entrambi,
come s’ è veduto, nel '27, non solo il concetto, ma anche la forma in cui
il concetto si ])re- sentò alla mente del Leopardi, non è posteriore
alle Operette. E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci
dai docu¬ menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate
del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti, riscontrati coi
Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬ ratura, ha dimostrato, in
modo incontestabile, che in questo scritto « liberamente il Leopardi raccolse
dal suo Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo
intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle proprie
opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del materiale
accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter conchiudere che
nell’ Ottonieri al Leopardi « venne fatto un centone, non un’operetta
come le altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un
paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap. Ili
dell’ Ottonieri si legge : > Egesia infatti è ricordato nel
Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri. Questo dialogo infatti originariamente recava
il titolo di Dia¬ logo di Filénore e di Misénore. Luiso, Sui
Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale. Dice che la negligenza e
l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o
malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a
cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo
passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia;
non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando
colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬
sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬ manità e simili;
e da quella abbia origine un numero assai mag¬ giore di cattive opere; e
che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli uomini che
si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno veramente
altro che incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii settembre
1820 il Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri,
scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha
l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di
esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai
filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so
bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon
colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza
infastidir nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in
quel giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa
molte volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui,
senza che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e
giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬ nare il
suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole; molte altre
volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene quello che facciamo,
ma non ci curiamo di considerarlo e lo fac¬ ciamo cosi alla buona;
considerandolo bene, noi non lo faremmo. Così la trascuranza prende tutto
l’aspetto e produce lo stessis¬ simo effetto della malvagità e crudeltà,
non ostante che ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla
volontà di produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non
abbia che fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di
bella letteratura, no Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna
a leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza.
Noi siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci
avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri
pregi veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o
qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta
profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬ moria, per
considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬ pre a mente:
eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro
queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬ pendiata a mo’ di
appunto, era già nello Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri
una grande e straordi¬ naria penetrazione per rilevare i nostri pregi,
veri o immaginari che sieno, e profondità di riflessione per
considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste
qualità rispetto a qualunque altra cosa. E il numero di
simili riscontri è tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui
non si trovi la prima prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà
dunque da dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma
defini¬ tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬
brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro anni prima ?
Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è
stato notato che la sostanza è già nei Pensieri [ b Caratteristico
questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come
città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga
all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e * V. tra gli altri
B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902- 04, II, 42; e Losacco,
in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si
aduna nelle città grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto
basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa
fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e
l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e
di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non
tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte,
quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo.... E tanto egli è
lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi
è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima.
Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo
Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e
mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano
poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito
di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una
menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o
fa¬ vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per
questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava
venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata
che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e
all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente
più che la loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae
origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal
Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se
ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore
assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà infinitamente
minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel tal pregio
come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli
studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro
stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno
del loro grado Né soltanto la cronologia diventa un problema
di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento
del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Of
erette. Che se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la
superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri
non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si
badi, d’altra parte, a non prendere né anche questa forma in astratto,
quasi la forma speciale del tale passo delle Operette, il quale abbia un
antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur
così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente diversa). Anche
questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta in concreto da
ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione
con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di
quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò
componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che
abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si
pre¬ scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬
tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui
somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera risulti. Che
è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici
che se ne sono oc¬ cupati, ora considerando e giudicando le singole operette
ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in una serie di
frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti, in verso e in
prosa, dello stesso L. (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente
se stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del secolo
XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’origina¬ lità dello scrittore
svanirebbe). Il maggior critico che il L. abbia avuto, il De Sanctis; se
ha sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti,
fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’ inseparabilità del
contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della necessità di
cercare il valore e la vita di quest’opera nell’accento personale, nell’
impronta propria, onde ogni vero artista trasfigura la sua materia; non
s’è guardato tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la
cui serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto, nell
unità, dove soltanto può essere l’anima e l’origina¬ lità dello
scrittore. E ha creduto di poter cercare, per così dire, un Leopardi in
ciascuna delle operette, presa a sé, invece di cercare il Leopardi di
tutte le operette, che sono un’opera sola. In primo luogo,
sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di almanacchi e del
Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a suggellare il pensiero
delle Ope¬ rette, tutte le altre pullularono dall’animo del
Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di
sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e il
Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso, il
Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi
pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah
infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano
accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da
potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere
aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il
suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.
Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere:
solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma
avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e
tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite
abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle
Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente
posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto
dall’autore per pubbli¬ care le Operette. Alle quali, nelle edizioni
parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore
non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬ rialismo
che vi è professato, c che le Censure non avreb¬ bero lasciato
passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬ rette
[Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano) che
vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è certo che
queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro felice,
furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E
quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le
singole operette potessero venire in luce alla spic¬ ciolata. Nel
novembre del ’25 sperò poterle pubblicare Epistolario, Firenze, Le
Monnier, * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore
amico vo¬ leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬
segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al quale
consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto
desiderio di vedere stampata la sua opera, che scrive impaziente a Papadopoli
: « I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il
manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò
rendere, e lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il
Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli,
mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo
estratto alcuni dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia,
ora pubbhcato, eh’ io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno
del mio fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato
del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti.
Sento che queste Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà,
e ne godo assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio
fatte per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un
giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un
saggio. Del quale il 5 lugho il Leopardi scri¬ veva all’amico Puccinotti:
«I miei Dialoghi stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che
un saggio, e però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La
scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per
primo » 3 ; affermando così che tra i dialoghi c’era un ordine, e
ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo pertanto la stampa
dell’opera intera al¬ l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella
veduto [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47. »
Nell' Epist. del L. 3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’
An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬ trato, ed ha avuto corso in cotesti
Stati ? Vi ha ella ve¬ duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le
parlai già. in Milano di questo mio mano¬ scritto. Ne abbiamo
pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto
passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?...
Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve
ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto
consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io 1’
ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di
quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha
ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ». 11 fascicolo
dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di
poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe
provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il
Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto
lusingato e superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette
mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma
del ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di
mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne
l’editore.... La prego a darmi una ri¬ sposta concreta in questo
proposito tosto ch’ella potrà » i. Lo Stella, per saggiare le
disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo
Ri¬ coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali »,
scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo a parte che
mi farà strada a pubblicar tutte queste, da 0 . c., Lei chiamate
Operette, che lo saranno per la mole, non pel pregio certamente » «.
Perciò il 7 il L. affret- tavasi a mandargli la nota dei molti errori
incorsi nella stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo
Stella assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si
disponeva a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una
cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i manoscritti che
non passano. Mi contenterei assai più di perder la testa che questo
manoscritto, e però la sup¬ plico a non avventurarlo formalmente alla
Censura senza una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o
che sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto
partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella j)oté informare l’autore d’averlo ricevuto.
poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo
leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi allettano....
altrettanto temo che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la Censura.
Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per
poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di tutte
in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ? La
proposta ferì al vivo l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere, il
31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro
mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente
la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto
possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre
inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite,
pubbli¬ cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume
l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,
conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come
venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei
certamente mirò nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole
parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come
tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre
dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli
avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure
scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era
quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio
era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella
edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià
non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che,
nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,
nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che il Leopardi
ebbe da ultimo ragione di preferire, non sol¬ tanto il Timandro venne
spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il
Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con un
solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno
frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui
il Leopardi pose mano appena finito quello della Natura e di tm
Islandese. È ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe
mutato; ed è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se
non negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran legati,
agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per
lo più esser nati già con questi rap¬ porti, l’un dopo l’altro, secondo
che il pensiero germoghava via via nella sua spontaneità organica; ma
dove Cfr. sopra, p. io6, n. i. una ripresa di idee già non
sufficientemente svolte, e il risorgere di un’ ispirazione che era parsa
esaurita, traeva l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che
l’ordine cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e alla
coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena levata la mano dall’
Islandese, nasce come un anello che salda questo dialogo a quello del
Fisico col Metafisico; e se l’autore scrive il Timandro, bisogna
pensare che, saldato così l’ Islandese agli ante¬ cedenti dell’opera,
egli dovè per un momento credere esaurito il suo tema; credere perciò di
potersi arrestare a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese:
e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.
Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo
lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino
alla fine dell’anno, quando fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ;
altre sei operette in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un
gruppo distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Ti¬
mandro, del motivo ispiratore delle operette. III. Ma
tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’or¬ ganismo e unità
dell’opera leopardiana, se questa unità non si trova effettivamente nel
suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa
bene in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche apparire
inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad argomentare che l’unità ci
doveva essere. Ma è infine non meno vero che non si trova quel che non si
cerca; e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute general¬
mente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle sentenze di
Bruto minore e di Teofrasto, come tutti fanno), o riducibile (come pure
han creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non
si è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti
questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne
essenziale. Intanto, lo spostamento osservato del Timandro
epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scor¬ gere un
gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli scritti, così come
vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro,
destinato ad epi¬ logo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo
distacco formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia
la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di
tutto il destino del genere umano a parte a parte ritratto poscia nelle
varie prose, si può a ragione considerare come un prologo; le diciotto
operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono
naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i
quali passa l’animo del Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è
veduto, da una ripresa dell’ ispirazione originaria, si spiega il
secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,
(]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e di
un Islandese. Precede, e inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto
dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in
cui all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬
tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni
moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo.
Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo
insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si
osservino gl’ intimi rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e
connesse, in tale ordina¬ mento, le diverse operette. Ascoltiamo
dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di ciascuna
operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti a ciascun
gruppo non for¬ niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal
primo gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche
Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi secoli fa, tanto
che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. j(a la Terra da allora è
diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca sulla mano, scopre
un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli
« bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e
metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al
battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla »; e quanto
al ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante,
« che il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile; e io
per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di
giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che
luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre ». È
lo stesso grido, come si vede, de La sera del dì di festa'.
Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’ è il
suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido De’ nostri avi
famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano ? Tutto è pace e silenzio, e
tutto posa li mondo, e più di lor non si ragiona. Perché
questo silenzio e questa morte ? Ecco che la Moda, sorella germana della
Morte, vien a dirlo essa questo perché alla Morte stessa: poiché i soh
frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i «
lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono soltanto «l’itale
menti»; i costumi «di questo secol morto, al quale incombe tanta nebbia
di tedio », e pgj. cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e
ri¬ scoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t La
Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta ma il più in questi
ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le
fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e
introdottone o recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo
in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel
mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto
del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo
si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte ».
Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto il vigore
degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬ chine, e H secol morto può dirsi
«l’età delle macchine». L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo
bizzarro bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che
restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta costituisce il
pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu una volta:
ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella
donna, che fu r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata
come la « sua donna » da esso il Leopardi : Forse tu
l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome. Or leve
intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara Ch’a
noi t’asconde, agli avvenir prepara ? Viva mirarti ornai
Nulla spene m’avanza 3 . ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv.
3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna. fbbene, una
macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si
rimuovano dai negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco
diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa I
la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh
ideali che già fecero virtuoso e magna¬ nimo l’uomo antico, finito con
Bruto minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata
alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei
campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può
credere, secondo Sallustio, d’infiam¬ mare i soci alla battaglia,
parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria,
della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno
lettore d’uma¬ nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel
testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a
norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si trova più se non
nel vocabolario. La libertà ? Guai a proferir questo nome. Di essa, dice
il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto
». La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.
Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa «che gh uomini
per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la hbertà,
la gloria, l’onore ». Sicché il testo è da restituire, per travestirlo
alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis,
memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,
epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris portare.
Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno ! Quella \dta,
che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita [Ancona, nel Fanfulla
della domenica del 29 novembre *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle
forme nella poesia di G. L., Bologna, Zanichelli, 1898, pp.
207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un
pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra uno spiritello,
uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito dell’aria, un Folletto, può
dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti morti e la razza è perduta ».
Mancati tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando parte
mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori pochi di propria mano,
parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri,
parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine, studiando
tutte le vie di far contro la propria natura » ; studiandole tutte
con queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel-
l’antico error », di cui « grido antico ragiona », onde fu negletta la
mano dell’altrice natura, come il Leopardi aveva appreso dal
Rousseau. Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi
regni Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora
durano e procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il mondo
tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece crede fosse
fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità
umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti
spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono
stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di nascere e
di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove allo sterminio
di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu certo, fu
{né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido
Pasce l’avida plebe) amica un tempo » Inno ai Patriarchi.
Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia,
ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse
intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la
tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il
pastorei; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota
d'affanno Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento
della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.
Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio
della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la
sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo
sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con
piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo
riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo.
La felicità è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è
la vita col suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un
diletto infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che
ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché
nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro
desiderio naturale. Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e
questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che
sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra
vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è
meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima
conclu- * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d'
intendere il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura
italiana, sione di quella premessa, che la felicità o valore della
vita consista nel diletto; il quale non può essere altro che limitato, e
quindi mai mero diletto, senza mistura di amarezza. Tale il
concetto del primo gruppo delle Operette, che pone l’animo del poeta in
faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna
d'esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita
dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto
ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco il problema
e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La
natura, che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e
l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo
avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che egli
penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno,
che pensa e vede tutti gli uo¬ mini morti e la natura viva, muta,
indifferente. Pro¬ blema affrontato nel Dialogo della Natura e di
un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,
dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e
chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ».
Giacché, come poi le spiegherà, « nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire
che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza
delle I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitas¬ sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre
co.se, ben¬ ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono
come prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e
mantenuto per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli,
Bologna). jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità
pro- ria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo «
ha maggior copia di vita, e maggior sentimento, che niun altro animale;
per essere di tutti i viventi il niù perfetto »; e però è il più
infelice. E il meglio è per l’anima spogliarsi della propria umanità, o
almeno delle (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al
più stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia jjjai
prodotto in alcun tempo. Di guisa che quella morte dell’umanità,
che nei dia¬ loghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri
nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la cui storia non può
avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice
il poeta col suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si
rifugia e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto
ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la Terra, nel dialogo
che da esse s’intitola, ne domanda, non solo la convince che l’immaginazione
ariostesca è semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo
dimostra che il linguaggio umano e relativo allo stato degli
uomini, che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e che
insomma non ha base in natura quello che gli uomini considerano pregio
della loro ^^ta, e che, non trovandolo fondato in natura, riconoscono
quindi mera illusione. Ma il concetto più direttamente è trattato
nella Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo
stesso spirito satirico pessimista con cui
Leopardi guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché
Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere umano, che avrebbe
dovuto essere il più perfetto genere dell’universo, « la migliore opera
degl’ immortali », gli era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio
degli antro- pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio
della vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa
senza volerne sapere più oltre, quando a Londra vede gran moltitudine
affollarsi innanzi a una porta ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo
disteso su! pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel
petto e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, mede¬
simamente morti»: sciagurato padre, che per dispera- zione ha ucciso
prima i figliuoli e poi se stesso: (juan- tunque fosse ricchissimo, e
stimato, e non curante di amore, e favorito in corte: ma caduto in
disperazione «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto. Il
tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta andando in cerca di
quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo
gruppo. E i due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non essere bene
da se medesima, e non esser vero che ciascuno la desideri e l’ami
naturalmente: ma la desidera ed ama come « istrumento o subbietto » della
felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da
vicino, consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle
affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel puro essere, ma
nella sensazione dell’essere e nel far essere (come ben si può dire)
l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità,
il gran numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo
pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita degli uomini «
fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente
agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita
vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi
peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso Metafisico
(che ha cominciato negando che la felicità sia vivere), «la vita
debb’esser viva»: cioè la vera felicita, in fondo, è sì nella vita ; ma
la vita (il Leopardi così sente) non è vita; è la morte; quella morte di
cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che
non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo
che non conosce altra realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e
non può sperare perciò di far nulla che abbia valore. La morte è
dolore perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno; la
morte al posto della vita. E questo tedio è la malattia, il segreto
tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal
’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso al Leopardi come
suo spirito gemello, al par di lui « mi¬ serando esemplo di sciagura »
: O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa Tua niente allora,
il pianto A te, non altro, preparava il cielo. Oh misero
Torquato ! il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre il
gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda. Cinta l’odio e
l’immondo Livor privato e de’ tiranni. .Amore, Amor, di
nostra vita ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti
parve il nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Tasso medesimo, che
non trova nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel
vago inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno
alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio
', e non si lagna già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e
lo uccide. La quale gli pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie
tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani
contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro
non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’
intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però. come nel mondo materiale, secondo i
Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà
vóto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di
dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona del povero
prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile natura — si
viene via via votando cosi del piacere come del dolore, e riempiendo
tutta della tristezza soffocante del tedio. L’uomo
prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui
si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero
Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la
vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha innanzi, prima
di morire, in effigie di donna, di forme smisurate, seduta in terra, col
busto ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva,
di volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con
10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero errante, tu
sei « carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir
così, del tuo sangue e delle tue viscere », e « per niuna cagione, non
lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto o vi be¬
nedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬ l’universo è un
circolo perpetuo di produzione e distru¬ zione. — Ma, riprende 1’
Islandese, poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà
distrutto, « dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a
chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con
danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la
risposta 1’ Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri
dall’ inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel
giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo,
è la Natura che al principio ha detto aU’anima: — Sii grande, e infelice.
La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa
Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto
nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire)
non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la
vita è tedio. V. E qui potè parere al Leopardi, come
osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le
facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso
libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò
che la sua dimostrazione non era veramente perfetta. Il dolce canto non
era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare
Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre
acerbo e ingiusto al grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia
uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo
un’anima con queste parole: — Vi\d e sii grande ed infelice. — Io per me
credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se
non in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi
uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della
infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni
per cui Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene
sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel
volume La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova
Italia, Lanciano, Carabba, -
Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il
De Sanctis doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e
nei lini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era
riem¬ piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬
maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di
diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo
stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e
fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la
forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e
fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e
appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare
Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono
stati mo¬ menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma
né il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al
Leopardi. È suo questo pensiero vero e pro¬ fondo ; « L’uomo si disannoia
per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria ». E suo
è ciuesto altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere
di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬ lità delle
cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire 1
inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più
terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande, che si trovi anche
in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e sco¬
raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere disgrazie....
servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e non trattando
né rappresentando altro che la morte, gh rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli,
Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo ora bene che, spente che sieno le
passioni, non resta negli studi aura
Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il razio¬ cinio aveva
dimostrata morta, era pur sentire il bisogno (ji riprendere la
dimostrazione. Il Leopardi non affronta nelle Operette, né in altro dei
suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge dalla
sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà,
non superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto
l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬ zione che ne
dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la mano di Bruto contro se
stesso, e fa gittare dalla mi¬ sera Saffo « il velo indegno », per
rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del
destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha detto
all’Anima che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno
incontro i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla fama,
dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro
grandezza, e dalla durabilità della ricor¬ danza che essi lasciano di sé
ai loro posteri ». Ebbene, questa gloria, che già non arride
all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure
agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui gli sembrava di
vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso
e disutile, e morto senza fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva
bene d’esser « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa
gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei
grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro
infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli
altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli
alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la
soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per
Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo
comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo
genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e
soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e
ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la
propria opera. Leopardi, nudrito la mente dei concetti classici e delle
idee mate¬ rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa
gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte
le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in fatto altri
verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in faccia al
problema del valore tuttavia superstite della grandezza spirituale,
veduto in questa forma; l’anima grande e infelice è destinata essa
alla gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che ei
rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed ecco il Farmi, che tante
difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente
nell’età moderna e nel mondo presente, da farla apparire mèta
inattingibile. Talché vien meno anche questa aspettazione, e al
grande non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga,
con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬ tura stessa lo fece
nascere alle lettere e alle dottrine. Dileguata quest’ultima
consolazione, la sola che si possa chiedere alla stessa eccellenza
dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si
vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual porto rimane
allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ? Dovecanterà: O
speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età ! sempre,
parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per variar
d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son
la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un
frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche
farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo,
eterna, a cui si volve Ogni creata cosa. In te, morte, si
posa Nostra ignuda natura. Lieta no, ma
sicura Dall'antico dolor. La risposta viene dai morti, che si
sveghano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e
descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale vivono
immortah; senza speme, ma non in desio, come le anime del limbo
dantesco: Profonda notte Nella confusa mente Il pensier
grave oscura; Alla speme, al desio, l’arido spirto Lena
mancar si sente: Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque,
anche quella: ma senza senti¬ mento. Vero porto, in cui il povero
Islandese finalmente avrà pace, e in cui si può giungere in un languore
di sensi senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,
quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile dal diletto che è
cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono
addormentando ». Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la morte ci
abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot- tonieri, il
socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬ teneva una buona parte
del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con
alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬
strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. non per farne
trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in
iscritto e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti ai mutevoli
bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e senza illusioni
la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana querimonia: come
aveva detto Spinoza: non ridere, non liigere, neque detestari, sed
intelligere. Questo r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile
e morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né della fortuna
sua »>. E con la sua pacata magnanimità e la sua bonaria ironia
rinnoverà l’immagine di Socrate anche in questa modesta, anzi umile
coscienza del sa¬ pere, e quindi, per lui, del potere umano. L’
Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e
persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia
? Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte
vegliata sull’oceano .stermi¬ nato e inesplorato col fido Gutierrez,
confidando all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, «
ha posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che
altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si. debba credere che ottenessero questo
effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di
tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione
eroica. O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo,
e far guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte
non ce ne liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere
il Dialogo a Colombo e Gutierrez
Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa
coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé
l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al bellissimo
Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al
guizzo d’una immagine Ucta e ridente: di queste creature amiche delle
campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e
lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie
cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e
rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col
canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che
non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che
ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali
il canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬ creare
gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto ;
donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e pervenisse a
maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che
il poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi, che è già
appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo,
essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia
della loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens.
E un favoloso uccello, il Gallo
silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi
piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico
vi¬ brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita,
attenuando bensì il tono della lirica precedente, c smorzando l'entusiasmo,
al quale mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e
additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la
morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente, ma
pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e frizzante
aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già nota al
Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta
nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;
« Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le
immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal
mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non
destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il
Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa
universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol
essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se
ne La Vita solitaria
producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio
senza materia alcuna speciale e de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro- vavasi
occupato dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la
speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco,
dunque, la spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì
nella disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita
dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e
alla vita umana che muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia
e alla morte: e se ter¬ mina annunziando che tempo verrà, che la stessa
natura sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima
empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬ ranza mattutina
e giovanile non è distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo
avvertì più tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non
verrà mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬
tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette
dunque del terzo gruppo ricostruiscono, nella misura e nel modo che si
può secondo il Leopardi, quello che le prime dodici hanno abbattuto.
Ricostrui¬ scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche
la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai
precedenti; e fu ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio,
e attratto nell’orbita del se¬ condo gruppo, poiché tra la Storia del
genere umano e il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo
ri¬ fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al
diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il
Dialogo della Natura e di un'Anima e il secondo II Parini. E il
Frammento, lì sulla fine del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico,
fu come l’interpretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬
gatosi su se medesimo, diede della propria intuizione filosofica:
concezione, sullo stile delle teorie cosmolo¬ giche greche più antiche,
di un universo go\'ernato da pure leggi meccaniche, com’era quello che
giaceva in fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi; onde si
tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura
che eternamente passa, e che negli ul¬ timi detti del Gallo silvestre è
rimasta «arcano mirabile e spaventoso ». Si noti che il
Sallustio fu conservato tra le venti ope¬ rette primitive anche
nell’edizione di Firenze del '34. quantunque in questa fossero aggiunti i
due nuovi dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti
che in questa edizione invece non potè entrare il Frammento di
Stratone molto probabilmente per le difficoltà già ac¬ cennate, derivanti
dalla materia di esso, poiché è il solo scritto crudamente
materialistico, che sia tra le Operette. 11 che, se si pensa pure al
fatto che il Frammento fu scritto verso il maggio del '25 • (quando il
Leopardi aveva tut¬ tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e
a\ rebbe già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa
aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico del hbro), dimostra
all’evidenza che i dialoghi fiorentini della stampa del ’34, che sappiamo
scritti a Firenze due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si
viene ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come
avverrà del Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare
il Sallustio, e sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse »,
risponde il Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G.
L., perché gli parve troppo scolastico e di materia non [
abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso conte¬ nuti siano
conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso
valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e
sull’attrattiva dello strano e del fantastico prevale nel lettore un
senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e
forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar
degli anni, il Leopardi non credè più che tutta la grandezza antica
perisse con Bruto e per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è
accostato al L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si
sarà I pentito delle parole crudissime che usa parlando della I
libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli f lamenta
la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il
Sallustio, in questo cinico pessimismo, contraddice al motivo
fondamentale delle Operette: logico nell’ordine di pensieri da cui sorse,
ma ripugnante a quei sentimenti più profondi, onde la personahtà del
poeta abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva a un
suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali non sono qui un
sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima che si
riversa ed esprime in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la
sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo
che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena I operette
morali di L., ’ Le prose morali di L.Vedi la sua recensione
ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera
d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi
un motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men
significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando
VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L.
ancora inedite.... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il
motivo della musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette
insieme unite, mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo
sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il
quale allora stava potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo
rrio tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^ e
nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor nice la trilogia
delle operette : ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro: due
operette, che sono affatto estranee a qucUo spirito, che si può dir
proprio di tutte le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove
ji^re qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e
d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le parole stesse
con cui il Leopardi ritrae se medesimo in una lettera al Giordani (del tempo in cui forse raggiunse nel
Frammento di Stratone l’estremo termine di questo suo stato d’animo) : «
Quanto al ge¬ nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel
che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso
e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola.
Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato.
Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la
miseria degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente,
speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo ».
Lo stesso animo, non altrettanto feli¬ cemente, ma con maggior abbandono,
esprimerà tut¬ tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben
mille volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar
non perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del
cor diedero i fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra
gente a’ di del Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla
camera del suo amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette
del L. sono musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più
d’una osservazione notabile.
SuU’amicizia del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi
leopardiani, Firenze, Le Mounier,
(si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)] Della prima stagione i
dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso
immagini, che tanto Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi
fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito
e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e
solitario riso. Né degli augelli mattutini il canto Di
primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni bel tate o di natura o
d’arte. Fatta inanime e muta; ogni alto senso. Ogni
tenero affetto, ignoto o strano; Del mio solo conforto allor
mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo
della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini
investigar delle mortaU E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi
traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi
diletti il vero. Questo era stato il suo ideale nelle Operette]
speculare, scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e
inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel
caldo ancora dell’opera, poteva credere di aver raggiunto già questo
stato d’animo; l’anno dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior
consapevolezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non è
ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la gioventù del cuore,
né in lui, né in altri, ma non è ancora del tutto tramontata. Così nelle
Operette il freddo inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di
affettuoso e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo sito; ma
non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è
inanime e muta, né ogni alto senso ogni tenero affetto ignoto e strano. E
questo sente liené e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di
Elean- dro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda fa
alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace' ed è insomma
un ottimista, il pessimista, che sente invece per l’uomo un’alta pietà,
il futuro cantore della Ginestra protesta di non essere un Timone (per
quanto non abbia sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono
nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere
in anima viva Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età
naturalmente fredda, né forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni
!) ; « non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me
stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è pos¬ sibile ». Dove
ognun vede che realmente certo invinciliile pudore arresta Eleandro
innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si ripigha subito infatti:
« Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io,
che esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per poca
notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio
». L’amore degli altri si ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e
s’appella all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro
che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’
miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo
deU’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, [Ed
ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬ tolare,
come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era
davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero
Filénore poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni,
e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato; quelle
immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vdta;
le illusioni naturali dell’animo ; e in line gli errori antichi, diversi
assai dagh errori bar¬ bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero
dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia
». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste
illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi del
Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese,
— come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza;
ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta.
11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella
natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola
un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a
quell’altra na¬ tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire
fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra
della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non
semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così
nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle
Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di cotesta miseria,
rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità, spunta egualmente
una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei
mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta,
commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e
massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’
intelletto, con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i
quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più
IO. — (‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. che alcun
altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia
appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità,
propose agjj immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo
a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto
travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano
essere, quanto a se, indegni della sciagura universale». Tacciono tutti
gli altri Dei¬ ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste,
«questo massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i
mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della Verità ». Di
rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è
generalmente indegna, e perché gli Dei molestissimamente sopportano la
sua lontananza. EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la
sua grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità del
vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore. « Quando viene in sulla
terra, sceglie i cuori più teneri e più gentih delle persone più generose
e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì
pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e
di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova
nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.
Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro
a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue;
benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa:
ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi;
perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve
intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo
nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo
ai migliori tempi. Ed ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur
freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda
(iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità (quella mezza
verità) contro le sacre illusioni, che né egli può respingere, né altri
egli ha consigliato mai a respingere. « Dove egli si posa, dintorno a
quello si ag¬ girano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve,
già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce
per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere
vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e
nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura
dei geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica
non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale
mette in cuore il bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a
Bruto. Infine, quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e
ringa¬ gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo
Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi
esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo
voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della
puerizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e
rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e
le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti
c incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì
lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode
i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe:
tanto è da natura magnanimo e mansueto ». Qui non c’ è
satira, né riso, né fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa
del Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di
Elean- dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta
la infehcità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel gran
mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora
in una perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo
e della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi
divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose
nobili e alte che fan grande l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto
verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana,
questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla
Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la
nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers
entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour
le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore
plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et
l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la
grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il
Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il
concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬
biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere
e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la
pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è
minima parte degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in
questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente
sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e
perde quasi se stesso nel pen¬ siero della immensità delle cose, e si
trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora
con que¬ sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova
della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua
mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg).
è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori
alla natura di lui, e può abbracciare e con¬ tener col pensiero questa
immensità medesima della esistenza e delle cose. Questa coscienza
dell’umana grandezza e sovranità sulla trista natura il Leopardi non
smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste
Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme
e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio a questo punto
centrale, da cui s’irradia la luce che tutte le investe e compenetra.
Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è negazione fredda, senza
l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato
da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo parmi
il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. VII.
Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva ispirazione diede
il Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime
Operette già formanti un orga¬ nismo, r ispirazione non era punto mutata.
Giacché il Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso
autore, la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando un’
idea che contro i Timandri medievali attardati aveano già nel Cinque e
Seicento svolta Bruno nella Cena delle ceneri e Galileo nei Massimi
sistemi] donde la conclu¬ sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro
dialogo (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di
tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragio¬ nevole uccidersi.
Ed egh vince a furia di argomentare (movendo da premesse, che son quel
che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino.
Ma Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda
più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^ 1 accomodar
l’animo alla vita : certamente quello è u ^ atto fiero e inumano. E non
dee piacer più, né vuoP elegger piuttosto di essere secondo ragione un
mostr^' che secondo natura uomo. Perché contro natura e contro umanità il
suicidio ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam’orecchio,
dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh ragione. E dico a quella
natura primitiva, a quella madre nostra e deU’universo; la quale se bene
non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è
stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coir
ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬ rata, colle
speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e
particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con
occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque
sia grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo- tenza
della natura; pur questa non è ridotta a nulla né siamo noi mutati e
innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il
che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà
essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente
errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e
non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti,
dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto
questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria
mano degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio
della vita, non disperazione, non senso della nulhtà delle cose,
della vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio del
mondo e di se medesimo, che possa durare assai: benché queste
disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a notare; rilassi il
gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose
umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di
qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di
dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo
senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è evidente che
non la filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’ Ercole e di Atlante
fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel
Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬
pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla
natura e da questo « senso dell’animo ». Senso dell'animo, che è
sempre amore per il Leopardi. Giacché non la sola natura ci riattacca alla
vita, sì anche un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare:
« E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi avere alcuna
considerazione degh amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei
frateUi, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che,
morendo, bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor
nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di
quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta,
e per l’atrocità del caso ? ». E dice la parola, che si va cercando
attraverso tutte le Operette, ma di cui può dirsi quello stesso che
Tacito dell’ imma- Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato
l’importanza che questo «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito
leopardiano, come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il
prof. Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia,
1894-99), passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy. 1gine di Bruto
mancante ai funerali della sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non
visebatiir. « E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né
pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si
gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il
genere umano: tanto che in questa azione del privarsi della vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men
liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo. Dunque quella grandezza
non è infelicità; perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si
ucciderebbe se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al
calcolo dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di
beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più sé dagli altri,
né agli altri antepone più se stesso. E questa è la A’irtù, la
magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il dolore
incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo amore che ci
stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di
uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al suo Porfirio:
«Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella
parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì
bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci
incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel
miglior modo questa fatica della vita». Questo amore, che ci regge e
riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce l’idea di questo
mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte
verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo momento gli amici e
i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo
sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».
Vili. Amore è la prima e l’ultima parola delle
Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini:
il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del
Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso annunzia
l’anno nuovo, il tempo che ri¬ comincia, e risveglia le speranze e
promette. Ma il pas¬ seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda
riflessione a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce
a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che
si conosce, ma quella che non si co¬ nosce ; non la vita passata, ma la
futura ». La vita che si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e
a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla:
vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che sarà
egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta,
se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? Il
Leo¬ pardi non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene
dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo
silvestre, già si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è
evidente, il futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché
fu¬ turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce
ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi
a cui non possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita
resta sempre con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una
mi¬ seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro
cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una
beatitudine divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova della
sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo;
non però luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma
vita del cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo manto, o divo
cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà
parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno.
A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille
invano Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo
guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra
che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol
vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di
sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E
cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «
notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido
disperato ; — Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva.
Leopardi scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più
l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬ tilezza fino
alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore ; 1
Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla, Dolce a
veder, non quale La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo
Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via
mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la morte
sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire, che si
sente Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi la vita diviene un
deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede
ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier
figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al
fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di
bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e
mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa
preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei
terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al
tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai.
• Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati
preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o
dell’età reina. Non già che amore e morte abbian potere di
cancellare la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi
abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le
penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. La man che flagellando si colora
Nel suo sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. La
morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma già
Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto nel
vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa
aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di
Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia
del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento
che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio
caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a
me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo;
e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario
». Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più
vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né
piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri
uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra
cosa.... Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora,
il fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho
invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬ biato con qualcuno di loro.
Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli
né potenti. In¬ vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della
morte, è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già
allieta di sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a
quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare
senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione
piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è
un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.
In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del
dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la
natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il
suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore,
e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae,
alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte
di cui Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al
principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge
desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che
dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.
Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel
Messaggero della domenica, poi nei Frammenti di estetica e letteratura, A
proposito del Leopardi toma sempre in campo la questione delia differenza
e del rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e
per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma,
d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa
dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma
più sistematica e più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo
pensiero da cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle
poesie. E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie in
cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi di dimostrare la
verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e che attraverso
una determinata situazione personale, un paesaggio, un ’immagine, si
sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna
delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto la forma di
scolastica dimostrazione e scevra di quel sentimento, di quella viva
commozione, in cui \dbra la personalità del poeta così nelle Operette
come nei Canti. La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non
po- tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più e di
meno: affermando che l’elemento filosofico predomina nelle Operette, e
l’elemento hrico nei Canti. E si crede così di salvare la tesi generale,
che bisogna rinunziare alla filosofia per esser poeti, e viceversa:
giacché la loro natura è così diversa e ripugnante, che l’una non
può esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata. Ma io
non voglio ora affrontare la questione, che potrà sembrare tanto
teoricamente difficile e dehcata li. — Gkntilk, Òfamoni e
Leopardi. quanto praticamente
inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬ pardi la questione di principio è
priva d’ogni interesse, perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è
indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o
ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce
se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità che gli invade
l’anima e non gli lascia modo di dubitare e di assoggettarla a quella più
alta razionalità, a quella critica oggettiva che s’inquadra in un
sistema, e in cui consiste propriamente una filosofia che non vuol
dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una filosofìa fatta
vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento, incapace
come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E,
cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella
divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore a quella
dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di formulare.
Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più attenti della sua
poesia — questa ha pel poeta un conte¬ nuto pessimistico, e per noi,
invece, ha un contenuto ottimistico. La vita infelice, necessariamente e
fatal¬ mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi,
vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta che ogni poeta
canta non è quella che ha innanzi agli occhi, bensì quella che ha dentro
al cuore, e però ogni poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il
cuore con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬
pardi era, come egli disse una volta, nato ad amare, ed aveva « amato, e
forse con tanto affetto quanto ]iuò mai cadere in anima vdva », così, in
realtà, tema del suo I Vedi ora il mio scritto Arte e religione,
nel Giorn. crii. d. filos- Hai., e
nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai- lecchi,-- canto non fu mai quella
brutta vita, che è piena di do¬ lore, ma quell’altra che egli più
profondamente sentiva, redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra
pessimismo e ottimismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella
natura considerata dal punto di vista materialistico, brutale, sorda ai
bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa in sé di contro alle
aspirazioni dell’anima umana biso¬ gnosa di amore e di consenso, ossia di
un mondo conforme alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece
crede nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia
dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore. 11 mondo del
pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui il dovere e la \nrtù sono
mere illusioni, e il mondo del¬ l'ottimista è il mondo in cui la più
salda e vera realtà è quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la
verità è questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi
alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto
più acutamente pessimista, col progresso della riflessione, e tanto più
altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con
La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della sua poesia, dove la
bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella
commossa e tenera effusione di un’anima angosciosamente agitata da
un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede nella
virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore
ottimismo in cui rimane assor¬ bita la sua iniziale visione pessimistica;
e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-,
ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella
' storia del genere umano. - Lett. al De Sinner -- realtà
che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica
della sua espressione in modo pieno e perfetto. Se cerchiamo
in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto
mediocre nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba
ai libri che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti
ph, disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma
delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della
materia, per evidente inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente
familiarità coi grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il
Leopardi e si fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né
anima per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed
eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia s’impone
e suscita un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che
in Leopardi non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima,
che rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬ nità.
C’ è insomma il poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo
di avere definitivamente dimostrato con argomenti esterni, at¬
testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso il Leopardi, e
con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti
legami onde le singole operette sono congiunte tra loro per
graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal
primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un
tutto unico, che si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si
conchiude tra un preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e
non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬
nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti
capitoli, scritti tutti in un anno di lavoro felice, ma con un intervallo
tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il
sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte, svolgendosi
in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie: dalla quale
sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché introduzione e
questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si
ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in
due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a
svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto
confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione
che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per l’innanzi non potuto
mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo
abolito allora perché infatti non armonico né col gruppo, né con
tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non può avere se non
una importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse voluta e
curata dall’autore. Il quale egualmente non volle mai rispettare l’ordine
cronologico nelle edizioni da lui curate dei Canti, e diede loro un
ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed
inter¬ preti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso
che tutte e venti le operette furono scritte successivamente, l’una dopo
l’altra, nello stesso periodo di tempo, e hanno tutte un prologo generale
e un unico epilogo, dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi
non si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi
formasse un tutto a sé. La distribuzione del nucleo principale
delle Operette in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un
capitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire
soltanto a renderci attenti per leggere le varie parti del libro
cercandovi tre motivi fondamentali che nel pensiero deU’autore si
fondo no in un solo ritmj complessivo, e formano l’unità organica
del libro; e in questo modo può servire quasi di chiave a un libro,
che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro
capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre dire che ci vuole
discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto tra un gruppo e
l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa perché l’autore
avrebbe do¬ vuto introdurre una prima e una seconda volta nel corso
della sua unica opera. Discrezione che non vedo, per esempio, nel
professor Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello
che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬ vire quindi come
passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non potrebbe stare anche nel
secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità
assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta- mente parlando,
il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna
muraglia tra il primo gruppo concluso da questo dialogo di
Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura
e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero dominante nel primo
gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si ritrova di fronte alla
Natura al prin¬ cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi
non un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile ove non
si osservi che quella che nel primo ciclo è una constatazione,
un'osservazione di fatto, diventa nel se¬ condo ciclo il problema.
Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova
edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬ zocco -- da me
usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬ renza tra primo e secondo
periodo in questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo me, in
ciò: che nel primo « r infelicità del genere umano si considera
particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro della volontà
pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel secondo invece, « questa
infelicità si considera come legge imprescindibile e ineluttabile
dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella
prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e di
fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di
ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo Zumbini
tra la prima fase « storica » del pessimismo leopardiano, e la seconda
metafisica o cosmica. Ma non corrisponde per l’appunto alla distinzione
da me indi¬ cata, tra il concetto del primo e quello del secondo gruppo
delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien posto in
faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto della vita, non più degna
d’essere vissuta; poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita
dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irre¬
quieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ». Qui il
pessimismo storico è già superato, e Malam- bruno può dire che «
assolutamente parlando » il non vivere è meglio del vivere. Lo può
affermare, perché la vita umana, fin da principio e per sua natura, è
senso, coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e
affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬ rere », scrissi
io, « che la morte dell’umanità, la sua nul- htà o infelicità sia, nei
dialoghi del primo gruppo, una colpa dei degeneri nepoti » : poiché
infatti civiltà è au¬ mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in
realtà, fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo.
c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma-
lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del primo ciclo.
Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della verità scoperta
nel primo. E si apre infatti col Dialogo della Natura e di un’Anima, nel
quale dalla proporzione del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui
progresso e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior
copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto il dolore dell’esistenza)
deduce, che dunque è meglio spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la
nobilitano, e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano
che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità,
rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi
con la Natura indifferente, che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla
vita: e rassegnarsi alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il
primo ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto
tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il de¬ stino a cui gli
conviene di rassegnarsi, rinunziando a quella natura che non è per lui, e
a quella vita che sol¬ tanto nella natura potrebbe spiegarsi.
Il primo ciclo è una negazione, per così dire teoretica; il secondo è la
negazione pratica, che consegue dalla prima negazione. La conclusione
dovrebbe essere quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò
però la conclusione del Leopardi, il quale non finisce con r Ultimo
canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la
sua conclusione è detto nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge
questo motivo: che quella vita che certamente non ha valore, perché
è dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo vivere,
ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa negazione.
La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le
attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa contemplazione della
morte liberatrice, porto sicuro da tutte le tempeste, come la cantano i
morti di Ruysch, attraverso una filosofia che sappia intendere e
sorridere con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso
gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista col gusto di
una cosa nuova, e in generale attraverso l’attività, il movimento, la
passione e la speranza che non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso
l’amore che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia, quello
che la natura ci nega anche nella piena coscienza della propria infelicità
fatale e immedicabile, vive e sente la gioia d’una vita che trionfa del
destino fatto all’uomo dalla natura. Una soluzione dunque del
problema della vita nei tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una
filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si do¬
vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei primi due cich è,
senza dubbio, quella per cui l’anima dello scrittore si avvia e
spontaneamente e vigorosamente procede nel terzo; ma questo non è una
dottrina, bensì 10 slancio naturale dello spirito che risorge con
tutte le sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo,
in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. Leopardi
sente bensì e vive la verità superiore, ma non riesce a darle forma
riflessa e speculativa. Egli spe¬ rimenta in sé ed attesta coi moti del
suo animo la po¬ tenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’immagina
scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza tirannica e feroce
di questo brutto potere, e vive, e gusta la gioia di questa sua vita in
cui consiste la realtà dello spirito. E in questo balsamo, che il suo
animo sparge così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate
inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in quest’ idealità
che sopravvive a ogni negazione, qui la personalità, qui è la poesia del
Leopardi. Così, ripeto nelle Operette, come nei Canti. Si
rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si conchiuse da prima tutta
la serie delle Operette-, o il di. scorso di Plotino, con cui il libro
tornò ad essere suggei. lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è
possibile, che il centro e l’accento principale dello spirito
leojiar- diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che,
agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vincolo soave insieme ed
eroico, instaura un ordine morale inespugnabile a ogni riflessione
scettica, e superstite infatti (coni’ è detto nella Storia del genere
umano) a quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal
sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del L., come quello di
Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi vi si stringe vieppiù, e la
trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta, per quel che dice appunto
Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna considerazione
degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei
genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali
siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre:
e non sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione; né
terremo conto di quello che sentiranno essi, per la perdita di persona
cara e consueta, e per l’atrocità del caso ? ». Questo non è un argomento
filosofico, ma un cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si
sente come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed
espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a domandarmi il profes¬
sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle Operette ?
Ecco: che la Storia del genere umano faccia consistere tutto il pregio,
la bellezza e la felicità della vita nell’amore, mi pare sia così chiaro
dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo che
ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto che amore sia
l’ultima parola del libro. Non gli pare che sia nella prima forma di
questo, quando finiva col Dialogo a Timandro e di Eleandro\ né che sia
nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo
di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro, egli dice, « non è
amore : tant’ è vero che questo dialogo dovea dapprincipio intitolarsi
Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere
il Leo¬ pardi ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe potuto
vedere da tutte le varianti che io ho tratte dal¬ l’autografo) cotesto
titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo
fu ideato quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto
fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché il concetto
di Mist'nore è puntualmente quel medesimo che vediamo incarnato in
Eleandro: in chi cioè non si oppone propriamente all’amatore degli
uomini, ma si oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita
d’esser detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma
della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬ dronirsi della
feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo vantato e millantato dagl’
illuministi del secolo XVIII e dai progressisti del suo secolo: l’uomo
dalle magnifiche sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima
della natura e però degno di compassione. La compassione non
è amore; certo. Ma ne è la ra¬ dice. E perciò Giove, mosso da pietà,
nella Storia del genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché
solo l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice; e
se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che gli si sprigiona dal
più profondo del cuore: «Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto
affetto quanto può mai cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non
mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie stesso, per necessità
di natura, e il meno possibile»- l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla
coerenza del si' sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al
dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce subito continuando. Con
tutto ciò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che
esser cagione di pa¬ timenti ad altri ». E questa è compassione, che è
pnrg una sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non
alla morte questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza col
riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fio¬ rentino, Aspasia e
Amore e morte), non è la disperazione della vita, cantata da Bruto minore
e da Saffo, ma è la bellissima fanciulla che Gode il
fanciullo Amore Accompagnar sovente; la bella morte,
pietosa, sospirata in quel languido e stanco desiderio di morire che
sorge col nascere d’un amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro
come nel Tristano, non è rivolta contro la vita confortata dall’amore,
bensì contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di
Timandro e deH’amico di Tristano. Vero è che per leggere Leopardi
non bisogna tanto badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto
in cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente
consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore della sua prosa. Che
io perciò desidero considerare più come poesia che come argomentazione. E
perciò non posso accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e
del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli. Come mai, mi
domanda del primo, «appartiene al secondo gruppo e non al terzo ? Anche
questo dialogo è senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato.
vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».
Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza che c’ è fra un
uomo chiuso nelle quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele
spiegate 1’ Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio
col suo Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il
grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la
maniera di fuggire la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando
altro frutto non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo
Colombo a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima
in quanto che per lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara
la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in
considerazione. E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla
con¬ versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo da
questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche Uquore
generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra fantasticare o navigare, van
consumando la vita: non con altra utiUtà che di consumarla; che questo è
l’unico frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento che
l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo svegliarsi ’ ». Ora
tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale dei due dialoghi, non
credo si possa sostenere. Lo spunto del Colombo ci è indicato dallo
stesso Leopardi, che, come io ho mostrato, aveva prima concepito questo
scritto col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del
dia¬ logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole citate
dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi, come avrai letto o
udito, che gli amanti infelici, gittan- dosi dal sasso di Santa Maura (che
allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone,
restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io
non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma so
bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza
il favore di Apollo avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o
pm-g avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na
vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade;
producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli che quello non
produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore assai. Credesi
comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco
in pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬ pria,
che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che
la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto amore e pregio come
da’ navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è
l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la
gioia di riaf¬ ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme
sfug¬ gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo bene,
appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬ stiamo. 11 Colombo è
questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per
vincerlo. Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta
il piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero
prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua sorte, e lasciando,
com’egli dice, anche da parte i dolori, la noia solo lo uccide. La noia,
di cui egli può parlare perché ne ha esperienza; ma che gh pare il
destino universale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo della
natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo: « A me pare che la
noia sia della natura dell’aria : la (juale riempie tutti gli spazi
interposti alle altre cose matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna
di loro: e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra,
quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana
frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però,
come nel mondo mate¬ riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto
alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la
mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per
tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come
disgiunto dal corpo, si trova con¬ tenere qualche passione; come quello a
cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno
di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e
il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio col suo
Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier confermarsi nella
convinzione della sua immedicabile tri¬ stezza: «Senti. La tua
conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia
tristezza, ma questa per la più parte del tempo è come una notte
oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia al bruno
dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti
possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di
abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in
qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede sul serio che ci sia qui un
consiglio da prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della
Giovanna, che ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del
Tasso l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,
per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile all’angoscia
desolata che vi è sparsa dentro, non può significare altro che un
realistico strappo che 1 autore vuol dare alla stessa poetica illusione
consolatrice del- r infelice prigioniero. E porgendo
l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io credetti di poter dire
1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno
petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto di gioia.
No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli un’opera non
d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché questa sia
ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non
intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no
litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto estrinseco del
ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto di gioia ».
Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è
poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del
filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo
soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso,
suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che
fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo
suo volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello
scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o
spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto degli
uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia
voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi
ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di dimostrarla nel miglior
modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci
ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre
scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione
mia fu di far poesia in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una
mito¬ logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi, senza
essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere
creduti perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere noi. E del resto a
quella conclu¬ sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro
intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬ ginazione beta o serena
in cui l’animo del Leopardi volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli
uccelli non sono dav¬ vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella
tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze
delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della
storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo di quella vita
piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui
espansione e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a
questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso quella
Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a conforto degli
uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento della
natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in
guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla
voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’
intorno per maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E
in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse
popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e
diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli
uomini, l’udire il canto degli uccelli ». La prosa tranquilla e
contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di
un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che
vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa
dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la
vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬ trario, pochissimo
soprastanno in un medesimo luogo; van- I Episiol., lett. . — GENTILE,
Manzoni e Leopardi. no e vengono di continuo senza necessità veruna ;
usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen
tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul
vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un
luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono
cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK
lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di
moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬
sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare
dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi e
freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel
desiderio finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco
di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e
letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi
la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese esattamente nepjmr
dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo
pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito ma offuscatore
assai più spesso che rischiaratore del ni¬ tido pensiero leopardiano,
postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la vantata
perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno
restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non
sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non
sia stato davvero troppo pro¬ fondo ». Come se si trattasse di
convincere! A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬
dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente ad ognuno, che
rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio d’essere convertito
per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta
invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono
altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui sono
tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a barattarla
con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui, come per
Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso
del¬ l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui
che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non
cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa
azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più
sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬ simo
che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del
Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio
dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di
commemorare un poeta è quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo
animo, nel mondo dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli
elementi della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella
di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali
questa vita si svolse, le idee stesse che egh accolse e che professò, le
correnti spirituali ante¬ cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono
semplici generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le
quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬ tografia, rimangono
appunto generalità, riferibili a migliaia di persone. Ogni uomo è una
determinata personalità in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca
da vicino e cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.
E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia del mondo di
cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto che egli fu, al centro di
questo mondo, col suo modo di reagire a questo mondo che era il suo,
raccolto nel suo pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere
nello stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso luogo
e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi, tra gli stessi uomini
e quasi con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione,
incorrere magari nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta
material¬ mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse
idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se
vi provate ad entrare nel suo intern è se stessa, diversa, assolutamente
diversa dall’altra quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si
senr nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^
subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh” ognuno di noi,
nella vita, spia e riesce a scoprire atti e nelle parole delle persone
che frequenta. Quest dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce
in verità tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto quale essa
è, ma quale è sentita e perciò nel valore che ha, è quello che i filosofi
dicono 1’ Io: il soggetto, che è la base d’ogni individualità umana.
Qualcosa d’inaf¬ ferrabile in se stesso, perché infatti non si
manifesta se non in quanto si realizza nelle concrete
determinazioni del carattere, nel complesso degh atti e delle
parole, che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro
non è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.
Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella vita di
ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del poeta. Il quale non si
distingue dagli altri uomini se non jierché riesce a stampare una più
profonda impronta di questa segreta potenza nelle espressioni del suo
essere. E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della
moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita l’immagine di
un’anima divina, creatrice, che di sé fa il suo universo; e quelli che
per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi
saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena del mondo
che il poeta sostituisce a quello della comune esperienza. Nel poeta, in
quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto ciò che può dirci è la sua
anima, anzi questo dèmone che si cela nella sua anima. Nel caso di
L., quanto difficile cercarla e tro- v'arla questa scaturigine della sua
poesia: e quanto perciò s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto
della sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide
tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬ neamente si
aprono alle soavi commozioni di essa. Ma studiata lungamente,
pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni, alla luce di mille
sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla
preten¬ siosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo
più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti
esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è
sottratta e sfugge ancora alla intelligenza riflessa, che si sforza di
coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione. Negli ultimi
tempi vi si son provati critici di grande levatura e dottrina; e si sono
avuti saggi, di cui non disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti
giovano indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬ diana;
ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti. 11 loro comune difetto è
quello di trascurare la verità, che io ritengo evidente e indiscutibile,
dalla quale ho creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il
cui effetto è questo: che il critico non sente la necessità di
risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana sgorga, e in cui
soltanto è possibile scorgere l’unità della sua ispirazione e rendersi conto
della varietà dei motivi in essa dominanti. Così accade che si aprano i
canti e le prose del Leopardi, e si dica. Nelle prose, manco a
dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è una filosofia
per modo di dire. Lambiccatura di cervello che si sforza di dimostrare
sistematicamente uno stato d’animo personale; e perciò si mette fuori di
questo stato d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al
vero e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo,
sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia
e non poesia. Vi sono strofe o versi in cui il poeta trova se stesso e
parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si
dimenticano e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci
col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e sente. Ma ci
sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono
poesie filosofiche non meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono
pezzi ora- torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore
e non si dimentica nello schietto moto della sua anima Manca qua e
là negli stessi canti più felici il caldo di queir ispirazione, che
s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a
freddo che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure
fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato aperto sulla
grande scena della vita, e vien meno il poeta che accoglie beato nel suo
petto la voce naturale del mondo e il vasto respiro delle cose. — £
fortuna se alla prova di questa critica si salva qualche frammento
della poesia del Leopardi. Ma si salva davvero ? Io vorrei
invitare questi critici a ristampare Leopardi purgandolo da tutte le
scorie della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; con¬
tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia. Temo che al
fatto questa antologia riescirebbe estrema- mente difficile, se non
impossibile: poiché non solo il significato di ciascun verso risulta dal
contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel
complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre un
accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può
sentire se non nel ritmo dell’ insieme. Isolare una parola è impresa vana
ed assurda. E se si crede il contrario, ciò accade perché in realtà
quella parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la
fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato, in cui non è più
la parola di quel poeta, ma l’espressione del nostro animo. L. non è
soltanto il poeta degl’ idillii, dove il suo petto si allarga e s’inebria
del profumo della na¬ tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande
cuore del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei
campi, brilla a notte nel mite chiarore della luna, imporpora il viso
alle fanciulle innamorate, tuona tra le nubi nell’ infuriar della
tempesta, e ridesta ad ora ad ora negli animi stanchi e delusi la
speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Eleandro; ed
è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo e Tasso visitato nel mesto carcere
dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto
della Natura dal volto « mezzo tra bello e terribile »; ed è il gallo silvestre
che sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il
cielo, e riempie del suo canto l’universo e dice di questo « arcano
mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere
dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato
e placato nel sentimento solenne e religioso del dolore e del
mistero e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima
soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni travagho c gustano una
beatitudine divina, ancorché confusa a certo mistico senso del proprio
dissolvimento nella vita universale. Ed è anche il poeta che come
italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma
non vede più la gloria e le armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro a
(juella schiera infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra,
senza pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la
disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla
perversa fortuna e lo strazio della misera Saffo, spregiata amante, vile
e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che
l’animo non gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il
prode di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno
fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà sparso a terra
il velo indegno, di emendare il crudo fallo del cieco dispensator dei
casi. E anche l’uomo che si leva col pensiero al di sopra della ferrea
vita e sentendo che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il
vero, si compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini
delle mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo specu¬
lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo sentimento della
invitta potenza del pensiero umano nella rocca inespugnabile della noia:
di questo che egli dice « in qualche modo il più sublime dei
sentimenti umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da
alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; consi¬
derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la mole
maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla
capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e
l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe
ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e però noia,
pare a me il maggior segno di gran¬ dezza e di nobiltà, che si vegga
della natura umana » >. E perciò anche il Leopardi, nel colmo della
sua delusione, può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e
ogni moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura, il
brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto:
e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e amare in una donna mortale
la Dea della sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una
notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato
Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di
se medesimo: su l’erba Qui neglùttoso immobile
giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.
Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della poesia
leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’ idillico che è la
prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì elementi di una
poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella
quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma e del fiero
contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto
consiste. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne
risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei
Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’
idillio, come il Leopardi r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito,
quei quindici versi che gittano la fantasia del Poeta al di là della
siepe in spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima
quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in sé e annichilano
la voce del vento che stormisce tra le piante e il suono delle lotte e
delle fatiche umane: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio E il naufragar m’ è dolce in questo mare. L’uomo
scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo si distingue e si oppone
alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia, che dice alla sua greggia: Quando tu
siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta;
E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio
m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che, sedendo,
più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Nell’ Inno ai
Patriarchi il Poeta rammenta l'antico mito della colpa che sottopose
Vuman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce
all’ irrequieto ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori.
La noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché la
riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬ cora in grado di
domandare alla luna il fine di tanti moti, e che sia Questo
viver terreno. Il patir nostro, il sospirar che sia;
Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno .‘Vd ogni usata, amante
compagnia; egh può esser queto e contento come la sua
greggia. Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene
fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né
contentezza né pace. Il Leopardi intanto sa bene che senza pensiero non
c’ è grandezza. Perciò in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima.
Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo
ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice. Perciò il Poeta dice ai
« nuovi credenti » che non credono al dolore: A voi non tocca
DeU’umana miseria alcuna parte, Ché misera non è la gente sciocca. Dico,
ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri alcun poter
concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e
poi sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se
talor la vostra vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni
cordoglio Il non sentire e il non saper vi scampa. Noia non
puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben nate. Ma se il
pensiero è la sorgente del dolore, bisogna pur distinguere tra pensiero e
pensiero. E anche questo è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la
stessa natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e
nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura e della vita;
che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬ lusioni, che tali si
dimostreranno al cimento della espe¬ rienza, ma che la natura stessa
risusciterà sempre dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almen
sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro pensiero, che
si sovrappone a questo primo e lo critica e lo demolisce e lo irride, e,
scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore
umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che
l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli
simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del
benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero
naturale, e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.
Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva che è propria
di tutti gli esseri naturali, senza che questa natura sia sconvolta o turbata
dal suo irrequieto ingegno. Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti
semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del
genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata dalla
fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se stesso al mattino sul
primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno, come d’ogni nuovo
periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno », canta anche il
gallo silvestre « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in
sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-
ma quasi tutti se ne producono e formano di presente perocché gli animi
in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata,
inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli
altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto
dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione; destandosi, accetta
novamente nell’animo la speranza ciuantunque cUa in niun modo se gli
convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore o
di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la
sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in
dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e d’immaginazioni
vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il
principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita,
sopraggiunge la rifles¬ sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e
la noia: tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto più
viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi la grande
importanza del momento idillico, o giovanile, spontaneo, naturale in una
poesia che, come quella del Leopardi, accentua poi il momento negativo
del distacco e della opposizione, che è il momento del dolore.
Questo dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza dell’
idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il suo significato
lirico se non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto
perché la vita è così bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì
forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non
possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet- tacol molle:
ma questo spettacolo pur le è fitto negli occhi e nel petto;
Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che
spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh
dilettoso e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato.
Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge
da’ suoi occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di
natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio
ravviva Quando per l’etra liquido si voi ve E per li campi
trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il carro. Grave
carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il tenebroso aere
divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi,
e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla
dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda. Saffo ha
l’animo popolato di ridenti immagini di questa natura di cui ella si vede
prole negletta: , Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. A me non ride L’aprico margo, e
dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati
augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e dove all’ombra Degl'
inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico
pie’ le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in
fuga l’odorate spiagge. 13. — GkktIx<s, Manzoni e
heopardi. Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura
sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono di soavi,
affettuose, per quanto solenni, come queste: E tu dal mar cui
nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte
e la funesta All’ausonio valor campagna esplori. Cognati
petti il vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme
vette Roma antica mina; Tu si placida sei ? Tu la
nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i
memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato raggio Tacita
verserai quando ne’ danni Del .servo italo nome. Sotto barbaro
piede Rintronerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o
in verde ramo E la fera e l’augello. Del consueto obblio
gravido il petto. L’alta mina ignora e le mutate Sorti del
mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello industre.
Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le
balze Quella r inferma plebe Agiterà delle minori
belve. D’altra parte, fin da quando il Poeta ascolta nel suo
profondo questa voce antica ed eternamente giovanile della santa natura e
del mondo, contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante,
egli sente nel petto Nell’ imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantma, quella noia immortale, di cui parlerà
nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera
del dì di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, in¬
fine, si canta se non il dolore ? Dolce e chiara è la notte e senza
vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la
luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia.
Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna
lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo Nelle tue chete stanze;
e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga
m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si
benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica
natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi
disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di
pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi e lo
stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo
del quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la
speranza è negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime.
L’amarezza di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna
sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e
sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto
per fargli sentire che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io
speri, .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna.
Si getta per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua
nella gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione
che l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non lungo il solitario
canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i
sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il
core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma
non lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa
malinconica riflessione. Probabilmente egli, come la donna,
rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta
tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e
gorgogliante ancora di sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia
fredda del suo cuore de¬ solato. E altrettanto si i)uò
osservare di tutte queste sue poesie, che il Leopardi stesso definì
idillii, e in cui più forte risuona la corda dell’animo commosso e
vibrante della stessa vita del mondo. Citerò ancora il primo
periodo della Vita solitaria che comincia; La mattutina
pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La
gallinella, ed al balcon s’afìaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che
nasce I suoi tremiili rai fra le cadenti Stille saetta, alla
capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i
lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico; per rivolgersi subito contro le
cittadine infauste mura, e per concludere; In cielo.
In terra amico agh infehci alcuno E rifugio non resta altro che il
ferro. Principio idillico, conclusione tragica. Tragica
quanto è idillico il principio. I due termini si corrispondono e si
congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione
e l’amore per la natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per
la forza ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er
la patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende
amabile e santa la vita, e non intenderete più lo strazio delle sue
delusioni. Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua filosofìa
gli ha piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali in
cui l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede
provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli,
tornando sempre ad esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il
fato universale degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e
non potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a
questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire virgineo con
cui tutto il suo essere si stringe al mondo, che non può, malgrado tutto,
non amare. Leggete II pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte
del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è
gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬ giato, ma il cui
incanto è caduto, risorge nella sua me¬ moria e nel suo cuore superba
visione, sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e
presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,
che già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo
ed ostile, quando non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e
signi¬ ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme
di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in qualche raro
tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è
potuto parlar con sì distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so
che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa
che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici
del frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente
unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la
stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così
vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine
del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito
iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-
v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come
si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino,
tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e
centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,
che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più
pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei
due opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello
spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel
momento stesso che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li
solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\
ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la
vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e
fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto
infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì
unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né
])cssi- mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del
valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e
adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬ senza della poesia
leopardiana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e
soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce, sana
esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte
le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo
stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di
nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla
nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la
fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e
dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna, la quale tenta
d’immergervisi e sentirne il refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose
acque, e fugge e s’affretta per le piagge odorate. Se non che
questo pensiero devastatore e distruttore della originaria unità
dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a natura: è la natura di
quell anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde
il Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità
sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui,
si viva, esso non è più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa.
E in esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più
aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.
Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità superiore in
cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al
canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e
nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente
comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora
egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è
contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora
egli, piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore,
s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto.
Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli
può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua
infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in
cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende
l’amcre con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬
taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a
conclusione d’un rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino
ammonisce che « non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non
cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se
medesimo pospone al¬ l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,
è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono,
per dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio
attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una superiore, che ci
libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini
che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non è la
natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e
canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed
acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi
aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon l’ombre
lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e
collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro
Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la
luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente
luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier
dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età
mortale La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere
canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.
In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto segno dello
spirito del Poeta. Qui la sua poesia. Conunemorazione centenaria letta
alla R. Accademia Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata,
oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i»
lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di
Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla
morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ;
storia mossa e agitata da fedi e interessi in massima parte estranei
all’animo del Leopardi, anzi osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra
filosofia, altro uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così
impor¬ tanti, anche secondo il modo di vedere del L., da riuscire
un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi storici.
Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia, potente,
imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla fantasia
giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche ambe le
braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra
le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo secolo la fama del
Leopardi è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia
ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia,
della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno per giorno,
di penetra¬ zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a
mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più
seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze
risorgevano a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo
contro gli oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano
rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e
di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di
un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era
venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee
religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande
guerra della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più
d’ogni altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova
stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬
fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova
Roma. Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui
parlava Leopardi! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di
quesb cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r
ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La
bibliografia leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano
formate intorno ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con
la dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e
su¬ scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i
casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano
con le loro alte cime al vento, da De San- ctis a Carducci e a Pascoli,
per non citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per tutto, ai
piedi dei grossi tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside-
sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello
svolgimento graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi che lo
studio di tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della
filosofia, poiché il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti
speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri
di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme
scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in
sospetto che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬
vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate
teorie e appoggiato a improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo
tuttavia di costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili
tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto
in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci
sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi
materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o
da presunzione pseudo¬ scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti
di qual¬ siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci
sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso le
forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della
espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’ ispirazione,
che è l’anima del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia che lo fa
immortale. Critica che in Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha
avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬
l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per raggiungere il
poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva della letteratura
leopardiana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di
questo secolo anti-leopardiano si può dire che egli sia stato
prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno dei
più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della più
intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando un
nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e
mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e
acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva
paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il
pessimismo amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del
poeta itahano. « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a
quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬
derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore,
la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E
non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli,
che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non
abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre
non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta
in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha
così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e
pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita
infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto,
confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva
confessato il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più
freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza
indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser
vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che
non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle
cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio
del mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché queste
disposizioni dell’animo siano ragionevo¬ lissime e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la dispo¬ sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in
un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare;
rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e
le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne
di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,
al senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva
l’uomo dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché
sente di dover affermare, come fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e
forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », « sohto e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬
mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’
miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo
dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di (juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte
o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, o perversità di costumi; laddove, per Io
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,
che dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e infine
gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali
solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». Così aveva pensato quando scriveva con
animo di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni dopo,
nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche. Non si può
credere al Poeta, quando, raccogliendo il succo dell’amarissima esperienza
amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel
'33 quegli accenti disperati ed empi; In noi di cari
inganni Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e
noia La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener
nostro il fato Non donò che il morire. Ornai disprezza
Te, la natura, il br\itto Poter che, ascoso, a comun danno
impera, E r infinita vanità del tutto. Momento
satanico, ma un solo momento: voce sì dell’anima leopardiana, ma che il
lettore attento non può ascoltare se non commista in armonia profonda
a voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo stesso
Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione più schietta della sua
propria natura. Alla quale egli non può rinunziare, convinto che sia da
fare « poco stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al
let¬ tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬ z’ora
gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il
momento satanico ricorre spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e
fondamentale ribellione di questa forza incoercibile che egli sente
insorgere di dentro a se medesimo, di fronte e a dispetto della natura,
ossia di questo universal meccanismo che regge il mondo concepito,
come L. aveva appreso a concepirlo, in maniera rigorosamente
materialistica: quel mondo in cui non c’ è posto per la libertà, né
quindi per la virtù, né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma
l’essenza umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede,
e la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di
dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬ pre più
ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬ magine enorme
e tremenda di quella Natura disumana, che stritola e annienta l’uomo e
tutte le pretese del suo audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli
si presenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove
all’uomo che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita per
cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel- r interno dell’Africa,
sotto la hnca equinoziale, in un luogo non mai prima penetrato da uomo
alcuno, ecco che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco
di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura
in petto e in persona: «Vide da lontano un busto grandissimo; che da
principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli ermi
colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola di Pasqua. Ma
fattosi jiiù da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta
in terra, col busto ritto, appoggiato il dorso e il gomito a una
montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile,
di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ». La
Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più che altrove la sua
potenza. E alle molte parole con cui 1 ’ Islandese si lagna delle
tribolazioni che affliggono l’uomo in questa vita a cui non egli ha
chiesto di nascere, risponde breve che « la vita di quest’universo è un
perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé
di maniera, che ciascheduna serve con¬ tinuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra
di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬ gono «
due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che appena ebbero
forza di mangiarsi quell’ Islandese; come fecero; e presone un poco di
ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano
questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che
r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo
mausoleo di sabbia; sotto il quale colui disseccato perfettamente, e
divenuto una bella mum¬ mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e
collocato nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono
malinconicamente beffardo della prosa dimostra con qual animo il Poeta
accolga questa immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra
una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero
enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo,
anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo
socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso
della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al
di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo
Leopardi non fa la fine dell Islan¬ dese; non soggiace aUa natura, pasto
dei leoni o còlto improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda
dal¬ l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore nell’
intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col
sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia n plebeo il quale, non valendo a
cessare gli oltraggi del destino, si consola con la necessità dei danni,
quasi fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi
è privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia. Di cedere inesperto. È
Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso luta ad emendare il crudo
fallo del cieco dispensator de casi. A quel modo di emenda a cui
s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come
sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non
devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero
si leva al di sopra del fato, intende, comprende e sorride;
Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me
bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui
neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e
sorrido. Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si
allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece
battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa
eroica grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue
esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita
delusione e del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su
dal cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator dei
casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi cosparsi di ceneri
infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là dove erano state liete ville
e ricche messi e armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma
involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra,
che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un
profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo,
che da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo
nella umana compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro
al destino: Nobil natura è quella Che a sollevar
s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con
franca lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal
che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini,
ma contro la natura che sola è rea: che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica;
e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il
vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati
estima Gh uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle
angosce Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del
Leopardi, dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel
concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano
innanzi, e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella
speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a chi lo gusti,
poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta, ancor che tristo ha suoi
diletti il vero) ; dopo avere scritto le Operette che sono la filosofia
del Leopardi, ma sono pure un momento essenziale dello svolgimento della
sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della sua vita
avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno
nella filologia italiana, che furono per lui le cure spese intorno
alle Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia italiana.
oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che
risorgesse la speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce;
non che si accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.
Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni. Sopirò in me gli affanni L’ingenita virtù ;
Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe
immagini So ben ch’ella discorda; 50 che natura è
sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual
egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette: Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi propri moti maraviglia
il sen. Da te. mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor
natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Saffo ha
ragione quando afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta,
gentile e pura. La sorte, la natura. Il mondo e la
beltà. Saffo però ha dimenticato il suo cuore: Ma, se
tu vivi, o misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò
spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la
vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al
cuore del 2 i 6 Poeta Silvia, la giovinetta Silvia
splendente di bellezza negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa;
toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il
petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli
studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa paterna:
Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti,
E quindi il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai
non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E pur lo aveva detto la
sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito
nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna,
della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura;
l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe
l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e
sovrumani Silenzi, e profondissima quiete .... ove per
poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste
piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e
mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E
viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s’annega il pensier
mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare. Di
questo momento mistico del Leopardi poco s’è parlato; ed è momento di
grande valore per la compren¬ sione della sua anima, che in
quest’atteggiamento reli¬ gioso placa definitivamente il fiero contrasto
tra la sua indomita soggettività e la realtà onnipotente e
infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in
una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre,
infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per
vivere, abbandonarsi al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro
eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli
perciò, com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i
grandi idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore
errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più potente
espansione e della lirica più piena e felice del Poeta, è la chiave di
vòlta di tutta la poesia leopardiana. Quando si legge la lettera al
Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra
della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e
sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si
svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto
nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando
misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo
»; non si può non essere com¬ mossi da questo prorompere di così alta
vena mistica la cui scaturigine evidentemente si cela nel centro
vivo più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende
l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento respiro queto e
dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in
solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di
taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si
volve. La sua tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba
o foglia non si crolla al vento; E non onda incresparsi, e non
cicala Strider, né batter peima augello in ramo, Né farfalla
ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e
il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian
le membra mie, né spirto o senso Più le coramova, e lor quiete
antica Co' silenzi del loco si confonda. Allora, infine, si
scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così
accorato e pur così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo
funereo sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata
poesia : Forse s'avess’ io l’ale Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di
giogo in giogo. Più felice sarei.... Poiché il pastore
vede che la sua greggia è beata, quasi libera d’affanno, e che, sopra
tutto, tedio non -prova, a differenza di lui, che non ha pace anche
sedendo sopra l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la
mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E ogni
animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che nel
seno della natura è la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con
l’irre¬ quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile
intrigo, in una fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del
Leopardi attinge in quel punto mistico del ritorno alla gran madre la
pace e la gioia. Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni
che gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della
casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per
lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma
cantare sì, come ruccellino che dalla vetta della torre antica va
cantando, alla campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia
per la valle, mentre Primavera d’intorno Brilla
nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il
core. L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che
passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua
vaghezza e in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il
canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa
brillare l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto
intelletto, come Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel
suo con¬ cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬
zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬ pere. Come se
questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto
far osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi
canti, e riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo il
significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente del suo
irresistibile incanto! L. lo sapeva bene, e sotto la data del 30 novembre
1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me provata nel tempo del
comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita, e nel quale
mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar le giornate
senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e meravigliarmi sovente io
medesimo di tanta facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non
aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano intelletto....
che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza? Tale il suo canto; il più squisito frutto
dell’operare della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir
così, a far la più alta prova del suo potere dentro il genio
dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova se stesso,
scoperta che abbia la fonte della sua vita: quel divino, che ha in sé e
gli colora il mondo delle beate larve, e lo solleva da questa vicenda
perpetua di nascere e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze,
al regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre questa
sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente l’amore che abbellisce e
conforta, e crede nella potenza e nella grandezza dell’umana
intelligenza, e torna ad amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con
le dolenti parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore
in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello
spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore,
quale si svela al contatto di quella natura eterna, in cui è il suo
principio e con cui perciò deve immedesimarsi per trovare le radici del
suo proprio essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.
Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua poesia, che i
giovani amano per l’amore della giovinezza che vi spira dentro; che gh
uomini maturi ed esperti della vita amano non meno per il lucido specchio
che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i
quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che
tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come
uno dei doni più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un
gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono
per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e
della non meno innegabile azione dello spirito che affranca da ogni
miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro,
sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in
cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò faciU, com’
è al passero solitario il suo perpetuo canto : anima della sua anima.
Piccolo libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero,
affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi
insieme la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza
tenuta al Lyceum di Firenze e pubblicata nel volume di letture Giacomo
Leopardi a cura di Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia
di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un
poeta, e di un grande poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del
pensiero di questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per
discreto che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto
falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna
infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬ nato è più o meno
riccamente dotato, questa ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa
pedantesca, illegittima e affatto arbitraria : questa ricerca di mettere
quel che pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta,
e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia quello che egli
sente, e sente profondamente, al paragone degh astratti schemi in cui
ogni filosofia va a finire. Non già che i poeti non abbiano anch’essi la
loro filosofia, un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’
hanno ! Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza e
col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita spirituale,
nessuno così fortemente come il poeta afferma la propria fede e la oppone
ad ogni più meditata dottrina che si esibisca da coloro che passano per
gh autorizzati interpreti della filosofia; nessuno più di lui è
convinto d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le
altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si svolgono dentro
al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia
della vittoria, ma una gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene
a capo del suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del
giar¬ dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e
le opere loro, perché con la ragione sovrana prima o poi valuta le
ragioni di ciascuno — di fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che
scopre le contrad¬ dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito
delle sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e
insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene così a
trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza della sua
personalità se a misurarla non adotti un metro diverso. E che cosa di più
irriverente e ottusamente inu¬ mano e brutale che accostarsi ai grandi
uomini per guar¬ darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano
scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto
in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per
il suo cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale
rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le
scarpe, ma non lo guarda mai in faccia. Oh la servitù
numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo; ma c’ è anche
l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ;
schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i
quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più
elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il
padrone, per entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla,
sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!
Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto tutto questo
servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e
\fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso come del suo tesoro.
Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile
degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti occhi che
penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi, così
grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E
allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini
che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬
santi inchieste e pretese, diventa materia di satira. Allora, il
Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano, come questa che è
nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e della filosofia consiste a
conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da
principio; consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a
rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato
s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬ mità della
filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia ». Osservazione
che ama ripetere, dandola come un «suo principio»: «La sommità della
sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà, e come gli uomini
sarebbero già sapientissimi s’ella non fosse mai nata: e la sua maggiore
utilità, o almeno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre
l’intelletto umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato
in cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida
forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi delle sue più
profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro:
«L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si
è, che non bi¬ sogna filosofare ». Nei Paralipomeni degli
ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente
dirà; Non è filosofia se non un'arte La qual di ciò che
l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte. Come
meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando empie le
carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno o men,
giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere.
Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬ pardi chi si limitasse
a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a
ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o
ignorando che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno
intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si ripiglia nella
seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo modo:
Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra
alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri
non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il
passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La filosofia,
dunque, che il Leopardi schernisce è quella teologica, come allora si
diceva, dommatica, spiritua¬ listica; la filosofia della Restaurazione e
del Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni
filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa,
intollerabile alla mentalità leopardiana per¬ ché in contrasto coi fatti
e con le necessità di ogni li¬ bera mente, proveniente, come pur quivi si
dice, da quella Forma di ragionar diritta e sana
Ch’a priori in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi
par vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto
l'altro poi a quel piega e compone; cotesta filosofia non è
satireggiata qui propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o,
se si vuole, da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è
combattuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬ tore par
vera. Neanche si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia
respinta in tutte le sue forme e in generale, quando osserva che
anch’essi, questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una
loro filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere la
sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli propriamente
professa di averne due. Dico cU più: senza r intelligenza di questa sua
duphce filosofia si rischia di fare, a proposito del Leopardi, di quella
esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti
fare, e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una
filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da
camerieri che allacciano le scarpe e non guardano in faccia. Con la
filosofia cosiffatta va a braccetto una critica che si chiama infatti
filosofica, presuntuosa non meno, tutta chiusa alla intelligenza
dell’anima del Poeta e però della sua poesia. La quale critica io mi
permetto di condannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda-
mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è nel pensiero del
poeta, ma nel sentimento che il poeta ha del suo pensiero: non è nel
mondo che egh vede, ma negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa
vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sensibile
o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì, nel trepido moto dell’
intimo sentire, in cui il mondo ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di
quanto si vede o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la
sorgente della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette
morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazionario », cioè alle idee
negative che vi spaziano dentro, e per ciò non riesce a scorgere quanto
v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente
sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee,
una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume verso di esse,
ossia dal concreto atto vitale a cui esse partecipano e da cui
traggono il loro significato vivente, sono pallide ombre che il critico
si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai abbracciare al suo
petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più; perché, come ho
accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu- rahstica e
materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che fa materia di assiduo
pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli ha la filosofia di
cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore che è negazione
della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da Eleandro,
ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che non
bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il senso serio e
profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda
della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo stesso L.,
teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della
sapienza, la chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una
filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini
alla natura: filosofia naturale, spon¬ tanea, primitiva, barbara; più che
alle origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo
da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della
filosofia leopardiana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla
moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e
che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i
più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo
comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco
meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad
Eleandro che tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità
della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e
piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli
ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la
filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo
fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e
distorh dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle
verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare
alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che
debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute
nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la
filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare,
come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare
non fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima,
perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e
imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio
degli uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più
facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ». Non si
può mettere in opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la
conclusione perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge
l’altra, falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è
quella che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi
resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme
con essa e al disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e
degna dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha
demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che si
conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto ragionare che
s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia superiore
non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda
natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà
mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la
verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia
riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur
non contraddire alle verità via via accertate e sempre più
strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema,
bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sem¬ bianza di verità, illusioni,
fantasmi, tutte quelle altre verità che come tali si rappresentano
all’uomo il quale a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda
rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva,
felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente.
L’uomo L. non può non filosofare; non può non passare attraverso la prima
filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore.
Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto. Lo ritrova,
s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché
dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può
tornar fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e
le amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi
abbia una volta bevuto al calice del bene e del male. Chi
distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o forme, la prima di un
pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ « irrequieto
ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi
regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai
Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi
uomini vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire
l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto
della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei
canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente
determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali:
dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni e nelle
altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo, che fu
certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta
onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬
gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione, anzi per
illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella vita con i suoi ideali e
con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente
attestata nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano
col mito delle origini della umanità governate dall’amore e finiscono
nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei scritti io ricordo alcune
verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per consolarmene col
riso, e non per altro [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora
può parlare con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia
negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che
dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli
errori antichi, diversi assai dagli errori barbari. i quali solamente, e
non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e
della filosofia. E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e
di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge della
vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto al fondo della
disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima, amore.
Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E
contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone,
e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e
insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia leopardiana; voglio
dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del
Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli
insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni,
dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L. di uscire
in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come
per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non
occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che
giustifica un empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello
che in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno
attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale da chi tenga fermo
al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può non raffigurarsi
dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo dei valori per
cui è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione al
falso, o un volere buono in contrasto col malvagio, e un’arte creatrice
di bellezza che si libri nel puro aere ideale e sovrasti alla miseria di
tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel
vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui
libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,
altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione ingenua e
fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si rappresenta
a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo, materiale, risultante
da infinite parti e particelle che si condizionano a vicenda in guisa
che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre; in un
meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è fatale di una
necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa dell’uomo che si
])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia
nel cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci
possono far giudicare buono o cattivo; anche il giudizio con cui ci
s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche la volontà che non
sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro
con la stessa cieca necessità del fulmine nelle tempeste della
natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,
perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni razionalità
(perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un mistero.
Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che essa dice
con tanta sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse possibile un
mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno
posto per l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo, nel
mistero di questa tenebra profonda e per definizione invincibile, abbia
pure il diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli
asserisce ! Come se fosse possi¬ bile salvare una verità qualsiasi dal
naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque essenzialmente
contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti,
tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬ dizione, tra
la ragione che si nega e la ragione che per negarsi rivendica di fatto il
proprio potere e valore. Filosofia accettata dal Leopardi, ma con
un’anima che troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo
è naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce
ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non
aver coscienza di tale contraddizione. E questa coscienza è in lui
acutissima. L’uomo, pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla
natura nel senso angoscioso del proprio niente, non piega, invece,
non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate
fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto il suo
spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma nel
cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il limite
della sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è
grandezza umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e
infinita potenza. Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua
poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale dall’astratto
concetto di quel crudo materialismo, che annienta l’uomo e fiacca perciò
ogni velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un
mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso
profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla
sua « ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e
contradditoria alla incoer¬ cibile natura dell’uomo cotesta filosofia
negativa e sof¬ focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma
prode, di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il fato
indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento
irrompendo nel Tar¬ taro: e la tiranna Tua destra,
allor che vincitrice il grava. Indomito scrollando si
pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e
maligno alle nere ombre sorride. Ora è la misera Saffo, grave
ospite di natura, estranea alla infinita beltà di questa, consapevole del
prode ingegno che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie
virili imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può
vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo indegno ricevuto
da natura, primo principio della sua infehcità; e morire, ed emendare
così «il crudo fallo del cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta
stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia
l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi. Erta la fronte,
armato, E renitente al fato. La man che flagellando si
colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non
benedir, com’usa Per antica viltà l’umana gente; Ogni
vana speranza onde consola Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto
stolto Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in
sé spento anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima
dispera¬ zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,
della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a
questa Natura mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico
sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il
naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente oppone la
realtà all’uomo al punto da non lasciargli più modo di distinguersene e
spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto
infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo
volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia quella
sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta la
giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e
deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,
dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto
dell’eterno: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare;
de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar
come tutto al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono
delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto
dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la
festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il
mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante
insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un
canto che s’udia per li . sentieri Lontanando morire a poco a poco;
de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso
all’ immoto specchio del lago di taciturne piante incoronato gli fa
obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte Giaccian le
membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa
risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel
canto Alla primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? e quello anche ])iù antico della stupenda
lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima
di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo
puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e
mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un
forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di
udire dopo tanto tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore
allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota
nello Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,
ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬
timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di
una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che
sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o « senso
dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola ragione,
poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver spiegato
tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette in
condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a
dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo,
che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e senza del
quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella
mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo
della natura e condanna alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta
la sua libertà e nel suo valore infinito appena la grande ragione gh faccia
sentire la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna cosa »
infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e
la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬ noscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza » ; e
provare la gioia del comporre, del cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità,
essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E
perciò l’uomo non soggiace alla natura, e può non temere la morte, e può,
come la ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino
alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una forma
lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio, che « nessun
maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e
filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in
proverbio tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita
non c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi
sempre filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano
robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del
filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬ lettualismo. La quale FILOSOFIA,
si ponga mente, una volta, come s’è veduto, il Poeta la chiama
ultrafilosofia; ma non è poi altro propriamente che la sua personalità,
il suo modo di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù
che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide
meravigliata salire su dal profondo i palpiti naturali, i dolci inganni,
la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La
piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il
mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;
Non l’annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la
poesia; e che è, io dico, la stessa poesia, depurata dalle forme in cui
il pensiero la determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle
parole, nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-
mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che l’autore non
fece delle sue idee, e che, sempre a fatica e non senza arbitrarie
glosse, continuano a imbandirci quei camerieri del Leopardi che sono i
suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L.
i volumi che questi non pensò mai di scrivere; non vorrei, dico, si
ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente
costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti Mi perdoni
la grande e austera ombra del Poeta questa parola cara oggi a certi
spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il Padre manda in
terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso
mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla a cercare con essi
l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE
PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e sparsi, le sentenze assai
spesso felicemente formulate non possono essere pel critico altro che
accenni, spie dell’anima del filosofo. La cui individualità è
caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la
concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che, conferendo all’uomo un
carattere, non ci spiega tanto le sue parole, spesso espressioni di cose
pensate e non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente
nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad averne coscienza
in un sistema chiaro e bene organato di idee, è quello che è : quello che
l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si
fa conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui lo dice,
non pel contenuto delle sue parole ma pel colore che esse hanno sulla sua
bocca, per l’accento con cui la sua anima vi suona dentro. Stile, essenza
della poesia d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente
della filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del
cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove la pupilla trema
della commozione segreta: ascoltare il suo canto, dove la sua filosofia è
la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi.
Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi
nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Leopardi: l’implicatura
conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo. Grice: “We
don’t have at Oxford a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante
esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi,
targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse
l'amministrazione della propria eredità. Dopo un primo progetto di nozze andato a
monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu
un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in
base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una
dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al
matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria"
di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo,
passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non
riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono
numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina,
Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla
sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e
all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle
mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi
totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti
vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della
biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni
di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i
quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a
disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese,
come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".
L'impegno civico Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di
L., Adelaide e Giacomo Il medico e naturalista britannico Jenner La sua
opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione
dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno
riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita
politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.
Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore
dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo
dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in
tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi
principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la
Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di
Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di
strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno
abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e
delle attività teatrali. Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze
della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a
vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò
inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo
stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il
cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il
vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui
propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva
personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di
"retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte
della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di
un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe
seguito. Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i
medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la
costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse
una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee
controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo
per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente
sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì il
celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la
perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella
tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei
molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi,
i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo
pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di
"Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo,
ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero
notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre
in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di
cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà
se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.» Per
umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con
quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che
giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi,
infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra
le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al
papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia
per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio
dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da
Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra
Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della
dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.
Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico
e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di
Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato
nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione
digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli
cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della
Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso
diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000
abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero
inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua
Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza,
ironia e umorismo. Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non
amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna
consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo
pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico
svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi
storici su Recanati, coltivati in gioventù. Opere digitalizzate Monaldo
Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano,
presso Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in
latino con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e
dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi,
Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al
popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella
contrada della poca pazienza. Rapporto con il figlio ritratto di Giacomo
Leopardi. Nonostante la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio
illustre appare buono: senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere
orgoglioso della precocità del ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad
esempio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si avverte ancora
l'influenza delle idee del padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero
strade diametralmente opposte: la crescente autonomia di pensiero di Giacomo
preoccupava Monaldo. La lettura del carteggio fra i due rivela una
relazione affettuosa, soprattutto negli ultimi anni. La lettera più sincera
scritta da Giacomo al padre è quella che quest'ultimo non lesse mai: si tratta
della missiva datata luglio 1819, quando il poeta progettava la fuga, e che non
fu mai spedita, perché egli dovette rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor
Padre. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il
cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini
stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio
ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che
avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si
maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra
tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Io
so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più
facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali
possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e
rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono
tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro
pensiero.» Finalmente, Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo
saltuariamente. Da lontano, il padre assiste alla crescita della sua fama nel
mondo intellettuale italiano, ma non riesce a comprendere la grandezza del
figlio: disapprova la pubblicazione delle Operette morali, scrivendogli in una
lettera (perduta) le "cose che non andavano bene", suggerimenti che
nella risposta Giacomo promette di prendere in considerazione, ma che di fatto
non sono mai accolti. La pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di
attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi si trovava a Firenze:
nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui l'autore dell'opera,
espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu costretto a smentire
seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con
l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso.
D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo
credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io
sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo m'è divenuto poco
amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più
nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire: ah,
l'autore dei dialoghetti.» In toni decisamente più miti ne scrive poi a
L. il 28: «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e
forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione
portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa
l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto
personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto
assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia che
alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi,
e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso
indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a
Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [
L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di
essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né
rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente
quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei, ed in
chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi
né debba né voglia disapprovarli.» Nelle ultime lettere Giacomo esprime
la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli affettuosi
("carissimo papà" nell'ultima lettera). Monaldo sopravvisse 10
anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora evidente otto
anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee areligiose del poeta;
la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna Brighenti: «Di Giacomo
poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di
lui veniva fatto di sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero
di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle
nuove edizioni delle sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute
nascoste e le teniamo ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più
acerbo il dolore.» Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio
Ranieri, pochi giorni dopo la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale
con cenni biografici su Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il
dolore per la rottura fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione
intrapresa dal figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda
il tratto successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti.
Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che
quando redigerà il proprio testamento, alla settima volontà scrisse:
«Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno
anniversario della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il
mio diletto figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti,
Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele
Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu
chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di
Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo
Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo
Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo
Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo
Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo
Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana
ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,
(L'ultimo amico del poeta narra di un
suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi,
Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede & Cultura, L.,
Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa
giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi,
Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo
Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il
bicentenario del trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L..
Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i
Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale
Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco
Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi. Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Corno, L. in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti
, e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di
fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si
tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via
cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”.
Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa
tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a
campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo,
bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno
della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo.
come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo
dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va
guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é
desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m
e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol
guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non
dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie
per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i
merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi
ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo
le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e
il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo
di ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re
falto dal popolo, perchèchipuòfarepuòguastare, ed è più facile sbalzare dal
trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e
putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi
la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza ,
e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la
frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del
popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la
giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza
essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino
riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare
una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di
pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità
della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere
i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico
costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di toccare un
quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno
di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla
cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo
importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se però
la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini da per sè stesso,
e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il pa
drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche volta
il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con le
fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una
giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi
scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov. Benissimo. Fil.Siccome
poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve
sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e che egli pad usarne
soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali condanneranno
giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua maestà di
carta lo dovrà liberare , e se condanneranno ingiustamente un innocente
malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov.
Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone
in mano , e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei
conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono , il governo, tutto è del
popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo
al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a
preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”.
Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia
vera mente solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che
muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il
quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica
dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie
presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle
cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri
sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero
il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino.
Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia , il Cervello, a
la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza
tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle
queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero
però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli avvocati e i
procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee
filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un
altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò venile avanli madonna
Giustizia e facciamo i nostri palli. posta per imparare cosa deve essere
la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in
m e n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e
la giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula
sfacciatamente al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi
prostituiròin verecondamente per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho
da fare per favorirli nelle cause, quando stan no evidentissimamente dalla
parte del torto ? Giu. Quei giudici però i quali procederan no con ingiustizia
manifesta potranno essere discacciati e puniti. 102 re che questo non è
proibilo ; e non manca il modo di stancare e assassinare un povero liligante
buttando la polvere sugli occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se
però qualcbe volta vi troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo
re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia
sem pre assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa
renze e salvare la capra e l'orto , falelo Fil.Non
dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono protetti dai
liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono una potenza
assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono per tutto , e
coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i dicasteri, sicchè alla
fine del conto lutto si fa a modo loro , e a chiunque la prende con
essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui
tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo
indifferenle e un inimico dei liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente
an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo la dro , e date sempre lorlo
agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la
filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi potete consollare i vo stri
affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche
Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che alla filosofia non
gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un
partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero alla
pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche vantaggio. A
vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e non mi al
lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in parilà di
circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini indifferenti ,
ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli iquali desiderano,
che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure vengano giuo
catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha da essere veramente giustizia è
m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho capito
benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò
regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei
malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n
naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la
giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose
giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di
malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la
giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali,
i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la
testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re ,
distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma
regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è
permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi
Giu . H o capitotullo benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a
portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene
compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il
vostro genio; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di
pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel
regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello
perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si
diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che
vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la
Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i
proprielari,ma anche 105 1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto
umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire
dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà
mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un
liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro
puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i
proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro.
Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà , e lulle
le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere
tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire , m a
siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso alcu
ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che
nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non
fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per
introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe
benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja ,
intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e
tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo
partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo
non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg
gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare
lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si
diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole
fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in
mira di spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire
i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre
diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso
vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino,
e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer.
Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da
questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il perfezionamento
filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo Stalo non si
contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo in molo una
volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea che tulli gli
sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato , e rotto l'argi
ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e i ministri del
governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno più impedire
l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più bella di
luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo disordine e sono
vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno mano al
l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno la loro affezioncella
pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè in gražia della
affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti qualche loro
protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola , e
tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato
non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan
cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare
la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste nell'acconsentire
senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e delle
giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da vero
poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi
, ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie ,
pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi
, e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della
proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi
, e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per
sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go
che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per
operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi
cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla
dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale
della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e
le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le
casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare
del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi
zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi , siguor Cervello,
e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche
sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato
nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii
verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di
questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un
capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e
ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta
p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà ,
e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera
padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate,
stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli
nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza
e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti ,
aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no
un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per
il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati
nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè monti a cavallo sul
collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo
è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed
è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi
avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga , e
pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai
poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da
questa dilapidazione universale della proprie tào
vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo
non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da
perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate
onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti
, rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e
la buona morale , il deside rio dell'ordine , l'altaccamento al governo e la
considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite
e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire
l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della
nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio
dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le
classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni
; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o
quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine
tolta la barriera della ricchezza e della nobillà , o vogliamo dire tolta la
barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril
tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà
più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo , e le gloriose
giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non
altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire
l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire,
ma Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed
il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato
per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti
passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno
nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo
crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non
potranno es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà
è in opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a
fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo
subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci
saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di
quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le
educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini
del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle
mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il
dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per
ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo
assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai
secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non
mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama
Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi
ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno
dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni
e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà. La
Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre
persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è
colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto
smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono
l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to
sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento
el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma
bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di
corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la
cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini
e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve
nite avanti , signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad
ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins. Parlate
pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima
di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi
è quella appunto con cui si olliene Fil.Dibò,oibo.Tutti
vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà
poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno
i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti
e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche
i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi ,
letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia,
e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina?
la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi
in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti,
e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la
nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi
vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che
dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a
trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol
lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e
lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete
che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli
oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli
altri. rivare alla diffusione generale dei lumi,e al
l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora
si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai
vostri scon siderati seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero
d'individui , e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla
schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità
e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro
che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso
stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di
vil lapi ignoranti , e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto
basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla
società non conviene alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole
la quiete , vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità.
Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero
giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel
do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe
consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi
convenevoli al proprio grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e
prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è
certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che
ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa
diffusione dei lumi e della civiltà, così è certa che la propagazione smodera la
dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi
dolli , di scioli , di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci
voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di
buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo
il sovrano non pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso stesso
un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci
villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e
sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza
igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo
del Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare
le croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete
dunque,carocompare Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che
sa ben essa cosa vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della
civillà. L'Inc. Orsù , non perdiamo
più tempo perchè io muoro di voglia d'incominciare la mia missione , e di
andare a diffondere i lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali
scienze vi piace che vengano inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio
adattati per affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto
allescienze, generalmentepar: L'ins. Ho capito bene quanto alle
scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil.
Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le
pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e
dei principi; e lulti quelli che trattano scopertamente ovvero copertamen. te
di materie scandalose e lascive lusingando > > . 120 lando , potete
secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la verità
e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le
vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli
dell'uomo , le quali scienzc adoperate dalla filosofia liberale riescono
benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitare lospiritodellale.
merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare
la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo
fu l'opera di un essere necessario,ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele
cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi , oppure ciolloli
del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non
ne sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli
ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti
consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel
diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho
capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre
lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua
volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua
latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è
stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla
affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario
sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga
conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia
delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi
epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli
della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi,
per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa
abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete
scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con
grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la
rigenerazione filosofioa , o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate
a colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro
lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche
modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende
senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e
l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi
pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo
l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della
chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a
legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili,
commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e
comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle
nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem
proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta
per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi
,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli
scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre
calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal
mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso ,
si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per
soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono
il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli
italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano
e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e
non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in
comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto ,
perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco
della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli
d’inalterata antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani
ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre
subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre
riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce
della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà
conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei
concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per
accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la
parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e
allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della
filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un
suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli.
E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti
rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa
diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei
padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina
del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è
assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non
prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo
luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle
trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di
quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e
che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta
sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il
qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la
lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente
per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso
l'ultima sua rovina. Cer. Questo certamente è stato un passo falso
carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e
straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale
concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di
quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della
filosofia e i danni religiosi e sociali diventi.
nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran
no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con
questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo
indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare
ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che
vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei
litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli
ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi
è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare ,
giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot
tore e sulla fede del farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni
e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine
dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali.
Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal
foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè
tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento
della sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta
e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra
poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra
forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque
sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre
in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la per i Cer.
E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha
sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i
giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e
di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango,
e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di
quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il
foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a
lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon
dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le
mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre
chiacchiere, voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella
città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra
tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere
la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri
comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal
vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come
quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere
ilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della
filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri
precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho
capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la
decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no
l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le
vogliamo più , e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza
e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.
sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono , e al più si
deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di
una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco
neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo
venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli
imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ? Fil. Voi vi
ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo
pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo
tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue
abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali
che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a
presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale
siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che
si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il
Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i
veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il
luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo
però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi
terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per
fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di
meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro
servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati
di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro
paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e
un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci
libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel
terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con
l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una
religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola
religione può esser vera e tutte le altre devono essere false , così un solo
cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere
allrellanle imposture e mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e
oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in
discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine
filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto
dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che
la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città
dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o
Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne
uno. facendo torto agli altri ? trebbe essere la citla della
Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con
tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi
pare, operate come vi pare , e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame
non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro
slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla
quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio
pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la
tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a
ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre
rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua.
Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della filosofia ci è
il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno
questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna
magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco
, e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a
bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo
luttuosamente nei nostri serragli , come vi vono i galli nel pollaio e i becchi
nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo
pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e che l'abbondanza delle galline e
delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa
mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a
dirla schietta , questa , poco più poco meno , è la religione dei fi losofi
liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli
due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali.
Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo
illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti
e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo
dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto
l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia
nuova cillà , esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i
pollai , i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia.
E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia
un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi
religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu
dizio. Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una
religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e
si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale
cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più , e non
gli volge mai nè uno sguardo , nè una parola ; questo Id dio è come se non ci
fosse , si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la
dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe
corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed
entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro.
Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se
il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione
fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se
col tempo prenderà qualche altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà
di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per
non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di
Dio , e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che
non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello
che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia
e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m
e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile
, o il sarà quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della
filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica,
e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di
quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un
diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole
e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le
gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte , è
fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli,
e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no
? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i
dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio
M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno
adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere
altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la
morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e che contro il libertinaggio
non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la
morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami
e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per
lullo sotto lea p Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu
terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani;
insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo
astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti
quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co noscerele che essendo una
sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla
verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè
in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno
con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se
ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo
di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e
anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri
penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i
suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono
digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle
pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e
protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate
quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra
filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta
turba di gente ? Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e
sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ;
perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra
noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le
cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire
le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel
nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli
siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana.
Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore , e
non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi
lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif.
Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene
che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e
levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più
da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi , e questo si chiama essere cristiani a
buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque
anche voi col vostro mezzo evangelo , perchè lanto è mezzo quanto è niente, e
venga avanti chi resta. Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della
filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei
avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo
cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni
dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a , e anche
noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in
segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano
quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una
vera canaglia , nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene,
ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo
a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio
civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti ,
portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se
volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori.
Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe,
circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e
protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat.
Io sono un cattolico , e insieme coi miei compagni desideriamo di professare
li 137 e per ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di
ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà
essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò
non è vero nel senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun
modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es
sere i soli a credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa
lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si
chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là
della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è
persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che
quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via
dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi
dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori
delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo
nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che
vivono in un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo
oltraggiati e beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica.
Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno
dei filosofi la fede e il culto cattolico? e perseguitati ; perlocchè in
luogo di essere in tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e
i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di
frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non
vanno a genio della filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti
filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni
uominiealcune donne unanimi nel pensiero , e animali dallo stesso desiderio ,
non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere
come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della
vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e
dei giappo nesi , e i Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni
saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la
vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli
altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono
la gioventù , so stengono il ministero del culto , assistono gli infermi ,
consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli
oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri
prelieinostri frati campano per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo
alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il
villo e il vestito dalle nuvole e non 1 $ Fil. E non contate
per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col
l'impedire la molliplicazione del popolo?
Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste
nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà ,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert
mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o
la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare
in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce
un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del
ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde
l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle.
La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a
questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La
Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La
Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La
Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti
dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello,
la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni
sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio
ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. –
the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da
Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lettieri: all’isola -- la
ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale – filosofia siciliana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo
italiano. Grice: “Lettieri
rightly contrasts sensualism in the practical sphere of reason as ‘egoism’ – my
‘principle of conversational self-love’ – but focuses on benfeficence, and
solidarity – as ‘rational’ – my principle of conversational benevolence, -- or
conversational helfpfulness.” Grice: “I like Lettieri for two reasons: he uses
‘diritto razionale’ which we at Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo
filosofico’ as a genre as we Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on
‘l’intuito’ – While he wrote on ‘sensualism,’ he also explored the idea of
‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as he put it in his vernacular!” Insegna a Messina. Presidente della Real Accademia
Peloritana dei Pericolanti. Molto apprezzato da Mamiani, Gioberti e Galluppi. Altri saggi: Il
sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the five senses” –
Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra; “La
fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del pensiero,
Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito: dialogo
filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata di lu
professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla
filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of
‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni
dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi
storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri”
(Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality –
solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice
find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The
fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an
ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly
consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on
‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he
belong to her!” – Antonio Catara
Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio
Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la
ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Liberatore: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’ULIVO DELLA PACE -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo italiano. Grice: “One could write a whole
dissertation – especially in Italy: their erudition has no bounds – about
Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo d’olivo’ = pace. It’s
so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but did the Phyrgians
know? And if Mars is often represented wearing an olive wreath, one would not
think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian commander about that!”
Grice: “I like Liberatore – a systematic
philosopher, as I am! His logic has the expected discussion on ‘sign.’ A
conventional sign he says is a branch of olive ‘signifying’ peace – as opposed
to smoke naturally meaning fire – As a footnote, one should note that in Noah’s
days, the signification of the dove was ALSO natural – although not strictly
‘factive’ – but then not ALL smoke (e. g. dry ice smoke) signifies fire, as
every actor knows!” “Ma il difetto molto comune degl’economisti è il
mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non ostante voler sovente filosofare.”
Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiede di far parte della Compagnia
di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La Scienza e la Fede” con lo scopo
di criticare le nuove idee del razionalismo, dell'idealismo e del liberalismo,
dalle pagine del quale venne sostenuta una strenua battaglia in favore del
brigantaggio, interpretato come movimento politico contrario all'unità
d'Italia, ovvero: "La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo
governo". Fonda “La Civiltà” per diffondere AQUINO. Uno degl’estensori
dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di
filosofia”. Membro dell'Accademia Romana,. Combatté il razionalismo e
l'ontologismo, così come le idee di SERBATI. Sostenne che il brigantaggio e
la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma
soprattutto ideologica. Difensore dei diritti della chiesa e studioso dei
problemi della vita cristiana, delle relazioni tra chiesa e stato, tra la
morale e la vita sociale. I filosofi della sua scuola mettono in evidenza
a acutezza dei giudizi, la forza degli argomenti, la sequenza logica del
pensiero, la stretta osservazione dei fatti, la conoscenza dell'uomo e del
mondo, la semplicità ed eleganza dello stile. All'inizio professore e
giudicato da molti nella Chiesa cattolica il più grande filosofo dei suoi
tempi. Si ritenene che vive santamente, e si scorge in lui un profondo spirito
religioso. Considerato uno dei precursori del personalismo economico.
Altri saggi: “Logica, metafisica, etica e diritto naturale, e in
particolare: “Dialoghi filosofici” (Napoli); “Institutiones logicae et metaphysicae”
(Napoli);“Theses ex metaphysica selectae quas suscipit propugnandas Franciscus
Pirenzio in collegio neapolitano S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo
sopra l'origine delle idee” (Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli);
“Il Progresso: dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa”
(Napoli); “Elementi di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli);
“Della conoscenza intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae”
(Roma); “Sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma);
“Risposta ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale
dei corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di ALIGHIERI”; In Omaggio
a Aligh. dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis
civilitatis catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini);
“Della composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente”
(Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Serbati” (Roma);
“Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta dell'imperatore
germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”; “Le associazioni
operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del lavoro”; “L'Enciclica
Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”; “La civiltà cattolica
spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui la chiesa si sente. Il
ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine originarie. Convinto
che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero umano. Brigantaggio. Legittima difesa del Sud. Gli
articoli della "Civiltà Cattolica" introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per
l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La
"cupa scia" del Sillabo
Nardini, Manca di verità e si oppone ad AQUINO la soluzione di un alto
problema metafisico abbracciata da L.” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti
della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà
cattolica:, antologia Rosa, [ma San Giovanni Valdarno] ad ind.; G.
Mellinato, Carteggio inedito L. Cornoldi in lotta per la filosofia di Aquino (Roma,
Volpe, I gesuiti nel Napoletano, Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo,
Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo, Rivista di filosofia neo-scolastica,
Mirabella, Il pensiero politico di ed il suo contributo ai rapporti tra Chiesa
e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero politico ed il contributo ai rapporti tra
la Chiesa e lo Stato, in Archivum historicum Societatis Iesu, Serbati, Roma G. Rosa,
Storia del movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà
cattolica e la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul
contributo, La Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica",
Roma Nomenclator literarius theologiae catholicae, Grande antologia filosofica, Milano, C. Curci,
Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana., presentazione del libro su La Civiltà Cattolica e
il brigantaggio. Segno – SENNO -- è generalmente tutto ciò che, alla potenza
conoscitiva, ra-ppresenta alcuna cosa da se distinta. Perciò tal denominazione
ben si addice al concetto il quale esprime al vivo e ra-ppresenta alla mente
l'obbietto intorno a cui si aggira. Ma il concetto è interno all'animo e per
pale sarsi di fuora ha bisogno di un segno SENNO esterno. Questo segno SEENO
esterno consiste ne' voicaboli, i quali tra tutti i segni ottennero la
preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente
concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le
cioè il vocabolo, convengono tra loro nella generica ragione di segno o SENNO. Ma
si differenziano grandemente nella ragione specifica. Imperocchè, primieramente
il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno – O SENNO -- convenzionale. Dicesi
segno naturale quello che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di
un'altra cosa -- come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente
ogni effetto, riguardo alla CAUSA. Dicesi segno convenzionale quello, che
ARBITRARIAMENTE o PER PATTO vien
destinato a di-notare alcuna cosa; come il ramo d'olivo si ad opera per il termine
orale, benchè prossimamente significhi (E SENNO DI) il concetto, non dimeno
mediante il concetto significa (E SENNO DI) lo stesso oggetto. Anzi, poi chè da
chi parla è ad operato per di-notare il concetto non subbiettivamente ma
obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita. Ne segue
che, quanto alla significazione (SENNO), esso si confonde quasi col concetto, dicuiè
come la veste e l'esterna apparizione. E però la logica a buon diritto tratta
per ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto;
e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al
contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresenta l'obbietto, essendo
ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo
tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno (SENNO) istrumentale.
Ad intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo
permenarci alla conoscenza della cosa significata, ha mestieri d'esser prima dạ
noi compreso. E pero appartiene a quel genere di segni (SENNO), a a cui può
applicarsi la seguente definizione. Segno (SENNO) è ciò che, conosciuto, adduce
alla conoscenza di un'altra cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza
bisogno d'esser prima conosciuto, col solo attuare la mente , ci mena alla
conoscenza del l'obbietto, sicchè questo appunto sia il primo ad essere diretta
mente percepito. Ciò di leggieri apparisce, tanto solo che si consideri che il concetto
non può percepirsi, se non per cognizione riflessa e pel ritorno della mente
sopra sè stessa. Laonde quello che si percepisce per prima e diretta cognizione,
non può essere esso concetto, ma necessariamente è una qualche cosa diversa dal
medesimo. A di-notare per tanto una tal differenza, venne introdotta la
distinzione del segno (SENNO) formale e del segno (SENNO) istrumentale. Viene
l'abuso del linguaggio che è il mezzo dato all'uomo per esternare ad altrui
gl’interni concepimenti dell'animo. L'analisi de’ vocaboli è ordinariamente un
grande aiuto allo spirito per rischiarare le idee, merce chè essi sovente
tengon chiusi sotto la loro spoglia. Ma accade altresì che si arroghino più di quello
che loro di ragion si compele, e tentino non di essere esaminali e giudicali
dall'intelletto, ma manciparselo e deltargli legge a capriccio. Per diverse maniere
principalmente i vocaboli introducono falsi concetti nell'animo. Per la loro
ambiguità e confusione, imperocchè ci ha delle voci d'incerto significato, le
quali han bisogno d'esser determinale nel senso in cui si tolgono, altrimenti
ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon poi fallaci giudizii. Tale
è a cagion d'esempio la voce natura, la quale suol prender sia d’esprimere or l'essenza
di una cosa, or il mondo sensibile; or l'autore dell'universo, or tull'altro a talento
di co foi che l'usa. Parimente le idee significate pe' vocaboli sovente
sono assai complesse e complicate; e pero ove non bene si risolvano per via d'analisi
ne’loro elementi, son cagione che si formiun assai confuse ed informe concetto.
Secondo, tal volta i vocaboli vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti
arbitrarii della immaginativa, o semplici ASTRAZIONI ell'animo; come la voce “cecità”
, “fortuna”, “centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di
debita considerazione si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e
reali si nell'essere che nel modo onde sou concepite. I vocaboli delle cose
immateriali son formati d'ordinario per analogia presa dagli obbietti
materiali, e quindi avviene che talora si confondano le une cogl’altri. Ne'nomi
derivati sebbene spesso l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso
in che comunemente si prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual
caso per mancanza di attenzione può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A
queste cause può aggiugnersi la novità de’ vocaboli di che taluni stranamente
si piacciono, e l'uso incostante che fanno di quelli stessi che fuor di ragione
introduceno. La filosofia per quanto può nell'ad operare il linguaggio non deve
scostarsi dall’uso comune, nè cambiare a capriccio il senso delle voci ricevute
o da sè stessa una volta determinate. Una indebita applicazione de’ mezzi di
conoscenza è radice mal nal ad'errore. Accadecia in prima dal non bene
distinguere con quali facoltà dove l'oggetto concepirsi; come a cagion
d'esempio in chi con la fantasia vuole comprender ciò che allrimenti non si può
che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più alla vivacità e felicità della RAPPRESENTANZA,
che alla fermezza del motivo che spinge all'assenso. E così le cose che
vivacemente e prestamente feriscono l'animo più di leggieri si ammettono che
allre non fornite di questa dote, ma più salde per forza di argomenti. Inoltre
si procede temerariamente a giudizii senza prima considerare se l'obbietto è
debitamente proposto giusta le leggi e le condizioni volute dalla natura. Quinci
le fallacie de’ sensi, lo scambiarsi per i principii proposizioni arbitrarie,
il formare assiomi illegittimi, il dedurre conseguenze erronee da sofistici
ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali richiede la conoscenza
del dritto cammino che deve tener la mente per le vie del vero, passiamo a trattar
diligentemente questa materia, alla quale premettiamo il seguente articolo, che
ad essa valga come d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque
animo ipso lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum
aliis coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus
est, ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media SIGNA (SENNI)
quaedam sunt. Sic enim nominantur quaecumque ad res alias innuendas sive natura
sive VOLVNTATE sunt INSTITUTA. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et
affectus animi patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria,
gemitus, nutus, sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem
facilitate, perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria
est. Quam quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius
commovere, propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob
oculos. Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam
significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate
conceptus, vi autem conceptuum ipsa obiecta significari. Ad originem sermonis quod
spectat, nemini dubium est quin, etsi vis loquendi ingenit a nobis sit,
verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet
determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut
verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem
exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae
necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an
homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem
reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias FILOSOFI distrahuntur. Non
nulli enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem
sermone destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire
potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et
ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo: ad
absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita
propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus
quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim
repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis,
atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad
commonstratam rem significandam libere determinaret. Expressis autem rebus
sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane
non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus,
propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile
potuissent. At si non de absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto
loquimur, rem aliter contigisse certum est. Nam ex sacris litteris indubie
colligimus elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse, quantum saltem
sufficeret ad domesticam societatem, in qua ille conditus est, retinendam.
Cuius rei congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est, ad divinam
pertinuit providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem; hoc multo
magis de usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas imminebat. An
sapienter cogitari poterit totius generis humani parens et magister, qui quasi
principium et fun damentum constituebatur futurae societatis civilis et sacrae,
sine actuali copia illorum mediorum, quae ad munus hoc adimplen dum tantopere
requirebantur. Accedit, quod eruditorum vestigationes, qui de origine linguarum
tractarunt, huc tandem concludendo devenerunt, ut omnes linguae tamquam
dialecti linguae cuiusdam primitivae, quae perierit, habendae sint. At si sermo
inventio esset humana, singulae familiae, quae diversis populis originem
dederunt, linguam sibi omnino propriam atque ab aliis radicitus discrepantem
creavissent. De utilitate vero, quam ex sermone pro rerum intelligentia mens
capit, permulta fabulati sunt FILOSOFI quidam, in primisque Condillachius. Putarunt enim illum esse
necessarium ad analysim et synthesim idearum habendam, nec sine ipso ideas
generales efformari posse. Quin
etiam eo progressi sunt, ut dicerent ipsam intelligentiam non nisi ex usu loquelae
progigni. At enim haec esse ridicula optimus quisque iudicabit, modo cogitet
non posse loquendi usum concipi nisi iam antea intelligentia sub audiatur. Non
enim quia loquimur intelligimus, sed viceversa quia intelligimus loquimur. Unde
bruta, quia intelligentia carent, id circo loquendi facultate privantur. Quod
si intelligentia e sermone non pendet, poterit illa quidem suis uti viribus ad
ideas sive dividendas sive componendas sive etiam abstrahendas, quin id circo
sermo velut causa aut instrumentum adhibeatur. Sed de hac refusius erit in
Metaphysica disputandum. Vera igitur emolumenta sermonis his continentur. Prae
terquam quod ad ideas communicandas inserviat, ac proinde ve luti vinculum sit
societatis; intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum verba ut signa
sensibilia in imaginatione substituit. Memoriae opitulatur ad ideas semel
habitas revocandas. Mentis attentionem figit detinetque in obiecto, quod
exprimit, quae secus ad alia contemplanda statim raperetur. Mentis opificia
conservat, efficitque, ut illa postquam contemplationis suae partus vocabulis
scriptura exaratis ad retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova speculanda
impune progredi possit. Hae potissimum utilitates e sermone in hominem
proficiscuntur; ceterae, quae a nonnullis nimium exaggerantur, sine fundamento
ponuntur, et animo humano sunt dedecori. Denique ad dotes loquendi quod
attinet, sermo sit perspicuus, usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua
obscurior sententia fiat; sed ea, quam rite descripsit Tullius CICERONE, ubi
inquit brevitatem appellanda messe cum verbum nullum redundat, velcum tantum
verborum est, quantum necesse est 1. ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA
DELL'ISTORIA ROMANA E DEI FILOSOFI LATINI DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN
VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI MITOLOGICHE SLIEHE HE KOS
WIEN HOFBIBLION KA 1 eeeeeeeeexe
erele cele ; egli Ateniesi lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra
ta presso i romani, i quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche
fosse in Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte
restano ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da
Vespasiano. Scrive Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel
tempio della pace le ricche spoglie, che aveano levate al tempio di
Gerusalemme. In questa tempio della Pace si adunavano quelli che professavano
le belle arti per disputervi sopra le loro prerogative, acciocchè alla presenza
della dea restasse bandita qualsi voglia asprezza pelle loro dispute. Questotem.
pio fu rovinato da un incendio al tempo dell'imperator COMMODO. Presso i greci la
Pace veniva rappresentata in questa maniera. Una dono aportava sulla mano il dio
Pluto fanciullo. Presso I Romani poi si trova per ordinari o rappresentata la Pace
con un ramo di ulivo PACIFERA. In una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene
chiamata “pacifera”; e in una di Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o
quella che porta la pace, PACTIA.Suddito dei Persiani, al riferire d'Erodoto,
essendosi ricoperato a Cuma città greca, i Persiani non mancarono di mandare a
di mandarlo, acciocchè loro fosse consegnato nelle mani. I Cumeifo . dea
P Pace. I Greci e di Romani onoravano la Pace come una gran qualche volta colle
ali, tenendo un caduceo, e con un serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia,
el'ulivo è il simbolo della Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore,
per additare la negoziazione, da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di
Antonino Pio tiene in una mano un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad
alcu di scudi,e corazze, j PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re
dell'isola d'Eubea, coman daya gli Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece
molto stimare per la sua prudenza, pel suo coraggio, e de sperienza nell'arte
militare; e dicono che insegnasse ai Greci il formare i battagliopi, e lo
schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione di dar la parola delle sentipeļle, quel
la di molti giuochi, come dei dadi e degli scacchi, per servire di trat
tenimento ugualmente all'ufficiale e al soldato nella noja di up lungo
assedio. ΡΑ1CHE tott an que 9 be 8Q CO 32 ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte
ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per sapere come doveano contenersi; el'oracolo
rispose, che lo consegnassero. Aristodico, uno dei principali della città, il quale
non era di questo parere, ottenne col suo credito, che si mandasse un' altra
volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso si fece mettere nel numero dei deputati.
L'oracolo non diede altra risposta, che quella avea data prima. Poco sod
disfatto Aristodico, penso nel passeggi. The branch of ‘ulivo’ is represented
in the reverse of a coin of Antonius Pius --. Matteo Liberatore. “Segno e cio
che, conosciuto, adduce alla conosence di un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su
Aquino. Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Liberatore” – The Swimming-Pool Library. Liberatore.
Grice e Liceti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapallo). Filosofo italiano.
Grice: “Liceti is a fascinating philosopher; must say my favourite of his
oeuvre is “Geroglifici,” which as he knows it’s a coded message – the old
Egyptian priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” – Grice: “Alice
once wondered what the good of a piece of philosophy is without
‘illustrations;’ surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di CREMONINI (si veda). Nacque
prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le
coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un
medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si fa per far
schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice. Dopo
aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna per
compiere e approfondire gli studi legati alla FILOSOFIA. Insegna a Pisa.
Padova, e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati” (oggi i galileii – degl’Accademia Galileiana di
scienze, lettere ed arti. Quando comparve in cielo una cometa, si
riaccese una controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova ma questa volta le difese della teoria
aristotelica furono assunte da L. ed il compito di attaccarla, partito ormai GALILEI
(si veda), e assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica, GLORIOSI,
che se la prese appunto con L.. Questi risponde pubblicando un suo De novis
astris et cometis, in cui, oltre a difendere il LIZIO, critica scienziati, tra
i quali anche GALILEI, ma con espressioni molto rispettose e lusinghiere. A
questo saggio GALILEI fa rispondere dal suo amico GIUDICCI col Discorso sulle
comete. Srive saggi di filosofia, tra le quali “De monstruorum causis, natura
et differentiis”, (Padova), con aggiunte
di Blaes, nei quali riprese le soluzioni del LIZIO sul problema delle anomalie
genetiche, e “De spontaneo viventium ortu” nei quali sostenne la generazione
spontanea degl’animali inferiori. Altri saggi importanti per la ricerca sono
“De lucernis antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardo, e la “Silloge
Hieroglyphica, sive antiqua schemata gemmarum anularium.” Tratta inoltre la
questione dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae disputationes.”
I suoi saggi sono chiaramente ispirate al LIZIO, in particolare gli studi sul
problema della generazione vivente e sul cosmo, entrando talvolta in contrasto
con GALILEI, specialmente per quanto riguarda la struttura dei cieli e della
Luna, che L. considera una sfera perfetta e trasparente la cui luminosità non e
un riflesso della luce solare, ma veniva generata al suo interno. Al centro di
questo dissenso cosmologico, c'e, infatti, il tentativo di spiegare il fenomeno
luminescente della pietra di Bologna, che L. considera un frammento di materia
lunare. Alcuni saggi di L. rimasero inediti a causa delle ampie discussioni
riportate sulle novità astronomiche. Nella congerie immensa dei suoi saggi
e commenti va notata la difesa della pietas d'Aristotele; quella pietas così
vivacemente messa in forse alcuni anni più tardi dal platonicissimo cappuccino
Valeriano Magno, che taccia d'a-teismo il sistema dello Stagirita. L. invece
disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga Deum et homines», e nel saggio sua
«Philosophi sententiae plurimae, fidelium auditui durae, salubribus
explicationibus emollitae, ad pias aures accommodantur, illaeso genuino sensu
Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua si compiace del distico Vulgus
Aristotelem gravat impietate, L. Doctorem purgat. Numquid uterque pius? La città
di Padova ed Spinola di Roccaforte rendeno omaggio al filosofo facendo erigere
una statua in marmo scolpita da Rizzi. A Rapallo vi è dedicata una via. Gli
è stato dedicato il cratere “L.” sulla Luna. Altri saggi: “De centro et
circumferentia”’ “De regulari motu minimaque parallaxi cometarum caelestium
disputationes”Vtini, Nicola Schiratti, Vicetiae, Amadio, Bolzetta, Encyclopaedia
ad aram mysticam Nonarii Terrigenae, Patavii, Crivellari“ Allegoria
peripatetica de generatione, amicitia, et privatione in aristotelicum aenigma
elia lelia crispis. Ad aram lemniam Dosiadae, poëtae vetustissimi et
obscurissimi, encyclopaedia, Paris, Cottard; Ad Syringam publilianam
encyclopaedia, Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad Epei Securim Encyclopaedia Genuensis
FILOSOFI ac medici, Bononiae, Monti, “De centro et circumferentia, Vtini,
Schiratti, “De luminis natura et efficientia, Vtini, Schiratti, “Litheosphorus,
siue De lapide Bononiensi lucem in se conceptam ab ambiente claro mox in
tenebris mire conservante, Vtini, Schiratti, “Ad alas amoris divini a Simmia
Rhodio compactas, Patavii, Crivellari,“De lucidis in sublimi ingenuarum
exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae Sub-obscura Luce prope
coniunctiones, “Hieroglyphica”, Patavii, Sebastiano Sardi, “Hydrologiae
peripateticae disputationes”, Vtini, Schiratti, Ad syringam a Syracusio compactam
et inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra di Bologna
da Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra curiosità,
metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro. Saggi di
storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La filosofia, Milano,
Vallardi, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille
anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia
della Scienza di Firenze, Bartholin, Institutiones anatomicae, Lugduni
Batavorum, Riolan, Opuscula anatomica nova, in Id., Opera anatomica, L Pombaiae
Parisiorum, Bartholin, Epistolarum medicinalium centuria Hafniae (lettere); Vesling,
Observationes anatomicae et epistolae, Hafniae, lettere a L.; Dallari, I rotuli
dei lettori legisti e artisti dello STUDIO BOLOGNESE, Bologna ad ind.; Edizione
delle opere di Galilei, Firenze ad
indices; Acta nationis Germanicae artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti,
A Gamba, Padova, ad ind.; Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A:
verbali delle adunanze, Gamba, Rossetti,
Trieste ad ind.; Salomoni, Urbis Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, FASTI
GYMNASII PATAVINI, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Renan,
Averroès et l'averroïsme, Paris Taruffi, “Storia della teratologia” Bologna, Favaro,
Amici e corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto veneto di
scienze, lettere ed arti, Favaro, Saggio di
dello Studio di Padova, Venezia, Ducceschi, L'epistolario di Severino, Rivista
di storia delle scienze mediche e naturali, Castiglioni, Storia della medicina,
Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito di dotti padovani in Atti e memorie
della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, Alberti, La prima
incubatrice per prematuri, Minerva medica varia, Boffito, Battaglia di marche
tipografiche di Bella e l'ultima memoria
scientifica dettata da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La iconografia di L.,
in Genova. Rivista del Comune, Geymonat, Galilei, Torino, Rossetti, L'opera di L.
in un manoscritto inedito della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova,
in Studia Patavina, Bertolaso, Ricerche d'archivio su alcuni aspetti
dell'insegnamento medico presso Padova, in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro,
Contributi alla biografia di Alpini, Tomba, Gli originali di Galileo in Physis,
Ongaro, L'opera di L., in Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro,
La generazione e il moto del sangue in Liceti, in Castalia, Rizza, Peiresc e
l'Italia, Torino Simili, Una dedica autografa di Galilei a L. e il clima delle
loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo nella storia e
nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale, Firenze-Pisa,
Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del mito italiano, in
Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della scienza nel carteggio con
Galilei, Bollettino di storia della filosofia dell'Università degli studi di
Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro dell'universo nel "De Terra"
di L., Soppelsa, Genesi del metodo galileiano e tramonto dell'aristotelismo
nella Scuola di Padova, Padova, Agosto et al., Rapallo, Berti, Galileo e
l'aristotelismo patavino del suo tempo, in Studia Patavina, Ongaro, Atomismo e
aristotelismo nel pensiero medico-biologico di L., in Scienza e cultura,
Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per una storia degli studi antiquari in
Studi e memorie per la storia dell'Bologna, nZanca, L. e la scienza dei mostri
in Europa, in Atti del Congresso della Società italiana di storia della medicina,
Padova, Trieste, Padova Re, "De lucernis antiquorum reconditis": il
capolavoro calcografico di Schiratti, in Ce fastu? Lohr, Latin Aristotle
commentaries, Firenze, Basso, erudito ed antiquario, con particolare riguardo
agli studi di sfragistica, in Forum Iulii, Basso, "Fortasse licebit".
La marca tipografica di Schiratti e l'impresa accademica di L., in Quaderni
Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta del condotto pancreatico, in
Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti substantia" di Ferchio fra
tradizione e innovazione, in Galileo e la cultura padovana, Santinello, Padova,
Kristeller, Iter Italicum, ad indices. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere,
De Agostini, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Ruff. L.. Beerbohm:
“Send me a letter; I live in Rapallo.” “How should I address it.” “Beerbohm,
Rapallo” “Do not worry, there is only one Rapallo.” “Vico L., Rapallo” – “Statua a L. da Rizzi, Spinelli
Roccaforte, Padova.xstril. minnstiii UAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatia in IV
libros De his, quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1 in quo eaptobatissimisautonbus
afferuntur obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab omni obo potuque
abftmuere. Abstinentiae vana: intra fepumam diem conclu- .ffaec. Abfimenu, a
iepfmo ad decimum diem extenfj. Abftmentixi decimo ad vigefiraumdiera protc-
fe.cap.£. Abstinentii ad mensem produAfe. Abstinentiae a primo ad tertium mensem
produ- . Ax. c Iehmium populorum Lucomonae ad quinque me des quotannis mire
productum. Abstinentia Oftimeftns in muliete Patavina. Abstinentia pueli Tufer
ad feitumdec unum- Spiritus non aliaere. Aerem in mitto vivente non ali aere
intrinlecus quoraodocunqucattra Ao.lenem in mitto non abfumerc acrcm. Partes
animalis 4 przdommio aereas non ali aere inspirato. nui Aerem hunc, quem
inffiramus, non efle alendo & creari c 'i t. fpintus. Ad nutricationem
metaphoricam non semper cd- sequi veram Rondelctij difficilis alfertio.
Soluuntur argumenta quibus nititur pnor opinio, mensem protradla. Abstinentix
ad II annos produAx. Ablhncntix ad III annos protenf. cap.i Historia puellae
Spirenfis quadriennium abftinen- . tiscap.it. Abftinentt a quarto ad duodecimum
annum de- duAx. Abstinenn vitra duodecim annos longissime pro duA varia
exempla. Abstinenti $ diuturnae incerto temporis spatio ad- i' mentr. Difficultatem negotii nos retrahere
non debere a proposito. Curante omnia oporteatnos aliorum dogmata de Chatnxleontcm,
ac Viperas non ahaere propol i t c tpeudere. inqua omnesaliorum opiniones
examinand breui catalogo numerantur. tn quo examinantur sapientum virorum
opiniones de natura et caudis tam diu- turni lciumj. Opinio Argenteoj et
aliorum exiftimantiu abstmcntcs nomos nutriri aere inlpirato. Cancmlcucm et
Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio Medici Clariflimt ex Augento,
Si . M a nardo contendentis abstinentt ncftrosalf odoribus, fle
exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita fcntenua, &:
primum often diturnon elfe in topi acre vaporem , ac cxhalationcm.cap.a».
Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi in fanguincm.St^
alimentum.Exhalationem non alere 1eiunantcs. Expenditurallata opinio demonttrando
primum Non omne fapidu111 alere. caloris aAionein humorem non elle conti- nuam
;caqueiugi, nonidco affiduam clfc debe- re nutricationem, cap.i. intus in
animali aereos non efltjfcd igneos. C. J. aimores proprie non ali.Spmtus in
viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non alere,quia non funt miftorum fpccits,
prima ratio Arifiotchs aduerfus PITAGORICI c1phcatur.cap.2d. Secunda ratio
Anftotclis LIZIO demonttrans odores n6 alere , quia per coAioncm a calore non
podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne genera sed vnicum ottcnditurj nec
ali omnia qiuecu que diffluunt in viufnteA^" reftauritionc indigent. Acrem ml piratum pon efle
miftum , nec adeo ut fit alendo corpori. Explicantur allata dogmata Galeni de
eo quod ctt ipiritus aere nutriri, J. Alexandri, Nicolai, CICERONE, ac
Thcophraflirii- fla confiderantur.de eo , qupd eft att:m alerem fpiritus,&
calorem; & ad A rittotclis, ac Hippo- cratis ccnfuram rediguntur.tf.
Hippocratis afiettio dc triplici alimento illuftra- tlir Olimpiodori. ic
Platonicorum dogma 'de horni mbus acre, ac radijs folartbus enutritis expendi
tur.cap.primo noridari trianutrinientorum trrfs T Omnealimentum, feuexternum,feuinternumco
coqui deberc, coftioneque aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non
poffe, vcab excrementis dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo
corpori omnino diflimilcm naturam obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris
nec tenue, nec craflum fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio
Arillotelisoftcndcns odorem nonale requiacoftionea calorenonincraffatur.cajt
Quarta ratio, qua Ariftotcles probae odorem non Ci£,& quandopropemare ambulantes
falfura. re fenrianr, & alsarum faporem quos prope ab- finthii fuccus
agitatur. Tertia opimo doitiilimi Co/lii prxeeptoris exiftf m.mns abflinente»
nofttos aqua enutrita» primumofle- Propoli ta sententia confideratnr, ac Ari
ditur ex autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins a,lere, ftotehs, Galeni, &Auicennp
cap Aquamvi calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc. Pvrauftas non ali exhalatione illi connmili
crementoarugmeri fine ten^ imminutione, ca.7o. Plantae non Canemleucm non ali
rore, Manucodiatain rore non pafc1. Argumentum duci non polle a brutomm alimen-
to ad nutrimentum hominis. Quo fcnfu verum fit Quod ftpit nutrit, Exhalationem
acri permiftam 116 efle fapidl c 5 t Exhalationem non efle odoriferam , &
Allomos noneffe, quiodoribusnutriantur, quicqurdFici nusfenfcnt. Democritum ,
Homerum odonbus vitam libi prorogafle ceu medicamentis , non vt alimentis. Animo
delinquentes odotibus recrearr non ut ali- mentis,fcd vt medicamentis
Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio Aqua nihil inefle lcntiatur,nec
epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in alendi fubflantiam.
effealendocorpori, quianonferaturadmem- Aquam coflione non fienfimile malendo corpo-
bra nutrimentis dicau. Quinto confirmat Ariftotcles odorem non alere, quia
nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. J. Odor effe medicamentum ,
non alimentum texta ratione probatur, Ccnfurare fponfionum dcraonftratiombus
Antro telicisab Argcntcnoallatarum. Respondetur ad argumenta, quibbs nititur
fenten fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra Turgentem non ubique
pntfto fuiffe ab- ftinentibus, nec effe milium, cap.jd. Bxhalationetn odore
tciro afferam efle , lapidam ri,vt decet alimentum cap.do. effe Aquam non effe
tale mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe vehiculum alimenti,
alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut & propterea non
aliquot primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent;
quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas
ali,nec aquatdia. campf.t Arfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse
pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammec aqueum. Aqua non reftmn
quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf carnem, 5tlac;quxpluatpoftca.
AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi noneffe.Exhalationem a calore non
condenlan. Exhalationem in acre cogi non poffc infanguine Qua ratione potuerit
animalia pluere,ac fpeciatim vitulum, pifces,ranas,atque lemmer. Hippocratis
dogma illuftratur de cxhalatrone ve Solis attrafta ex animalium corporibus. Rorem
non effe vaporem vi caloris c6crctum,ncc alimentum cicadarum.Mannam non fieri
ex vapore vi caloris dentato in aere,nec folam alere poffc ad Hxbraic* mannas
difcnmcn.Mei non effe purum rorem concretum, nec tale quid fine alio nutrimento
diu pofle hominem fa ftcrilitatis,& pilobus affumatur non vere alit adeo ex igno, Animatu quomodo
conftituantnuurtriantur aqua_> & aqua,vt moucanlur nigonee,ft vere
alimentum. Hippocrati ; cui aqua cap.<8. Quod ex ciborum folidieofrleumaquam
;& quomodo bis in alimentum nonpondere reljxsndeant Hip- aflumptis excreta
in quam Quomodo, alimentumnon alat mfi dJutumAri* inlpirarcdicuntur abftinentes,
necvtnfquerd6 llotcl1.t.miftumnutricationi. aptumac» Rhinuccmvcnto,&aere, autrorenonah.
(.lorcnoftr0 .asl.oris, etfifummefr. igi.danon efle pofle genus ahmenti. Aquam
non fieri . putantis abilincntes ali nec humore vt confumptionem tingat exungui
ad humoris pociati : dequevmfu.lctaip.hdcyr. iccundc coctionis ex veneno fit,
& Ariftoteli ve- ineflecaliduro c.7J. redicatur in aqua paucaluemndo
idoneum.etfi ter- Aquam non efle nmoinft cuarmeat, alij fue excrementis, renis
partibus ‘ HippocratTi'id.icatur potcntiori- Mulla quomodo folam potantes
diutius vi- qua,&L.curaquamabltincntcs fi uant,qu.momnino , aqua nona-
dicaturommumpotulcn Aqua Celfoqua rationenon alat cap-7d. torum imbrcilhma.li
Quarta opinio Bopaiinnincaiti caloris fumrnam imbc- potuifli aquaob cilhtatcm.
& oftcnditur neque Expenditur prupoiita opinio, allata lententia»
fubflantia cedit no- & Aquam moflratem Tolam non eiTe id,quo alantur.
Fuffragante Hippocrate^cAriflotelc.cap. iox. Lupi fame vrgente cur terram
comedani,fi ea non alumur.Serpentes etfi latentes non ali terra , & cu r
terram comedere dicantur.Bufones terra non vefci communi ,& argumento non
efle ad humanum alimentum demonflran- duin dKcaci. Animantia imbecillo calorepraedita
Columbicurtunbslateribus,&rubricavcTcantur, Aquam notlratcm non continere
milium , quod fi terra nonaluntur.cap.io4. futficiat fuftinendo calori exiguo,
Elephas Ariftoteb quomodo lapidem vorer,ac ter A(Ira,&cauda; regentesmundumquid,&~quo-
ram; devfuOpi)apud Afianos abdinentes commemoratos, neque abfolutcqui bus
exilis calor incft.aqua lola diu viuerc, ac nu- triri potTe.Rclpondciur
argumentis allatam opinionemco- niumcntibus;ac primum dilquimur an calor ex
aqua fpintum gignat, collibeat , animet. cap-7p. modoina quamagant.cap.8a.
Aquahacfentiliquomodononnullanutriri dixe- rit ARISTOTELE. An inter
plantarocunum aqua fola nutriatur, Cicadas excrementis non carere, nec
rhintaccm. Cicadas non ali rorc-cap. 8rf. Rorem non efle aquam Gcco aflcftam
,vt eo nu- triente aquam dicas nutrire.Etfi ros alerct,non tamen ideo alere
polTc aquam. Aquamfolamcalore digetlaranon degenerarein
quoddamtertium,quodiitaluncntumplanta- E» fcrro. St lapide vi calcris^c
fpiritus interni,nul Sitim^acfamemcl Teapetitumalimenti,vtobicdri, lumfuccuin alimentare
uicduc qnccrubiginiim quo fcnlu verum fit: non tamcu ideo aqua nu- alere..
tnet, quzinlitiexpetitur, Terra, &lapides vtmiftafintj quamnoshabeamus
Sapor, et suauitas vt Iitalimenti conditio,&aqua cumplantis fimilitudinem;&curvnitertiofi-
rum. t fapida, luaui Tjuc fit, etfi non
alat, cap.p 1 . Quomodo Anflotcli pituita dicatur altrc permi- tia cum cibo
puro, ablque eo quod aqua; vum tribuatalendi. Theophraflo quomodo plantae
alantur aqua pura, quxverenonalit.Aqua etfi Galeno dicatur bilelccre, cur
infangui- tur, non ideo cx cafblanutrietur. Quomodo Anflotcliaquadicatureilepotiusa-Sexta
opiniododiillimi Medici opinanti steiunan- Cameluscurbibiturusfontempedeturbet;
Struthiocamelusautem curtcrram, ofla,lapides, ferrum comedat; an ca digerat
fibi in alimcniu. Mures farios',& Armadillos, Codertofquc Indi- cos non
oflenderc abflincntibus noflris terram ceflblcinalimcntum Lacertum indicum no
ait arenulis, aut lapillis, etfi ijsonuflum ventriculum gerat. Noii omne mutum
humido pingui fcatcrc ; nec omne bumidum pingue alcrc.Homo terram edeus non
alitur luto facto ex terra, & Taliua/ cupituitain ventriculo exundante, 1 ncm,6d" in alimentum conucru
nequeat. c-P4- queumquid, miltum quamaqua,&Jim- , plex Quomodo inaqua gigni
polfint Arifloteli (lirpes, 6t animalia, cui tamenaqua non alu.Vrricam marinam
non ali aqua lola. Quinta opimo Clanfiimi viri putantis abtfinentes
commemoratos ab terra clanddlmc comcla. tesnoflrosaciboquidemomniabflinuifle;at
vmi potione vfosj vnde alimentum fibi compa- raucrint. Examinatur allata
fentenna oflendendo abflinen- tcs noflros non vlbs , nec enutritos funlcvmo;
folumque vinum alere no pofie partes corpons folidiores; nec fuificere ad
alimentum multo tempore. Expenditurallata fententia, oflcnditurqucprimu
Occurriturargumentisprobantibusabflinentcs abflinentcs noflros terra,&
calce non enutritos, cap 99- Terram, & calcem nulb viucnti, ac pnefertim
nui li homini alimento efle pofle.Allacc , profcillarquc opinionis
fundamentadiri- noflros folovino enutritos, oflcnditurquc pn- mum quomodo, fi
foio fanguine alimur,lolo vi- no ali non poflimus; quod tamen in fanguinem
verti poteflt licet non abiblute id pronuncian- dumiic.cap.no. milia inter lc
non iint neceflano fimilia. Vteademfitaniinabbus materia generationis, alimenti
; vtque mures Thebani e terra nalcan- tui.Hominis etymologia non conuinci nobis
ortum, itviciumcfola terraeflevalere,Cur fi homo a Deo cx terra fola condi uis
efle dica muntur, oflendendo primum ab flinentcsno- Vinum vt fitlinguisterras:
nonomnifanguine., flros non comedille terram, nec ea nutritos, li- cet appeuilc
illam, fuauitcrque comedille pona- tur.nos ah poffc: an vinum fit venenum
cicutz , vt fcrtur.De vmi,& ianguinis mutua proportione Alexan- Abflinentcs
non fuifle malo habitu, & cachexiam non efle abundantiam prauorum
fuccorummcc ncccflano femper fieri ab clu tcrr9.sc prxlercim uoftris
iciunantibus,fi qui fuenutcacheducv Vino folo fi carccratus vixit ad vigmn dies
. li fc- dri placitum explicatur, Vini, lafiis proportio explicaturi &
vtrum ladle lolo totam vitam viuerc p0flimus.nes maxime vtantur Platoni , &
graciles Gale tia ad alimentum. no; nontamenabrt. nentesalipotuifle. Quomodo ex
Galeno quisabfquenutrimentoper Alimentum maxime proprium an' folum ftifficut
alendo corpori; vinumque vt fit alimentum ta- le,quod omni viuenti competat,
brutis przfer- tuu,acplanus,Vlcimum alimentum vule quod fit; an ex vino fo- lo
liat; vtrum omnibus partibus alendis fuf- fic1at.cap.i2d. yinofedari famem non
poflc,fitim pofle; fame fi- inul ac fiti animal angi non pofle; famemque,ac
fitini ad varias partes attinere ;& quid proprie fit fames,ac ficis
explicatur, manens ob virium lecons
imbecillitatem diu fuificerepoflit. cap. Abfiincntes an crcuennt; deque vnguium,ac pilo
rumincrementom abftmentc Confolcnunca. Fetus in vtero vt fimul non fiat animal,
homo; quid ptoprie fit anteaquam humanam induat naturam; nos non ali vt aluntur
plantz; Arifio- telefquc a crimine liberatur,Crudiori fucco & pituitae cur
nullum a natura da- tum fit receptaculum, fcd cum fanguinclaba- tur.Hippocrati
vinum iedare famem vt medicamen- tum,nonvtalimentum; Galenoautemvinum
Olfauaopimo Cardanireferentisabflincntinm. folum nutrire inter alios liquores,
non corpus vmuerfum fufficientcr alere, Septima opinio decernens abflinentes
noftros ali pituita, St loccis crudioribus , qui vltcrion calo- ris aftionc'in
probum alimentum vertantur; quod Magni Alberti placitum recepere
plurimi.cap.isp. Examinatur allata rententia,oflenditurque prirau abilinentes
non fuiffc calore imbecillo, cui fudi nendo ad multum tempus fola pituita
fufficiat. Abflinentes nec pituita craffa.cruditatibufue abu dalfe.ncc
enutritos fuiffc. cap. iji. nofirorum ieiunium in copiam humoris mclan chohci
cx lentis, Si eradi, humoribus exoru. irap. Perpenditur Cardani fententia
demonfirado cauf lasdiuturaj abftinentia: redigendas non ede in aerem^ut in
reliquias ingluuici,aut in mclacho ham.Diluuntur Cardani rationes offendendo
cicadas non aluere; comparatum cx ingluuic non fuffi ccrc ad ieiunium multorum
meiifium,& anno- rum; caudas ifiasinabfiinentibus nofinsnon_. concurrere;
nec humorem melancholicum una cumalijsconditionibus propofitis huius abfti- nen
tia: causam eflc. o Satisfit argumentis communientibus Alberti fen- tcntiam, &
offenditur primovoracitatemnon Nona opinio Bonamicifiatuentisiciunantcsali
neceflimo pendere a frigiditate, nec effe caufsa colliquamentis internarum
partium, cap. ijr. cruditatum, nec habere locum in abifinenubus Perpenditur allata
fententiadcmonflrandoabiti- Ablfincntitim cutem noefle ita euaporationi clau
fiim, vt retrocedant femperdenuo vapores in a- • I11nentum.Vndc oriatur naulia,
mappetentia,6c. ciborum o- dium ,-an hfcomnia fuerint in abflinentibus; &
vtrum a pituita fedari pofTit appeti tus,& fiat femper inertia. Quo fcnfu
Hippocrati, &T Galeno pituitofi dican tur medum ferre prxter conluetum,
&abcs_» vtilitatem pcrcipcre.c Animalia voracia qu* fint Ariflotcli,6t_
quomo- do abundantia pituita minus cibum decoquat, cHippocrati fines cur
ieiunium tolerent,& quomo do frigidi fiaruantur.Auiccnnx vt cibi ncceffitas
fit ad infiaurationem deperditi; vt appetitus dcijciatur,& ocictur; vt
vrii,& latentia bieme alamur, Humorem,qui vomitu reddebatur abftinentibus,
nonfuiffcpartemeius, quoalebamur,Calorem non ncccflano icrnpcr abfumcrchumi-
dum, necnecellarionifi confumprum humniu alimentis rellaurctur, vitam
Citocxtinftam iri. Semina fiirpium
extra terram non ali humore in- ternopituita: corrcfpondente Pullulas pituitz
copiam non indicall'e,qua nutrire nentes noftros non potuiiTc abundare , nec
enu- triri colliquamentis. Explicantur argumenta confirmantia profcilTani
opinionem, 5tprimodccc miturquomcdoexfc mine dixerit Anllotclesfien
languinein,offendendo etiam colliquamenta non nccdlario ven tnculum petere.An
obzli gracilibus fuperuiuantin abfiinentia; id tamen haud fieri quia illi
pinguedine liquata nu trantur. Calor na tiuus fime non intendi offenditur,
ficcita te non acui,ncque colliquanuus cfsc in famis, In fuinma neccffitatc ali
menti colliquamenta non confluere ad ftomachum,velur adeommuno proraptuanum
vmuerfi alimenti, c Quo fcnfu Arifioteh colliquamcntum liat vt ali- mentum
tnconcoifium,& an ventriculus fitlo- cus ahmenu inconcufli. Quomodo Anftotch
diuturna fame laborantes colltquentur,&colliquamentafi adlocumci- bo
deftiuatum influxerint, pro cibo corpori ap-plicentur: & Plutarchi placitum
expenditur, Qua ratione Hippocrati ventriculus vacuus dicatur frui corpore
colliquefcentc; ac partibuscol- liquatishuinor adventriculumdefluat, fi non
alimur colliquamentis..turpuella Germanica, necabfiinensalia. Decima opinion putantiumabflinentesalimcflrui
Appetitus rtlc habeat ad indigentiam, & mdigen fanguims portione ab vtero
materno libi recondita. dita.cap.tdo. Examinatur allata fententia
dcmonftrando ieiu- nantibus alimento non efle menftruura beni- gnum ex vtcro
matris comportatum cap.itfi. Refpondetur argumentis allata; opinionis,demon
Arando fetum in vtcro non litue ; mcnftruum haud fatis ede nutriendis adultis;
nec fium pel- lere. da.. VarioIis,& morbillis origo an fit ex menllruo fan-
guine ab vtero comportato, &_ quomodo, cap.ifj. Vndacima opinio Brafauolz,
aliorumque pu an- num quod circunfcrtur de abfiincntia plurium menfium,V
annorum, fabulofum quid efieo, atque fiAitium. Dccimaquinu opinio exiftimantium
abftinente* noftros non clfe corpora viua,fed cadaucn Dae mombus
afliimpta.Cribratur addufta opinio, dcmonftrando pofie cor poraphyficc viuentia
diu viuere fine alimentis; & a Dxinombus aflumpta cibarijs vti valere
Refpondetur argumentis allatae opinionis, often- dendo quo fcnlii Ariftotcli
fien non poftit vt vi uatur fine alimento; vtrum alimentis vti pofiint viuentia
zquiuocc, fine anima vcgetali Dccimafexta opinio afferentium abftinentes no-
ftros ellc homines, at nonviuere vitam huma- nam, led Datmomam, quz cibis non
indigct,vt ait lamb!ichus.fumptionem pabuli. Expenditur allata opimo,
monftrando quorum- abfiincnti adiuturnaveraxfuerit, quorum Libratur ad dufta opinio,demonftandoDzmo-
mendax, & fabulofa dici potuerit: qualeuc fit alimentum.Soluuntur argumenta
profeiflse opinionis du- fla ex automate veterum, BC iuniorum. Calorem infitum non
refrigerarialimentisintrin- fecusalfumptis.Duodecima opinio Harueti, &
aliorum exiftiman tiumprxfatos homines fraudolenter abftinen- tumfimulafle Examinatur
allata opimo,demonftnndoqui dolo feieinnium fimulauermt ; & qui verea cibis
ab- ftinucrint ; pucllxquc Tufca- hifioria explica- tur. cap. idp. Diluuntur
argumenta virorum fublimium,often- dendo alimentum, refpirationem haud efie ad
vitam fimplicitcrnecellaria, licet eam con- ferucnt.Decimatcrtia opinio eiufdem
Harueti cum alijs dicentis huiufmodi ieiunium a fopranatura- li caufia prodire
, ac miraculofum edo nes non pofle in
rebus phyficis naturz limi- tesegredi; necomnibusabftinentibus, clan- deftinum
alimentum fubminiArailc Tolluntur argumenta fuperioris opinionis mon-
ftrandoquomodoex Iamblicho, Apuleio Damon poftit dfc caula eorum , qua; perti-
nent ad aftiones hominum admirabiles Quaratione Ariftoteli fiant fomnia futurorum-
prxnuncia, &t_attiones hominum referantur innaturam, cafum, <V m
fizmonium-Quo icnfu cx Ariftotelc alimentum ad animatum referatur, & fit
non fecundum accidens, led per fc: ac vtrum per fe includat ncccilitatem.
Dccunafcptima opinio Apponenfi,&poft eum- Rugcni Baccomj cauflam diuturnx
abftmen- tiz referentis in virtutes aftrorum , nuas vo- cant alij peculiares
influentias, a quibus pendet tum magnetis conuerfio ad polum, tum— maris xftus,
tum frigiditas in hxc infera, Expenditur allata opinio , monftrando quale nam
miraculo fitadfcnbendumieiunium, quale naturz vinbus.cap. 17,. Satisfit
rationibus allata; opinionis, declarando quid fit Hippocrati Diuinum m moribus
; ablh nentes non omnes pgrotare ; nec feptioue diei abftinennain effc letalem,
cap. 177. Decimaquarta opinio ex Diogene Laertio, ac De metno fiatuens
ieiunantes clam ali eonfueuifie cxlitus ab Angelis cibo aliquo pretiofifiimo. Perpenditur
adduflt opinio monftrando nonom nes commemoratos abftinentes enutritos effej
czlitus ope A ngelorum clam illis opumum alimentum fuggcrentium. Occurritur
allatis rationibus in oppofitum;& pri- mo explicatur vtrum nutrientis
aninuf quiesa fua operatione fit mors. Quomodo Ariftotcli alimentum 110
fumentia ani malia, &plantzcorrumpantur; Biquaratione
ignisparuusamagnocxtinguatur, finonadcon Ponderatur addufta fententia,
monftrando cauf- lam adeo longi iciunij referendam non efle in-
v1rtutcsaftrorum.cap.187. Diftoluuntur argumenta propoli tx fententix , aC
primum Celn, BC Apponenfis au toritate libra- ta, oftenditur non femper horum
notitiam aes lis auipiciandam efle. Influentias non cflecauflas
iciumi.aliorumueeffe ftuum abditorum , ac fpecianm conucrfiones magnetis ad
po!um.Diuturnam abftincntiam , marifque fluxum, ac refluxum non; communicare m
ortu a mo- tu, lumine, aut influentijs cxli ; led hunc ab exhalationibus de
terra turgentibus ; il- lam ab alia caufa pendere Frigiditatem in his
fublunaribus pendere non- abInfluentijs,fedacriorumimmobilitate,vt verumfitcx ARISTOTELE.
Decima Dcciitiiofliua opinio decernens longioris abfti- nentix caudam
referendam ede m ly mparhiam complexionis cum aere,6c. antipathiam cum_, cibis,
cap. ipz. ludicium promitur de hac opinione, offenditur- que hominis
temperamentum eam cum acre iympathiam non habere , vt fine alimentis illo
fudineatur. cap ipj. Dilfoluuntur argumenta, quibus probatur ieiu- nium pendere
a fympathia cum aere, & antipa- thia cum alimentis; odenditurque vi 1'ympa-
t hix aerem non pode in alimentum cedere, ve- nenum vero polle, c Decimanona opinio
cxiltimantium diuturnotem pore a cibis abdincre proprietatem cdcindiui-
dualem.cap.ipy. Penditur hxc opimo, aperiendo quid Physiologo sentiendum (it de
proprietatibus occultis tum fpccificis, tum quoque indiuidualibus appella-
tis.cap. 1 pif. Soluuntur rationes viri egregii, ac demonftratur autorem
problematum non dfe A phrodifxura; cur odor thuris , & rufarum alios male
habeat, alios recreet; alijsaluum loluat.ahjsaddrin- gat; &T Galeni,
Thcopraftique dogma expli- catur. Vigefima opimo Abulenfis, cui tam longa;
abfii- ncntixoneocftex Ecdafi quaieiunandum , anima quali ii corpore alienata
canfucta munia non obeat. Eiaminaturallata opinio, demondrando Ecffadm non
cdccaudam immediatam longioris ab ftincntix ; ac tandiu ici unantes haud omnes
£c flafimpados fuille, cap.rpp. leant: Porphyrio, & Galeno explicat»
cap.iO<5. Abdincndbusanaliquideffluatecorpore,&quid exire valeat. Vigcdmateriia
Opinio Citefij dicenris diuturne abdmenrix caulfam fuifle conffnftioncm, fiue
comnreffionem vifcerum nihil nutrimenti ad- mittentium. Examinaturo
iniopropolita, demondrandocoar ifiationcin vifcerum iciumj caufsam non ede,
atpotiusctfcftum; nullo quemodofamem, fi- ti mue tollere, fed augere, cap. jop.
Satisfit radonibus propoli tx fententix , aperiendo
quarationearftccinflipeflore,acventremi- nus comedere podit.cap.2 1 o.
Vigefimaq uarta opimo Ioannis Langij exidiman tis longum hoc iciunium a morbo
pendere , ni- mirum a tabe iecons, ac ventriculi ffupore, ac omninoabatrophia. Expenditur
allata fententia,odendendo caudam cur diu viuant aliqui fine cibo non ede
morbo- lamaffeftionem. cap.ir*. Occurritur allatis rationibus , declarando
difieren tiam iciunij fan£torum,& prophanorum: non_> femper ex morbo
intermitti funiiiones vitx: quxue operationis lilio morbum fequatur. cap.i tj.
Vigelimaquinta opinion Qucrcetanireferendsab- ilinenttx caudam in
petrificationcm partium . ventrisimi, &nutricatumaliarumexaere,ac
odoribus.Expenditurallata lentenda offendendo longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione
par- tium naturahum,& a nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente.
Soluuntur allatx rationes hanc opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter
Ecdafim,ac fom- num;VinterEcdafimgrauem,acleuema- gcntes.cap.aoo.
viralianonaerenutrita,necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij
afferentis homines diu ab alrmemo abdincre , anima illorum pec cataphoram,&
intendorem fomnum vacante a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, &
improbatur opinio decernes ab- ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori
fomno prodirc. Refpondctur ad argumenta de (omni differen- dis, & de longum
tempus dormientibus, cap.ioj. Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,&
Mercuriales dicendum caudam longi iciunij ede condri&ionem cutis,
pororumque occlu- fionem quidquain ecorpore diffluere non per- uri
ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia demondrando vfum, ac necelficatem
alimentorum non ede abfolute indaurationcm deperditi, fcd m alium finem : nec
ita meatus omnes occludi pode,vt nihil ef- fluat ccorpore.cap.105. Soluuntur
Beucdifli, & Montui radones , oflen- dendo cur cxlum alimends non egear;
& quo- modo corpora , c quibus nihil effluat, ali va- nicade. Vigefimafcxta
opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo,potuqueviuercviherbx, ac
medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu. Expenditur allata fentenda offendendo
abdinen-' tesnodros nullius hcrbx,autmcdicamenu vir- tute adeo longum
pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam corfir- manubus,
confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque pellentium
Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam aiuturnxabdinendxin puram
confue tudmcm.cap.ziO. Expenditur propofita fentenda , offendendo con- tuet
udinem non patere tam longam abffinen- tiatrccap.2 2 r. Satisfit rationibus
viri Clariffimi, offendendo qua rarionemedicamenta,&venenanonagantin_.
aduetos;&quomodofc habeat confuctudo ad cibum, & potum, cap.aaa.
Soluuntur argumenta Quercetani odendendo ab (linentis vilcera naturalia non
fuide petnficata; libri Capita centum Prifatio, inqua& difla dicendis
attexuntur, tam mitti Diftnbuitur viucnrium genus m fuas fpccies fupre
Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe habeant ad alimenta propofira vi-
ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen animalium St in vtero, extra vtrmm .
femper viuere fine alimento, cap.3. In animalium mortalium genere aurelias, 8r
nym phas appellatas nunquam vllo alimento vri: co. paraturque generatio infefli
ex verme cum ge- Ariflotele in tex- pofle Ariflo neratione hominis.cap.4. Semen
plantarum non tota fui vita, fed tamen fine alimento viuere.cap.y. Oua diu fine
alimento viuere, quamuis non diu peratione viuere ex definitionibus nflotcle promulgatis,
Deducitur hoc ipfum cx tngefimo De anima, . o- animae ab A- fexto fecundi vitam
fine alimento viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu
fine Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem
nis adftruens. naturalibus nutricatio- alimento viuere. cap.7. Stirpes terra
infixas diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8. Brutorum
imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin Moralium,
primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim icuinio,&ortu
brutorum viucnrium intra ioli- diflimos,imperuiofquc lapides copertorum.c. Aues
quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam tolerareabftincnriam.
cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere ieiunium. cap.r Homines
diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique caufla dc propofito
nobis in- quirenda fit.Quotuplex,quiquefitcommunisidea vniuerfa- , lilque forma
diuturni abfhncntra. y. E quibufnam fontibus hauriantur argumenta 40. caufla
efficiens urqs abftinentes non ali confirmantia, cap. Homines in diuturno
ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo radicalis humoris a calore na- ^nem
intermittere pofle ratione aninra. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto
co tf- penitus prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione. De differentia
originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqjrationecaloris.c. jr. iqualitatum
mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne radicalis
humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui calonsfliumidique
dicalis explicatur. cap4y. 1 Pofle diuturnam nos agere vitam citra nutrica-
tumex ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima & corpore mediante
calore conftitui. tur. Diu intermini pofle nutricationem abhomine ra- propofi-
tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle intermitti funrtionem alendi ratione
peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a quibus feiungirur aequalitas humoris
primigeni;, Differentia promulgatarum ipecierum hu , , om- natiui mons
quicalorifubditusefledicitur nino ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera
nutneatus viuerepof- fe homines dc lententia principium autorum, ac pnmum
Hippocratis, Nutricatione diu intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3
nutriendi munere penes durationcm. cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem
Celfi.c.14, ad aures Galeni ex illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu-
natiui, SC humidi radicalis reperiri pofle. . & humoris naturalia Quomo-
ffir.- caloris, ... I tvi dicendorum ratio , naturaque proponitur. Liber Tertius,
inquoexrei natura difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti-
tuentes, efficientes, conferuantes, terminantes , ac diftinguetcs cum
generarim, tum fpeciarim. fpecies Hominem diutius nutricatione intermittere
pof- no- 1 6. funflio- diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in
homine diu fcruari pofle. cap. de lc de mente Ariftotelis in y. problemate
prtmit 9. 1 j. diu- frOionis.aif.j6. Ariflotele fuppofuifle,ac potius exprefle
3. Laurentio nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum
confirmatur ex eodem Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi-
Confirmaturhomincmfine aflione alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni
excorni 1 feOionis. ' t.a'phor. Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex
Auicemra fententia. cap. quoque pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle
intextuij.hb.i.dc Confirmatur id ipfum ex eodem tu 14-e1ufdcmoperis. Nutricationem
inviuente intermitti ho- anima. teleautorein yltimo problemate dteimtt fOio-
rir. Confirmatur hominem pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia funflionem
alendi poffeintcruutte- re,quod ena notauit Auerroes s.dcan. Marcello
nutricationem in viucntibus pofle. t.
5.C.37 intermica Colligitur forma, 8 idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum
iciunantium. cap Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem. Quotuplex
efle pofllt *qualitas in — mifto. cap.4?. tarum; ra Difcrimen trium earundem
xqualitatum ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry
fpecies 47. moris radicalis a calore nanuo. Aequalitatem caloris quoad virtutis
in homine inter- te- inno- caloris Quomodo aequalitas virium
caloris natiui, <V tu- midi radicats fit cauda diuturni leiuiuj - Quibus
pneferrim xqualitas virium caloris, & hu- moris fit caudilciunij. Dcijs, qux
perfedeftruu ntaliam ieiunij caudam, proportionem fcdicct 'firium caloris &
humo, ris.ac fpcciatim de er.tnnkcus accidentibus ptio.cap.yj. Proportionem hanc humidi radicalis
ad calorem natiuum,in qua lente humor a calore confutua- tur,in homine reperiri
pofle. Commcnfurationcm hanc humidi, & caloris in_, homine diu feruan
pofle. Proportio hzc natiui caloris humoris quomo- do Iit: caulla longioris
abdinenti. Quibus prxfertim
Iit caulfaieium; liare proportio calons ad humorem, cap.57. Quomodo fe habeant
ad inuiccm propofit* du* humeris radicalis pofle datui caudas iciumj eo- munes
omnibus abdinentibus ab mirio enume- ratis. cap. Manifcftaturcxhis caudis diuturnum
hoc ieiu- nium prodcilci rei naturam condderanti. cap.tfo. Confirmatur hoc
ipfum argumento defumpto a lucernis ve tudillimis, qux noftris temporibus in
fcpulchris ardentes reperiu ntur. Dexqualiratis propofit intervirescaloris,&hu-
morisvaricratecffcnriali.cap. <5i. Proportionis inter eadem vitf principia
propofit* varietas edentulis. cap.fij. dunt, in quo non podunt intcrmilTum
alimenti vfum repetere. De caudis communibus varietatis, feu differentia rumtemporis,(eudurationismonentislongum
ieiunium a fubiefto defumptis. Dccaudisvarietatis in durahone ieiunij abefB-
cienubus,&" confcruantibus abftinenuam de- promptis.De caudis
varietatis in duratione ieiunij defum- ptisj finientibus, acterminantibusabdinenttf.
Dc fontibus, vnde hauriantur caudae fpeciales va- De interna cauda per fe pnmo
proportionem vi- Dcaltera caudahuiusa Hmirabilisieiunij, quanon numcalons Achumoriseuertente.cap^y.
tollituromnmo, udintardaturhumidiconfum Decaudisper accidenseuertentibus eandemvi.
numcaloris, &humoris proportionemabftine. tis procreatricem. De forma, fiue
idea termini Uhus, in quem definit longum ieiumum. De his.qui coft ieiumum lani
remanent, atque ad interminum ciborum vlum necedano redunt. De his,qui ex longo iciunio tandem moriuntur. De
his,qui ex longo iciunio incidunt in sgritudi- ncin.a qua conualefcere poliunt
redeuntes ad caufli: in producendo iciunio. Aequalitatem, & proportionem caloris
natiui, & Dehis, quiex longiori abdinenriamorbuminci- rix durationis
abdinentue quoad fingulos gra- Quibus abftinenubusaprimogeneretumsqua- dus. litatis,
tum proportionis vinum caloris & hu- Diflribuuntur gndus iciunorum penes
durationis moris interni ieiumum ortum duxerit, varietatem incerta capita. Decaudisabdinenti*intrafeptunaminclude,qui
Quibus abdinentibus longi ieiunij cauda fit e fe- cundo genere tuin
squalitatis, tum proportio- nis,qu* funteum valido calore. Quibus longs
abdinenti caufla fuerit squalitas, <St proportio vinum humoris, calons medio
eris in tertio genere, De difcriinme trium horum grnerum squalita- tis,ac proportionis
virium caloris, humoris in producendo 1c1un10. Decaudis terminantibus ieiumum
generarim. cap.dS. De caud a per fe tollere valente virium caloris,^ humoris
squalitatem, & odendituream non_. elfe calorcm.ncc humorem,nec animam, fed
ex tnnfecus 0ccurlant1a. De caudis per accidens gcncratim euertentibus x-
qualitatem virium caloris, humoris interni cap.70. Explicantur ex ternx cauffr
per accidens xqualita tem propofium deltruentcs. Afferuntur caulis interne per
accidens euerten- tesxqualiutcm virium caloris, &' humon; qua rum vna
offenditur ellc anima. Enucleatur altera interna caulla per accidens hu- lu
Imodi squali tatem deilruens. efl primus gradus longi ieiunij,inter quas nume
ratur fanguims copia in venofo genere , quam-, protulit Bottonnus mfignis
Medicus. De caudis ieiunij ad nonam diem produfti.in qui bus locum habere
videtur alienatio ammz a vi- txmuneribus Ecdadsnuncupata,quamexeo* gitauit
Abulenfis.De caulfis abdinenti ad duodecim dies proroga- te quarum cenfu non
rcmouetur caloris im- becillius a IXxftiflimo Bonainico piopofita. De caudis
abdinentix quindecim dicrum.quaru vna perhibetur ede morbola coadituuo autore
Brafauolo. Dccauilis ieiunij viginri dierum, e quarum nume ro legitur pituitz
copia cum Alagno Albcrto; attexiturquepropomisnoua hidoru longioris abdinenti
Canonici Leod1cnfis. De caudis ieiunij trigrnu dierum, De caudis abdinenti*
quadraginta dierum, quas inter numeratur vim pouo; rluxque mirabiles hidorix
longioris ieiunij lupenonbus adijciun- tur ; & fupcrnaturahs, lanctorumque
vnorum abftinentia explicatur, vfum alimentorum, De caudis. De cauffis ieiuniiblmeflns,
intcrquas reponimus Aquamnonideocf Temiliumalendoaptum, quia meatuumcutis ad ftriaionemcum
Bencditto, tuitu non fentiatur iummefrigida, &gufluper & i Montuo. Cecaufli
sic ium»trime (Iris Aexplicaturquomo- doammali aquzdamlinenutneatuptnguclcat:
Adijciturijuc promulgatu noua longiffimi ieiu nij obicruatio. Decaufia leiunij
fcauftns. De caufTis abflinentiz, quz ad annum integrum- prorugatur. De caums
abflinctise vitra annum praten fac. frater cauflas phy Ii cardudum allatas,
tres alias re pennvalerediuturnihuiusiciuntj procreatri- ccs.cap.pp. Caufiarum
propofitarum ablbnentix comparatio ad inuicem. Oj. c i libri quarti Capita
ccnlunt quinque cipiatur varij liiporis. Aquispermilhnnnonedeacrem. Aqu terramnoncflepermillam,cuiterne
fapo- res mnnt. Aquam motu, ac ventis non incalefccreAcurmo ta dicatur
viua.cap. 1 p. Aqua hieme calida mtfli rationem no habct.c.io. Aquam non
congelalcere,cui nihil iniit caloris, et fi fngote congelatacalorediffluat. Quomodo
aqua frigidiffimaquum fit abexterno frigorevertaturinglaciem. Pratcr qualitates
aituales de genere accidentis meile cuique elemento habituales qualitates de
genere fubllantias, qux funt forma;,ac differen- tia: conflitutnccs.cap.i;.
Vrqualitatcs aftuofz, ac potiffimum frigiditasin Praelatio, in qua notatur
difficultatum explican- darumnatura, &agendorumordo. Platonis allcrtuindeelementorumfirapliatatcct
Liber Quartus, in quo enodantur difKcilia,quz ha /fenus explicatis obftare , ac
obi/ci polTc viden- tur. plicatur.Pilees in pifcims ex lapide eonflruitis no
ali aqua; & Ariilotehs locus explicatur de terra, St aqua, Decere
Philofophum de re aliqua ex profeflb tra- nantem tum omnes aliorum opiniones de
pro- politoexpendere, tumilluflnorestantum: vn- deinnote feuntferibentium fines,officia,crimi-
Pifcibusinvafisvitreis conferuatis, finonaqua-y na Aconemplationum varietates Dicere Phyfiologo
inter expendendas opiniones aliorum, nouasa femctiplb comminifciAvehit alienas
examinare ; exquo putet coguitionum varietas,irordo. Alimentum omne a
viucntibus neccfiario prodi- , re, nec ali ferro llruthiocamelum: quo czno a-
laturanimal,&planta, A mortuis vt nobis alimenta,jugumenta, & femi- na
fuppeditentur apud Hippocratem, exercita- tio cum acutiffimo Scahgero. Exper
inento haud probari aurum putabile pofle nutrire.cap.y.
Hominesfziiololoandiualivaleantvtiiumen- Eondcletiiratio denutricareexaere, &aquapen
ta.cap.d. Venena in alimentum nulla ratione poffe conce- dere. Vt homo Aomnino
animal fuauiter olere valeat fponte nareric.cap.8.
Vtfrigusnoningrediaturoperanaturz; acprzfcr diturad Anflotclis trutnnain. Qui
Nnodo mutatio fit fimplicis in milium, ac vi- cilfiinA' omnino inter oppolita ;
vnde tollitur Olimpiodouratio probans aquam alere, ca. ;8. Aqua fi non alit,
quomodo Annoteli vercdicatut alimentoefle, acproindeilliusmutatiomorbo-
timvtquxcunqueexputrioriunturacaloregi- ia.gnantur.cap.p. Quomodo aqua feruens
remoto calefaciente fc- metipftin tefngcretcap. 10. Abflinen tes a cibo,
potuque omni prius affligi, 8c mori fiti, quam farne. Vt aqua potabilis calore
putrciccre non poffit, at- que amman.cap.i2M Ex putri fbrmaliter animatum
procreari non pof- le. CyprimsA^alijspifciculis fponte natis non efle ortum^ utviftumexaqualbla.
Pilees feu frigida nutriri cur aquafo- Ja viucrc non dicendi, quomodo ex ea
ver- materia denfiori fitintcnfior. Aqua: calorem non olfendia
pclluciditate.c.15. ' Pifciumin
perforatis nauiculis quodnam fitalimf tum. quidinalimentumcedat. Oflrca,
mytulos holuturia non ali aqua^». cap.;o. Lepades,ac mugiles aqua fola non ali.
cap. Sardinas, fitaphyasaquanonali. Plantas marinas lola non ali aqua. cap.;;.
Si vinum,(anguis^ac,cetcnquc liquores nutriant, nonideoaquamalerc.cap.;4.
Anguillas non oriri, nec ali aqua pnth, fcd ca ali js decaulfisobleitari ARISTOTELE.
Aquatilia tum branchias habentia, tum fiflulam flr' fpeciatim tcflacca non ali
aqua ex Anllote- lc.cap. ;d. Niucm non e(Tc aquam mes oriantur, &
nutriantur, lcporefque Plinio. Aquam vino additam quomodo Ariflotcles dicat in
vinum mutari,^ vinum in aquam, qu* m- miflumperfcttigencns, atque adeo matimen-
tumconuertinequit. ) Lentem paluflrem non oriri, neque nutriri ex a- ' ; b
Quomodo putredo Iit propria miflipafficv&aquf conueniat.;. ' iui; Aquam
quomodo calor concoquat Hipoocntr, B ca coitione non vertitur in alimentum, cap-44-
quafola.Vtmx Vtnix efientiam non habeat terra participem ,ac
iptunuiam, exercitatio cura lubuhiiimo Scaligc ru.Qua ratione nix fecunditatem
afferat agris, fi ter- ra particeps, non cft Vtputredoablblutc Iit corruptio
propnj caloris. _ «P47- Cur muta imperferta vmentibus in alimentum ce dere non
valeant , fpeciatim cur aqua nufia cumalimentis nonalat. cap.«3. Vt alimentum
iimplicitcr huuudum efle opor- teat. CurIitioccurratmagi»vinumquamaqua.5 Vt
litis fit defideriuin alimenti. Vtfames quatenu selllenius indigentis, quem_
anunalcin, dicimus, fit affertto lolius oris ventri culi, non ctiain aliarum
partium. cap.fz.. Vt dolorfamem. aclitimprxcedat vcluti caulfa nonfubicquaturquafieffertus.
Cur pi iguedo.fit^adpes alere non pofiit Vt medulla non Iit alimentum , fed
excrementum 0fiium. Ieiuma per •iccidcns.Sr' apparenter calefacere.ve- rc,ac
per fe calorem non acucrc,licet p>er fe fitim procreent Vt allinentis per fe
non refrigeretur vlla ratione-, calor nauuus.Anflotclis difficilis locus
explicatur de refrigerio calor.s ab alimento.Galeno nem alimentum non
refrigerare calortm natiumn, nili per accidens, fed per fcilluin au- gere.
Vtalimentis augeatur caloris innati gradus, feu qualitas;nonfolamateriacalida
exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio. cap.do. Vt alimentis non pofiit caloris
virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de ventrtenld , inteftinis f» gant
alimentum non expertato fine cortioms. Vt folia, ttores, frurtus, & femina
plantarum pars tes vere non fint, fed excrementa potius, Vt cx co, ouod oua,& femina citra
nutricatum vi uant,colligere polfimus perferta quoque anima lia vitam polle
traducere ablquc alimentorum vfu. co quod fubicrta calori materia augeatur. Vt
anima nutriens artum habeat immediatum, & Curnonfintfrequentioresnofiri
abfiinentes, fed proprium, in quo edendo no v tat ur organo cor» porco.cap.dx.
Calorem natiuum in nobis,quin etiam ignis riam-
tnamapudnos,nonindigerencccllariohumo- ris,quo vcluti pabulo nutriatur, Cur
calor humorem in milio, & in viuentc prxfer- tim d:palcatur,& intentum
procuret, exercita- tio cum liibtililfiino Scaligcro. Vttn Ecllali ceffct anima
nutriens ab alcndimu- nei4.Vt Ecftafis non Iit priuatio munerum animi intcl
ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex Sca- ligero.cap.dd. Vehementi
fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1.
Jertabanimopolleomnesnouones,&habitus,
cVtalimentivfusnonfitadrefiaurationemdeper- di ti,fcd ad auocandum calorem a
cita conlum- tione humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in
vtero femina: concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit parsanimati,inquoeff.Vt
ou»iubutntancaliat ammata.<5. raro admodum vilimtur. alimentorum indigentia
infit viuenti quatenus miftumcfi. Cura bliinentesobxqua Jiatemvirium caloris, &
humoris interni iuonantur,feu non femper to- tam vitam degant in ieiunio,fed
plerunque re- deant ad ciborum vfum. Vt agentia fecundum virtutem aequalia
inuicenL. agant.VtexGalenolubfiantiacorporis iVomninohu‘ , midum
[fubltantificum dilfipetur a calore nari- uo,non iolum ab adfcititio,cxerciatio
cum Cardano, rnojC Vt Ariftoteh calor
internus ablumat humidunu, fubfianttficum. Vt cx rei natura non colligatur a
calore natiuo no abfunuhumidumfubfiantificum, <Vprimo quia calor fit anima:
inftrumcntum.cap.pj. Vtcalor non ideo dicatur non confumerc humi- dum quia in
miftu elementa non fine in artu fe cundo,Vquahatibus rtfrartis,fubditil' que
for mx luenti compolitum Vt calormfitusnonideononconliimat partium,
lubfiantiam, quiafitearumtbrma. Vtcalo- Vt facultas alens pofiit a nutriendi
funrtione r1.cocia Cur materia corporis nofiri per alimentum femper non debeat
innouan, vt cenfet Albertus Inhis, quidiua nutriendi munereociantur ftra non
cfie ven triculu m,iecur,& alia membta nutricatui dicata, cap. Vt ratione
caloris animal tiinrtioaem alendi diu intermittere ualeat.V piper, pyrethrum,
finapi, thapfiaque fit homi- t ne cahd10r.Vt viuenti non repugnet nutricationem
intermit- tere, fiucvt animal pofiit abfque nutricatu vi- ucre qua viuens cfi.
Vt tini nutricationis formahter non obrteteius pcrauonis intermifiio. Vtin
atrophia faculas alens penitus ocictur c. o- i Vt cx Galeni fententia nutriendi
funrtio non ' homininccefiaria.1 Vtex Flotini lententia nutricatio iugis '
debeat in corpore viuenris.Vteffcrtui priuatiuo caufla politiua pofiit, afiign*
ri,noTqueid fecerimus in fupenonbus.Vt mors viucntibusconuenut fecundum natura
fcu quomodo interitus viuentibus fit naturalis.
fru- non efie-> Digil qt fit mK cuerti naturae lr| Calor,
definiendo^ non^UfrAr.cap.8*. o Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi cum
femetipfo coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa ,.:j)
mi Ha.t.gMUlCi fsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli>>* 1. :S
utrori''- » . 1 . 1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t -'iiklia^. Ohtvn.i,*!*
i!,» lRttift j 1? ' m. .j.j.il r.cvt • -.• .1 r4 .1 a» c ii t.ojSjva
nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il buUma ttiu^ bi' iV. min vituentCe fiuniftionecs UDt inirn^»
marica Mntehumorem abfumert.dicatur. BnOoniidoaw» rf.u. bkrAt^natnitii<f«iiciuimn
abKfumnantr.rcanp ti noi Vtabmfito calore corpu* non deftru» ex co qwv mA , :
eadem eiuldem rei poffitefie caulia perl^^ac. Yt accidens. Eftpectrum cuiutcaulsas qoi» noujt,cur
noniem tione non refp6 deat, fit humiotim. Perisidemprocrearevaleatc Calorem in
natum radiolihumoriadeocon Perorauototius operu i flriM l‘Ut '...ftUi -bvt..:;
ana.y,ami»1m«i “thVt»Ws0'tV.s. t.\11.a.tm.*"'V;^0•. iiontti tJ H» .1 kf.l
»bc. Mi- >\«i>.tthtij . t .1 Sei.t e«10»rilrurfvht 1 ? 9* i >v fp
wuiMe''•{! a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtvers qiR*t . J.vrf>u » -.*-c
tiVa humorem \ .s-u.-ue . K. ,i .1 • i/.XIA'*' 'VtrQ\i,' "i'. l 9\a.1 .•'
. . r’ .av.iii.pi iA.ivr1 .As.ftla,i) ,at ;.. yi juajm.ih.
i1riumdicaviipfuiacunfuaitre Yalcat.0^.1^AwimtarUiAnti«naV.v,?y..«ri*a:Trium Cupidinum;
Voluptuofum tyranni demin Animæ facultas,concupiscibilisvtin anima vin
Amotescur Alatifingantur. Cur Amores Nudifingantur. De Amoristergemini pulchritudine.Amor
curnoncæcus inSchemate fidus. sa, gercnsincacumine volucrem, & caueam De
fructuarborissapientiæ, nostroinSchema Inter.viros altafapientiaprestantes, efequi
nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme. Sapientium ,sciendi cupidos edocere valentium, tresesseclasses.Coruicumviro
fapientiæ scriptore detegitur analogia. Schematis Amorumtrium explicatio Medica.
Devolumine Mufices, invnguibus Coruimy ab Alciato, consideracur. Schema Gemma.
Explicatio viri eruditi de Amore nocturnas Amoris origo mirabilis; a
Platone polica,de Defrondibus Aoribus hwnanæsapientiæ. claratur. Amor
voluptuolus veergabellicum, & litera Amor fapiêtiæcúrnuduse fictus. Decer gemina
significatione ftellæ prælucen. Amor sapientiæ curalatus, & quænam finteius
cisin Schemate poni caput viripsallentis. Alæ. Quomodo fapientiæsymbolumsitarboranno
Amoris Emblemanoftroperfimile,propofitum voce tantumodo docere valeant. Schema
primç Gemma. De arboris in Schemate piata coinparatione 16 busomnibus, modo
fcriptis. geminos Amoresprobaspassomexercere, çatirascibilem , &
rationalem, Amor cur a veteribus Diuinitatc donatus , Explicatio Schematis ab
incerto propolica consideratur. Yeiundas. Depriscis Anularium Gemmarum Sche
maribus cxplicandis. Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam
brachiamanusque geminas, quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat.
Sapientiam apprehendi ab Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se
habeat sermone vocali discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis
inferoa parte fticicanentis,repræsentat (1.. Inter viros dostos inueniri, qui
non fcriptis Amor sapientiæ cureffictusingemma puellus Supremamonftriparshunana
declaratur. Vt Amor pusio,corporepusilo imocens, arq;moribusfimplex gallumreferente.
pientiacomparatur. ad arborem scientiæ boni & malı, dudum a De fru&uarborisscientiæboni&
mali, primæ uæ inParadiso. xxvi. cantilenas ad amicam personante perpen
duplicisecollarinaltum. Responsio de Veterum Gemmarumex-
Demagnoconatu,ingentiquelabore,quofa plicationcadcunda.Amoris differentiæ tres cxplicatæ.
Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta Aufcultatione.
Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro fapien.
AmorfapientiæcuringemmafiAusefteffigie DeBarbito, seulyradigitishumanispulfara
pusionis,acinfantis. Deo in Paradiso creatam . cedelincatæ. Pror Proposito Schemati comparauraliud
Fabij Septentiam Viricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris, exterminatione
confiftere, SchemaV.Gemmę. uenire Schematis imaginibus, oftendirur. Propria
Schematis explicatio prior eft, de Amico veromọitain Amaci &
defunctime. De Armış offendentibus, Heroico
Amoribel licodatis in Schema re. De Cun&ationebellicaper Amoremftantem
Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca. indicata, tofis: cap.xlvi. postulan. Amicumverum inaduerfitate dignofces,
cile fót: vél Tetbydis, aut Veneris Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio noftra moralis ,de formola Peleum
,velVencris ad Anchisen delatione, formofitas, do oscaffo, Şecunda Schematis explicatio,
de Amico Pulchramulier ,permarevitavagarsadare De Amoris bel lici clypeo
hieroglyphicum, Cur Amor istebellicusPedes,non Equesef, Super incrementa Nili.
Amici de funéti memoria femper in corde confer. raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc
digitur, Amoris bellici, ro , qui dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma,
exarmati,pendicur.indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis
offendentibusexpolia. Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni
Schemate noftro proprietares Amoris irascibilis, fiuemilitaris: primumquede
Schema .Gemme. Index Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo, seuero, actan.
Explicatio Schematisacl.Viropropolita, de cumnontoruo,minaçique. De propria significatione
Galeæ incapito dicitiamMatriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili,qui
vocatur Amicitia,vta tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad arbitrium,vel
eft,vel euadit impudica , yanda;& Amantem non redamatum,indi- 143 Propria
explicatio Gemmæ proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema
Gemmx . Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore
monftran lentematq; lubentemcomplecterte,perqs maria ferentc.redamato, syumAmorem
extinguente per Amorem Heroi cummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi viri
sensus explicatur, & ne Ducis, & Exercitusoportuneceleris, & cunctantis,
quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese hieroglyphicum
Amo SecundaŞchematisexplicatio, deAmantenon ris concupiscibilis per visam
negociofam corporemilicisgeneratim. De Amoris belli ciceleritace, perAlaşindica-
CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a Venere,proponitur et expenditur,
filius in Schemate noftræ Gemmulæ , IN SchemąGemma Smithi anaexplicatiode
Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico illicila
busanteadeclaratis,Concupiscibili,Ra. Secunda explication fabulofa, vel Tethydisadrionali,
& irascibili contradistinguitur. Opinio ponons hoc esse symbolum Amorisvo-
Terrinexplicatiophysicade Ægyprolafciui luptuosi, expenditur, entesuperincrementaNilio
Rapina puellas dealiasrespulchrasexponit Propria declaratio prima de Amico
vsque ad Aras., cap.xlviii. Fur & pudica Maire- familias.
piugali,exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft, velimpudicafa.
equo marinoveda, proponitur,& cxpene Sententia virieruditide puella vere a
Tritong tccun&ashumanasr esessevanas, proponi- Secunda cxplicatio,deTijroneraptāpuellam
tur, & explicatur primosensu noftratélubvndasasportāte, Tertia Capicum Operis.
Tertia moralis eft explicatio, depiratis,acpræ- Deoratione Mentalisubhieroglyphiconudæ
mortali. Propria Schematisexplicatio, declarans spe tem et faciem interga versa in,cumligneum scipionem.
cDe forma templi Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculum baculo,
Mundi Systema,partesquevniuerfuminte. grantes,explicantur. ASTV'S DEV DITVR
ASTV. In cogniti viri explicatio indicata ex senis datotibus, aliisquemaritimaclasserapienti-
mulierisgenuflexæ,sedentis,& vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri,
de primo quadrigarum inuentore proponitur ac expenditur. Oraculorum Diuinorum propriumest,
homini, deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio,& tanquam presentes. Schema
Gemma. De Papauere, simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico
subiect:. Propria fententia proponitur primumquecal
sumitexordia et inquodimidiumsuædura
giliapatratarum, perenneinin conftantiam. Proprialententiaproponitur,&
confirmatur, impuro proicão. bus euentus
futuros demonftrare Schema Gemme. Aliena declaratioproponitur,& explicatur.
ciarim arborem in lacus propeod ntem ,& hominis cõsulentisoraculumcumpailijpar
De Papilionc,lignificantebreuitatemhuma- næ vitæ.De Simulachro in templo
Delphico. De Canopo , Deo Aepytiorum, superante Iouis figura vesitaptum Terræ hieroglyphicũ.
OratioVocalisatque Mentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis
Elementun . Deum flectunt,ob efficaciterexorant. Schema xiv, Gemma. De Mercurij
ligno, Elementum Aeris repræ de Detribus orandi modis antiquis: ftatario,ad
Beneficij, velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem geniculato et sedentario. decoreftantis, ambabusmanibusDeocor
offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur.
ExplicationoftradeMundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium
explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarumactionum,invi. Schema Genoma. tionishabet
humana vita. De Vrnasepulchrali, ad quam terminantur a&iones omnes humanæ
vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem, viâorem om. nium aliorum
Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus, proponitur; primum que Zodiaci
declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos egisse.
Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma , corroboratur. Voca- De Nepturo,
repræsentantetotum Elemen D e viribus & proprietatibus orationis lis, atque Mentalis, Deo Accendo p orrigen .
sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur & Humana vita eftmorsvndiquemiserysobfella.
expenditur. De oratione Vocali, fignata per mulieremic. miamittam, quædexteralacinian
tenet,fini- Schema Gemma, Explicatio Viri Cl.re&taproponitur,& latius
ftraserpentem porrigit. Aras ab orantibus. Poetabonus,ad Lgraincanerenescius: vel Propria Schemaris explicatio proponitur , de
canere nescio. Secunda Schematis
explicatio depromitur ex pium natura generica ,Proserpinæ Schema Schema Gemm
&. ponendis aprefacilequedislidijstumánimo rum dilceptantium, tum corporca
violen:. Noftra explicatiode Ducisexercituumeripli- Sacrilegus Brenus ad Altaresempli
Delphici ciproprietate. Tertia declaratio nultra de Amoris genitabilis fcibilis
et Rationalis, explicariSchemare. Produnturin Schemate.cap.c. mortem fibi metipfi
sponte conscisceredebuis, Auroranettens Atheraterris,prouchit oria diem .
Schema Gemma. Aurora diejnuncia,celeriterorbem terrarum circuit. cap.ciij.
tiabelligerantur, setranfuerberat. absolute,frustra laboráns. Hesiodo poeta
bono carmita sua ad lyram adagio veçusto
de viro fruftra laborante . PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum proprietates:
Amorisgenitalisimperiosapotestas, G Amoris tres differentia, Elementa vitalia.
imperiosapotestate. vel Ampli il regna
benegubernantur, Explicatio viri Cl. de Principatu animalium . altronomo
Lunæ,liderumque seruante, cap.cij. phasesob- De Ajacesemetipsuminterficiente,gladiodu
dum ab He&ore sibi donato terramcum Plutoneraptoremanente,totie dem
supracerráapudmatremdegente,my. Num Sahemapossitintelligi.cap.cix dam
fra&tam supplente,affertur,& expen ditur, Schema Gemma. De Cererisfilia
Proserpina,sexmenses intra Amoris tresdifferentias,Irascibilis,Concupi Elementa
viuentium fcracia,& altricia, terna Anonymisententiade Decio proponitur et cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema
Gemme, numpoflicimago Schematis interprecari.Explicatio fabulosa , seu poetica
viri do &i de Schema xvij Gemme. De Mercurio Canicipite, Regnum Acgyptium
optimegubernante, Schema Gemench. De viribus Sapientiæ, ac Eloquentiæincom.
Ajaxfurens, ob Achillis armfaibi negata, Schema Gemma. De Catone Veicense, semetipfum
cõfodiente, Proponitur explicatio propria,de Brenno,
Proditoremnunquamplacereviroforti, etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis,
Schema Gemm. Explicatiovirido &ideCicada,citharæchor Pulchra fæcunditas, a
terracalore rapta,fex menfeslaterintraterraviscera,totidem. que fupra terram in
aere degit, C. Sapientia, don Eloquentia litigantes,atque pugnantesanimos
apsefaciley, componit. Aftrorum Lunariummotuum et phasium Endymione a Diana ad amato.
Propria Schematis explicari o proponitur d e Gallorum Duce facrilego, qui
semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo Index Titulorum ,
thologiacómunisexplicata.cap.civ.227 Propria explicatio de vegetabilium, feu
stir te, fabulisquerepræsentata,Sapientia, & fortitudine,fagaciqueprudentia
De Bruto, separiter pugione confodiente, Delphico Schema xxvi Gemme. De off Au Cæsarisaccipientiscaput
Pompeij Magni a proditore,qui virum interfecerat, Schema Gemma. Larma. fiueperfona
Dramaticum Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfere Dijs
vitaprecellentibus, ta vetusta . AftNo .
Schema xxxiv, Gemma, Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari. Dc Qliadrigain Anulosignatorio
PlinijSca cundilunioris ,& Rana fignatoria Mecæna eis. cap.cxiv.
tasmaximoperedecet. Schema xxix.Gemme. cultatibusin columem. Martiales virimulierumraptor
esprimi, par: Centauricuerentis, & fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, &excrinsecusoleolisi.
GenerofasindoleseducaridebereabHeroibus ujoueperundum. Lætarin eminemo porterefraude;quum&
ipse consimili capi valeat. cPropriæ fententiæ declaratio, devitæconcemAmpli Dominij
splendornonofuseatsideraviro Virumingenio,probitate,fortitudinequepolen?
thiuminbono Principe, Magnoque Mini, Stro,quem taciturnitas atque celeri.
sememergeredefawienrisfortunediffi Gerimis Anulorum insculpiconsucuisse vultus
gemina, fugax, dprocax, mysticerepre. Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum,
adillorummemoriam, cultum, & imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper
maleficā libidine abutentem myfteriumexplicatur,primumquedeScr
monishumanidifferentia,& velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos,
et extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ naturam
fugacem , geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper vtrem vi.
Schema Gemms. Personam non attribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus, vtviruina&uofæfimul&
contemplatiuæ vitæperitumindicet adomnia:jeaprecipue Veneriadpuritatem coniugý;
dfæcunduarem prolisinNuprijs. Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus
condi Schema Genome , De SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari fraudecapiuniør:
do Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema Gemma.
Gandium& Mæror viciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi sententia
perpendicur de Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo fomquediffamati.
Humani Sermonis ; do bumana vite natura inactuosapariter& incontemplatrice
Schema Gemmt. Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium imagines
Anulis in fculpifo: litas,adeorum memoriam , culium ,
Mulierumraptoresprimos,& paffim fuissevi ros bellicolos. imitationem.
Libidinis atque Magia prauapoteftasingens, Schema Gemma, virtutis, &
vitijdistinctam ,maximeque libi. dinosam. Cole delle proprium fymbolum Dramatici.
aprum cducaregenerosa indolisadolcicencs. cDe Marlya geminatæ tibiæinucntorc fabula
menio latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma. tionesexplicatæ. lum
absolute. platricisintimisattributis. Atuosa vita prima species Bigisinludorum
Alia Panos explicatio devniuerfo proponitur.Circensium Schemare currentibus
hieroglyphiceinterpretata. Aftuofa vita secunda species, Moralis&Actiua
lufta Zelotypamulieris indignatio, familjemaeft: nuncupata, Quadrigarum fpectaculomy.
ftice representata. Schema Gemme de Equo Troianoproposita,&expensa: Propria
Schematis explicatio primumque Darctis Phrygij deNaturalicu narratio.
piditatesciendi. Virorum Heroica virtute preftantium vultus
Potentiorumprædeopulenti:Tellurisoccupatio apud antiquos merorieac imitationis ergo
Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis receptio. veterum, Achillisi mago
qualis, & curin Schemace. vltionem , Bigarum cursus in stadio ve indicet
Artificum vitam effe&ricem. comprehendere fatagientis. Responsio LICETI denneac
formasuisymboli Schema Gemmik. Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in
literario mundo. Quadrigarum cursu signariviram Adiuam,
Naturaliscupidosciendiqu.erielatentesrerum præcipueque Milicarem. que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis
Schema Gemma , expenduntur. cap.cxli. paratur,ac de singulis tribus censura pro
mulgatur. cap.cxxxiij. interitus , Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos.
haberi. a fortioribus: Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam
PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis. Multiplexænigmatis explicatio:
& primade potentioribus diripientibus aliorum opes. De Anulis, quos
adsignandum habebat Magnus Alexander. Secunda
Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ dominium ,acpofsef
PanosHieroglyphica,deSermone,deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatio politica
noftra Schematis, de terræ distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema
Gemma Platonica Panos explicatio, de conditionibus, Legem Agrariam ,affertur.
QuartaSchematisexplicationoftraeftphysi. Auctarium. Schema Gemima. ca, de typo
Agriculturæ. Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam. Poetarum &
historicorum communisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur
exalijs,cap.cxlij. Tertiafententia PLINIO, Pausaniæque de Troia- Equo proponitur,
& allatisanteacom Arcana Numinis, & edifta Principumnonime telligentem,
acnonobferuantemmanet Schemaxlij.Gemme.' vis: Agriculturetypus: Ægyptus: Schema
xlvii. Gemma, et PROPIA NATURA SERMONIS HUMANI proponitur.
QuintanoftriSchematis explicacio, de regione fionem fibi occupantibus.
licerarij. inuentis ingenia macerat. Schema x! Gemme . aqueacviribusvtendum .
Aliorum opiniones de Sphingereferuntur,& Propria Schematis explicatio
proponitur de Troiano Equo secundum senfa poetarum Principum,&
nonintelligentesoracula. Index Titulorum, De Schemate noftri Mercurij Pana
fugientem caufas, quibus inuentiscellat, non Sphinxcurinterimatnon obseruantesedi
& a Ægypti. Postres i
Poftreina Schematis explicatioest, de Amici- . Crucifixi Predicatores, Pifcatoreshominum:
ciæ , ad vindictam injuriarum cxcrcitum. co. Chiorumantiquain Homerum obseruanti
apu Explicatio prima Smethiæ Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ,
rife, Propria Schematis explicario de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium
luminumn proponitur et comprobatur. Curanti
quis acerdotes offerrentali quando la Secunda explicatio Gemmæ, dehomineforcu
crificia Numinisedentes, licibello Cælaris Augusti nata ,Belisarja.
Afferturgenuina declaratio Numi Comitis11
Comica lafcime gaudet fermone Thalia: vel Sccunda noftra Schematis
affertur explicatio dia gentium comparari. Salute patratum
natomarehumanævitænauigante ventose chariftie Sacramento.Schema Gemme. ad
veritatis imaginem. Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in
V'tre conclufis. culo. gentis, hieroglyphico, c UniuersalisIudicijtypus:
Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos
Schema. Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii, Animo pacato
facrificandum et fupplicandum, Fructuum atque frugum vbertatem concors Schema
Gemma. Concordia, & fidedata, feruataquçmirificam Miles atrocibella fuper ftes
in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobus piscibus mirifice, Quarta
explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma.
cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati de-Lazara
duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque panibus et explication
viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur, cap.clv. Schema Gemma, De
Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines promoucri bonorum ome
niumybercarem, Schemalvý, Gemma Belisarij et Horatij [ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc
Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ calamitatisfere çoinpar exprimitur.
Digreffiode Cicuræ medicamentis, &veneno. Mutij Sczuolæ Romani grande facinus
et inli- Responsio deCicutæviribus: & pri mum , cus non habeat vim ex purgandi
cor et eucharistia symbolum. Fixi prædicatoribus hominum piscatoribus. Schema
lv. Gemmila luftriss, loannisde Lazara, De sepulchrorum differentiis et
Homericu. Secunda explicatio Gemmæ , finale iudiciuin mulo, cap,cliii. Poeta Comici,
Lyrici uelafciuiori sactus, Gemma celestium obferuationivacandum animo curis
vacuo, quies centeque corporeprorsus Expendunturalları Schematis imagines,&
sensaViricl.cap.clvi, Aftronomio blernaca, et Aftrologiludicia, vc
exarretieridebcant.cap.clxvii. myftice referentis.Tertia explication Gemmæ, desaturatainnume
de Poerafcu Comico, feulyricolafciua fupidoMaria,Terras doAeremfæcundans:
carmina pangente , cap.clviii, gnis erga Patriam Pictas atquc fortitudo
detegiturinGemma cap.clxi. pora
çiçuræplanta : deque duplici genere Cicutarum, Sale. beat molliendi.
etiamproba, plerumque multum nocet fibi , dum viro coniugi, Cupido au olans a
Psyche fibi non morigera , Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty. Ra ad procreandas
multasbonasactiones. Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum explicatio in gemma
de mortis memoria, per anulum schematis De secundonouiffimo, quodeftludicium Dei
poftobitum hominum, perperdentis corum post ludicium luendis a vita de f u n
& is per perenni poft obitum , aut purgationem in cælis possidenda, per Stellam,
lunam et cicadam hieroglyphice signata. Per oratio totius Operis,Caputvlcim
n quo agitur de Monftris generatim. CJ^ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02
propria efi, ac noflri inflituti^. deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris,
quaft res eventnras monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur»
DeMonjlroriim Hnmanorum reali existentia, Realts extftentta Monjlrornm
irrationalium natH- ram non eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam
revera MonBra contingere, De Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue
fint, Monflrorum caujfa Hnalis generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit.
DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex quaquefit, De Moniirorum caufiaejfetiricegeneratim,quotaplex,
qu&quefit» De MonflrorHm caiifia effeflricegeneratimtquotuple Xiqucequefit,
Propria Alonfiriffeneratim accepti definitio investigator. Inventa Monfiri
definitioexplicatur.CMonfridivifioin fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior
eltgitur In quo fpeciatim agitur de Monftris
tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige^^ canjfd Mon^f
OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ "wplexejfe valeat. Monftrorum in humana
f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uiflo- ricis elicitur, Origo , (^ prima
caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defe^u. Secunda
caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac defe^uvirtutis
formatricis, Tertiacaufa,(^origoMonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci
f(stum continentis, uarta mutili Monjlricaujfa^(^origoadmateriaineptitudinem redigitUY.
Q^inta Mon(iri mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa
3 origo Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis
parentumviexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex
hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima
elicitor ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in
materics nimio excejfu ejje perhibetur. Non omnia A^fonjlra excedentia ex materi^srednndantia
ex oririiJed aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertio locoin una materiae penuria obtinere.
^jiarta canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk perfcetattone collocatur,
.^inta caujja , ^ origo Monjlri excedentis rejolvitur in iteratam ejfu^ Jionem
maternifeminis in uterum citrafispeYfQ^tattonem. Sextacauffa, £? origo Monjtri
excedemis pertinet ad anguHiam uteri„ Septima caujfi , c^ origo Adonftri
excedentis ex parentibus monjirofts elicitur. OUava origo , ^ caujfa Monftri
excedentis in vitio nutricationis confiftcre perhibetur„ Nona ratto , (^ canfja
Monftri excedentis monftratnr in animipajfio* nibus parentes aJJicientibHS :
ex^rciiatio cum Cavdano , (^ Parxo. , Decima causa origo MonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^
ns concnljione reponimr, .U/idecimacmjpi, ^origo Mon^riexcedentisrefertnradmorhnm
foetus, Monjlrorum ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr, Jldonftrianctpitisorigo, C^ causa. Communis injtntiaturj
ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda Alondrfancipitisorigo,
caujjaextiteriangufiia, (de" feSiu virtuttsformatricis explicatur Tertia
Monjtnancipitis origo, cau^ainmorhofmtm, ^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta
Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in materi<e ineptitudinem, iteratammaterntjeminis,
(fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra fiper fostationsm, intaMonjlriancipitisorigo,
causa de promitur ex parentum corpore Monjlrojb. Sexta Monjlriancipitisorigoy
Ccaujfaexvehemenii parentum imaginationei vitio nutricationis in faetu enucleator
Mofiflri ancipitis origo , Cscaujja feptima reponitur in arte, peccata
JSfatura^ imitante, ac nonfine ai^ilio Naturiz operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi
Horicispromalgatur. De Monjlri dijformis natura, caujfis ; primaque illius
origo refoU vitur in malam uteri conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat
ad malumjitum placenta nuncupatas : cujus ufns explicatur,
TertiadijformisMonfhicaujfa, (^origoexmoladepromitur. arta Monjiridiffhrmisorigo,
(^canjfaofienditurexmotu, ^^inta Monjlri
dijformis origOj (^ caujfa flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis,
yi. S.exta origo, (^ caujfa Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem
rediaitur, f^lI. Monflrainformia, dehitammemhrorum figuram non retinentia
reipfa inveniri. Cde Ad onflrovuminformiumorigine,&caujfa; qu^primlmde»
ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis. Secunda Monfirtinformisorigo, (^caujfj,exanguliiautericolli"
gitur. Tertia informium monfirorum
caujfa , (^ origo in motu inordinato repO" nltur„. arta
informis Monflri origoi^ caufpi d(?prmiturifi mola^ (^ fLicema , tumore
utm^concuTYmie virtHtisform^trkn imhcilliime , acmatem tertceweptimdifie,inta
informis Monflri orlgo j ($' C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum
vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis Monftricauffa^ origo innsonflrofo parentedete*
gttMY, Septimainformis Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm fliixum tempore
conceptus, Monjirienormisexi Hentiapatefit, Monjlra enormia^ & omnino
monfira mn ejfe infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos necviciffm
iEthiopum moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds. Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in
imaginatione paren» tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse
confiderantHr, Secunda Monfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn
exhalationeigneadecorporeviveniis efliMente, Tertia Monfirie normisameofemore caufia,
^origorefblvitHYin morbum regium,^ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i (origo
ex craffitiei (^ fuligi* num copia extruditptr ; ubiplura de cordepilofo
Ariftomenis, inta Manflri enormiterpilofi origo, causa ex parentepariterpih» Jo
petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upi defcentis origo et causa ex
intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuiltt formtsineademfpeciefnbf
Mentiapatefit; ubidecapi-'le ytrtli mulieris corpori ajfixo de Hermapbrodttts
mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisineadem fpecie^muUerisnempeviritecaputha-
benits origo , ej" cauffa prima ex hetero^e»ea feminis natura educitur
j defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts;
Qfdemn fculisefieminatis, Secund.canfia ejufdem moftlhi multiformis ^ (^
ori<To excutitur ex de jtdu fminis m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in
eadsmfpecie origo (£ cauJfarefertHf i,id pdrentumimairin Mionem..^t^ariuorigo,
(^cauffaMonfirimuliiformisin eademfpecieadpa rent^s conjimilem natnram attinef,
monfira mnltiformia ^diverfas animulium species in ecdem genere proxmoreferemta
fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri J^donjlYt midti formis diverfas
animali Hmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy canjfa c origo frima
depromitur ex apparentia. Secunda causa, G? origo Jkfanflri , mtiltiplicis
fpeciei animalia referen' tts , ex imbecillitate generantis pendere
demon(lrattir, Tertia canjfa, Cs* origo
Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata fsminis anima in
nattiram alienam.arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species referentis
origo cmffa ermtm ex materialifostus principio, jtinta Monflri lotimani
hrntalem effigiem habentis orioo scattjfa ex virtnt is alentis vitio elicitptr,
Ssxta hominis monflroseferinaspartes habentisoritroj caujfain altmentaris
materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo Monflrihitmaniferinam effigiem habentisex
morboelicitur. O^avacauffa, origo Monflrihnmaniybrtitorumejfl gieminmem' bris
habentiSfjx imaginatione parentum defttmitHr Nona caufja , corigo Alonflri
varias animalitim effigies habentis agnofcitnr ex parentzbfis monflrofs, Decima causa origo Monflri partes
habentisbrtitorum membra (hnmana referentes, explicatur exfeminum miHione, ac
nefaria venere. Dttbitafiones propofltam theoriam. urgentes diluuntur (prima
edn a ex ARISTOTELE , alicubi n^gante monjlrtim fieri ex animalibus diverfs
fpeciei. AlteradubitatiQ Maniliana, G Lucretiana diluitur, negans qtiiA
ejfenobiscommunecumferis, plantis ad invicem {nam Caftronianam ver^ bistemer efttffttltam,
non autemrationibusinnixam, latedif cujfimusinopett de Feriis Aitricis Anim3?, difputat.
Tertia dubitatio viri eximii negantis ex variis fpeciebus poffe ejuid uni
tantum parenti congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo Delrio. Di in le
magis explicatur origo humani monflri ex fera nafcentis,Vndecima causa et origo
Monfiri y varics speciei anirmliumi partes habentis, ex cacodamonis opera
elicitur, Monflra muhiformia fuijfe conflruUa ex partibus referentibus
animantia diverfl qeneris, Monflrihttmani membravHiorumanimalium habentis origo
caujfa prima in apparentiam refertur. Secunda
Monfira diverp generis origo S cauffa ex imbeciUitatsj vtrtutis generamis
colligitur. Tertia Monflridmffigemi origo, emffain Milifate fcrma- tricis
repomtnr artacmujfa c origo Monflrimnln gemie cimbecillitatcviv tmisfeparatricis
dedHcttm. inta causa, erigo Monflri
multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa Monflri poligenii
materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo Monflri multigeneidejumitur
ex debilitate virtmis alentisfoetum, Octava
causa origo Monflri diverft genii ex inepto partium alimento educitur, Nona cauffa , origo Monflri multigenii ex
morbofostus adducitur, Decima caujfa, G? origo Monflri multtgenii ex parentum
imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj Gf origo Monflri diverft generis
adparentes mon Yofosrefertur, Duodecima causa y origo Monflripoligenii
habetur infemitium permifiione, Decima tertia causa originis Medufaei tapitis
in ovogallin s...Decima quarta caujfa origo Monjirimultigeniiadvim mali Diemonis
refertur, Monftricacodamonis origo explicatur
ex causis prius adducis. Vewv&tio
totius operis. Licetus. Fortunio Liceti. Liceti. Keywords: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Liceti” – The Swimming-Pool Library
Grice e Licone: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A
Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Licoforonte:
all’isola -- la scuola siciliana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. A pupil of GORGIA (si
veda) di Leonzio. Primarily a
sophist, he takes positions on philosophical matters. For example, he declares
that being from a noble family is worthless in itself, as its value depends
solely on the esteem in which the family is held. Licofronte. Licofronte.
Grice e Liguori: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura critica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “Personally, my favourite of Liguori’s metaphors is ‘the abyss of
reason,’ since Speranza has elaborated on this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no
less, which breaks my principle of ‘conversational perspicuity’ – a
mise-en-abyme text is just untextable!” -- Grice: “Liguori has studied the metamorphosis of
language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he has the gift of the gab for
metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del filosofo,” “l’alambicco
dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale dello irrazionale” o “le
ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della ragione,” “Trasimaco ha ragione”
“Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il liceo classico dell’Istituto
Massimo di Roma. Studia alla Sapienza. “Scherzi della memoria.” Si laurea con
la tesi “La scesi giuridica.” Insegna a Lecce ed Ostuni. Si dedica alla storia
della filosofia. Insegna a Bari, Urbino, Ferrara, Trento, Salento, Torino,
Firenze, Lecce, Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il vero baratro della ragione
umana” – cf. H. P. Grice, “Mise-en-abyme conversazionale” -- viene riconosciuto come uno studioso di Kant,
Graf, LEOPARDI (si veda), e Cartesio. Tratta Positivismo di Sergi, Lombroso, Morselli e Vignoli; della scesi di RENSI
(si veda) ponendolo in critica relazione tra LEOPARDI (si veda) e PIRANDELLO
(si veda). Scrive di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino. Collabora con
l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Tenne rapporti epistolari
con GARIN, BOBBIO, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e Timpanaro. Fonda ad
Ostuni il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui aderiscono e collaborano
note personalità della politica e della cultura quali Donini, Fiore, Radice, matematico e fondatore e direttore di
“Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si
impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e
cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il
divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di
chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini
seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze”
diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana,
diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non"
è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica
allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri
pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno
politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca di Ostuni intitolata
a Trinchera e comunque ampiamente documentati nell'unico saggio autobiografico
dello stesso autore. Critica e commenti sull'opera di L. Carteggio con
illustri studiosi Bobbio: Il saggio mi pare di grande interesse, per l’ampiezza
e la serietà della ricerca su un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a
fondo, eppure importante nell'ambito più vasto della storia della filosofia
positiva, della critica letteraria e della cultura torinese (argomento a me
particolarmente caro). Sono convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine,
che rende giustizia a uno studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì,
ricordato più volte dai suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli
storici. Credo che questo libro sia un effettivo contributo alla migliore di
quel periodo della nostra storia che la cultura idealistica aveva disdegnato:
un contributo di cui soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati».
Sebastiano Timpanaro: «Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena
sincerità, un'opera di livello davvero eccezionalmente alto, per la
caratterizzazione del protagonista e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò
che finora ignoto essa porta alla luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che
molto di rado accade di leggere». Donini: “Mi pare, ad un primo esame,
fondamentale per la conoscenza del periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo
moltissimo tale metodo di indagine e la serietà della documentazione. Uno
studio di questo genere è certamente costato decenni di intensa documentazione.
Oldrini: ho letto subito il volume su
Graf così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in un punto se la
prende con gli storici della filosofia italiana che trascurano Graf, anzi noni
menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto io, studioso della
cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di Graf con Napoli che
il volume di L. illustra con tanta passione». Contorbia: “poche volte accade di
fare i conti con un libro così fatto, stratificato, totalizzante; ad apertura
di pagina si avverte l’impegno, il grado di coinvolgimento appassionato con cui
lei ha condotto avanti negli anni una così impegnativa ricerca peculiare, quasi
il centro della sua esistenza intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo
di partenza) di un confronto che è culturale ma anche morale e politico.La
qualità di un tale lavoro, mi pare, fuori dell’ordinario». Valli: «L’autore ha
consegnato alla critica e alla conoscenza uno studio così complesso da poter
essere considerato un esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento
italiano e non solo italiano]». Recensioni di illustri studiosi Rossi, “L'autore…
ha fatto emergere un quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano
alcune luci importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante
il di de Liguori Materialismo inquieto,
edito da Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di L. è largamente meritorio oltreché
ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera»
riguardante il di L. Materialismo
inquieto, edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini
dell’autore su Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso, massiccio
volume, che ho ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero lusinghiera la
“presentazione” di un grande Maestro come Garin, e accattivante e simpatica
l’”Avvertenza”. Tutto il resto è da leggere». Recensione al volume di L. su
Graf, Giornale storico della letteratura italiana. Augias: «Quella di De
Liguori è infatti una storia meridionale che parte da una finzione narrativa di
gusto classico ma così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto
celebri che non vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La
Rassegna pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo
giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna
enciclopedia del sapere, Rassegna pugliese, II“Efirov e la filosofia italiana,
«Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di materialismo
comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti del conflitto
tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi); “Un
episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i gesuiti
-- appunti per la storia della censura leopardiana, Rassegna della Letteratura
italiana, Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della Filosofia
italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi, Scetticismo
e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia italiana
attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce, “La condizione del senso”; “Per una
riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett.
It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi»,
Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil.
It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli
anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,
Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di
Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà
di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista
di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella
secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la
cultura” Prefazione diGarin, Lacaita, Manduria,
“Le ambiguità della ragione” – cf. Grice: ‘the equi-vocality of ‘reason’
Grice: “Liguori has a taste for unnecessary plurals: the abysses – the
ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della psico-fisica in Italia”; “Il
materialismo psico-fisico e il dibattito sulle teorie parallelistiche in Italia
-- Masci e Faggi «Teorie e modelli», “Di una rinnovata attenzione al
materialism” (Idee); “Mito e scienza nell’antropologia e nella storiografia del
positivismo italiano”; “La filosofia tra tecnica e mito, Atti del Convegno
della SFI, Assisi, Porziuncola); Dimensioni»,
Livorno, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del
positivism” (Laterza Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani,
Rileggere Siciliani, G. Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti
epistemologici e immagine della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e
politica a Genova nell’età del positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione
filosofica Ligure-- Cofrancesco, Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e
scienze dell’uomo; Kant e la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire
da Kant; L’eredità della “Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli.
Introduzione di Marcucci, Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il
dibattito su scienze e filosofia, Lacaita, Manduria, La fondazione razionale
della fede in Martinetti, Dimensioni, Livorno, Darwinismo e teorie
dell’evoluzione nella prospettiva monistica di Morselli, Il nucleo filosofico della scienza, Cimino,
Congedo, Galatina, L’immagine della
donna nel paradigma positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e
democrazia, G. Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in
Torino, Rivista di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità
filosofica di Martinetti, «Studi Piemontesi»,
E’ possibile la storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “
filosofi delle bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica, «Lavoro critico», Il sentiero dei perplessi -- scetticismo,
nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La
città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De
Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione»,
Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis
Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in
Italia, La psicologia in Italia, a cura
di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata,
Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati,
Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo
leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma,
Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia
fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti
associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e
scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli», Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia
in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana,
Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli,
«Teorie e modelli», Cronache di
filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni
di Storia dell’Torino», Per Mucciarelli:
positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il
“materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica
liberale», Lettere di Timpanaro a Liguori,
in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi,
«Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di
vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per
settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione,
commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per
Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione
concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari»,
I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari
domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott
e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e
comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza
lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del
suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, Rivista di Storia della Filosofia, “Libido
Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento
(da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un itinerario
non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione di Ferrarotti;
Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia in Italia tra
evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse, «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”.
Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente
e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli, L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e
del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier
/Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione
di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli,
in Quaderni Noce, Marco, Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia.
Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra
fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella
controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero
e Loretelli, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure
dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione
cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica
italiana», Le cose che non sono, in
«Critica Liberale», Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari,
Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza
autografa) tra L. e i singoli autori citati
Rossi, Viaggio nel Positivismo, in Panorama, Arnoldo Mondadori, L.,
Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del
positivism, Bari, Roma, Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al
materialismo, in Corriere della Sera, Marti,
Recensione a I baratri della ragione in
Giornale storico della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie
più una, [Romanzo], Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia. Dannazione e
redenzione dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come
oggetto determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di L. Il
Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e
molteplice nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si
riproducono e a cui gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le
divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e
turpe e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura
d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non
altro in teoria, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il
coniugio e la continenza è virtù che va tra le maggiori. A. Graf1. L. examines the
story of Eros, from ancient Greece to the age of Enlightenment, and tries to underline
relevant connections with other events of thought and religious traditions as
well as European popular customs. The ideological conflict with Christian
ethics and Catholic church is particularly highlighted thanks to a specific
textu- al analysis, particularly during 17th and 18th centuries. Keywords:
Subjects and Figures of Marginalization, Woman Condi- tion, Ethics and
Christianity, St. Alphonsus M. de’ Liguori. 1 A. Graf, Il Diavolo, Treves, cur. Perrone,
introduzione di Firpo, Salerno, Roma. Avverto l’eventuale lettore che il saggio
che segue ha natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei
confronti dei docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce
dall’assemblaggio di appunti per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a
Parma al Teatro del Vicolo, dal titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine
rimandare sull’argomento che qui espongo, agli interventi di alta e corretta
divulgazione, curati per Rai Educational, di Argentieri, Curi e Moravia, in
Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Raccolta e catalogazione
dei materiali Non partiamo dalla consueta e abusata presunzione ontologica; non
diciamo che le cose sono, piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire
in noi il pensiero e, col pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad
altri corpi attraverso quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i
sensi sti: nulla è dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai
sensi. E così la fantasia, la logica, la ragione, la fede altro non sono che gli
strumenti più raffinati di un corpo tra i corpi (materia) che, come l’infima
creatura che emette pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e arriva
all’uo- mo, cuspide di presunzione, anelito più che sensata pregnanza di vita..
Non lasciamoci impressionare dai prodotti di questo strumentario intellettuale:
arti, religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili, paradisi perduti
o escatologici disegni, virtualità effimere come sogni, denunciate già dal fol-
le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici di contro al cui
canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera nelle orecchie
usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi compagni2. Qualcuno
sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non soste- niamo
l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e ammettere la
trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione (se vogliamo
mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a livello di
pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di evoluzione da
creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci, spiegato Fichte
enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della scienza! Ma gli
sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili tali tentativi
di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a rincorrersi
nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò rinchiudere i
filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza della
Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori- gine
dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si
potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più
lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e
morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e
teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia,
la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di
guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza
scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra
sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va
ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, Berto, L’esistenza non è logica. Dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma. 30 dovuta prudenza
filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla privilegiata delle
nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della storia è con
l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime origini la sua
battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai ra- ziocinanti
dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un breve profilo.
Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a Maria Vergine È
proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano come età
tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia pa- gana: il
suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e dominanti a
religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo tra tutti
il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, da un
canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce), stella del mattino,
per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro, a quella della
Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza il
Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie,
cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua
forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte
del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde
i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine
fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo
trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista
di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti
popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa
l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc.
Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei
miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico
culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano
Fecisti patriam diversis gentibus unam. Urbem fecisti quae prius orbis erat
Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma si
veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e Byron che 3 Cfr. F. Denis, Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle fantastiques du
Moyen Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, 2
voll., Loe- scher, Torino. Ma vedi, dello stesso, Roma nella memoria e nelle
immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher, Torino ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome! My country! City of the soul!
The orphans of th heart must turne to thee, Lon mother of dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta
con sé naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore
e di vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si
prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato
e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da
Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e
nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere
celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente
ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo.
Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico,
dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia-
bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze
infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e
varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in
particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi-
renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante
fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre
scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di
Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di
Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva
ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed
asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente,
immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle
tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande
dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale
della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: Si ricordi,
Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia,
«Annali delle Univ. Toscane», Pisa. Soprattutto, A. D’Ancona, I precursori di
Dante, Sansoni, Firenze. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio,
I baratri della ragione. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di
Garin, Lacaita, Manduria. Oh quante volte, essendo io nel deserto, in quella
vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione,
immaginavo d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima
d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a un Etiope. Non
passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva, mio malgrado,
il sonno, m’era letto la nuda terra. E quell’io, che per timor dell’inferno
m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di
fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti.
Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva
di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gli incendi
della libidine. E qui l’iconografia sacra ha lavorato sul santo, riempiendo di
San Girolami, atteggiati in guise diverse, tele, altari, absidi, pale, trittici
per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da Dürer a Caravaggio, da Cima da
Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano, dalle tentazioni di Giovanni
Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla compostezza gotico-geometrica di
Antonello, ecc.Si assiste ad una evoluzione storica dell’eros, che si
arricchisce, per così dire, dell’idea stessa del peccato. Simboleggiato dal
frutto proibito, l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre viene
stigmatizzato come peccato originale, una sorta di marchio che da quel momento
in poi mac- chierà ogni creatura. Homo vulneratus est naturaliter, sanziona
definitiva- mente San Paolo! Anche se la dottrina della chiesa troverà il modo
di recu- perare in positivo quella ferita, quella malattia costituzionale, con
il concet- to dell’agape, nel quale l’eros si diluisce in amicizia includente
la mediazione del Cristo. Ma la cosa più sorprendente è che Venere, simbolo
dell’amore carnale, cantata da Lucrezio, poeta epicureo, come colei che
presiede alla bellezza della fecondazione sia di piante che di animali, e
perciò come voluttà d’uo- mini e di dei, subisce nel corso della storia
differenti e impensabili metamor- fosi. Da un canto, come quasi tutte le
divinità pagane, trapassa a popolare la mitologia cristiana di nuove figure
positive e negative, arrivando a iden- tificarsi dapprima con il Demonio in
persona, poi con la stella portatrice di luce, (Lucifero, angelo caduto e
stella del mattino); infine, fattasi mite e mise- ricordiosa, gradualmente
perdendo i suoi più accesi caratteri erotici di beltà voluttuosa, assurge
addirittura al ruolo di Maria Vergine, concepita senza peccato, Madre di Gesù,
figlio unigenito di Dio! Siamo di fronte a un fenomeno storico noto agli
storici e agli antropologi come sincretismo religioso 5 Trad. fedele di Graf da
Gerolamo, Epistolae, in Patrologia latina, cur. Migne, Parigi. Cfr. Graf, Il
Diavolo, cit.,per cui le divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe
più dimessa e quasi nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente,
trasformandosi, e sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova
religione ebraica e cristiana. Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il
cavaliere francone di cui la dea Venere si innamora. È nel mondo romano in
sfacelo che gli dei di Roma – GIOVE CAPITOLINO -- si avviano alla loro
metamorfosi -- quello che non e accaduto agli dei ellenici. Da un canto si
rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera gente di campagna e ne continuano
a propiziare raccolti, a combattere carestie ad aiutare la gente misera nelle
quotidiane disgrazie che affliggevano gl’umili e gl’indifesi. Dall’altro lato,
in questa storica trasformazione, raccolgono in loro tutto il male esecrabile
del mondo antico: il turpe, il diabolico, l’illecito, il peccaminoso del mondo
romano. Soprattutto l’osceno -- ciò che è dietro alla scena e, pertanto, non è
visibile -- e il sensuale nei rapporti amorosi. Gli dei di ROMA si trasformano
così in demoni. Si passa dalla celebrazione dell’amore fisico, cantato dai
poeti, da OVIDIO (si veda), Catullo (i neoteroi) a LUCREZIO (si veda), che lo
inserisce nel fluire e divenire dei fenomeni naturali, alla definitiva
divaricazione della sessualità dall’amore spirituale, come aspetti di una
passionalità di differente e contrapposta natura. Si ricordi l’inno a Venere di
LUCREZIO: AENEADVM GENITRIX HOMINVM DIVOMQVAE VOLVPTAS ALMA VENUS CAELI SVBTER
LABENTIA SIGNA QUAE MARE NAVIGERVM QVAE TERRAS FRUGIFERENTES CONCELEBRAS PER TE
QUONIAN GENVS OMNE ANIMANTVM CONCIPITVR VISITQVAE EXORTVM LVMINA SOLIS. Ma ecco
come espone Graf, storico dei miti romani, la sottile trasformazione degli dei
di Roma -- quelli stessi che VIRGILIO, guida d’ALIGHIERI, chiama falsi e
bugiardi -- in divinità o potenze
demoniache. I numi che hanno altari e templi non muoiono, non dileguano. Si
trasformano in demoni, perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, serbando
tutti la gravità antica, accrescendola. GIOVE DEL CAMPIDOGLIO, Giunone, Diana,
Apollo, MERCURIO, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al
culto che loro e reso, ricompaiono fra le tenebre dell’inferno, ingombrano di
strani terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata
in demonio meridiano, invade i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la
notte, pei silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le [6 G. Paris,
Legendes du Moyen Age, Hachette, Paris, dove esamina la storia e la diffusione
della leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della stessa
leggenda resta Guglielmo di Malmesbury. Vedi Graf, Il Diavolo] squadre delle maliarde, istruite da lei.
Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, usa negli uomini
l’arti antiche, inspira ardori inestinguibili, usurpa il letto alle spose, si
trarrà fra le braccia, sotterra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di desiderio,
non più curante di Cristo, avido di dannazione. Scienza, filosofia e fantasia:
il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della dimenticanza”. Il rapporto
latente tra il sapere e il credere. Ogni proposta gnoseologica parte
opportunamente da quelle ben note premesse che GALILEI (si veda) autorevolmente
chiama la sensata esperienza, anche se le pone in relazione con la certa
dimostrazione. Così, prudentemente procedendo, ogni teoria della conoscenza,
pur restando legata alla dimensione esperienziale, per così dire, non esclude
né puo escludere l’elaborazione successiva di ipotesi con l’ausilio della
fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che della facoltà razionale con la
quale da sempre la mente umana prova ad elaborare i portati sensoriali, di
volta in volta vari e complicati. Proviamo a valutare, ad esempio, non le
nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma alcuni particolari sentimenti o
pulsioni come l’amore, l’erotismo, o, addirittura, la poesia con cui ci
accostiamo ad una persona o ad uno scenario naturale quale, che so? la volta
celeste di kantiana memoria. Gl’eroi greci per comprendere una verità nascosta,
scendevano nell’Ade, entrano nel regno imperscrutabile delle ombre. Da altra
prospettiva, sub specie feminae, da quel che oggi chiamiamo pensiero femminile,
ci viene incontro, spalancandoci una diversa rinnovata visuale, un modo
solitamen-te desueto di scrutare l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un
continente dissepolto, il nostro Ade, tutto da esplorare. È così che – s’è
detto e sostenuto da parte delle donne – le poesie vivono delle voci narranti
che, appassionatamente, riflettono su un passato da abbandonare. Quel che
sembra finito e nascosto entro i luoghi del cuore. Da tale prospettiva, per
giungere a tanto bisogna scendere all’Ade, come fa il viaggiatore Odisseo:
provare i dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le
esperienze. S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la
possibilità razionale di elaborare non [Graf, Il Diavolo. Utilizzo in questo
paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e commenti, il testo
originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione, dalla filosofa della
mente Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza.] più ciò che è nei sensi
ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio potrebbe fornircelo LEOPARDI
dell’infinito laddove dalla esperienza sensibile -- la siepe, il vento, lo
stormir delle foglie -- che non si lascia elaborare razionalmente, sale, quasi
spinozianamente, ad un sapere più complesso: una sorta d’amor dei
intellectualis che s’apre al mistero sia della poesia che dell’amore. E come il
vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio e questa voce
vo comparando e mi sovviene l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e
il suon di lei. E, ancora, entrando nel campo intricato del male di vivere,
addirittura nelle patologie del comportamento, delle ossessioni, delle
schizofrenie, laddove ci siamo chiesti, con l’angoscia nel cuore, se questo è
un uomo, proviamo a proporre la teoria e pratica della dimenticanza:
l’obliviologia. È certo come un lavoro di scavo; ma non abbiamo da riportare al
celeste raggio nessuna sepolta Pompei. Non procediamo, in senso freudiano, a
rimestare nella memoria, nel sogno, recuperando oggetti rimossi, tutt’altro.
L’oggetto è diventato uno scheletro che va dimenticato, ritenuto per non posto:
mai esistito. La dimenticanza è dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a
dimenticare le chiavi di casa. Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e
pratica dell’oblio. Corre, in un certo senso, parallela alla terapia
farmacologica del sonno, indotto da dosi opportune di psicofarmaci. Si tratta
di togliere le fissazioni tramite la dimenticanza: di riportare il conosciuto
agl’elementi puri ma allo scopo di favorire un intervento di maggior forza
ectoplasmica sugli oggetti e sugli eventi esterni, e per eliminare il noto
processo di invecchiamento e, infine, di morte mentale. Scendendo al piano
sperimentale, abbiamo cancellato i sovraccarichi delle impressioni
mnemonizzatrici e fatto sparire le figure retoriche fantasmatiche, i “mostri” o
“giganti” che si fissano e si ripetono continuamente, oberando la mente
affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio migliore del vivere senza alcun
sforzo il presente. Non è la panacea, non si raggiunge il Nirvana; non si
recuperano paradi- si perduti. Si vive riconquistando un più corretto rapporto
col corpo, i sensi, la natura. La memoria deve servirci, non turbarci. Se è una
soffitta ingombra rischia di confonderci nel suo disordine; dobbiamo far
pulizia perché la vita va vissuta non sopportata E arriviamo infine a una
considerazione alquanto complessa ma di facile comprensione. Quella stessa nostra
propensione che chiamiamo fede altro non è, finanche nella sua forma più umile,
che sempre e soltanto costruzio- 36 ne della ragione, in quanto ogni fede
presuppone sempre un giudizio della ragione. Da tale considerazione deriva la
plateale conseguenza che la fede non è altro, alla fin fine, che la nostra
visione più o meno razionale della realtà; pertanto quella fede nel numinoso e
nel fantastico che è la fede re- ligiosa dei fedeli e che alla nostra
razionalità più sofisticata ripugna, è solo un puro e semplice equivoco,
imposto dall’educazione, dalle convenzioni e mai può derivare dalla nostra
libera scelta intelligente che in tal modo si contraddirebbe9. Credere, altro
non è che atto razionale; in quanto, rigoro- samente, non c’è fede senza il
sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a che punto? Il limite è il sano
buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma follia, sempre ed
esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di quanto chiamiamo
fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a soggetto di
pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che chiamano la verità,
si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi strani. Del resto, a ben
pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre pensato al maschile. La
storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale, hanno pensato soltanto al
maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il bello sono stati visti, si
al maschile, ma ancora nella implicita insignificanza oltre che della donna, di
altre figure sociali di grande rilevanza: del bambino, del disadattato o del
diseredato o escluso dalla comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni-
versi come continenti inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a
visitarli. Erano emersi, nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e
negli affreschi allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali,
nelle allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bosch
o in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9
Cfr. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura
di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA
FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso
l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione
definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede
razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è
assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una
forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti
subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è,
sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere
la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale):
la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della
vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è
una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo
e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e
contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, Il Cannocchiale, ni, tramandate oralmente nei miti e nelle
leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in
tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva
segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e
scientifica: scopriamo un nuovo continente speculativo, il pensiero al
femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura.
Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci
si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva
del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto
pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione
del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della verità
completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo stadio più
alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente concessione
caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella soffitta
anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole disponibilità al
diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese progressista, presso
spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto isolato che non ha
vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo: E dei disadattati
all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo. Ol- trecché esercitano
alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un lievito sociale utile
e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo un’inquietezza nemica delle
stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne alla quale in qualche maniera
non cooperino che se i geni fossero pazzi davvero bisognerebbe riconoscereche i
più disadattati fra i disadattati, quali son per l’appunto i pazzi, resero alla
misera umanità più di un buon servigio. Da altra banda è da considerare che un
perfetto adattamento all’ambiente farebbe gli uomini supinamente contenti e
tranquilli e porte- rebbe fine al moto della storia, per la ragione
potentissima che chi sta bene non si muove. Lo direi il vademecum per
l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto an- cora resta da fare: e questa è la
vergogna del nostro tempo. La chiesa cat- tolica ad es., che ha chiesto, solo
di recente, con un pontefice tormentato e disponibile al dialogo, perdono al
mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa alle donne, ai bambini, alle coppie
di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli agnostici, agli scienziati onesti e
laici che dalle dottrine e dai dogmi della chiesa vengono quotidianamente
offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e il rapporto sessuale come
“peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i compiti primari che si
assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i controversisti, figura
subito in primo piano quello della lotta ai libri proibiti, che è come dire a
tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an- cora ad es. emblematico il
santo teologo moralista e dottore autorevole della Chiesa: L. Ne La vera sposa
di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di quanto possa essere pericolosa la
lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache addirittura lo studio sia della
Teologia Morale che di quella Mistica. Parimenti libri inutili ordinariamente
sono, ed alle volte anche nocivi per le Religiose, i libri di Teologia Morale,
poiché ivi facilmente possono inquietarsi con la coscienza oppure apprendere
ciò che lor giova non sapere. An- che nociva può essere a taluna la lettura dei
libri di Teologia Mistica, giacché può essere che ella si invogli dell’orazion
soprannaturale, e così lascerà la via ordinaria della sua orazione solita, in
meditare e fare affetti, e così resterà digiuna dell’una e dell’altra. Vige,
come una sentenza inappellabile, il motto lapidario di San Paolo: Sapienza
carnis inimica est Deo. L’amore del sapere viene paragonato ad un vizio, alla
libidine sessuale: libido sciendi11. Circa i classici del pensiero che pur
contengono delle verità, si domanda con San Girolamo: Che bisogno hai di andar
cercando un poco d’oro in mezzo a tanto fango, quando puoi leggere i libri
devoti, dove troverai tutt’o- ro senza fango?». La lettura è importante,
fondamentale anche alla via della salute, ma ha dei rigorosi limiti. Quanto è
nociva la lettura de’libri cattivi, altrettanto è profittevole quella de’buoni.
Il primo autore de’libri devoti è lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi
l’autore n’è lo spirito del Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune
persone di nascondere il veleno, che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto
di apprendersi ivi il modo di ben parlare, e la scienza delle cose del mondo
per ben governarsi, o almeno di passare il tempo senza tedio. Con determinate
categorie di persone, l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma
che danno fanno i romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito
dall’ed. Remondini, Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia
controversistica cattolica (aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna
nel saggio di chi scrive, «Libido sciendi». Immagini dell’empietà
nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (Da Magalotti al padre
Valsecchi), Giornale critico della filosofia italiana, immodeste? Che danno voi dite? Eccolo: ivi si
accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano specialmente le passioni, e
queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o almeno la rendono così
debole, che venendo appresso l’occasione di qualche affezione non pura verso
qualche persona, il Demonio trova l’anima già disposta per farla precipitare12.
Contro il risveglio delle passioni e contro la concupiscenza dei sensi, i
controversisti scagliano i loro dardi infuocati e avviano le loro sottili
disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato peccato mortale. Ed è
questo un fardello che la chiesa si porta dietro così come uno ster- corale si
rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del sesso: la cura me- ticolosa
con cui si prova da secoli a disciplinarlo, legittimarlo, canalizzarlo,
evirandolo della sua essenza: la ricerca del piacere e costringendolo alla sola
funzione riproduttiva. Ci serviremo non di un semplice scrittore di opere di
pietà ma di un autorevole moralista della chiesa cattolica, santo per giunta,
dottore della chiesa, uomo di grande pietà e d’erudizione: che CROCE define il
più santo dei napoletani, il più napoletano dei santi. Ecco cosa scrive il
nostro moralista sul sesto precetto del Decalogo e in che modo espone le sue
precauzioni con cui anticipa una minuziosa tratta- zione di quanto potremo
chiamare la fattispecie del peccato mortale. Il peccato contro questo precetto
è la materia più ordinaria delle Confessioni, ed è quel vizio che riempie
d’Anime l’Inferno; onde su questo precetto parleremo delle cose più
minutamente; e le diremo in latino, affinché non si leggano facilmente da altri
che dai confessori, o da quei sacerdoti che in- tendano abilitarsi a prendere
la Confessione; e preghiamo costoro a non leg- gere né in questo né in altro
libro di quella materia (che colla sola lezione o discorso infetta la mente) se
non dopo tutti gli altri trattati e quando ormai sono prossimi ad amministrare
il Sacramento della Penitenza. Affronta perciò subito lo scabroso tema della
fornicazione, e dei rapporti carnali con l’altro sesso con minuta casistica
sessuofobica: de tactibus, de muliebre permittente se tangere, an puella
oppressa teneatur clamare, an possit unquam permittere sua violationem, de
aspectis, de verbis, de audientibus verba turpie, ecc. Ma non manca di
precisare: Ante omnia advertendum, quod in materia luxuriae (quidquid alii
dicant de levi attrectatione manus foeminae, vel de in torsione digiti) non datur
par- vitas materiae; ita uti omnis delectaio carnalis, cum plena advertentia,
et consensu capta, mortale peccatum est. 12 La vera Sposa di G.C., L.,
Istruzione e pratica per li Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napoli, e sgg.,
anche per le citaz. successive. 40 Il pio moralista, scaltrito nella
casistica giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per
trovare la situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o,
addirittura, del tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti
nel matrimonio o extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i
toccamenti, oscula et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi
casi dubbi da esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in situazioni
mondane sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le tentazioni
della carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno toccare
secondo la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona affettuosa
disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti impudichi, o a
baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla aggredita allo
scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a turpitudine? Nel
caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo stupro si
cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta
controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto,
secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans
consentiente. Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi,
differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la
definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali:
Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non
est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia
domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo
praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una
minuziosa casistica quasi boccaccesca, buona – si direbbe - ad arricchire la
documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in
rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle
addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali
una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura
questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe
verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno
di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit
sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene
irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che l’abbiano
fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto in ogni
caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni teologi,
l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in morali
necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu in
Ecclesia permanere debeant. Il lettore ne trae l’impressione che l’autore (più
che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare direttamente dalla
vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle situazione più
impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale ad ascoltare
ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le forme, i modi
che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in epoca all’uomo,
dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle più raffinate arti
di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano perfezionando e
praticando in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua latina – ma qui
dovrebbe- ro dirla i linguisti – si fa molto particolare fino all’uso di
neologismi non presenti nei classici. Parlando della sodomia distingue quella
propriamente detta da quella impropria ed eterosessuale coitum viri in vase
praepostero mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam a perfecta.
Si quis autem se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo peccata
diversa committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra naturam. An
pollutio in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque hoc peccatum
irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase quan naturali,
speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri sit in ore maris
est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in super peccatum
contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad ipotizzare il coito cum
femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie dei rapporti bestiali ma
nella polluzione e in quella che Alfonso chiama fornicatio affective. Dalla
sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane poetesse e libertini filosofi.
L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia molto emblematici. Dall’Italia
delle corti signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui
l’eros vive una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati
filosofi e libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli
veste poetica disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una
angolatura tutta maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui
giuoca un ruolo attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto
sessuale si trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica
oscenità. Soltanto nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco
che riceve sotto le sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di
Valois, la donna trova finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con
un suo modo raffinato (di alto erotismo) di 42 pilotare la barca
dell’Amorosa Dea; ad esse, tra principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici
gaudenti, spetta il compito di riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e
fargli recuperare il valore perduto colla tradizione ebraica-cristiana. Un
recupero, tutto al femminile, del paradiso perduto. Così canta il suo ufficio
amoroso, guidato da Apollo, la dolce Veronica. Febo che serve a l’ amorosa Dea
E in dolce guiderdon da lei ottiene Quel che via più che l’esser Dio il bea, A
rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi che con lui Venere adopra Mentre in
soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io instrutta a questi so dar opra, Si ben
nel letto, che d’Apollo all’arte Questa ne va d’assai spazio di sopra E il mio
cantar e ‘l mio scrivere in carte S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a
suoi seguaci Venere comparte. Nel Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia
pur per sommi capi, le cose stavano in modo ben differente da come ce le hanno
rappresentate quando a scuola ci hanno spiegato quel periodo. I libri del
Marchese de Sade rap- presentano, ad es., una nuova filosofia morale e non sono
la pura e semplice invenzione di tecniche erotiche pervertite, come comunemente
si crede. I recenti studi hanno sfatato quella immagine del divin marchese. “La
filo- sofia deve dire tutto”, egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e
fingimenti. Egli non fu né il primo né il solo a sostenere i diritti della
carne, che grida la sua legittima soddisfazione contro le assurde costrizioni
della cosiddetta civiltà. Il celeberrimo sadismo: ricerca del piacere
attraverso il godimento per la sofferenza del partner, ha ben altre origini che
le sole discendenze da Sade. Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese
ricerche di Skipp, di Leeds, che ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi
come l’uso educativo della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi,
era praticato dai gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per
confinare molto spesso con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e
proprio. Nacque un termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare”
(Cfr. Rodez, Memorie storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la
pratica, anche l’elogio cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma
anche di Scolopi e Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della
sua frequente pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus
salus mea fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto
che la proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico
dell’epoca anche tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così generalizzata.
Soprattutto le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo dell’erotico
bidet (che ha la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei fianchi
femminili) che permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle parti
del corpo che ne avevano più bisogno. A tal proposito restano molto istruttive
le pagine dei romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif de La
Breton con il suo Anti Justine dove si nota l’uso frequente e generalizzato di
tale strumento da toilette, prima e dopo gli incontri amorosi.. Perciò, una
volta sfatata l’immagine stereotipata del Settecento illumi- nistico,
astrattamente razionalista, irreligioso e dai costumi depravati, pro- viamo a
riguardare sotto diversa luce e angolatura, libere da pregiudizi e remore
moralistiche e confessionali, la letteratura erotica e d’amore di quel secolo
che, oltre tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre che di Voltaire, di
Rousseau e di Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la grande rivoluzione
dell’89 ma anche quella che fu la più colossale e universale summa di sapere
moderno: l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di tutte le scienze, le
arti e i mestieri contro la quale pullularono subito una serie di Anti-Enciclo-
pedie anche da noi in Italia per porre un argine all’avanzata di quelle idee di
libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI è qui d’obbligo: Così ti
spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè, per
questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese... Insomma
lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto sessuale porta il
sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a scendere nei
particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro che fuori del
matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle coppie fino a
scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate, i comporta-
menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da verificare di
volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega pertanto il pio
cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo denuncia la stessa
corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto da diventare
complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non poter più
fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e libertinismo,
così come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare, si fa sempre
più stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime capitalistico,
domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di Podrecca a
Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale alfonsiana,
Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso e, in genere,
tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro una nuova
coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere stesso
trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando quella
ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come uno
dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i
marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che
le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di
ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo.
L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo,
diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio
perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di
nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal
Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e
contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la
sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per
produrre un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o
“pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere
che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e
del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO,
ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al
dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura
erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli
forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano
l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e
soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea,
da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a
Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma
in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il
grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani.
Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal
cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la
letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista
La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si
va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE,
Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer
de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto
alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto ad opera di specialisti che li vanno pubblicando
e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e Diderot,
curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini, Manifesto libri,
Roma. Alfonso di Liguori. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword: “Associazione
Filosofica Ligure” – Keywords: implicature critica, ‘… is the true abyss of
human reason” – “il baratro della ragione conversazionale” – l’anima distilata
– il lambicco dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria, la degenerazione,
la metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lilla: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di Vico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Francavilla
Fontana). Filosofo italiano.
Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’ as he puts it, the philosophy
of Vico, which, in Italy, is like at Oxford ‘revinidcare’ Locke!” Formatosi nelle scuole dei Padri Scolopi aderì alle
idee cattolico liberali divulgate dai filosofi della prima metà dell'Ottocento:
Gioberti, Minghetti, Balbo e SERBATI al quale dedicherà molteplici studi
subendone una marcata influenza. Lascia Francavilla per l'ostentata contrarietà
di tutto il clero alle sue idee
patriottiche d'ispirazione giobertiana, manifestate apertamente nel
"Programma d'insegnamento filosofico" pubblicato sul giornale il
"Cittadino leccese", decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di
confrontarsi con le idee di Sanctis, Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si
laurea e insegna a Napoli. Durante questi anni videro la luce "La
provvidenza e la libertà considerate nella civiltà", "Dio e il
mondo", e "La personalità originaria e la personalità derivata"
(Nappoli, Rocco), nei quali getta le premesse degli studi filosofici e
giuridici in cui si cimenterà per tutta la vita: la storia della filosofia, la
filosofia teoretica e la filosofia del diritto; sviluppando altresì e
precorrendo una moderna concezione del rapporto tra "diritti umani e
progresso scientifico" sin da “La scienza e la vita” (Torino, Borgarelli)
-- titolo paradigmatico del suo saggio – cf. Grice, “Philosophical biology,”
“Philosophy of Life” Insegna a Messina. Furono quelli gli anni più fecondi
della produzione scientifica volta a perfezionare la sua concezione dello
Stato, approfondire le fonti rosminiane, confrontarsi con le teorie
evoluzionistiche di Spencer e contemporaneamente intrattenere contatti
epistolari con alcuni fra i maggiori filosofi, giuristi, patrioti e storici
dell'epoca quali: Jhering, Bluntschli,
Roy, Tommaseo, Capponi e molti altri. Altri saggi: “Kant e SERBATI” (Borgarelli,
Torino); “AQUINO” (Torino, Borgarelli); “Filosofia del diritto,”“Critica della
dottrina utilitarista liberale empirica etico-giuridica di Mill”“Le supreme
dottrine filosofiche e giuridiche di Vico ri-vendicate” -- “La pretesa persona
giuridica e le funzioni personali degl’enti morali” (L. Gargiulo); “Della
Riforma civile di Spedalieri” (Messina, Amico); “Le fonti del sistema
filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati); “Due meravigliose scoperte di
Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità della storia dei sistemi
ideologici, Cogliati, Il Canonico Annibale Maria Di Francia e la sua Pia Opera
di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di filosofia del diritto,
Milano, Società editrice , Pagine estratte. Martucci, Il concetto dello
stato Antonio Tarantino, Diritti umani e
progresso scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto” (Randi);
“Filosofia” (Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della giustizia sociale,
Milano” (Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in “The H. P. Grice
Papers,” Bancroft, MS. In occasione del conferimento della "Cittadinanza
onoraria (di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino, Diritti umani e
progresso scientifico: emeroteca.provincia.brindisi. Martucci,Il concetto dello
stato, su emeroteca.provincia.brindisi.
Treccani, su treccani. Lettere a Jhering. non accordabile col supremo
principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro Vico rivendicato» meritòl'onoredi
essere preso in considerazione dai due più competenti degli stu dii vichiani,
ed al giudizio dei competenti bisogna dare gran peso, perchè effetto di
conoscenza bene approfondita sopra un determinato autore, specialmente se si
mira ricostruire la mente di Vico. Questi scrittori sono Ferri e Fornari i
quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far supporro che fosse
effetto di un concetto prestabilito. L'accordo fu pie nissimo nella prima parte
del lavoro di carattere puramente critico e riconobbero che la rivendicazione
delle dottrine filoso fiche e giuridiche da tutte le fallaci interpetrazioni
fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia. Quando gli opuscoli hanno un
valore così notevole come quello qui sopra indicato del prof. Lilla , è giusto
segnalarli all'attenzione degli studiosi piuttosto che i volumi di gran molo o
di poca sostanza. Questo lavoro dice molto in poche pagine e il suo intento è
questo: rivedere i giu dizi che sulle dottrine del Vico sono stati portati in
Italia , in Germania e in Francia particolarmente, ricostruire dietro indagino
esatta il concetto di questa dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il
Vico non è sem plicemente un ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio
del Gioberti, nè un razionalista kantiano, o piuttosto un precursore del Kant, come
sembra a Spaventa, nè un positivista como fu rappresentato da altri. Questi
apprezzamenti risultarono dall'interpetrazione parzialeesoggetti va di qualche
parte dei pensieri filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in
ordine sistematico , e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza
raccoglie e combina riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della
scienza nuova sparse nei moltiplici suoi scritti. » era esauriente
e condotta con criterii elevati. La mia interpretazione sulla vera mente di
Vico fu riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo
desiderio di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli
cazioni. Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di
lena, mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la
mente dell'autore della « Scienza Nuova» A tale scopo indirizza i tutte le mie ricerche
attingendo sempre maggiori lumi dalle sue opere edite ed inedito e fin anche
dai manoscritti che si conservano gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di
Napoli. I grandi genii, e segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu
appellato da un poderoso intelletto di una delle più famose Università il più
grande filosofo del mondo, muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale
rannodava tutte le idee secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè
perfetto organismo è la nota caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado
riunendo non poche idee per ricostruire su solide basi quest'opera di
architettura gigante e le mie indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova
evidentissima questo frammento inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova
. » Non poche censure mosse la turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava
a concezioni idealistiche negligentando la pra tica della vita. Tale critica
presenta apparenze di verità tanto che VICO stesso no rimase impressionato,ma
raffrontando dottrine a dottrine si coglie il genuino e loro vero significato.
La grand o idealità diquestamassima la storia ideale eterna delle nazioni. L.
ha liberato la dottrina del VICO da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua
dottrina che mi pare giusta, merita di essere più larga mente svolta. » Nel
volume delle Onoranze; è una vera esagerazione , e chi si addentra nella parte
riposta del sistema Vichiano si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa
une perfetta interpetrazione astratta e specialmente raffrottandola colla
psicologia sociale che sta a base del processo del filosofo napoletano. Bisogna
por mente innanzi tutto alle tre fasi che percorre l'umanità nella sua storica
evoluzione; età del senso, della fantasia, e della ragiono. E molto più alla
dottrina del corso e ricorso delle nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di
giovinezza e di vecchiaia. Valga ciò a smentire l'assoluto idealismo del VICO
il quale è puramente immaginario. Tutta la seconda Scienza nuova è derivata
dalla psicologia sociale evoli tiva e tutti i diritti, i costumi, le religioni,
le costituzioni plitiche degli stati sono emanazionidiquesto principio. Nelprimo
stadio tutto è divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto divino, tuttoprocededagli
Dei; il Governo teocraticorappresen ato dagli oracoli, la lingua divina per
atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si personifica ciò che si
riferisce agli auspicii ed alle nozzo: la Giurisprudenza è scienza d'intendere
i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è che nei templi
divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è divino,ogni
pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha giudici gli
Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie : tali
categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un altare.
Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o dei nati
sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille, il
governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle armi
gentilizie o stemmi. I caratteri eroici come Achille ed Ulisse, che
personificano tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica,
che stà nella solennità delle formule della legge, la ragione di
stato conosciuta dai pochi provetti del governo, il giudizio eroico che
consiste nell'esatta osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo
dalla proprietà dei forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui
corrisponde la natura umana intelligente e perciò benigna,modesta, che
riconosce per legge lacoscienza, la ragione, il dovere, e poi il costume
officiale, indi il diritto umano fondato dalla ragione, il governo umano
dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo motivo di credere che VICO
impressionato dalle obiezioni dei contemporanei vollo dichiarare il supremo
princi pio della Scienza Nuova, cioè la storia eterna ed ideale delle nazioni
con questo frammento e senza addarsene disconobbe l'efficacia positiva della
Scienza nuova. Egli dotato di mente speculativa, pratica e progressiva,
non si poteva mai acconciare a vivere di formule astratte e di umana , il
parlare articolato , i caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai
generi fantastici se parando le forme e le proprietà dai subietti. La
giurisprudenza umana che mira non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità
umuna che nasce dalla rinomanza di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed
intelligibili cose , la ragione umana o ragione naturale che divide a tutte le
uguali utilità. Il giu dizio umano velato di pudore naturale e mallevadore
della buona fode che ai fatti applica benignamente le leggi temperandone il rigore.
E questi fatti hanno ancheiloro simboli nellabilanciache rappresenta le qualità
civili nelle repubbliche popolari, perchè la natura ragionevole è uguale in
tutti gli uomini. Questi tre ordinidifatti riposanointreprincipii,
chesono:iltimore, l'amore , il dolore, simboleggiati dallo altare, dalla pace e
dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono loreligioni, imatrimoni e l'immortalità
dell'anima.In questi concetti siriassume tutta la seconda Scienza nuova.
Rispettaro tutto quanto i nostri maggiori operarono di grande è la disposizione
più favorevole a quest'opera di conciliazione, ma perchè il ri spettonon portia
delle idee esclusive e non soffochi la libertà dei nostri giudizi verso lo
scopo ultimo della scienza, avvicinata a questo scopo la pro duzione più
perfetta dell'uomo, ci rivela la sua imperfezione , in questo modo è riconosciuta
la necessità dell'Ideale, perchè fossecriticatoemiglio rato il presente. puri concetti metafisici, poichè il processo
inquisitivo che egli seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un
temperato e ragionevole positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la
scienza dalla vita.Egli ben vedeva che la scienza fuori la vita era una vana
supellettile intellettuale, un giuoco dialettico del pensiero e non punto
proficua al beninteso pro gresso delle nazioni. Esiste un ideale di
perfettibilità , supe riore , ma non indipendente dalla vita , verità questa
intuita dall'antesignano della scuola storica tedesca, da Savignys, ilquale era
ammiratore passionato delle istituzioni giuridiche romane nelle quali vedeva la
più alta manifestazione del progresso giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di
senno confessò apertamente che per quanto possono sembrare perfette le
istituzioni romane, pure comparate all'idealità mostrano la loro incompiutezza.
VICO gittò le basi di una vasta costruzione scientifica fondata nel
processostorico– filosofico. E dàbiasimo al divorzio fraquesti due processi
metodici, in questa memoranda sentenza Peccarono per metà i filosofi perchè non
accertarono le loro idee coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i
filologi perchè non inverarono la propria conoscenza coll'autorità dei
filosofi». La storia ci rivela il certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi
degl'istituti politici, sociali giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento
razionale e addita le perfezioni ideali, cui si possono inalzare; veritá questa
intuita da Bacone da Verulamin. I filosofi, dic'egli, scoprono molte cose belle
a contemplarsi, ma impossi bile ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı)
come prigionieri nelle catene. Alla mente di VICO si affaccia, un dubbio che
poteva presentare questo supremo principio della scienza studiossi ripararvi
con questo frammento inedito. Tutla quesť opera è stata ragionata come una
scienza puramente spe culativa intorno alla comune natura dello nazioni. Però sembra
per quest’istesso mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si
adoperi perchè le nazioni, le quali vanno a cadere o non ruinino affatto, o non
s'affrettino alla loro ruina ed in conseguenza mancare nella pratica , qual
dev'essere di tutte le scienze, che si ravvalgono d'intorno a materie , le
quali dipendano dall'umano arbitrio , che tutte si chiamano attive. Anche nella
coscienza dei grandi vi sono delle oscil lazioni sulle loro concezioni. VICO
nel fram . citato, dice che la scienza pratica non si possa dare dai FILOSOFI,
ma i filosofi civili e i reggitori degli stati possono creare costituzioni
politiche e leggi, e richiamare le nazioni al loro stato di perfe zione. Niente
di più vero: le nazioni e tutto il mondo moralo creato dall'arbitrio umano non
può ridursi a categorie logiche, non può essere sottoposto alla legge ferrea
della necessità, e quindi la scienza puramente contemplativa o ideale non può
contenere nella sua orbita le leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è
indipendente dalla necessità logica, può essere [Qui do legibus scripserunt,
omnes vel tanquam PHILOSOPHI, vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud
tractaverunt. Atque Philosophi proponunt multa dictu pulcra, sed ab uso remoto.
Jureconsulti autem, suae quisque patria legum , vel etiam Romanorum, aut
Pontificiarum placctis abnoxüetad dicti, judicio sincero non utuntur,sedtanquam
evincolis sermocinantur. Tractatus de dignite et augmentis scientiarum ; solo
regolato o disciplinato dalle scienze pratiche ed attive e non dall'ordine
puramente scientifico. Nel capitolo VIII della seconda Scienza nuova pare che VICO
incorra in un'incoe renza, in quanto si propone di trattare di una storia
eterna sulla quale corre di tempo la storia di tutte le nazioni con certo
originiecerteperpetuità,e poidico chelescienze pratiche possono regolare la vita.
Ma come si può parlare d'una storia eterna, sulla quale sono modellate le
storie di tutte le nazioni se il mondo morale, con tutti i suoi fattori ,
procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito disegno del filosofo napoletano
racchiude un pen siero riposto. Questa Storia eterna delle nazioni,
modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle nazioni è uno dei più
grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai bisognoso di com menti
illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si nasconde una speculazione
alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si rivela come idealista, o
meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale comune a tutte le nazioni
pare che proceda con un metodo astratto e formale, cioè como un ideale fanta
stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana inganna trice! Ad un
pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina a fondo realistico.
Essa non è generata ma è ricavata da uno studio coscienzioso ed accurato dei
fatti. Il diritto naturale delle genti è reale quanto la natura umana, ed è la
fonte di questa dottrina. Secondo la mente di VICO non si potrà revocare in
dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a tutti i popoli. Cotal
diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla psicologia sociale , la
quale ci attesta la natura comune sociale dei popoli. Questo argomento
comparativo trova la sua conferma nel fatto irrecusabile che questo diritto
comune, patrimonio di tutto le genti, non poteva essere stato trasferito o
comunicato da popolo a popolo, perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes
suna comunanza di relazione. Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale
identico a tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro
fondamento all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in
tempo le storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo
umano. Nella varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè
si trasforma. Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni
, la quale è fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del
costume, sigenera ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia
eterna delle na zioni Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile
una storia eterna ed ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel
costume. I grandi genii hanno il presentimento di certe verità che poscia
approfondite dalle venture generazioni acquistano piena coscienza. Questa
divinazione del VICO oggi è rifermata dalla analisi comparativa degli istituti
giuridici e politici, e questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle
glorie dei nostri tempi, a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo
ingegno e ne abbozzò il primo disegno. E qui si adombrano le prime lince di un
metodo armonico fra il vero e il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia
dei costumi deve emanare da due cause coefficienti: dall'ordine reale e
dell'ordine ideale,e così si avvera il gran principio di VICO, verum et factum
reciprocantur. Ma l'ordine ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi
nate appo interi popoli fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo
comune di vero. Scienza nuova, Dignitá. avere un'origine per quanto
rimota,ma sempre realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio
osservato nell'elemento comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non
è in fecondo e sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo
Incoerenze di Vico del mio saggio: La mente del VICO rivendicata, illustrata e
integrata. A riassumere la dottrina giuridica di Vico è
indispensabile determinare i principi fondamentali dell» scuola
storico-filosofica da Ini splendidamente rappresentata. La
Scienza Nuova è lu riprova più sicura della lenominazione apposta ; iu
quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno dell’armonia
fra i principii razionali e il fatto storico. La psicologia sociale è il
substratum delle leggi, delle religioni, delle lingue e di tutti gli
altri elementi della civiltà. In quella filosofia della storia contenuta
in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le costituzioni civili,
sociali e politiche sono conseguenza necessaria della vita, della cultura
e dei costumi delle varie nazioni. Egli divide in tre grandi
periodi la storia civile delle nazioni, cioè l’età del senso, della
fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito,
dalla religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza c infine
alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre
grandi avvenimenti '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et
prtnùfno et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono accompagnate
dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da
cui poi si eleva ai supremi principii giuridici. Questo sapiente
indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De
antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto
adunque deve procedere di conserva col vero, altrimenti si cade o nel
formalismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio VICO dà
biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché
non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta
i filologi perchè non avverarono le loro idee con l’autorità dei
filosofi. Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,
perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua vera integrazione
nei principii di ragione, e questi hanno il loro fondamento nell’ordine
dei fatti bene accertati. Storia e Ragione sono adunque i due
fattori del diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal vero,
si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta, o fallace. Il
diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale a dire un principio ideale e
storico, o meglio un principio ideale che si attua nella storia; e
tanto è vero ciò che mette radice nell’ordine eterno dell’eterna ragione
o dell’eterna volontà in quanto prescrive alia volontà umana l’equo
bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da due cause
coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la forma e l’altra la
materia. Utilità» fiiit occasio iuris, honestas causa. Tutto ciò risponde
esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la plebe, insorgendo
contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure era mossa
dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e civile
delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i quali
contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen
liumann ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates
diligit et exquat, quao nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile
non è per sè stesso né onesto nè turpe, ma pnò divenire l’uno o l’altro
quando è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto
ha l’anima e il corpo, la materia e la forma, ed lia un contenuto etico,
che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del
diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I
punti salienti nei quali si rias mine la teorica del Vico sono i seguenti
: l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero
col fatto; insidenza del diritto nel bene, incarnata nella formula
dell’equo buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità
in quanto è regolata dalla ria veri; l’utile è materia; e la ragione forma
del diritto. Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico, Vico
ri-vendicato, Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la semiotica
di Vico” – The Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Limone: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della simbolica del potere –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella). Filosofo italiano. Grice: “I like Limone; like me, he
has explored the idea of value in terms of catastrophe – I didn’t. He has
explored the poetics of philosophy – and he has investigated on a concept that
Strawson and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel
mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria,
Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo
comunitario. Si laurea a Napoli e il
Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des
amis de Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano
Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di
ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici.
Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fonda la rivista
"Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. SIMBOLO. Sonda in
profondità l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice
nobilitazione dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale.
Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la
vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un
quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone is hearing a
noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why it’s very
wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the chair is
hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla
concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea
di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema
d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno
di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è
prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che
solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in
quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente
una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa
che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un
appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona
richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale
arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga
ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico
e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce
la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza
del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e
sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del
personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi,
Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità
della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in
La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il
gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del
diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della
scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli,
Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere
e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice,
“Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto
alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento
(Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua
(Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine
millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo
sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria).
Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila:
distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato
(Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV.
Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto
farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione
del simbolo, ventennio, fascismo, simbolica
del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica,
simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of
a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --. Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e
persona” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Lisi: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean. When the
Pythagoreans were being persecuted in Italy, L. escapes and makes his way to
Teba. There he becomes the tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi
Grice
e Lisiade: all’isola – la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Catania). Filosofo
italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice
e Lisibio: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to
Giamblico di Calcide.
Grice
e Lisimaco: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. He belonged to The Porch. The tutor of Amelio Gentiliano. Since
Amelio comes from Firenze, that may be taken as having been the home of L. as
well.
Grice
e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come fonte della morale
romana – etica togata -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Although
famous as one of the great Roman historians, he is also a philosopher, who
popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA
DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI
E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o vi mando un presente,
il quale se non corrisponde agl’obblighi
clic io ho con voi, è tale senza dubbio,
quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso
quanto io so, quanto io ho imparato
per una lunga pratica e continova lezione
delle cose del mondo. E non porlendo
nè voi nè altri disiderare da me più,
non vi potete dolere se io non vi ho
donato più. Bene vi può incrcsccre della
povertà dello ingegno mio, quando siano
queste mie narrazioni povere ; e della fallacia del
giudizio, quando io in molte parli , discorrendo, m'inganni. Il che
essendo , won so quale di noi si abbia
ad esser meno obbligato all’altro; o io a voi ,
che mi avete forzalo a scrivere quello ch’io
mai per me medesimo non arci scritto; o
voi a me, quando scrivendo non abbi soddisfatto.
Pigliate, adunque, questo in quello modo
che si pigliano tulle le cose degli
amici: dove si considera più sempre la
intenzione di chi manda, che le qualità
della cosa che è mandata. E crediate che in
questo io ho una salis fazione , quando io penso
che, sebbene io mi fussi ingannato in
molle sue circostanze, in questa sola so eh
io non ho preso errore, di avere
delti voi, ai quali sopra tutti gli altri
questi miei Discorsi indirizzi : sì perché,
facendo questo, ini pnre aver mostro
qualche gratitudine de benefizii ricevuti : si
perchè e mi pare esser uscito fuora dell’uso
comune di coloro che scrivono , i quali sogliono
sempre le loro opere a qualche principe
indirizzare ; e, accecati dall’ambizione c dall’avarizia,
laudano quello di tutte le virtuose
qualitadi, quando di ogni vituperevole parte doverrebbono
biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo
errore, ho eletti non quelli che sono
Principi, ma quelli che per le infinite
buone parti loro meriterebbono di essere ; nè
quelli che polrebbono di gradi, di onori e
di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non
polendo, vorrebbono farlo. Perchè gli uomini,
volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli
che sono , non quelli che possono esser
liberali; e così quelli che sanno , non quelli
che, senza sapere, possono governare un regno. E
gli scrittori laudano più Icronc Siracusano
quando egli era privato, che
Perse Macedone quando egli era re: perchè a
Icronc a esser principe non mancava altro
che il principato; quell’altro non avera parte alcuna
di re, altro che il regno. Godetevi,
pertanto quel bene o quel male che voi
medesimi avete voluto : e se voi starete in
questo errore, che queste mie oppinioni vi
siano grate , non mancherò di seguire il
resto della istoria, secondo che nel
principio vi promisi. Valete Ancouaciiè, per
la invida natura degli uomini, sia sempre
stato pericoloso il ritrovare modi ed
ordini nuovi, quanto il cercare acque e
terre incognite, per essere quelli più
pronti a biasimare che a laudare le azioni d’
altri ; nondimeno, spinto da quel naturale
desiderio che fu sempre in me di
operare, senza alcun rispetto, quelle cose
che io creda rechino comune benefìzio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una
via, la quale, non essendo stata per
ancora da alcuno pesta,
se la mi arrecherà fastidio e diffìcultù,
mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante
quelli che umanamente di queste mie fatiche
conside-rassero. E se T ingegno povero, la pocoesperienza
delle cose presenti, la de-bole notizia
delle antiche, faranno que-sto mio conato
difettivo e di non moltautilità ; daranno
almeno la via ad al-cuno, che con più
virtù, più discorso egiudizio, potrà a
questa mia intenzionesatisfare: il che se
non mi arrecheràlaude, non mi dovrebbe
partorire bia-simo. E quando io
considero quantoonore si attribuisca all’antichità, c
comemolte volte, lasciando andare moltialtri
esempi, un frammento d’ una antica statua
sia stato comperato granprezzo, per averlo
appresso di sè, onorarne la sua casa,
poterlo fare imitareda coloro che di
quella arte si diletta-no; e come quelli poi
con ogni indu-stria si sforzano in tutte
le loro opererappresentarlo: e vcggendo,
dall’altrocanto, le virtuosissime operazioni che
leistorie ci mostrano, che sono state
operate da regni cda repubbliche
auliche,dai re, capitani, cittadini, datori
di leggi,ed ultri che si sono per
la loroatfaticati, esser più presto
ammirate cheimitate; au/i in tanto da
ciascuno inogni parte fuggite, che di
quella anticavirtù non ci è rimaso alcun
seguo:posso fare che insieme non me
nelavigli e dolga; e tanto più, quantoveggio
nelle differenze che intra iladini
civilmente nascono, o nelle inalattie nelle
quali gli uomini incorrono,essersi sempre
ricorso a quelli giudiciio a
quelli rimedi che dagli antichi sonostati giudicati
o ordinati. Perchè le leggicivili non sono
altro che sentenzio datedagli antichi
iurcconsulti, le quali, ridotte in ordine, a’
presenti nostri iure-consulti giudicare insegnano;
nè ancorala medicina è altro che
cspcrienzia fattadagli antichi medici, sopra
la quale fon-dano i medici presenti li loro
giudicii. Nondimeno, nello ordinare le repubbli-che,
nel mantenere gli Stati, nel govcr-nai e i
regni, nell’ ordinare la milizia
edamministrar la guerra, nel giudicare
isudditi, nello accrescere lo imperio,
nonsi trova uè principi, nè repubbliche,
nècapitani, nè cittadini che agli
esempidegli antichi ricorra. Il che mi
persuadoche nasca non tanto dalla
debolezzanella quale la presente educazione
hacondotto il mondo, o da quel male
cheuno ambizioso ozio ha fatto a
molteprovincie c città cristiane, quanto dalnou
avere vera cognizione delle istorie,per non
trarne, leggendole, quel senso,nè gustare
di loro quel sapore che lehanno in
sè. Donde nasce che infinitiche leggono,
pigliano piacere di udirequella varietà
delli accidenti che in essesi contengono,
senza pensare altrimeuted’ imitarle, giudicando
la imitazione nonsolo difficile ma
impossibile: come se ilcielo, il sole,
gli elementi, gli uominifossero variati di
moto, d’ordine e dipotenza, da quello eli’
egli erano antica-mente. Volendo, pertanto,
trarre gli uo-mini di questo errore,
ho giudicalo ne-cessario scrivere sopra tutti
quelli libri di L. che dalla malignità
deitempi non ci sono stati interrotti,
quelloche io, secondo le antiche e modern cose,
giudicherò esser necessario permaggiore
intelligenzia d'essi; acciocchécoloro che questi
miei discorsi legge-ranno, possino trarne quella
utilità perla quale si debbe ricercare
la cogni-zione della istoria. G
benché questa impresa sia difficile, nondimeno,
aiutato dacoloro che mi hanno ad
entrare, sotto aquesto peso confortato,
credo portarloin modo, che ad un
altro resterà brevecammino a condurlo al
luogo destinato. I. Quali siano stati
universalmente i pr incipit’ di qualunque città ,c
quale fosse quello di ROMA. Coloro che
leggeranno qual principio fosse quello della
città di ROMA, e da quali legislatori e
come ordinato, non
si maraviglieranno che tanta virtù sisia
per più secoli mantenuta in quella città; e
che dipoi ne sia nato quello im-perio,
al quale quella repubblica ag-giunse. E volendo
discorrere prima il nascimento suo, dico
che tutte le cittàsono edificate o dagli
uomini natii delluogo dove le si
edificano, o dai forestieri. Il primo caso
occorre quandoagli abitatori dispersi in
molte e piccole parli non par vivere
sicuri, nonpotendo ciascuna per sè, e per
il sitoe per il piccol numero, resistere
all’impeto di chi le assaltasse; e ad
unirsi perloro difensione, venendo il
nemico, nonsono a tempo; o quando fossero,
converrebbe loro lnsciare abbandonati molti de’ loro
ridotti, e cosi verrebbero ad esser sùbita
preda dei loro nemici: talmente che, per
fuggire questi pericoli, mossi o da loro
medesimi, o da alcunoche sia infra di
loro di maggior autorità, si ristringono ad
abitar insieme in luogo eletto da loro,
più comodo a vivere e più facile a difendere.
Di queste,infra molle altre, sono state
Atene e Vincaia. La prima, sotto l’autorità
di Teseo, fu per simili cagioni dalli
abitatoridispersi edificata; l’altra, sendosi
moltipopoli ridotti in certe isolette che
eranonella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle
guerre che ogni dì, per loavvenimento
di nuovi barbari, dopo ladeclinazione dello
imperio romano, na-scevano in ITALIA,
cominciarono infra loro, senza altro principe
particolareclic gli ordinassi, a vivere sotto
quelleleggi che parvono loro più atte a
mantenerli. Il che successe loro felicemente per
il lungo ozio che il sito dette loro,
non avendo quel mare uscita, e nonavendo
quelli popoli che affliggevano ITALIA, navigi
da poterli infestare: talché ogni picciolo
principio li potò fare ve-nire a quella
grandezza nella quale sono. Il secondo
caso, quando da genti forestiere è edificata
una città, nasce o dauomini liberi, oche
dipendano da altri come sono le colonie
mandate o da unarepubblica o da un
principe, per Sgra-vare le . loro terre
d’abitatori, o per di-fesa di quel paese che,
di nuovo acqui-stato, vogliono sicuramente e
senzaspesa mantenersi; delle quali città IL
POPOLO ROMANO ne edificò assai, e pertutto
l’imperio suo: ovvero le sono edi-ficate da
un principe, non per abitarvi,nia per
sua gloria; come la città di Alessandria
da Alessandro. E per nonavere queste
cittadl la loro origine libera,rade volte
occorre che le facciano pro-gressi grandi, e
possinsi intrai capi deiregni numerare.
Simile a queste fu V edificazione di FIRENZE,
perchè (fi edificatada’ soldati di SILLA,
o, a caso, dagli abitatori dei monti di
Fiesole, i quali, confi-datisi in quella lunga
pace che sotto OTTAVIANO nacque nel mondo,
si ridusseroad abitare nel piano sopra
Arno) si edi-ficò sotto l’imperio romano;
nè potette,ne’ principii suoi, fare altri
augumentiche quelli che per cortesia del
principe li erano concessi. Sono liberi li
edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli,o
sotto un principe o da per sé,
sonocostretti, o per morbo o per fame o
perguerra, od abbandonare il paese potrio,e
cercarsi nuova sede : questi tali, oegli
abitano le cittadi elle e’ trovano neipaesi
eli’ egli acquistano, come fece Moisè; o ne
edificano di nuovo, come fe ENEA. In
questo caso è dove si conosce la virtù dello
edificatore, e la fortunadello edificato: la
quale è più o menomeravigliosa, secondo che
più o menoè virtuoso colui che ne è stato
principio.La virtù del quale si conosce
in duoimodi: il primo è nella elezione
del sito;F altro nella ordinazione delle
leggi. Eperchè gli uomini operano o per
necessità o per elezione; e perchè si vede quivi
esser maggiore virtù dove la elezione ha
meno autorità; è da considerare se sarebbe
meglio eleggere, per laedificazione delle
cittadi, luoghi sterili,acciocché gli uomini,
costretti ad indùstriarsi, meno occupati
dall’ozio, vives-sino più uniti, avendo, per
la povertàdel sito, minore cagione di
discordie;come intervenne in Raugia, e in
moltealtre cittadi in simili luoghi
edificate:la quale elezione sarebbe senza
dubbiopiù savia e più utile, quando gli
uo- .mini fossero contenti a vivere delloro,e
non volcssino cercare di comandarealtrui.
Pertanto, non potendo gli uominiassicurarsi
se non con la potenza, ènecessario
fuggire questa sterilità del
pnese, e porsi in luoghi fertilissimi
;dove, potendo per la ubertà del sito
ampliare, possa e difendersi da chi l’ assaltasse, e
opprimere qualunque alla grandezza sua si
opponesse. G quanto a quell’ozio che le
arrecasse il sito, si debbe ordinare che a
quelle necessitadi le leggi la costringhino
che ’l sito non la costringesse; ed
imitare quelli che sono stati savi, ed
hanno abitato in paesiamenissimi e fertilissimi,
c alti a pròdurre uomini oziosi ed inabili
ad ogni
virtuoso esercizio: chè, per ovviare
aquelli danni i quali l’amenità del
paese,mediante l’ozio, arebbero causati,
hannoposto una necessità di esercizio a
quelliche avevano a essere soldati: di
qualitàche, per tale ordine, vi sono
diventatimigliori soldati che in quelli
paesi i qualinaturalmente sono stati aspri e
steriliIntra i quali fu il regno degli
Egizi, chenon ostante che il paese
sia amenissi-mo, tanto potette quella necessità
ordi-nata dalle leggi, che vi nacquero uo-mini
eccellentissimi; e se li nomi loronon
fussino dalla antichità spenti, sivedrebbe
come meriterebbero più laudeche Alessandro
Magno, c molti altri deiquali ancora* è la
memoria fresca. E chiavesse considerato il
regno del Soldano,e l’ordine de’Mammaluchi. e di
quellaloro milizia, avanti che da Sali,
GranTurco, fusse stata spenta ; arebbe ve-duto
ili quello molti esercizi circa i sol-dati,
ed arebbe in fatto conosciutoquanto essi
temevano quell’ozio a che la benignità del
paese gli poteva con-durre, se non vi
avessino con leggi for-tissime ovviato. Dico,
adunque, esserepiù prudente elezione porsi
in luogofertile, quando quella fertilità
con leleggi infra* debili termini si
restringe.Ad Alessandro Magno, volendo
edificareuna città per sua gloria, venne
Dino-erate architetto, e gli mostrò come
eila poteva fare sopra il monte Albo;
ilquale luogo, oltre allo esser forte,
po-trebbe ridursi in modo che a quellacittà
si darebbe forma umana; il chesarebbe
cosa meravigliosa e raro, e de-gna della sua
grandezza: e domandan-dolo Alessandro di quello che
quelli abi-tatori viverebbono, rispose, non ci
averepensato: di che quello si rise, e
lasciatostare quel monte, edificò
Alessandria,dove gli abitatori avessero a stare
vo-lentieri per la grassezza del paese, e
perla comodità del mare e del Nilo.
Chi esa-minerò, adunque, la edificazione di
Ro-ma, se si prenderà Enea per suo
primoprogenitore, sarà di quelle citladi
edifi-cate da’ forestieri ; se Romolo, di
quelleedificate dagli uomini natii del luogo;ed
in qualunciic modo, la Vedrà avereprincipio
libero, senza depcndere da al-cuno: vedrà
ancora, come di sotto sidirà, a quante
necessitadi le leggi fatteda Romolo, Numa,
e gli altri, la costrin-gessino ; talmente
clic la fertilità del sito,la comodità
del mare, le spesse vittorie,la grandezza
dello imperio, non la po-terono per molti
secoli corrompere, e Ir» -» **mantennero
piena di tante virtù, djp^quante mai
fusse alcun’ altra repubblicaornata. E perchè le
cose operate da lejj, ^e che sono da
Tito Livio celebrate, sonoseguite o per
pubblico o per privatoconsiglio, o dentro o fuori
della cittade,io comincerò a discorrere sopra
quellecose occorse dentro, e per consiglio
pub-blico, le quali degne di maggiore
an-notazione giudicherò, aggiungendovi tut-to quello
che da loro dependessi : coni quali
Discorsi questo primo libro, ovvero Questa
prima parte, si terminerà. Cap. II. — Di
quante spezie sono le *epnbbtiche , e di
quale fu la Repubblica Romana. Io voglio
porre da parte il ragionare di quelle
cittadi clic hanno avuto il loro principio
sottoposto ad altri; e parlerò di quelle
che hanno avuto il principio 'ontano do
ogni servitù esterna, nia si ; j sono
subito governate per loro arbitrio, o come
repubbliche o come principato: U quali hanno
avuto, come diversi principi, diverse leggi
ed ordini. Perchè ad alcune, o nel
principio d’esse, o dopo non molto tempo,
sono state date da un
solo le leggi, e ad un tratto ; come
quelle che furono date da Licurgo agli
Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in
più volte, e secondo li accidenti, come Roma.
Talché, felice si può chiamare quella
repubblica, la quale sortisce uno uomo sì
prudente, che le dia leggi ordinate in
modo, che senza avere bisogno di
correggerle, possa vivere sicuramente sotto
quelle. E si vede che Sparta le osservò
più che ottocento anni senza corromperle, o
senza alcuno tumulto pericoloso: e, pel
contrario, tiene qualche grado d’ infelicità
quella città, che, non si sendo abbattuta
ad uno ordinatore prudente, è necessitata da
sè medesima riordinarsi: e di queste ancora è più
infelice quella che è più discosto dall’ordine; e
quella è più discosto, con suoi ordini è al
tutto fuori del dritto cammino, che la
possi condurre al perfetto e vero fine:
perchè quelle clic sonoiu questo grado, è
quasi impossibile che per qualche accidente
si rassettino. Quel le altre che, se le
non hanno V ordine perfetto, hanno preso il
principio buono,e atto a diventare migliori,
possono perla occorrenza delli accidenti
diventareperfette. Ma fia ben vero questo, mai
non si ordineranno senza pericolo
perchè li assai uomini non si accordano mai
ad una legge nuova che riguardi uno
nuovo ordine nella cit tà, se non è mostro
loro da una necessità che bisogni farlo ; e
non potendo venire questa necessità senza
pericolo, è facil cosa che quella repubblica
rovini, avanti che la si sia condotta a
una perfezione d’ordine. Di che ne fa
fede appieno la re-pubblica di Firenze, la
quale fu dalloaccidente d’ Arezzo, nel
11, riordinata, eda quel di Prato,
nel XII, disordinata.Volendo, adunque, discorrere
quali fu-rono li ordini della città di
Roma, equali accidenti alla sua perfezione
lacondussero) dico, come alcuui che
hannoscritto delle repubbliche, dicono essere
in quelle uno de' tre stati,
chiamati daloro Principato, d’Ottimati e Popolare; e
come coloro che ordinano una città, debbono
volgersi ad uno di questi, secondo pare
loro più a proposito. Alcuni altri, e secondo
la oppinione di molti più savi, hanno
oppinione che siano di sei ragioni governi;
delti quali tre ne siano pessimi; tre
altri siano buoni in loro medesimi, ma
sì focili a corrompersi, che vengono ancora
essi ad essere perniziosi. Quelli che sono
buoni, sono i soprascritti tre: quelli clic sono rei,
sono tre altri, i quali da questi tre dependono;
c ciascuno d’ essi è in modo simile a
quello che gli è propinquo, che facilmente
saltano dall’ uno all’ altro: perchè il
Principato facilmente diventa tirannico; li
Ottimati con facilità diventano stato di pochi
; il Popolare senza diflìcultà in licenzioso
si converte. Talmente che, se uno
ordinatore di repubblica
ordina in una città uno di quelli tre
stati, ve lo ordina per poco tempo; perchè
nessuno rimedio può farvi, a far che non
sdruccioli nel suo contrario, per la
similitudine che ha in questo caso la
virtù ed il vizio. Nacquono queste
variazioni di governi a caso intra li
uomini: perchè nel principio del mondo,
sendo li abitatori rari, vissono un tempo
dispersi, a similitudine delle bestie; dipoi,
multiplicando la generazione, si ragunorno
insieme, e, per potersi meglio difendere,
cominciorno a riguardare fra loro quello che
fusse più robusto c di maggiore cuore, c fecionlo
come capo, e lo obedivano. Da questo nacque
la cognizione delle cose oneste e
buone, differenti dalle perniziose e ree:
perchè, veggendo che se uno noceva al
suo benefattore, ne veniva odio e compassione
intra gli uomini, biasimando li ingrati ed
onorando quelli che fusscro grati, e pensando
ancora che quelle medesime ingiurie potevano
esser fatte a loro; per fuggire simile
male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contea facesse: donde venne la
cognizione della giustizia. La qual cosa
faceva che avendo dipoi ad eleggere un
principe, non andavano dietro al più
gagliardo, ma a quello che fussi più
prudente c più giusto. Ala come di poi si
cominciò a fare il principe per successione, e
non pei* elezione, subito cominciorno li
eredi a degenerare dai loro antichi ; e lasciando
1’ opere virtuose, pensavano che i principi non avessero
a fare altro clic superare li altri di
sontuosità e di lascivia c d’ ogni altra' qualità
deliziosa: in modo che, cominciando il
principe ad essere odialo, e per tale
odio a temere, e passando tosto dal timore
all’ offese, ne nasceva presto una
tirannide. Da questo nacquero appresso i
principi» delle rovine, c delle conspirazioni e
congiure contea i principi; non fatte da
coloro clic fussero o timidi o deboli, ma
da coloro che per genei'osità, grandezza d’
animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gli altri;
i quali non potevano sopportare la inonesta vita di
quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo
l’ autorità di questi potenti, si armava
contra al principe, c quello spento,
ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio il nome d’ uno solo
capo, constituivano di loro medesimi un
governo; e nel piincipio, avendo rispetto
alla passata tiratinide, si governavano
secondo le leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro comodo alla comune
utilità ; e le cose private e le pubbliche
con somma diligenzia governavano c conservavano.
Venuta dipoi questa amministrazione ai loro
figliuoli, i quali, non conoscendo la variazione
della fortuna, non avendo mai provato il
male, e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia,
alla ambizione, alla usurpazione delle donne,
feciono clic d’ uno governo d’ Ottimati
diventassi un governo di pochi, senza
avere rispetto ad alcuna civiltà : tal che
in breve tempo intervenne loro come al
tiranno; perchè infastidita da’ loro governi
la moltitudine, si fe ministra di qualunque
disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori;
e cosi si levò presto alcuno che, con
I’ aiuto della moltitudine, li spense. Ed
essendo ancora fresca la memoria del
principe e delle ingiurie ricevute da quello,
avendo disfatto lo Stato de’ pochi e non
volendo rifare quell del principe, si
volsero allo Stato popolare; c quello ordinarono
in modo, che nè i pochi potenti, nè
uno principe vi avesse alcuna autorità. E
perchè tutti gli Stali nel principio hanno
qualche reverenza, si mantenne questo Stato popolare
un poco, ma non molto, massi-
me spenta che fu quella generazione che l’aveva
ordinato; perchè subito si venne alla
licenzia, dove non si temevano nè li
uomini privati nè i pubblici; di qualità
che, vivendo ciascuno a suo modo, si
facevano ogni di mille ingiurie: talché,
costretti per necessità, o per suggestione d’
alcuno buono uomo, o per fuggire tale
licenzia, si ritorna di nuovo al
principato; e da quello, di grado in grado,
si riviene verso la licenzia, nei modi e
per le cagioni dette. E questo è il
cerchio nel quale girando tutte le
repubbliche si sono governate, e si governano:
ina rade volte ritornano nei governi
medesimi; perchè quasi nessuna repubblica può
essere di tanta vita, che possa passare
molle volte per queste mutazioni, c rimanere
in piede. Ma bene interviene che, nel
travagliare, una repubblica, mancandoli sempre
consiglio e forze, diventa suddita d'uno Stato
propinquo, clic sia meglio ordinato di lei
: ina dato che questo non fusse, sarebbe atta
una repubblica a rigirarsi infinito tempo in
questi governi. Dico, adunque, che lutti i
detti modi sono pestiferi, per la brevità
della vita che è ne’ tre buoni, e per
la malignità che è ne* tre rei. Talché,
avendo quelli che prudentemente ordinano leggi
conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di
questi modi per se stesso, n’ elessero
uno che partieipasse di lutti, giudicandolo
più fermo e più stabile ; perchè l’uno
guarda l’altro, scudo in una medesima città
il Principato, li Ottimati ed il Governo
Popolare. Infra quelli che hanno per simili constituzioni
meritato più laude, è Licurgo; il quale
ordinò in modo le sue leggi in
Sparta, che dando le parti sue ai He,
agli Ottimali e al Popolo, fece uno Stato
che durò più che ottocento anni, con
somma laude sua, e quiete di quella città.
Al contrario intervenne a Solone, il quale
ordinò le leggi in Atene che per
ordinarvi solo lo Stato popolare lo fece
di sì breve vita, che avanti morisse
vi vide nata la tirannide di
Pisistrato: e benché dipoi anni quaranta ne
fusscro cacciati gli suoi eredi, c ritornasse
Atene in libertà, perchè la riprese lo
Stato popolare, secondo gli ordini di
Solone; non lo tenne più cliccento
anni, ancora che per mantenerlo facesse
molte constituzioni, per le quali si
reprimeva la iusolenzia grandi c la licenzia
dell’ universale, le quali non furou da
Solonc considerate nientedimeno, perchè la non
le mescolò con la potenzia del Principato e
con quella dclli Ottimali, visse Atene, spetto
di Sparla, brevissimo tempo. Ria vegniamo a ROMA
; la quale nonostante che non avesse uno
Licurgo che la ordinasse in modo, ilei
principio, che la potesse vivere lungo
tempo libera, nondimeno furon tanti gli
accidenti che in quella nacquero, per la
disunione che era intra la Plebe ed
il Senato, che quello che non aveva
fatto uno ordinatore, lo fece il caso.
Perchè, se ROMA non sortì la prima
fortuna, sortì la seconda; perchè i primi ordini
se furono defettivi, nondimeno non deviarono
dalla diritta via che li potesse condurre
alla perfezione. Perchè ROMOLO e tutti gli altri
Re fecero molte e buone leggi, conformi
ancora al vivere libero: ma perchè il
fine loro fu fondare un regno e non una
repubblica, quando quella città rimase libera,
vi mancavano molte cose che era necessario
ordinare in favore della libertà, le quali
non erano state da quelli Re ordinate. E
avvengachè quelli suoi Re perdessero V imperio
per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli
clic li cacciarono, ordinandovi subito duoi
Consoli, che stessino nel luogo del Re,
vennero a cacciare di Roma il nome, e non
la potestà regia: talché, essendo in quella
Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva
solo ad esser mista di due qualità
delle tre soprascritte: cioè di Principato e
di Ottimali. Restavali solo a dare luogo
al Governo Popolare: onde, essendo diventatala Nobiltà
romana insolente per le cagioni che di sotto
si diranno, si levò il Popolo contro
di quella ; talché, per non perdere il
tutto, fu costretta concedere al Popolo la
sua parte; e, dall’altra parte, il Senato e
i Consoli restassino con tantaautorità, che
potcssino tenere in quella Repubblica il
grado loro. E cosi nacque la creazione de’
Tribuni della plebe ; dopo la quale
creazione venne a essere più stabilito lo
stato di quella Repubblica,
avendovi tutte le tre qualità di governo la
parte sua. E tanto li fu favorevole la fortuna,
che benché si passasse dal governo de’ Re e
delli Ottimati al Popolo, per quelli
medesimi gradi e per quelle medesime cagioni
che di sopra si sono discorse : nondimeno
non si tolse mai, per dare autorità
alli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità
regie; nè si diminuì l’autorità in tutto
alli Ottimati, per darla al Popolo; ina
rimanendo mista, fece una repubblica perfetta :
alla quale perfezione venne per la
disunione della Plebe e del Senato, come
nei duoi prossimi seguenti capitoli largamente
si dimostrerà. III. Quali accidenti facessino creare
in Roma i Tribuni della plebe ; il che
fece la Repubblica più perfetta. Come
dimostrano lutti coloro che ragionano del
vivere civile, e come ne è piena di
esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone
una repubblica, ed ordina leggi in quella,
presupporre tuttigli uomini essere cattivi, e
clic li abbinosempre od usure la
malignità dello animo loro, qualunchc volta
ne abbino libera occasione: e quando alcuna
malignità sta occulta un tempo, procede da una
occulta cagione, ebe, per non si essere
veduta esperienza del contrario, non si
conosce; ma la fa poi scoprire il
tempo, il quale dicono essere padre d’ogni
verità. Pareva clic fusse in Roma intra
la Plebe cd il Senato, cacciati I Tarquiili,
una unione grandissima; e che i Nobili,
avessino deposta quella loro superbia, c russino
diventati d'animo popolare, c sopportabili da
qualuncbc, ancora ebe infimo. Stette nascoso
questo inganno, nè se ne vide la cagione, infino
ebe i Tarquini vissono; de’ quali temendo la
Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe
mal trattata non si accostasse loro, si
portava umanamente con quella: ma come
prima furono morti I Tarquini, e die a’
Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a
sputare contro Olla Plebe quel veleno che
si avevàno tenuto nel petto, ed in
tutti i modi che potevano la offendevano:
la qual cosa fa testimonianza a quello che
di sopra ho detto, che gli uomini non
operano mai nulla bene, se non per
necessità; ma dove la elezione abbonda, e
che vi si può usare licenzia, si
riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Però si dice che la fame e
la povertà fu gli uomini industriosi, e le
leggi gli fanno buoni. E dove una cosa
per sè medesima senza la legge opera
bene, non è necessaria la legge; ma quando
quella buona consuetudine manca, è subito la
legge necessaria. Però, mancati i Tarqnini, che
con la paura di loro tenevano
laNobiltà a freno, convenne pensare a unonuovo
ordine ehe facessi quel medesimoeffetto che
facevano i Tarquini quandoerano vivi. E però,
dopo molte confu-sioni, romori e pericoli di
scandali, chenacquero intra la Plebe c la
Nobiltà, sivenne per sicurtà della Plebe
alla creazionc ile* Tribuni ; e quelli
ordinaronocon laute preminenze e tanta riputa-zione,
che potcssino essere sempre dipoi mezzi
intra la Plebe e il Senato, eovviare
alla insolenzia de’ Nobili. IV. Che la
disunione della Plebe c del Senato romano
fece libera e polente quella Repubblica. H0U njt
fil ùi òVvil tf, ; il "iit* lo
non voglio mancare di discorrere sopra
questi tumulti che furono in Roma dalla
morte de’ Tarquini alla creazione de’ Tribuni; e
di poi alcune cose contro la oppinionc
di molti clic dicono. Roma esser stata
una repubblica tumultuaria, e piena di tanta
confusione, clicse la buona fortuna c la
virtù militare non avesse supplito a’ loro
difetti, sarebbe stata inferiore ad ogni
altra repubblica. Io non posso negare che
la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell’imperio
romano; ma e’ mi pare bene, che costoro
non si avvegghino, clic dove è buona
milizia, conviene clic sia buono ordine, e
rade volte anco occorre clic non vi
sia buona fortuna. Ma vegniamo all i altri
particolari di quella città. Io dico clic
coloro clic dannano I tumulti intra i
Nobili c la Plebe, mi pare clic biasimino
quelle cose che furono prima cagione di
tenere libera Roma ; c clic considerino più
a’ romori ed alle grida clic di tali
tumulti nascevano, che a’ buoni effetti clic
quelli partorivano: e che non considerino come ei
sono in ogni repubblica duoi umori diversi,
quello del popolo, c quello dei grandi ; c
come tutte le leggi che si fanno in
favore delia libertà, nascono dalla disunione
loro, come facilmente si può vedere essere
seguito in Roma: perchè da’ Tarquini ai
Gracchi, che furono più
di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte
partorivano esilio, radissime sangue. Nè si
possono, per tanto, giudicare questi tumulti
nocivi, nè una repubblica divisa, che in
tanto tempo per le sue differenze non
mondò in esilio più che otto o dieci
cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti
ancora condennò in danari. Nè si può
chiamare in alcun modo, con ragione, una
repubblica inordinata, dove siano tanti esempi
di virtù; perchè li buoni esempi nascono
dalla buona educazione; la buona educazione dalle
buone leggi ; e le buone leggi da quelli
tumulti che molti inconsideratamente dannano:
perchè chi esaminerò bene il fine d’essi,
non troverà ch’egliabbino partorito alcuno
esilio o violenza in disfavore del comune
bene, ma leggi ed ordini in benefizio
della pubblica libertà. E se alcuno dicesse : i
modi erano straordinari, e quasi efferati, vedere
il Popolo insieme gridare contro il Senato, il
Senato contra il Popolo, correre tumultuariamente
per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la
Plebe di Roma. le quali tutte cose
spaventano, nonclic altro, chi legge; dico
come ogni città debbe avere i suoi modi,
con i quali il popolo possa sfogare
l’ambizione sua, e massime quelle ciltadi che uelle
cose importanti si vogliono valere del
popolo: intra le quali la città di
Roma aveva questo modo, che quando quel
Popolo voleva ottenere una legge, o e’
faceva alcuna delle predette cose, o e’ non
voleva dare il nome per andare alla
guerra, tanto che a placarlo bisognava in
qualche parte satisfargli. E i desiderò de’
popoli liberi, rade volle sono perniziosi
alla libertà, perchè e’na- seono o da
essere oppressi, o da suspizionc di avere a
essere oppressi. E quando queste oppinioni
fussero false, e’ vi è il rimedio delle
concioni, che sorga qualche uomo da bene,
che, orando, dimostri loro come c’ s’
ingannano: e li popoli, come dice Tullio CICERONE,
benché siano ignoranti, sono capaci della
verità, e facilmente cedono, quando da uomo degno
di fede è detto loro il vero. Debbesi, adunque,
più parcamente biasimare il governo romano, e
considerare che tanti buoni effetti quanti
uscivano di quella repubblica, non erano causati
se non da ottime cagioni. E se i tumulti
furono cagione della creazione dei Tribuni,
meritano somma laude; perchè, oltre al dare la
parte sua all’ amministrazione popolare, furono
constituiti per guardia della libertà romana,
come nel seguente capitolo si mostrerà. V.
Dove più sccurnmentc si ponga la guardia
della libertà , o nel Popolo o ne * Grandi ; c c/uali
hanno maggior cagione di tumultuare , o chi vuole
acquistare o chi vuole mantenere. Quelli clic
prudentemente hanno constituita una repubblica,
intra le più necessarie cose ordinate da
loro, è stato constituire una guardia alla
liberta: e secondo che questa è bene
collocala,dura più o meno quel vivere
libero. Eperché in ogni repubblica sono
uomingrandi e popolari, si è dubitato nellemani
di quali sia meglio collocata dettaguardia.
Ed appresso i Lacedemoni, c,ne’ nostri
tempi, appresso de’ Viniziani,la è stata
messa nelle mani de’ Nobili ;ma
appresso de’ Romani fu messa nellemani
della Plebe. Per tanto, è necessa-rio esaminare,
quale di queste repub-bliche avesse migliore
elezione. E se siandassi dietro alle
ragioni, ci è chedire da ogni pajte:
ma se si esaminassiil fine loro, si
piglierebbe la partede’ Nobili, per aver
avuta la libertà diSparla c di Vinegia
più lunga vita chequella di Roma. E
venendo alle ragio-ni, dico, pigliando prima
la parte de’ Ro-mani, come e’ si
debbe mettere in guar-dia coloro d’ una
cosa, che hanno menoappetito di usurparla.
E senza dubbio,se si considera il fine
de’ nobili e deiliignobili, si vedrà in
quelli desideriogrande di dominare, cd in
questi solodesiderio di non essere
dominati; e, perconseguente, maggiore volontà
di vivereliberi, potendo meno sperare d’
usurparla che non possono li granili:
tal-ché, essendo i popolani preposti a guar-dia d’ una
libertà, ò ragionevole neabbino più cura : e
non la putendo occu-pare loro, non
permettino clic altri laoccupi. Dall’ altra
parte, chi difendel’ordine sparlano e veneto,
dice cliccoloro che mettono la guardia
in inanode’ potenti, fanno due opere
buone:I’ una, che satisfanno più all’
ambizionedi coloro che avendo più parte
nellarepubblica, per avere questo bastone
inmano, hanno cagione di contentarsi più;I’
altra, clic bevano una qualità di au-torità
dagli animi inquieti della plebe,che è cagione
d’ infinite dissensioni escandali in una
repubblica, e alta a ri-durre la nobiltà a
qualche disperazio-ne, che col tempo faccia
cattivi eliciti.E ne danno per esempio la
medesimaRoma, che per avere i Tribuni
dellaplebe questa autorità nelle mani,
nonbastò loro aver un Consolo plcbeio,
chegli vollono avere ambedue. Da questo, c*
voltano la Censura, il Pretore, e tuttili
altri gradi dell’imperio della città:nè
bastò loro questo, chè, menati dalmedesimo
furore, cominciorno poi, coltempo, a adorare
quelli uomini che ve-devano atti a battere
la Nobiltà ; dondenacque la potenza di
Alarlo, e la rovinadi Roma. E veramente,
chi discorressebene I’ una cosa c l’ altra,
potrebbestare dubbio, quale da lui fusse
elettoper guardia tale di libertà, non
sapen-do quale qualità d’uomini sia più no-civa
in una repubblica, o quella ohedesidera
acquistare quello che non ha,‘ o quella che
desidera mantenere V ono-re già acquistato. Ed
in fine, chi sot-tilmente esaminerà tutto,
ne farà que-sta conclusione: o tu ragioni
d’ unarepubblica che vogli fare uno
imperio,come Roma ; o d’ una che li
basti man-tenersi. Nel primo caso, gli è
necessa-rio fare ogni cosa come Roma; nel
se-condo, può imitare Yinegia e Spartaper quelle
cagioni, e come nel seguente capitolo si
dirà. .Ma, per tornare a di-scorrere quali
uomini siano in una re-pubblica piu nocivi,
o quelli clic desi-derano d’acquistare, o quelli
clic te-mono di perdere lo acquistato;
dicodie, scudo fatto Marco Meiiennio ditta-tore,
e Marco Fulvio maestro de’ caval-li, tutti duoi
plebei, per ricercare certecongiure clic si
erano falle in Capovaconlro a Roma, fu
dato ancora loro au-torità dal Popolo di
poter ricercare chiin Roma per ambizione e
modi straor-dinari s’ingegnasse di venire al
con-solato, ed agli altri onori della
città. Eparendo alla Nobiltà, che tale
autoritàfusse data al Dittatore contro a
lei,sparsero per Roma, clic non i
nobilierano quelli che cercavano gli
onoriper ambizione e modi straordinari, magl’
ignobili, i quali, non confidatisi nelsangue e
nella virtù loro, cercavano pervie
straordinarie venire a quelli gradi;e particolarmente
accusavano il Ditta-tore. E tanto fu potente
questa accusa, che Mencnnio, fatta una
conclone c do-lutosi deite calunnie dategli da*
Nobilidepose la dittatura, e sottomessesi
aigiudizio che di lui fussi fatto dal
Po*polo; c dipoi, agitala la causa sua,
nefu assoluto: dove si disputò assai, qualesia
più ambizioso, o quel che vuolemantenere o
quel che vuole acquistare;perchè facilmente
1* uno e V altro ap-petito può essere
cagione di tumultigrandissimi. Pur nondimeno,
il più dellevolte sono causali da chi
possiede, per-chè la paura del perdere
genera in lorole medesime voglie che
sono in quelliche desiderano acquistare;
perchè nonpare agli uomini possedere sicuramente
quello clic l’uomo ha, se non si
acqui-sta di nuovo dell’ altro. E di più
vi è,che possedendo molto, possono con
mag-gior potenzia c maggiore moto fare alterazione.
Ed ancora vi è di più, che li loro
scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne’
petti di chi non possiede voglia di
possedere, o per vendicarsi contro di loro
spogliandoli, o per potere ancora loro entrare
in quella ricchezza c in quelli onori clic
veggono essere male usati dagli altri. VI. —
Se in 1 ionia si poteva ordinare uno
stalo che togliesse via le inimicizie intra
il Popolo ed il Senato. Noi abbiamo
discorsi di sopra gli effetti che facevano
le controversie intra il Popolo ed il
Senato. Ora, sendo quelle seguitate in fino
al tempo de’ Gracchi, dove furono cagione
della rovina del vivere libero, potrebbe
alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli
effetti grandi che la fece, senza che
in quella fussino tali inimicizie. Però mi
è parso cosa degna di considerazione, vedere
se in Roma si poteva ordinare uno
stato che togliesse via dette controversie.
Ed a volere esaminare questo, è necessario
ricorrere a quelle repubbliche le quali senza
tante inimicizie c tumulti sono state lungamente
libere, e vedere quale stato era il
loro, e se si poteva introdurre in
Roma. In esempio tra lì antichi ci è Sparta,
tra i moderni Yinegia, state da me di sopra
uominate. Sparla fece uno Re, con
unpicciolo Senato, che la governasse.
Vinegia non ha diviso il governo con
i nomi ; ma, sotto una appellazione, lutti quelli
che possono avere amministrazione si chiamano
Gentiluomini. Il quale modo lo dette il
caso, più che la prudenza di elùdette
loro le leggi: perchè, sendosi ridotti in
su quegli scogli dove è ora quella città,
per le cagioni dette di sopra, molti
abitatori; come furon cresciuti in tanto
numero, che a volere vivere insieme bisognasse
loro far leggi, ordinorono una forma di
governo; c convenendo spesso insieme ne’
consigli a deliberare della città, quando
parve loro essere tanti che fussero a
sufficienza ad un vivere politico, chiusono
la via a tutti quelli altri che vi
venissino ad abitare di nuovo, di potere
convenire ne’ loro governi: e, col tempo,
trovandosi in quel luogo assai abitatori
fuori del governo, per dare riputazione a
quelli clic governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e
gli altri Popolani. Potette questo modo
nascere e mantenersi senza tumulto, perchè quando
e’ nacque, qualunque allora abitava in
Vinegia fu fatto del governo, di modo
che nessuno si poteva dolere; quelli che.
dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo
Stato fermo c terminato, non avevano
cagione nè comodità di fare tumulto. La
cagione non y* era, perchè non era
stato loro tolto cosa alcuna: la comodità
non v’era, perché chi reggeva gli teneva
in freno, c non gli adoperava in cose
dove e’ potessino pigliare autorità. Oltre
di questo, quelli che dipoi vennono ad
abitare Vinegia, non sono stali molli, c di
tanto numero, che vi sia disproporzione da chi
gli governa a loro che sono governati;
perchè il numero de’ Gentiluomini o egli è eguale
a loro, o egli è superiore: sicché, per
queste cagioni, Vinegia potette ordinare
quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta, come
ho detto, essendo governata da un Re c
da una stretto Senato, potette mantenersi così lungo
tempo, perchè essendo in Sparta pochi
abitatori, ed avendo tolta la via n chi
vi venisse ad abitare, ed avendo prese
le leggi di Licurgo con reputazione, le
quali osservando, levavano via tutte le
cagioni de’ tumulti, poterono vivere uniti
lungo tempo: perchè Licurgo con le sue leggi fece in
Sparta più cqualità di sustanze, e meno
equalità di grado; perchè quivi era una eguale
povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi,
perchè i gradi della città si distendevano
in pochi cittadini, ed erano tenuti
discosto dalla plebe, uè gli nobili col
trattargli male dettero mai loro desiderio
di avergli. Questo nacque dai Re spartani,
i quali essendo collocati in quel principato e
posti in mezzo diquella nobiltà, non avevano
maggiore ri-medio a tenere fermo la loro
degnità,ehc tenere la plebe difesa da
ogni in-giuria : il che faceva che la
plebe nontemeva, c non desiderava imperio ; e
nonavendo imperio nè temendo, era levatavia
la gara che la potessi avere con
!unobiltà, c la cagione de’ tumulti; e po-terono
vivere uniti lungo tempo. Ma duecose
principali causarono questa unione:T una esser
pochi gli abitatori di Sparta,e per questo
poterono esser governatida pochi; l’altra,
che non accettandoforestieri nella loro
repubblica, non ave-vano occasione nè di
corrompersi, nè dicrescere in tanto che
la fusse insoppor-tabile a quelli pochi che
la governavano.Considerando, adunque, tutte
queste cose ,si vede come a’ legislatori di
Roma eranecessario fare una delle due
cose, a vo-lere che Roma stessi quieta come
le so-praddette repubbliche: o non adoperarela
plebe in guerra, corne i Viniziani;onon aprire
la via a’ forestieri, come gliSpartani. E
loro feceno 1’una e l’altra; il che
dette alla plebe forza ed augu-mento,
ed infinite occasioni di tumul-tuare. E se
lo stato romano veniva adessere più
quieto, ne seguiva questo in-conveniente, ch’egli
era anco più debile,perchè gli si
troncava la via di poterevenire a quella
grandezza dove ei per-venne: in modo che
volendo Roma le-vare le cagioni de’
tumulti, levava ancole cagioni dello
ampliare. Ed in tutte lecose umane si
vede questo, chi le esa-minerà bene: che
non si può mai can-cellare uno
inconveniente, che non nesurga un altro.
Per tanto, se tu vuoifare un popolo
numeroso ed armato perpotere fare un
grande imperio, lo faidi qualità che
tu non lo puoi poi ma-neggiare a tuo
modo: se tu lo mantienio piccolo o
disarmato per potere ma-neggiarlo, se egli
acquista dominio, nonlo puoi tenere, o
diventa sì vile, che tusei preda di
quaiunche ti assalta. E però,in ogni nostra
deliberazione si debbeconsiderare dove sono
meno inconve-nienti, c pigliare quello per
migliorepartito: perchè tutto netto, tutto
senzasospetto non si trova mai. Poteva,
adun-que, Roma a similitudine di Sparta fareun
Principe a vita, fare un Senato pic-colo;
ma non poteva, come quella, noncrescere
il numero de’ cittadini suoi, vo-lendo fare
un grande imperio; il chefaceva che
il- Re a vita ed il picciol nu-mero
del Senato, quanto alla unione, glisarebbe
giovato poco. Se alcuno volesse,per tanto,
ordinare una repubblica dinuovo, arebbe a
esaminare se volessech’ella ampliasse, come
Roma, di domi-nio e di potenza, ovvero
ch’ella stessedentro a brevi termini. Nel
primo caso,è necessario ordinarla come Roma,
edare luogo a’ tumulti e alle
dissensioniuniversali, il meglio che si
può; perchèsenza gran numero di uomini, e
benearmati, non mai una repubblica potràcrescere,
o se la crescerà, mantenersi.Nel secondo
caso, la puoi ordinare comeSparta c come
Yinegia: ma perchè l’anipitale è il veleno
di simili repubbliche, tlebbc, in tutti
quelli modi che si può,citi le ordina
proibire loro lo acquistare; perchè tali
acquisti fondati sopra
una repubblica debole, sono al tutto la rovina
sua. Come intervenne a Sparta ed a Yinegia :
delle quali la prima avendosi sottomessa
quasi tutta la Grecia, mostrò in su
uno minimo accidente il debole fondamento
suo ; perchè, seguita la ribellione di
Tebe, causata da Pelopitia, ribellandosi V
altre cittadi, rovinò al tutto quella
repubblica. Similmente Yinegia, avendo occupato
gran parte d’Italia, e la maggior parte non
con guerra ma con danari e con astuzia, come
la ebbe a fare prova delle forze sue,
perdette in una giornata ogni cosa. Crederei
bene, che a fare una repubblica che durasse
lungo tempo, fussi il miglior modo
ordinarla dentro come Sparla o come Yinegia ;
porla in luogo forte, e di tale potenza,
che nessuno cre-desse poterla subito opprimere; e
dal-l’altra parte, non fussi si grande, che
la fussi formidabile a’ vicini : c così
potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perchè,
per due cagioni si fa guerra ad una
repubblica: Cuna per diventarne signore, l’altra
per paura ch’ella non ti occupi. Queste
due cagioni il sopraddetto modo quasi in
tutto toglie via; perchè, se la è difficile
ad espugnarsi, come io la presuppongo,
sendo bene ordinata alla difesa, rade volte
accadere, o non mai, che uno possa fare
disegno d’ acquistarla. Se la si starà
intra i termini suoi, e veggasi per esperienza,
che in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sè gli
faccia guerra : e tanto più sarebbe questo, se e’
fusse in lei constituzione o legge che le
proibisse l’ampliare. E senza dubbio credo, clic polendosi
tenere la cosa bilanciata in questo modo,
che e’ sarebbe il vero vivere politico, e
la vera quiete di una città. Ma scudo
tutte le cose degli uomini in moto, c
non potendo stare salde, conviene che le
saglino o clic le scendino ; e a molte cose
che la ragione non t' induce, t’ induce
lo necessità: talmente che, avendo ordinata
una repubblica atta a mantenersi non ampliando, e
la necessità la conducesse ad ampliare, si
verrebbe a torre via i fondamenti suoi, ed a
farla rovinare più presto. Così, dall’altra
parte, quando il Cielo le fusse si
benigno, che la non avesse a fare
guerra, ne nascerebbe che l’olio la farebbe
o effeminata o divisa; le quali due cose
insieme, o ciascuna per sè, sorebbono cagione
della sua rovina. Pertanto, non si potendo,
come io credo, bilanciare questa cosa, nò
mantenere questa via del mezzo a punto ; bisogna,
nello ordinare la repubblica, pensare alla
parte più onorevole; ed ordinaria in modo,
che quando pure la necessità la inducesse
ad ampliare, ella potesse quello ch’ella
avesse occupato, conservare. E, per tornare
al primo ragionamento, credo che sia
necessario seguire l'ordine romano, e non quello
dell’altre repubbliche; perchè trovare un modo, mezzo
infra l’uno e l’altro, non credosi possa: e
quelle inimicizie che intra il popolo ed
il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per
uno inconveniente necessario a pervenire alla
romana grandezza. Perchè, oltre all’ altre
ragioni allegate dove si dimostra Y autorità
tribun zia essere stata necessaria per la
guardia della libertà, si può facilmente
considerare il benefizio che fa nelle repubbliche
l’autorità dello accusare, la quale era
intra gli altri commessa a’ Tribuni ; come
nel seguente capitolo si discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in
una repubblica le accuse per mante-nere la
libertà.A coloro che in una città sono
preposti per guardia della sua libertà, non si
può dare autorità più utile e necessaria,
quanto è quella di potere accasare i
cittadini ai popolo, o a qualunque magistrato o
consiglio, quando che pcccassino in alcuna
cosa contea allo stato libero. Questo
ordine fa duoi effetti utilissimi ad una
repubblica. Il primo è che i cittadini, per
paura di non essere accusati, non tentano
cose contro allo Stato: e tentandole, sono incontinente
e senza rispetto oppressi. 1/ altro è che
si dà via onde sfogare a quelli umori
che crescono nelle citladi, in qualunque
modo, contea a qualunque cittadino: e quando
questi umori non hanno onde sfogarsi
ordinariamente, ricorrono a’ modi straordinari, che fanno
rovinare in tutto una repubblica. G non è
cosa che faccia tanto stabile e ferma
una repubblica, quanto ordinare quella in
modo, che l’ alterazione di questi umori
che la agitano, abbia una via da
sfogarsi ordinata dalie leggi. Il che si
può per molti esempi dimostrare, e massime
per quello che adduce Livio di CORIOLANO,
dove ei dice, che essendo irritala contro
alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle
che l Plebe avesse troppa autorità mediante la
creazione de’ Tribuni che la difendevano;
ed essendo Roma, come avviene, venuta in
penuria grande di vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani in Sicilia;
Coriolano, nimico alla fazione popolare,
consigliò come egli era venuto il tempo
da potere gastigare la Plebe, e torte
quella autorità die ella si aveva
acquistata c in pregiudizio della nobiltà presa,
tenendola affamata, c non li distribuendo il
frumento; la qual sentenza sendo venuta alii
orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione
contro a Coriolano, che allo uscire del
Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se
gli Tribuni non 1’ avessero citato a
comparire a difendere la causa sua. Sopra
il quale accidente, si nota quello che
di sopra si è detto, #quanto sia utile e
necessario che le repubbliche, con le leggi
loro, diano onde sfogarsi oli’ ira clic
concepc la universalità contra a uno cittadino; perchè
quando questi modi ordinari non vi siano,
si ricorre agli estraordinari; c senza dubbio
questi fanno molto peggiori effetti che non
fanno quelli. Perchè, se ordinariamente uno
cittadino è oppresso, ancora che li fusse
fatto torto, ne seguita o poco o nessuno
disordine in la repubblica: perchè la esecuzione
si fa senza forze private, e senza forze
forestiere, che sono quelle che rovinano il
vivere libero; ma si fa con forze ed
ordini pubblici, che hanno i termini loro
particolari, nè trascendono a cosa che rovini
la repubblica. E quanto a corroborare questa
oppinione con gli esempi, voglio che degli
antichi mi basti questo di Coriolano; sopra
il quale ciascuno consideri, quanto male saria resultato
alla repubblica romana, se tumultuariamente ci
fussi stato morto; perchè ne nasceva offesa
ila privati a privati, la quale offesa
genera paura; la paura cerca difesa; per
la difesa si procacciano i partigiani; dai
partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti
la rovina di quelle. Ma sendosi governata
la cosa mediante chi ne aveva autorità,
si vennero a tór via tutti quelli mali
che ne potevano nascere governandola con
autorità privata. Noi avemo visto ne’
nostri tempi, quale novità ha fatto alla
repubblica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l’ nniino suo ordinariamente
contra a un suo cittadino; come accadde nel
tempo di VALORI, clic era come principe
della città : il quale essendo giudicalo
ambizioso da molti, e uomo che volesse con
la sua audacia e animosità trascendere il
vivere civile; e non essendo nella repubblica
via a poterli resistere se non con una
setta contraria
alla sua ; ne nacque che non avendo paura
quello, se non di modi straordinari, si
cominciò a fare fautori che lo difendessino;
dall’ altra parte, quelli clic lo oppugnavano
non avendo via ordinaria a reprimerlo, pensarono
alle vie straordinarie : intanto che si
venne alle armi. E dove, quando per l’ordinario si
fusse potuto opporseli, sarebbe la sua autorità
spenta con suo danno solo; avendosi a
spegnere per lo straordinario, seguì con
danno non solamente suo, ma di molti
altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora
allegare, a fortificazione della soprascritta conclusione, l’
accidente seguito pur in Firenze sopra SODERINI;
il quale al tutto segui per non
essere in quella Repubblica alcuno modo di
accuse contra alla ambizione de’ potenti
cittadini: perchè lo accusare un potente a
otto giudici in una repubblica, non basta :
bisogna che i giudici siano assai, perchè pochi sempre
fanno a modo de’ pochi. Tanfo che, se
tali modi vi fussono stati, o icittadini
lo arebbono accusato, vivendo egli male; e
per tal mezzo, senza far venire l’ esercito
spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro: o non
vivendo male, non arebbono avuto ardire operarli
contra, per paura di non essere accusati
essi : e cosi sarebbe da ogni parte cessato
quello appetito che fu cagione di scandalo.
Tanto che si può concludere questo, che
qualunque volta si vede che le forze
esterne siano chiamate da una parte d’
uomini che vivono in una città, si
può credere nasca da’ cattivi ordini di
quella, per non esser dentro a quello
cerchio, ordine da potere senza modi
islraordinari sfogare i maligni umori che nascono
nelli uomini: a che si provvede al tutto
con ordinarvi le accuse alii assai giudici,
e dare riputazione a quelle. Li quali modi furono
in Roma sì bene ordinati, che in
tante dissensioni della Plebe e del Senato,
mai o il Senato o la Plebe o alcuno
particolare cittadino non disegnò valersi di
forze esterne; perche avendo il rimedio in
casa, non erano necessitati andare per
quello fuori. E benché gli esempi
soprascritti siano assai sufficienti a provarlo,
nondimeno ne voglio addurre un altro,
recitato da L. nella sua istoria: il quale riferisce
come, scudo stato in Chiusi, città in
quelli tempi nobilissima in TOSCANA, da uno
Lucumone violata una sorella di Aruntc, c
non potendo Arunte vendicarsi per la
potenia del violatore, se n'andò a trovare i
Franciosi, che allora regnavano in quello
luogo che oggi si chiama Lombardia; e
quelli confortò a venire con annata mano a
Chiusi, mostrando loro come con loro utile
lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta :
che se Arunte avesse veduto potersi
vendicare con i modi della città, non
arebbe cerco le forre barbare. Ma come
queste accuse sono utili in una repubblica,
così sono inutili e dannose le calunnie ;
come nel capitolo seguente discorreremo. Vili. —
Quanto le accuse sono utili alle
repubbliche, tanto sono perniziose le calunnie.Non
ostante che la virtù di Cnmmillo, poi
ch’egli ebbe libera Roma dalla oppressione de’
Franciosi, avesse fatto che tutti i cittadini
romani, parer loro tòrsi reputazione o cedevano a
quello; nondimeno MAULIO Capitolino non poteva
sopportare chegli fusse attribuito tanto
onore e tanta gloria; parendogli, quanto alla
salute di Roma, per avere salvato il
Campidoglio, aver meritato quanto CAMMILLO; c quanto
all’ altre belliche laudi, non essere inferiore
a lui. Di modo che, carico d’ invidia,
non potendo quietarsi per la gloria di
quello, c veggendo non potere seminare discordia
infra i Padri, si volse alla Plebe,
seminando varie oppinioni sinistre intra quelfb.
E intra V altre cose che diceva, era come
il tc-
soro il quale si era adunato insieme per
dare ai Franciosi, e poi non dato loro,
era stato usurpalo da privati cittadini ; e
quando si riavesse, si poteva convertirlo
in pubblica utilità, alleggerendo la Plebe
da’ tributi, o da qualche privato debito.
Queste parole poterono assai nella Plebe;
talché cominciò avere concorso, ed a fare u sua
posta tumulti assai nella città: la qual
cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di
momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perchè
ei riconoscesse questo caso, e frenasse lo
impeto di MANLIO. Onde che subito il
Dittatore lo fece citare, e eondussonsi in
pubblico all’incontro l’uno dell’altro; il Dittatore
in mezzo de’ Nobili, e MANLIO in mezzo
della Plebe. Fu domandato Manlio che
dovesse dire, appresso a chi fusse questo
tesoro che ei diceva, perchè ne era
cosi desideroso il Senato d’ intenderlo come
la Plebe: a che MANLIO non rispondeva
particularmenfe; ma, andando fuggendo, diceva
come non era
necessario dire loro quello die e’ si
sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere
in carcere. È da notare per questo testo,
quanto siano nelle città libere, ed in
ogni altro modo di vivere, detestabili le
calunnie; e come per reprimerle, si debbe
non perdonare a ordine alcuno che vi faccia
a proposito. Nè può essere migliore ordine a
torle via, che aprire assai luoghi alle
accuse; perchè quanto le accuse giovano alle
repubbliche, tanto le calunnie nuocono: e dall’
altra parte è questa differenza, che le
calunnie non hanno bisogno di testimone, nè
di alcuno altro particulare riscontro a provarle,
in modo che ciascuno da ciascuno può essere
calunniato; ma non può già essere accusato,
avendo le accuse bisogno di riscontri veri,
e di circostanze, che mostrino la verità
dell’ accusa. Accusatisi gli uomini a’ magistrati,
a’ popoli, a’ consigli ; calunniatisi per le
piazze è per le logge. Usasi più questa
calunnia dove si usa meno 1’ accusa, c
dove le città sono meno ordinate a
riceverle* Però, uno ordinatore d’ una
repubblica debbe ordinare che si possa in
quella accusare ogni cittadino, senza alcuna
paura o senza alcuno sospetto; e fatto questo e
bene osservato, debbe punire aeremente i
calunniatori: i quali non si possono dolere
quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a
udire le accuse di colui che gli
avesse per le logge calunniato. E dove non
è bene ordinata questa parte, seguitano sempre
disordini grandi : perchè le calunnie irritano, c
non castigano i cittadini; e gli irritali pensano
di valersi, odiando più presto, che temendo
le cose che si dicono contea a loro.
Questa parte, come è detto, era bene
ordinata in Roma ; ed è stata sempre
male ordinala nella nostra città di FIRENZE.
E come a Roma questo ordine fece molto
bene, a FIRENZE questo disordine fece molto male.
E chi legge le istorie di questa città, vedrà
quante calunnie sono state in ogni tempo
date a’ suoi cittadini che si sono
adoperati nelle cose importanti di quella.
Dell’ uno dicevano, ch’egli aveva rubati
danari al comune; dell’ altro, che non
aveva vinto una impresa per essere stato
corrotto; e che quell’ altro per sua
ambizione aveva fatto il tale e tale inconveniente.
Del che ne nasceva che da ogni parte
ne surgeva odio : donde si veniva
alla divisione; dalla di- visione alle sètte;
dalle sètte alla rovina. Che se fusse
stato in Firenze ordine d’ accusare i
cittadini, c punire i calunniatori, non seguivano
infiniti scandali che sono seguiti: perchè
quelli cittadini, o condennati o assoluti che russino,
non arebbono potuto nuocere alla città; e
sarebbono stati accusati meno assai clic
non ne erano calunniali, non si potendo,
come ho detto, accusare come calunniare
ciascuno. Ed intra l’ altre cose di clic
si è valuto alcuno citadino per ventre
alla grandezza sua, sono state queste
calunnie: le quali venendo conira a’
cittadini potenti che allo appetito suo si
opponevano, facevano assai per quello; perchè,
pigliando la parte del Popolo, e confirmandolo nella
mala oppiatone eh’ egli aveva di loro,
se lo fece amico. E benché se ne potesse
addurre assai esempi, voglio essere contento
solo d’ uno. Era lo esercito fiorentino a
campo a Lucca, coman- dato da GUICCIARDINI (si veda), commissario
di quello. Vollono o i cattivi suoi governi, o
la cattiva sua fortuna, che Ja espugnazione
di quella città non seguisse. Pur, comunque
il caso stesse, ne fu incolpato inesser
Giovanni, dicendo com’ egli era stato corrotto
da’ Lucchesi: la quale calunnia sendo
favorita da’ nimici suoi, condusse messer
Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché,
per giustificarsi, ei si volessi mettere
nelle mani del Capitano; nondimeno non si
potette mai
giustificare, per non essere modi in quella
repubblica da poterlo fare. Di che ne
nacque assai sdegno intra li amici di
messer Giovanni, che erano la maggior parte
delli uomini Grandi, ed infra coloro che
desideravano fare novità in Firenze. La
qual cosa, e per queste e per altre simili
cagioni, tanto crebbe, che ne seguì la
rovina di quella repubblica. Era dunque MANLIO
Capitolino calunniatore, e non accusatore*, ed i Romani
mostrarono in questo caso appunto, come i
calunniatori si debbono punire. Perchè si
debbe fargli diventare accusatori; e quando 1’
accusa si riscon- tri vera, o premiarli, o non
punirli : ma quando la non si
riscontri vera Uf»5 IX. Come egli è
necessario esser solo a volere ordinare una
repubblica di nuovo , o al lutto fuori delti
antichi suoi ordini riformarla.
E’ porrà forse ad alcuno,- che io sia
troppo trascorso dentro nella istoria romana,
non avendo fatto alcuna menzione ancora
degli ordinatori di quella Repubblica, nè
di quelli ordini che o alla religione o
alla milizia riguardassero. E però, non
volendo tenere più sospesi gli animi di
coloro che sopra questu parte volessino
intendere alcune cose; dico, come molti per
avventura giudicheranno di cattivo esempio, che
uno fondatore d’ un vivere civile, quale è
ROMOLO, abbia prima morto un suo fratello,
dipoi consentito alla morte di Tito TAZIO Sabino,
eletto da lui compagno nel regno; giudicando
per questo, che gli suoi cittadini
potessero con T autorità del loro principe,
per ambizione e desiderio di comandare, offendere
quelli che alla loro autorità si
opponessino. La quale oppinionc sarebbe
vera, quando non si considerasse che line
l’avesse indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi
pigliare questo per una regola generale:
clic non mai o di rado occorre che
alcuna repubblica o regno sia da principio
ordinato bene, o al tutto di nuovo
fuori delti ordini vecchi riformato, se non
è ordinato da uno; anzi è necessario che
uno solo sia quello clic dia il modo,
e dalla cui mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d’ una
repubblica, e che abbia questo animo di
volere giovare non a sé ma al BENE COMUNE,
non alla sua propria successione ma alla
comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità
solo; nè mai uno ingegno savio riprenderà
alcuno di alcuna azione istraordinaria, che
per ordinare un regno o constituire una
repubblica usasse. Conviene bene, che,
accusandolo il fallo, lo effetto lo scusi ;
e quando sia buono,
come quello di ROMOLO, sempre lo scuserà:
perchè colui che è violento per guastare,
non quello che è per racconciare, si debbe
riprendere. Debbe bene in tanto esser
prudente e virtuoso, che quella autorità che
si ha presa, non la lasci ereditaria
ad un altro : perchè, essendo gli uomini
più proni al male che al bene,
potrebbe il suo successore usare ambiziosamente
quello che da lui virtuosamente fusse stato
usato. Oltre di questo, se uno è atto
ad ordinare, uoti è la cosa ordinata per
durare molto, quando la rimanga sopra le
spalle d’ uno; ma si bene, quando la
rimane alla cura di molti, e che a molti
stia il mantenerla. Perchè, cosi come molti
non sono atti ad ordinare una cosa,
per non conoscere il bene di quella,
causato dalle diverse oppinioni che sono
fra loro; cosi conosciuto che lo hanno,
non si accordano a lasciarlo. E che ROMOLO fusse
di quelli che NELLA MORTE DEL FRATELLO e del
compagno meritasse scusa; e che quello che
fece, fusse per IL BENE COMUNE, e non per
ambizione propria ; lo dimostra lo avere
quello subito ordinato uno Senato, con il
quale si consigliasse, e secondo l’oppinione del
quale deliberasse. E chi considera bene P autorità
che ROMOLO si riserbò, vedrà non se
ne essere riserbata alcun’ altra che comandare
alli eserciti quando si era deliberata la
guerra, e di ragunare il Senato. Il che
si vide poi, quando Roma divenne libera
per la cacciata de’ Tarquini; dove
da’ Romani non fu innovato alcun ordine
dello antico, se non che in luogo d’
uno Re perpetuo, fussero duoi Consoli
annuali; il che testifica, tutti gli ordini
primi di quella città essere stati più
conformi ad uno vivere civile e libero, che
ad uno assoluto e tirannico. Polrebbesi dare in corroborazione
delle cose sopraddette infiniti esempi; come
Licurgo, Solonc, ed nitri fondatori di
regni e di repubbliche, i quali poterono, per
aversi attribuito un’ autorità, formare leggi a proposito
del bene comune; ma gli voglio lasciare
indietro, come cosa nota. Addurronne solamente •
uno, non si celebre, ma da
considerarsi per coloro che desiderassero essere
di buone leggi ordinatori: il quale è,
che desiderando Agide re di Sparta ridurre
gli Spartani intra quelli termini che le
leggi di Mcurgo gli avessero rinchiusi, parendoli
che per esserne in parte deviati, la
sua città avesse perduto assai di quella
antica virtù, e, per conseguente, di forze
e d’ imperio ; fu ne' suoi primi
principii ammazzato dalli Efori spartani, come
uomo che volesse occupare la tirannide. .Ma
succedendo dopo lui . nel regno Cleomene c
nascendogli il medesimo desiderio per gli
ricordi e scritti eh’ egli aveva trovati di
Agide, dove si vedeva quale era la
mente ed intenzione sua, conobbe non potere
fare questo bene alla sua patria se
non diventava solo di autorità; parendogli,
per 1* arabizione degli uomini, non
potere fare utile a molti contra alla
voglia di pochi: e presa occasione
conveniente, fece ammazzare tutti gli Efori, e
qualunque altro gli potesse contrastare ; dipoi
rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale
deliberazione era atta a fare risuscitare Sparta,
e dare a Clcomcne quella reputazione che ebbe
Licurgo, se non fussc stato la potenza
de’ Macedoni e la debolezza delle altre
repubbliche greche. Perchè, essendo dopo tale
ordine assaltato da’ Macedoni, e trovandosi per
sè stesso inferiore di forze, c non avendo
a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo
disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato
adunque tutte queste cose, conchiudo, come a
ordinare una repubblica è necessario essere solo;
c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa, e
non biasmo. X. — Quanto sono laudabili *
fondatori d* una repubblica o dJ uno regno,
tanto quelli dJ una tirannide sono vituperabili. Intra
tutti gli uomini laudati, sono i laudatissimi
quelli die sono stati capi e ordinatori
delle religioni. Appresso dipoi, quelli che
hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo
costoro, sono celebri quelli che, preposti
alti esercìti, hanno ampliato o il regno
loro, o quello della patria. A questi si
aggiungono gli uomini iilterati; e perchè questi
sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno
d’ essi secondo il grado suo. A qualunque
altro uomo, il numero de’ quali è infinito,
si attribuisce quut* che parte di laude,
la quale gli arreca l’ arte e V esercizio
suo. Sono, per lo contrario, infumi e
detestabili gli uomini destruttori delle
religioni, dissipatori de’ regni e delie
repubbliche, ini-
mici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra
arte che arrechi utilità ed onore alla
umana generazione; come sono gli empii e
violenti, gl* ignoranti, gli oziosi, i vili, e i
dappochi. E nessuno sarà mai sì pazzo o si
savio, si tristo o si buono, che,
propostogli la elezione delle due qualità
d’ uomini, non laudi quella che è da
laudare, e Biasini quella che è da
biasmare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti,
ingannati da un falso bene e da una
falsa gloria, si lasciano andare, o
voluntariamente o ignorantemente, ne’ gradi di coloro
che meritano più biasimo che laude; c
potendo fare, con perpetuo loro onore, o
una repubblica o un regno, si volgono alla
tirannide: nè si avveggono per questo partito quanta
fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà,
quiete, con satisfazione d’animo, e’fuggono; e in
quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e
inquietudine incorrono. Ed è impossibile che quelli
che in stato privato vivono in una repubblica,
o che per fortuna o virtù ne diventano
principi, se leggcssino l’ istorie, e delle
memorie delle antiche cose facessino capitale,
che non volessero quelli tali privati,
vivere nella loro patria piuttosto Soipioni
che Cesari; e quelli che sono principi, piuttosto
Agesilai, Timolconi e Dioni, clic Nabidi, Falari
e Dionisi : perchè vedrebbono questi essere
sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbono
ancora come Timoleone e gli altri non
ebbero nella patria loro meno autorità che
si avessiuo Dionisio e Falari; ma vedrebbono
di lungo avervi avuto più sicurtà. Nè
sia alcuno che si inganni per la
gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare
dagli scrittori: perchè questi che lo
laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e
spauriti dalla lunghezza dello imperio, il
quale reggendosi sotto quel nome, non permetteva
che gli scrittori parlassero liberamente di
lui. Ma chi vuole conoscere quello che
gli scrittori liberi ne direbbono, vegga
quello che dicono di CATILINA. E tanto è
più detestabile GIULIO (si veda) CESARE , quanto più è
da biasimare quello che ha fatto, che
quello che ha voluto fare un inule.
Vegga ancora con quante laudi celebrano BRUTO (si
veda); talché, non potendo biasimare quello
per la sua potenza, e’ celebrano il nemico
suo. Consideri ancora quello eh’ è diventato
principe in una
repubblica, quante laudi, poiché ROMA fu
diventata imperio, meritarono più quelli
imperadori che vissero sotto le leggi e
come principi buoni, che quelli che vissero
al contrario: e vedrà come a Tito, Nerva,
Traiano, ADRIANO, Antonino e Marco, non erano
necessari i soldati pretoriani nè la moltitudine
delle legioni a difenderli, perchè i costumi L loro,
la benivolenza del Popolo, lo amore i del
Senato gli difendeva. Vedrà ancora come a
Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti
altri scellerati imperadori, non bastarono gli
eserciti orientali ed occidenItili a salvarli
conira a quelli nemici, che li loro rei
costumi, la loro malvagia vita aveva loro
generati. E se la istoria di costoro fusse
ben considerata, sarebbe assai ammaestramento a
qualunque priucipe, a mostrargli la via
della gloria o del biasmo, e della sicurtà
o del timore suo. Perchè, di ventisei
imperadori che furono da Cesare a Massimiuo,
sedici ne furono ammazzati, dicci morirono
ordinariamente; c se di quelli che furono morti
ve ne fu alcuno buono, come Galba e
Pertinace, fu morto da quella corruzione
che lo antecessore suo aveva lasciata nc’
soldati. E se tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne fu alcuno scellerato, nome
Severo, nacque da una sua grandissima
fortuna e virtù ; le quali due cose pochi
uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la
lezione di questa istoria, come si può
ordinare un regno buono: perchè tutti gl'
imperadori che succederono all* imperio per
eredità, eccetto Tito, furono cattivi ; quelli
che per
adozione, furono tutti buoni, come furono quei
cinque da Nervo a Marco: e come P imperio
cadde negli eredi, ei ritornò nella sua
rovina. Pongasi, adunque, innanzi un principe i
tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con
quelli che erano stati prima e che furono
poi; edipoi elegga in quali volesse
essere nato,o a quali volesse essere preposto.
Per-chè in quelli governali da’ buoni, vedràun
principe sicuro in mezzo de’ suoi si-curi cittadini,
ripieno di pace e di giu-stizia il mondo:
vedrà il Senato con lasua autorità, i
magistrati con i suoi ono-ri ; godersi i
cittadini ricchi le loro ric-chezze ; la
nobiltà c la virtù esaltata :vedrà ogni
quiete ed ogni bene; e, dal-l’altra parte,
ogni rancore, ogni licenza,corruzione e ambizione
spenta: vedrà itempi aurei, dove ciascuno
può tenere edifendere quella oppinione che
vuole. Ve-drà, in fine, trionfare il mondo;
pienodi riverenza e di gloria il
principe,d’ amore e di sveurilà i popoli.
Se con-sidererà, dipoi, tritamente i tempi
deglialtri imperadori, gli vedrà atroci per
leguerre, discordi per le sedizioni,
nellapace e nella guerra crudeli: tanti prin-cipi
morti col ferro, tante guerre civili,tante
esterne ; P Italia afflitta, e piena dinuovi
infortunii ; rovinate e saccheggiatele città di
quella. Vedrà Roma arsa, ilCampidoglio da’
suoi cittadini disfatto,desolati gli antichi templi,
corrotte lecerimonie, ripiene le città di
adulterii:vedrà il mare pieno di esilii,
gli scoglipieni di sangue. Vedrà in
Roma seguireinnumerabili crudeltadi ; e la
nobiltà, le ricchezze, gli onori, e sopra
tutto ia virtùessere imputata a peccato
capitale. Ve-drà premiare li accusatori, essere corrotti
i sèrvi contro al signore, i liberi contro
al padrone; e quelli a chi fusscro mancati
i nemici, essere oppressi dagli amici. E
conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma,
Italia, e il mondo abbia con Cesare. E
senza, dubbio, se e* sarà nato d’uomo,
si sbigottirà I da ogni imitazione dei
tempi cattivi, c accenderassi d’uno immenso
desiderio di
seguire i buoni. E veramente, cercando un
principe la gloria del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere una città corrotta,
non per guastarla in tutto come Cesare,
ma per riordinarla come lloinolo. E
veramente i cieli non possono dare all i uomini
maggiore occasione di gloria, nè li uomini
la possono maggiore desiderare. E se, a volere
ordinare bene una città, si avesse di
necessità n dcporrc il principato, meriterebbe
quello clic non la ordinasse, per non
cadere di quel grado, qualche scusa: ma
potendosi tenere il principato ed ordinarla, non si
merita scusa alcuna. E in somma, considerino
quelli a chi i cieli danno tale occasione,
come sono loro proposte due vie: 1’
una che gli fa vivere
sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi
; I’ altra gli fa vivere in continove angustie,
e dopo la morte lasciare di sè una
sempiterna infamia. XI. — Delta religione de*
Romani. Ancora che Roma avesse il primo suo
ordinatore ROMOLO, e che da quello abbia
riconoscere come figliuola il nascimento e la
educazione sua; nondimeno, giudicando i cieli che
gli ordini di ROMOLO non bastavano a tanto
imperio, niessono nel petto del Senato
romano di eleggere NUMA (si veda) Pompilio per SUCCESSORE
A ROMOLO, acciocché quelle cose che da lui
fossero state lasciate indietro, fossero da
Numa ordinate. II quale trovando un popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze
civili con le arti della pace, si
volse alla religione, come oosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civiltà ; e la
costituì in modo, che per più secoli
non fu mai tanto timore di Dio quanto
in quella Repubblica : ilche facilitò
qualunque impresa che ilSenato o quelli
grandi uomini romanidisegnassero fare. E ehi
discorrerà in-finite azioni, e del popolo
di Roma lutto insieme, e di molli de’
Romani di per sé, vedrà come quelli
cittadini temevano più assai rompere il
giuramento che le leggi ; come coloro
clic stimavano più la potenza di Dio,
che quella degli uomini: come si vede
manifestamente per gli esempi di SCIPIONE e
di MANLIO TORQUATO. Perchè, dopo la rotta
che Annibale aveva dato a’ Romani a Canne,
molti cittadini si erano adunati insieme, c
sbigottiti e paurosi si erano convenuti
abbandonare l’ITALIA, e girsene in Sicilia: il
che sentendo SCIPIONE, gli andò a trovare, e col
ferro ignudo in mano gli costrinse a
giurare di non abbandonare la patria. LUCIO
MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu dipoi chiamato
Torquato, era stato accusato da MARCO POMPONIO,
Tribuno della plebe ; ed innanzi che
venissi il di del giudizio, Tito andò a
trovare Marco, e minacciando d’ ammazzarlo se non
giurava di levare l’accusa al padre, lo
costrinse al giuramento ; e quello,
per timore avendo giurato, gli levò
t'accusa. E cosi quelli cittadini i quali l'amore
della patria e le leggi di quella non
ritenevano in ITALIA, vi furon ritenuti da
un giuramento che furono forzati a pigliare; e
quel Tribuno pose da parte l'odio che
egli aveva col padre, la ingiuria che
gli aveva fatta il figliuolo, c i’ onore
suo, per ubbidire al giuramento preso: il
che non nacque da altro, che da
quella religione che Numa aveva introdotta
in quella città. E vedesi, chi considera
bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare agli eserciti, a riunire la
plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare
li tristi. Talché, se si avesse a disputare
a quale principe Roma fusse più obbligata, o a ROMOLO
o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe
il primo grado: perchè dove è religione,
facilmente si possono introdurre l’armi; e dove
sono l’armi e non religione, con diflìcultà
si può introdurre quella. E si vede che a ROMOLO
per ordinare il Senato, e per fare altri
ordini civili e militari, non gli fu
necessario dell’ autorità di Dio; ma fu
bene necessario a Numa, il quale simulò di
avere congresso con una Ninfa, la quale
lo consigliava di quello ch’egli avesse a
consigliare il popolo : e tutto nasceva perchè
voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella
città, e dubitava che la sua autorità non
bastasse. G veramente, mai non fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno
popolo, che non ricorresse a Dio ; perchè
altrimenlc non sarebbero accettate: perchè sono
molli beni conosciuti da uno prudente, i
quali non hanno in sè ragioni evidenti
da potergli persuadere ad altri. Però gli
uomini savi, che vogliono torre questa
diflìcultà, ricorrono a Dio. Cosi fece Licurgo,
cosi Solone, cosi molti altri che hanno
avuto il medesimo fine di loro. Ammirando, adunque,
il popolo romano la bontà e la prudenza
sua, cedeva ad ogni sua deliIterazione,
Ben è vero che l’essere quelli tempi pieni
di religione, e quelli uomini, con i quali
egli aveva a travagliare, grossi, gli detlono
facilità grande a conseguire i disegni suoi,
potendo imprimere in loro facilmente qualunche
nuova forma. E senza dubbio, ehi volesse
ne’presenti tempi fare una repubblica, più
facilità troverebbe negli uomini montanari, dove
non è alcuna civilità, che in quelli che
sono usi a vivere nelle città, dove la
civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà
più facilmente una bella statua d’ uno
marmo rozzo, che d’ uno male abbozzato
d’altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo
che la religione introdotta da Piuma fu
intra le primecagioni della felicità di
quella città: perchè quella causò buoni
ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna ; e
dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese. E come la osservanza del culto
divino è cagione delia grandezza delle
repubbliche, cosi il dispregio di
quella è cagione della rovina d’esse. Perchè,
dove manca il timore di Dio, conviene
che o quel regno rovini, o che sia
sostenuto dal timore d’ un principe che
supplisca a’ difetti della religione. E perchè i
principi sono di corta vita, conviene che
quel regno manchi presto, secondo che manca
la virtù d’ esso. Donde nasce che i
regni i quali dependono solo dalla virtù d’
uno uomo, sono poco durabili, perchè quella
virtù manca con la vita di quello ; e
rade volte accade che la sia rinfrescata
con la successione, come prudentemente ALIGHIERI (si
veda) dice: tt Rade volte risurge per li
ramiL'umana probitade: e questo vuoloQuel che
la dà, perchè da lui si chiami.
„Non è, adunque, la salute di una repubblica
o d’uno regno avere uno principe che
prudentemente governi mentre vive ; ma uno
che l’ordini in modo, clic, morendo ancora,
la si mantenga. E benché agli uomini rozzi
più facilmente si persuade uno ordine o una
oppinione nuova, non è per questo
impossibile persuaderla ancora agli uomini civili,
e che si presumono non essere rozzi. Al
popolo di Firenze non pare essere nè
ignorante nè rozzo: nondimeno da frate Girolamo
Savonarola fu persuaso che parlava con Dio.
lo non voglio giudicare s’egli era vero o
no, perchè d’ un tanto uomo se ne
debbe parlare con reverenza : ma io dico
bene, che infiniti lo credevano, senza
avere visto cosa nessuna istraordinaria da
farlo loro credere; perchè la vita sua,
la dottrina, il soggetto che prese, erano
sufhzienti a fargli prestare fede. Non sia,
pertanto, nessuno che si sbigottisca di non
potere conseguire quello che è stato conseguito da
altri ; perchè gli uomini, come nella Prefazione
nostra si disse, nacquero, vissero e morirono
sempre con un medesimo ordine. XIF. — Di
quanta importanza sia tenere conto della
religione j e come la Italia per esserne mancata
mediante la Chiesa romana y è rovinata. Quelli
principi, o quelle repubbliche, le quali si
vogliono manienere incorrotte, hanno sopra ogni
altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie
della religione, e tenerle sempre nella loro venerazione;
perchè nissuno maggiore indizio si puote
avere della rovina d’una provincia, che
vedere dispregiato il culto divino. Questo è
facile a intendere, conosciuto che si è in
su che sia fondata la religione dove V
uomo è nato; perchè ogni religione ha il
fondamento della vita sua in su qualche
principale ordine suo. La vita della
religione gentile era fondata sopra i responsi
delti oracoli e sopra la setta delli aridi
e delli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifìcii,
riti, dependevano da questi; perchè loro
facilmente credevano che quello Dio che ti
poteva predire il tuo futuro bene o il
tuo futuro male, te lo potessi ancora
concedere. Di qui nascevano i tempii, di qui
i sacrifici!, di qui le supplicazioni, ed
ogni altra cerimonia in venerarli: perchè
l’oracolo di Deio, il tempio di GIOVE
Aminone, ed altri celebri oracoli, tenevano
il mondo in ammirazione, e devoto. Come costoro cominciarono
dipoi a parlare n modo de’ potenti, e questa
falsità si fu scoperta ne’ popoli,
divennero gli uomini increduli, ed atti a
perturbare ogni ordine buono. Debbono,
adunque, i Principi d’uria repubblica o d’un
regno, i fondamenti della religione che
loro tengono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro
facil cosa a mantenere la loro repubblica
religiosa, e, per conseguente, buona ed
unita. C debbono, tutte le cose che nascono
in favore di quella, come che le
giudicassino false, favorirle ed accrescerle; e tanto
più Io debbonofare, quanto più prudenti
sono, e quanto più conoscitori delle cose
naturali. E perchè questo modo c stato osservato dagli
uomini savi, ne è nata l’oppinione dei
miracoli, che si celebrano nelle religioni
eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano,
da qualunche principio e’ si nascano; e
l’autorità loro dà poi a quelli fede
appresso a qualunque. Di questi miracoli ne
fu a Roma assai; e intra gli altri
fu, che saccheggiando i soldati romani la
città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla
immagine di quella, e dicendole vis venire Romani
,parve od alcuno vedere che la accennasse;
ad alcun altro, che ella dicesse di
si. Perchè, sendo quelli uomini ripieni di
religione (il che dimostra L. perchè
nell’entrare nel tempio,
vi entrarono senza tumulto, tutti devoti e
pieni di reverenza), parve loro udire quella
risposta che alla domanda loro per
avventura si avevano presupposta : la quale
oppiuione e credulità, da Cammillo e dagli
altri principi della città fu ni tutto
favorita ed accresciuta. La quale religione
se ne’ Principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta, secondo che dal datore d’
essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e
le repubbliche cristiane più unite e più
felici assai ch’elle non sono. Nè si
può fare altra maggiore conieltura della
declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli
popoli che sono più propinqui alla Chiesa
romana, capo della religione nostra, hanno meno religione.
E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’ uso
presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe
esser propinquo, senza dubbio, o la rovina
o il flagello. E perchè sono alcuni d’oppinione,
che ’l ben essere delle cose d’ Italia
dipende dalla Chiesa di Roma, voglio contro
ad essa discorrere quelle ragioni che mi
occorrono :e ne allegherò due potentissime,
le quali, secondo me, non hanno repugnanza.
La, prima è, che per gli esempi rei
di quella i corte, questa provincia ha
perduto oguI divozione ed ogni religione:
il clic si i lira dietro infiniti
inconvenienti e infi-niti disordini; perchè, così come religione
si presuppone ogni bene, dove ella manca
si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque,
con la Chiesa e con i preti noi Italiani
questo primo obbligo, d’essere diventati senza
religione c cattivi: ma ne abbiamo ancora un
maggiore, il quale è cagione della rovina
nostra. Questo è die la Chiesa ha tenuto e
tiene questa nostra provincia divisa. E veramente,
alcuna provincia non fu mai unita o felice,
se la non viene tutta alla obedienza
d’ una repubblica o d’uno principe, come è
avvenuto alla Francia. E la cagione che la
Italia non sia in quel medesimo termine,
nè abbia aneli’ ella o una repubblica o
uno principe che la governi, è solamente la
Chiesa ; perchè, avendovi abitalo e tenuto
imperio temponile, non è stata sì potente
nè dì tal virtù, che l'abbia potuto
occupare il restante d’Italia, e farsene
principe; e non è stata, dall’altra parte,
si debile, che, per paura di non
perder il dominio delie cose temporali, la
non abbi potuto convocare uno potente che
la difenda contra a quello che in Italia
fusse diventato troppo potente: come si è veduto
anticamente per assai esperienze, quando mediante
Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, eh’
era no già quasi re di tutta Italia;
e quando ne’ tempi nostri ella tolse la
potenza a’ Veneziani con l’aiuto di
Francia; dipoi ne cacciò i Franciosi eoa
l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo, dunque, stata
la Chiesa potente da potere occupare l’
Italia, nè avendo permesso che un altro
la occupi, è stata cagione che la non è
potuta venire sotto un capo; ma è stata
sotto più principi e signori, da’ quali è nata
tanta disunione e tanta debolezza, che la
si è condotta ad essere stata preda, non
solamelile di barbari polenti, ma di
qualunque I* assalta. Di clic noi altri
Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, c non con
altri. E chi ne volesse per esperienza certa
vedere più pronta la verità, bisognerebbe
che fusse di tanta potenza, che mandasse
ad abitare la corte romana, con l’autorità
che l’ha in Italia, in le terre de’
Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli popoli
che vivono, e quanto alla religione e quanto
agli ordini militari, secondo gli antichi : e
vedrebbe che in poco tempo furebbero più
disordine in quella provincia i costumi tristi
di quella corte, che qualunchc altro
accidente clic in qualunche tempo vi
potessi surgere. XIII. — Come t Romani si
servirono della religione per ordinare la città,
e per seguire le loro imprese e fermare i
tumulti.Ei non mi pare fuor di
proposito ad-durre alcuno esempio dove i Romani
si
servirono della religione per riordinare la
cillà, e per seguire l’imprese loro; e quantunque
in L. ne siano molti, nondimeno voglio
essere contento a questi. Avendo creato il
Popolo romano i Tribuni, di potestà
consolare, e, fuorché uno, tutti plebei; ed
essendo occorso quello anno peste c fame, e
venuti certi prodigii ; usorono questa occasione
i Nobili nella nuova creazione de’ Tribuni, dicendo
che li Dii erano adirati per aver Roma
male usata la maestà del suo imperio, e
che non era altro rimedio a placare
gli Dii, che ridurre la elezione de’
Tribuni nel luogo suo: di che nacque
che la Plebe, sbigottita da questa
religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora
nella espugnazione della città de’ Ycienti,
come i capitani degli eserciti si valevano
della religione per tenergli disposti ad
una impresa : ehè essendo il lago Albano,
quello anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i
soldati romani in fastiditi per la lunga
ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i
Romani, come Apollo e certi altri responsi
dicevano che quell* anno si espugnerebbe la
città de’ Veienti, che si derivasse il Ingo
Albano : la qual cosa fece ai soldati
sopportare i fastidi della guerra e della
ossidione, presi da questa speranza di espugnare la
terra ; e stettono contenti a seguire la impresa,
tanto che Cammillo fatto Dittatore espugnò
detta città, dopo dieci anni che l’era
stala assediata. E cosi la religione, usata
bene, giovò e per la espugnazione di quella
città, e per la restituzione dei Tribuni
nella Nobiltà: chè senza detto mezzo
difficilmente si sarebbe condotto e l’uno e
l’altro. Non voglio mancare di addurre a questo proposito
un altro esempio. Erano nati in Roma
assai tumulti per cagione di Terentillo
Tribuno, volendo lui promulgare certa legge,
per le cagioni che di sotto nel suo
luogo si diranno ; e tra i primi rimedi
che vi usò la Nobiltà, fu la
religione: della quale si servirono i duo
modi. Nel primo fecero vedere i li- bri
Sibillini, e rispondere, come alla città,
mediante la civile sedizione, soprastavano quello
anno pericoli di non perdere la libertà :
la qual cosa, ancora che fusse scoperta da’
Tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne*
petti della plebe, che la raffreddò nel
seguirli. L’altro modo fu, che avendo uno APPIO
ERDONIO, con una moltitudine di sbanditi e di
servi, in numero di quattromila uomini,
occupato di notte il Campidoglio, in tanto
che si poteva temere, che se gli Equi
ed i Volsci, perpetui nemici al nome
romano, ne fossero venuti a Roma, la
arebbono espugnata ; e non cessando i Tribuni per
questo di insistere nella pertinacia loro
di promulgare la legge Terentilla, dicendo
che quello in- sulto era fittizio c non
vero: uscì fuori del Senato uno Publio
Rubezio, cittadino grave e di autorità, con
parole parte amorevoli, parte minacciatiti, mostrandoli
i pericoli della città, e la intempestiva
domanda loro; tanto che e’ constrinse la
Plebe a giurare di non si partire dalla
voglia del Consolo: onde che la Plebe
obediente, per forza ricuperò il Campidoglio.
Ma essendo in tale espu-gnazione morto
Publio Valerio consolo, subito fu rifatto
consolo Tito Quinzio; il quale per non
lasciare riposare la Plebe, nè darle spazio
a ripensare alla legge Terentilla, le
comandò s’ uscissi di Roma per andare
contra a’ Volsci, dicendo che per quel
giuramento aveva fatto di non abbandonare
il Consolo, era obbligata a seguirlo: a che
i Tribuni si opponevano, dicendo come quel
giuramento s’era dato al Consolo morto, e
non a lui. Nondimeno L. mostra, come la
Plebe per paura della religione volle più
presto obedire al Consolo, che credere a’
Tribuni; dicendo in favore della antica
religione queste parole: Nondum htiDPj quce
nunc tenet sceculum, negligcntict Dcùm venerai ,
nec interpretando sibi quisque jasjurandum et
legcs aplas■ a La *faciebal. Per la qual
cosa dubitando i Tribuni di non perdere
allora tutta la lor degnila, si accordarono
col Consolo di stare alla obedienza di
quello; e che per uno anno non si
ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli
per uno anno non potessero trarre fuori
la Plebe alla guerra. E cosi la religione
fece al Senato vincere quella diffìcultà,
che senza essa mai non arebbe vinto. XIV. I
Romani interpretavano gli auspicii secondo la
necessità , con la prudenza mostravano di
osservare la religione j quando forzali non V
osservavano ; c se alcuno (emwariamente la
dispregiava , lo punivano. Non solamente gli
auguri!, come di sopra si è discorso, erano
il fondamento in buona parte dell'antica
religione de’ Gentili, ma ancora erano quelli che
erano cagione del bene essere della
Repubblica romana. Donde i Romani ne uvevano più
cura che di alcuno altro ordine di
quella; ed usavangli ne’ comizi consolari, nel
principiare le imprese, nel trai* fuori gli
eserciti, nel fare le giornate, ed in
ogni azione loro importante, o civile o militare;
nè maisarebbono iti ad una espedizionc,
che non avessino persuaso ai soldati che
gli Dei
promettevano loro la vittoria. Ed infra gli
altri nuspicii, avevano negli eserciti certi
ordini di aruspici, che e’ chiamavano Pollarii: e
qualunque volta eglino ordinavano di fare
la giornata col nemico, volevano che i
Pollarii fucessino i loro auspicii; e beccando i
polli, combattevano con buono augurio: non
beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno,
quando la ragione mostrava loro una cosa
doversi fare, non ostante che gli auspicii
fossero avversi, la facevano in ogni modo;
ma rivoltavanla con termini e modi tanto
attamente, che non paresse che la fucessino
con dispregio dello religione : il quale
termine fu usato da Papirio consolo in una
zuffa clic fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale restorno in lutto deboli
ed afflitti. Perchè sendo Papirio in su’
campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere
nella zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare la giornata, comandò ai
Pollarii che fucessino i loro auspicii; ma
non beccando i polli, e veggendo il principe de’
Pollarii la gran disposizione dello esercito di
-combattere, e la oppinione che era nei capitano
cd in tutti i soldati di vincere, per
non torre occasione di bene operare a
quello esercito, riferi al Consolo come gli
auspicii procedevano bene: talché Papirio
ordinando le squadre, ed essendo da alcuni
de' Pollarii detto a certi soldati, i polli non
aver beccato, quelli lo dissono a Spurio
Papirio nipote del Consolo; e quello riferendolo
al Consolo, rispose subito, eh’ egli attendesse a
fare l’oflìzto suo bene, e che quanto a lui
ed allo esercito gli auspicii erano rolli;
e se il Pollarlo aveva detto le bugie,
ritornerebbono in pregiudicio suo. E perchè lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò ni
legati clic constituìssino i Pollarii nella
primo fronte della zuffa. Onde nacque che,
andando contra ai nemici, sendo da un
soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò
il principe de’ Pollarii; la qual cosa
udita il Console, disse come ogni cosa
procedeva bene, e col favore degli Dii;
perchè lo esercito con la morte di quel
bugiardo si era purgato da ogni colpa, e
da ogni ira che quelli avessino preso
contra di lui. E cosi, col sapere bene
accomodare t disegni suoi agli auspicii, prese
partito di azzuffarsi, senza clic quello
esercito si avvedesse che in alcuna parte
quello avesse negletti gli ordini della
loro religione. Al contrario fece APPIO Pillerò
in Sicilia, nella prima guerra punica: che
volendo azzuffarsi con P esercito cartaginese, fece fare
gli auspicii a’ Pollarii; e referendogli quelli,
come i polli non beccavano, disse : veggiamo
se volessero bere ; e gli fece giUare
in mare. Donde che, azzuffandosi, perdette
la giornata : di che egli ne fu a
Roma condennato, e Papirio onorato; non tanto
per aver V uno vinto e P altro perduto,
quanto per aver 1’ uno fatto contra
agli auspicii prudentemente e l’altro temerariamente.
Nè ad altro line tendeva questo modo
dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa ; dalla quale
confidenza quasi sempre uasce la vittoria. La qual
cosa fu non solamente usala dai Romani,
ma dalli esterni : di che mi pare di
addurre uno esempio nel seguente capitolo. XV. Come
i Sanniti, per estremo rimedio alle cose
loro afflitte, ricorsono alla religione. Avendo i
Sanniti avute più rotte dai Romani, ed
essendo stati per ultimo distrutti in
Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro
capitani ; ed essendo stali vinti i loro
compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri ;
ncc suis, nec extcrnis viribus jam
slare polcrant : t amen bello non abstinebantj
adeo ne infeliciler quidem defensae libcrtatis
tcedcbalj et vinci > quarti non tentare
victorianij malebant. Onde deliberarono far
ultima prova: e perché ei sapevano che a
voler vincere era necessario indurre ostinazione
negli animi de’ soldati, c che a indurla non v’
era miglior mezzo che la religione; pensarono
di ripetere uno antico loro sacrifìcio,
mediante Ovio Faccio, loro sacerdote. Il
quale ordinarono in questa forma : che,
fatto il sacrificio solenne, e fatto intra
le vittime morte e gli altari accesi
giurare lutti i capi dello esercito, di non
abbandonare mai la zuffa, citarono i soldati
ad uno ad uno ; ed intra quelli
altari, nel mezzo di più centurionicon
le spade nude in mano, gli face-vano
prima giurare che non ridirebbono cosa
che vedessino o sentissino; dipoi,con parole
esecrabili e versi pieni di spa-vento, gli
facevano giurare e promettereagli Dii, d’essere
presti dove gli impe-radori gli
comandassino, c di non si fug-gire mai
dalla zuffa, e d’ ammazzarequalunque vedessino
che si fuggisse: laqual cosa non
osservata, tornasse soprail capo della sua
famiglia e della sustirpe. Ed essendo
sbigottiti alcuni diloro, non volendo
giurare, subito da’ lorocenturioni erano morti;
talché gli altriche succedevano poi,
impauriti dalla fe-rocità dello spettacolo,
giurarono tutti.E per fare questo loro
assembramentopiù magnifico, sendo quarantamila uo-mini,
ne vestirono la metà di pannibianchi, con
creste e pennacchi sopra lecelate ; e così
ordinati si posero pressoad Aquilonia.
Contra a costoro vennePapirio; il quale,
nel confortare i suoisoldati, disse: Non
enim crislas vulnerafacere, et pietà alque
aurata scuta tran-sirc ttomanum pileum. E
per debilitarela oppinione clic avevano i suoi
soldatide’ nemici per i) giuramento. preso,
disseche quello era per essere loro a
timore,non a fortezza; perchè in quel medesi-mo
tempo avevano uvere paura de’ cit-tadini, degli
Dii, c de* nemici. E venutial conflitto,
furono superati i Sanniti;perchè la virtù
romana, ed il timoreconccputo per le
passate rotte, superòqualunque ostinazione ei
potessino averepresa per virtù della
religione e per ilgiuramento preso. Nondimeno
si vedecome a lóro non parve potere
avere al-tro rifugio, nè tentare altro
rimedio apoter pigliare speranza di
ricuperare laperduta virtù. Il che
testifica appieno,quanta confidcnzia si possa
avere me-diante la religione bene usata. E
benchéquesta parte piuttosto, per avventura,
sirichiederebbe esser posta intra le coseestrinseche
; nondimeno, dependendo dauno ordine de’
più importanti dellaRepubblica di Roma, mi
è parso dacommetterlo in questo luogo, per
nondividere questa materia, cd averci
aritornare più volte.Gap. XVI. — Un popolo
uso a vìveresotto un principe, se per
qualche ac-cidente diventa libero, con difficultàmantiene
la libertà.Quanta difficultà sia ad uno
popolouso a vivere sotto un principe, preser-vare
dipoi la libertà, se per alcuno ac-cidente
l’acquista, come l’acquistò Ro-ma dopo la
cacciala de’Tarquini; iodimostrano infiniti
esempi che si leggononelle memorie delle
antiche istorie. Etale difficultà è ragionevole;
perchè quelpopolo è non altrimenti che uno
ani-male bruto, il quale, ancora che di
fe-roce natura e silvestre, sia stato nu-drito
sempre in carcere ed in servitù,che
dipoi lasciato a sorte in una cam-pagna
libero, non essendo uso a pa-scersi, nè
sappiendo le latebre dove siabbia a
rifuggire, diventa preda delprimo che cerca
rincatenarlo. Questo me-desimo interviene ad uno
popolo, il qualesetido uso a vivere sotto i
governi d’al-tri, non snppiendo ragionare nè
delledifese o offese pubbliche, non cogno-scendo
i principi nè essendo conosciutoila loro,
ritorna presto sotto un giogo,il quale il
più delle volte è più graveche quello
che per poco innanzi si avevalevato d’
in su ’1 collo : e trovasi in que-ste
difficullà, ancora che la materia nonsia
in tutto corrotta; perchè in unopopolo
dove in lutto è entrata la corru-zione, non
può, non che picciol tempo,ma punto
vivere libero, come di sotto sidiscorrerà:
e però i ragionamenti no-stri sono di quelli
popoli dove la corru-zione non sia ampliata
assai, c dove siapiù del buono che
del guasto. Aggiun-gesi alla soprascritta,
un’ altra difficultò;la quale è, che
lo Stato che diventa li-bero, si fa
partigiani nemici, e nonpartigiani amici. Partigiani
nemici glidiventano tutti coloro che dello
Stalo ti-nodei dìscorsi Tannico si prevalevano,
pascendosi dellericchezze del principe; a’ quali
sendotolta la facoltà del valersi, non
possovivere contenti, e sono forzati ciascunodi
tentare di riassumere la tirannide,per
ritornare nell’ autorità loro. Non siacquista,
come ho detto, partigiani ami-ci ; perchè
il vivere libero propone onorie premii,
mediami alcune oneste e de-. terminate cagioni, e
fuori di quelle nonpremia nè onora
alcuno; e quando unoha quelli onori e
quelli utili che gli paremeritare, non
confessa avere obbligo concoloro che lo
rimunerano. Oltre a que-sto, quella comune
utilità che del viverelibero si trae,
non è da alcuno, mentreche ella si
possiede, conosciuta: la qualeè di potere
godere liberamente le cosesue senza alcuno
sospetto, non dubitaredell’onore delle donne,
di quel de’ fi-gliuoli, non temere di sè;
perchè nis-suno confesserà mai aver obbligo
conuno che non 1’ offenda. Però, come
disopra si dice, viene ad avere lo
Statolibero c che «li nuovo surge,
partigianinon partigiani amici. E vonemicilendo
rimediare a questi inconvenienti,c a quegli disordini
che le soprascrittediflìculta si arrecherebbono
seco, non ciè più potente rimedio, nè
più valido, nèpiù sano, nè più
necessario, che am-mazzare i figliuoli di Bruto:
i quali,come l’istoria mostra, non furono
in-dotti, insieme con altri gioveni romani,n
congiurare contra alla patria per al-tro,
se non perchè non si potevano va-lere
straordinariamente sotto i Consoli,come sotto i
Re; in modo che la libertàdi quel
popolo pareva che fusse diven-tata la loro
servitù. E chi prende a go-vernare una moltitudine,
o per via„dilibertà o per via di
principato, e non si assicura di coloro che
a quell’ ordine nuovo sono nemici, fa uno
Stato di poca vita. Vero è ch’io giudico
infelici quelli principi, che per assicurare
lo Stato loro hanno a tenere vie
straordinarie, avendo per. nemici la moltitudine:
perchè quello che ha per nemici i pochi,
facilmente e senza molti scandali, si assicura;
ma chi ha per nemico 1’ universale,
non si assicura mai; e quanta più crudeltà
usa, tanto diventa più debole il suo
principalo. Talché il maggior rimedio che
si abbia, è cercare di farsi il popolo
amico. E benché questo discorso sia disformo dal
soprascritto, parlando qui d’ un principe e
quivi d’ una repubblica ; nondimeno, per non
avere a tornare più in su questa materia,
ne voglio parlare bre-vemente. Volendo, pertanto,
un principe guadagnarsi un popolo che gli
fusse nemico, parlando di quelli principi che sono
diventati della loro patria tiranni ; dico
eh’ ci debbe esaminare prima quello che il
popolo desidera, e troverà sempre ch’ei desidera
due cose; Y una vendicarsi contro a coloro
che sono cagione che sia servo; l’altra
di riavere la sua libertà. Al primo
desiderio il principe può satisfare in
tutto, al secondo in parte. Quanto al
primo, ce n’ è lo csempio appunto.
Clearco, tiranno di Eraelea, scudo in
esilio, occorse che, per controversia venuta
intra il popolo e gli ottimati di Eraclea,
veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a
favorire Clearco, c congiuratisi seco lo missono, contea
alla disposizione popolare, in Eraclea, c toisono
la libertà al popolo. In modo che,
trovandosi Clearco intra la insolenzia degli
ottimati, i quali non poteva in alcun modo
nè contentare nè correggere, c la rabbia
de’ popolari, che non potevano sopportare
lo avere perduta la libertà, deliberò ad
un tratto liberarsi dal fastidio de’ grondi, c
guadagnarsi il popolo. E presa sopra questo
conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli
ottimali, con una estrema satisfazione de’
popolari. E così egli per questa via
satisfece ad una delle voglie che hanno i
popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto
all’altro popolare desiderio di riavere la
sua libertà, non potendo il principe
satisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono
quelle che gli fanno desiderare d’essere
liberi; e troverà che una piccola parte di
loro desidera d’essere libera per comandare;
ma tutti gli altri, che sono infiniti,
desiderano la libertà per vivere securi.
Perchè in tutte le repubbliche, in
qualunque modo ordinate, ai gradi del
comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil
cosa assicurarsene, o con levargli via* o con
far lor parte di tanti onori, che
secondo le condizioni loro essi abbino in
buona parte a contentarsi. Quelli altri, ai
quali basta vivere securi, si satisfanno
facilmente, facendo ordini e leggi, dove insieme
con la potenza sua si comprenda la
sicurtà universale. E quando uno principe
faccia questo, e che il popolo vegga
che per accidente nessuno ei non rompa
tali leggi, comincerà in breve tempo a
vivere sccuro e contento. In esempio ci è
il regno di Francia, il quale non
vive securo per altro, che per essersi
quelli Re obbligati ad infinite leggi,
nelle quali si comprende la securtn di
tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello
Stato, volle che quelli Re, dell’ arme e
del danaio facessino a loro modo, ma
che d’ogni altra cosa non ne potessino
altrimenti disporre che le leggi si
ordinassino. Quello principe, adunque, o quella
repubblica che non si assicura nel
principio dello stato suo, conviene che si
assicuri nella prima occasione, come fecero i
Romani. Chi lascia passare quella, si pente
tardi di non aver fatto quello che
doveva fare. Sendo, pertanto, il popolo
romano ancora non corrotto quando ci
recuperò la libertà, potette mantenerla, morti i
figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini, con tutti quelli
rimedi ed ordini che altra volta si
sono discorsi. Ma se fussc stato quel popolo
corrotto, nè in Roma nè altrove si
trovano rimedi validi a mantenerla; come nel
seguente capitolo mostreremo. XVII. Uno popolo
coitoIIo , venuto in libertà, si può con
difficullà ( grandissima mantenere libera. lo giudico
che gli era necessario, o die i Re si
estinguessino in Roma, o che Roma in
brevissimo tempo divenissi debole, e di nessuno
valore: perchè, considerando a quanta corruzione erano venuti
quelli Re, se l'ussero seguitati così due o
tre successioni, e che quella corruzione che
era in loro, si fossi cominciata a
distendere per le membra; come le membra
fussino state corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo il capo quando
il busto era intero, poterono facilmente
ridursi a vivere liberi cd ordinati. E debbesi
presupporre per cosa verissima, che una città
corrotta che vive sotto un principe, ancora
che quel principe con tutta la sua
stirpe si spenga, inai non si può ridurre
libera; anzi conviene che Putì principe
spenga l’ allro; e senza creazione d’un nuovo
signore non si posa mai, se già la
bontà d’ uno, insieme con la virtù,
non la tenessi libera ; ma durerà tanto
quella libertà, quanto durerà la vita di
quello: come intervenne a Siracusa di Dione e
di Timoleone, la virtù de’ quali in
diversi tempi, mentre vissero, tenne libera
quella città; morti clic furono, si ritornò
nell'antica tirannide. Ma non si vede il
più forte esempio che quello di Roma;
la quale cacciati i Tarquini, potette
subito prendere e mantenere quella libertà: ma
morto Cesare, morto Caligula, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non potette
inai, non solamente mantenere, ma pure dare principio
alla libertà. Nè tanta diversità di evento
in una medesima città nacqueda altro,
se non da non essere ne’ tempi de’Tarquini
il popolo romano ancora corrotto; ed in
questi ultimi tempi essere corrottissimo. Perchè
allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i Re, bastò
solo furio giurare che non eon sentirebbe
mai che a Roma alcuno regnasse; e negli
altri tempi, non bastò T autorità e severità
di BRUTO, con tutte le legioni orientali, a
tenerlo disposto a volere mantenersi quella
libertà che esso, a similitudine del primo BRUTO,
gli aveva rendutu. Il che nacque da quella corruzione
che le parli mariane avevano messa nel
popolo; delle quali essendo capo Cesare
potette accecare quella moltitudine, eh* ella non
conobbe il giogo che da sè medesima
si metteva in sul collo. E benché questo
esempio di Roma sia da preporre a qualunque
altro esempio, nondimeno voglio a questo proposito addurre
innanzi popoli conosciuti ne* nostri tempi.
Pertanto dico, che nessuno accidente, benché
grave e violento, potrebbe redurre mai Milano o
Napoli libere, per essere quelle membra
tutte corrotte. H che si vide dopo la
morte di VISCONTI; che volendosi ridurre
Milano alia libertà, non potette e non
seppe mantenerla. Però, fu felicità grande
quella di Koma, che questi Re diventassero corrotti
presto, acciò ne fussino cacciati, cd
innanzi che la loro corruzione fosse passata
nelle viscere di quella città: la quale
incorruzione fu cagione che gl’ infiniti tumulti
che furono in Roma, avendo gli uomini
il fine buono, non nocerouo, anzi giovarono
alla Repubblica. E si può fare questa
conclusione, che dove la materia non è
corrotta, i tumulti cd altri scandali non
nuòcono: dove la è corrotta, le leggi
bene ordinate non giovano, se già le
non son mosse da uno che con una
estrema forza le facci osservare, tanto che
la materia diventi buona. Il che non
so se sie mai intervenuto, o se fusse
possibile ch’egli intervenisse: perchè c’ si
vede, come poco di sopra dissi, che
una città venuta in declinazione per
corruzione di materia, se mai occorre che
la si levi, occorre per la virtù d’
uno uomo eh’ è vivo allora, non per
la virtù dello universale clic sostengo gli
ordini buoni ; c subito che quei tale è
morto, la si ritorna nei suo pristino
abito; come intervenne a Tebe, la quale
per la virtù di Epaminonda, mentre lui
visse, potette tenere forma di repubblica e
di imperio ; ma morto quello, la si
ritornò ne’ primi disordini suoi. La
cagione è, che non può essere un uomo
di tanta vita, che ’l tempo basti ad
avvezzare bene una città lungo tempo male
avvezza. E se unod’ una lunghissima vita, o
due successioni virtuose conlinove non la
dispongono; come una manca di loro, come di
sopra è detto, subito rovina, se già con
molti pericoli c molto sangue c’ non la
facesse rinascere. Perchè tale corruzione e poca
attitudine olla vita libera, nasce da una
inequulità che è in quella città: e volendola ridurre
equale, è necessario usare grandissimi estraordinari; i
quali pochi sanno o vogliono usare, come in
altro luogo più particolarmente si dirà. XVIII. —
In che modo «ci.c; mi corrotte si
potesse mantenere tino stalo liòerOj essendovi; o
non essendovi , ordinartelo. Io credo clic non
sia fuori di proposito, nè disformo dal
soprascritto discorso, considerare se in una
città corrotta si può mantenere lo stato
libero, scndovi ; o quando e’ non vi fosse,
se vi si può ordinare. Sopra la qual
cosa dico, come gli è mollo difficile fare
o l’uno o l' altro: e benché sia quasi
impossibile darne regola, perchè sarebbe necessario
procedere secondo i gradi della corruzione;
nondimnneo, essendo bene ragionare d’ogni cosa,
non voglio lasciare questa indietro. E presuppongo una
città corrottissima, donde verrò ad accrescere
più tale difficoltà; perché non si trovano
nè leggi nè ordini che bastino a frenare
una universale corruzione. Perchè, così come
gli buoni costumf, per mantenersi, hanno
bisogno delle leggi; cosi le leggi, per
osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi.
Oltre di questo, gli ordini e le leggi
fatte in una repubblica nel nascimento suo, quando
erano gli uomini buoni, non sono dipoi
più a proposito, divenuti che sono tristi. E
se le leggi secondo gli accidenti in
una città variano, non variano mai, 0 rade
volte, gli ordini suoi: il che fa che
le nuove leggi non bastano, perchè gli
ordini, che stanno saldi, le corrompono. E
per dare ad intendere meglio questa parte,
dico come in Roma era l’ordine del
governo, o vero dello Stato; c le leggi
dipoi, che con i magistrati frenavano i
cittadini. L’ordine dello Stato era l’ autorità
del Popolo, del Senato, dei Tribuni, dei
Consoli, il modo di chiedere e del creare i
magistrati, ed il modo di fare le
leggi. Questi ordini poco o nulla variarono
nelii accidenti. Variarono le leggi che frenavano
1 cittadini; come fu la legge degli
adulferi!, la suntuaria, quella della ambizione,
e molte altre ; secondo clic di mano in
mano i cittadini diventavano corrotti. Ma lenendo
fermi gli ordini dello Stato, che nella
corruzione non erano più buoni, quelle
leggi che si rinnovavano, non bastavano a
mantenere gli uomini buoni; ma sarebbonn bene giovate,
se con la innovazione delle leggi si
fussero rimutati gli ordini. G che sia il
vero che tali ordini nella- città corrotta
non fossero buoni, e’ si vede espresso in
due capi principali. Quanto al creare i
magistrati e le leggi, non dava il Popolo
romano il consolato, e gli altri primi
gradi della città, se non a quelli
che lo dimandavano. Questo ordine fu nel
principio buono, perchè e’ non gli domandavano
se non quelli cittadini che se ne
giudicavano degni, ed averne la repulsa era
ignominioso; si che, per esserne giudicati
degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta perniziosissiiuo ;
perchè non quelli che avevano più virtù,
ma quelli che avevano più potenza,
domandavano i magistrali; e gl’ impotenti, comecché
virtuosi, se ne astenevano di domandargli
per paura. Vcnnesi a questo inconveniente, non ad
un tratto, ma per i mezzi, come si
cade in tutti gli altri iuconveiiienti : perchè avendo
i Romani domata l’Affrica e l’Asia, e ridotta
quasi tutta la Grecia a sua ohidienza,
erano divenuti sicuri della libertà loro,
nè pareva loro avere più nimici che
dovessero fare loro paura. Questa securtà e
questa debolezza de’ nemici fece che il
Popolo romano, nel dare il consolato, non
riguardava più la virtù, ma la grazia ;
tirando a quel grado quelli che meglio
sapevano iutrattenere gli uomini, non quelli
che sapevano meglio vincere i nemici: di
poi, da quelli che avevano più grazia,
discesero a dargli a quelli che avevano più
potenza;talché i buoni, per difetto di tale
ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno
Tribuno, e qualunque altro cittadino, proporre al
Popolo una legge; sopra la quale ogni
cittadino poteva parlare, o in favore o incontro,
innanzi che la si deliberasse. Era questo
ordine buono, quando i cittadini erano buoni ;
per-
che sempre fu bene, che ciascuno clic intende
uno bene per il pubblico, lo possa
proporre; ed è bene che ciascuno sopra
quello possa dire l’oppinione sua, acciocché
il Popolo, inteso ciascuno, possa poi
eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini
cattivi, diventò tale ordine pessimo, perchè
solo i potenti proponevano leggi, non per
la comune libertà, ina perla potenza loro;ccontra
a quelle non poteva parlare alcuno per paura
di quelli : talché il Popolo veniva o
ingannato o sforzato a deliberare la sua rovina.
Ero necessario, pertanto, a volere che Roma
nella corruzione si mantenesse libera, che,
cosi come aveva nel processo del vivere
suo fatte nuove leggi, l’avesse fatti nuovi
ordini: per-«thè altri ordini e modi di
vivere si debbe ordinare in un soggetto
cattivo, che in un buono ; nè può
essere la forma simile in una materia
al tutto contraria. Ma perchè questi
ordini, o e’ si hanno a rinnovare tutti ad
un tratto, scoperti che sono non esser
più buoni, o a poco a poco, in prima che
si conoschiuo per ciascuno ; dico che
1* una e l’altra di queste due cose è
quasi impossibile. Perchè, a volergli rinnovare a poco
a poco, conviene che ne sia cagione uno
prudente, che veggio questo inconveniente assai
discosto, e quando e’ nasce. Di questi tali è
facilissima cosa che in una città non
ne surga mai nessuno : e quando pure ve
ne surgesse, non potrebbe persuadere mai ad
altrui quello che egli proprio intendesse; perchè
gli uomini usi a vivere in un modo,
non lo vogliono variare; e tanto più non
veggiendo il male in viso, ma avendo ad
essere loro mostro per con letture. Quando
ad innovare questi ordini ad un (ratio,
quando ciascuno conosce clic non sono
buoni, dico che questa inutilità, clic
facilmente si conosce, è diffìcile a ricorreggerla:
perchè a fare questo, non basta usare
termini ordinari, essendo i modi ordinari
cattivi; ma è necessario venire allo
istraordinario, come è alla violenza ed all’
armi, e diventare innanzi ad ogni cosa
principe di quella città, e poterne disporre a
suo modo. E perchè il riordinare una
città al vivere politico presuppone uno
uomo buono, ed il diventare per violenza
principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo;
per questo si troverà che radis- sime volte
accaggia, che uno uomo buono voglia
diventare principe per vie cattive, ancoraché
il fine suo fusse buono; e che uno
reo divenuto principe, voglia operare bene, e
che gli caggia mai nell’animo usare quella
autorità bene, che egli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce
la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle città
corrotte, a mantenervi una repubblica, o a
crearvela di nuovo. E quando pure la
vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario
ridurla più verso lo stato regio, che
verso lo stato popolare; acciocché quelli
uomini i quali dalle leggi, per la loro
insolenzia, non possono essere corretti, lusserò
da una podestà quasi regia in qualche
modo frenati. Ed a volergli fare per altra
via diventare buoni, sarebbe o crudelissima
impresa, o al tutto impossibile; come io
dissi di sopra che fece Cleomene; il
quale se, per essere solo, ammazzò gli
Efori; e se ROMOLO, per le medesime
cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono
bene quella loro autorità ; nondimeno si
debbe avvertire che V uno e T altro di
costoro non avevano il soggetto di quella
corruzione macchiato della quale in questo
capitolo ragioniamo, e però poterono volere e,
volendo, colorire il disegno loro. XIX. Dopo
uno eccellente principio si può mantenere
un principe debole ; ma dopo un debole, non
si può con un (diro debole mantenere alcun
regno. Considerato la virtù ed il modo del procedere
di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI, si vede come Roma
sortì una FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E
BELLICOSO, 1’ altro quieto e religioso, il terzo simile
di ferocia a Romolo, e più amatore della
guerra che della pace. Perchè in Roma
era necessario che surgesse ne’ primi
principii suoi un ordinatore «lei vivere
civile, ina era bene poi necessario che
gli altri Re ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO; ALTRIMENTI
QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda de’ suoi
vicini. Donde si può notare, che uno
successore non di tanta virtù quanto il
primo, può mantenere uno Stato per la
virtù di colui che PImretto innanzi, e
si può godere te sue fatiche: ma s’ egli
avviene o che sia di lunga vita, o che
dopo lui non surga
un altro che ripigli la virtù di
quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Cosi,
per il contrario, se due, 1* uno dopo
P altro, sono di gran virtù, si vede
spess che fanno cose grandissime, e che ne vanno
con la fama in fino al cielo.
Davit, senza dubbio, fu un uomo per
arme, per dottrina, per giudizio eccellentissimo; e
fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti
ed abbattuti tutti i suoi vicini, lasciò a
Salomone suo figliuolo un regno pacifico:
quale egli si potette con le arti «Iella
pace, e non della guerra, conservare; e si
potette godere felicemente la virtù di suo
padre. Ma non potette già lasciarlo a
Roboan suo figliuolo; il quale non essendo
per virtù simile allo avolo, nè per
fortuna simile al padre, rimase con fatica
erede della sesta parte del rt'guo. Baisit,
sultan de’ Turchi, ancora die fusse più amatore
della pace che della guerra, potette
godersi le fatiche di Maumelto suo padre;
il quale avendo, come Davit, battuti i suoi
vicini, gli lasciò un regno fermo, e da
poterlo con F arte della pace facilmente
conservare. Ma se il figliuolo suo Salì,
presente signore, fusse stalo simile al
padre, c non all’avolo, quel regno rovinava :
ma e’ si vede costui essere per superare
la gloria dell'avolo. Dico pertanto con questi esempi,
clic dopo uno eccellente principe si può
mantenere un principe debole; ma dopo un
debole non si può con un altro debole
mantenere alcun regno, se già e’ non
fusse come quello di Francia, che gli
ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli
principi sono deboli, che non stanno in
su la guerra. Couchiudo pertanto con questo
discorso, clic LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che la
potette dare spazio a Numa Pompilio di potere
molti anni con 1’ arte della pace reggere
Roma : ma dopo lui successe
Tulio, il quale pei* la sua ferocia
riprese la reputazione di ROMOLO: dopo il
quale venne Anco, in modo dalla natura
dotato, che poteva usare la pace, e
sopportare la guerra. E prima si dirizzò a volere
tenere la via della pace: ma subito
conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato,
lo stimavano poco: talmente che pensò che,
a voler mantenere Roma, bisognava volgersi alla
guerra, e somigliare Romolo, e non Numa. Da
questo piglino esempio tutti i principi che
tengono stato, che chi somiglierà Numa, lo
terrà o non terrà, secondo ehe i tempi o la
fortuna gli girerà sotto: ma chi somiglierà
Romolo, e lui come esso armato di prudenza
e d’armi, lo terrà in ogni modo, se
da una ostinata ed eccessiva forza non
gli è tolto. K certamente si può stimare,
che se Roma sortiva per terzo suo Re
un uomo che non sapesse con le armi
renderle la sua reputazione, non arebbe mai
poi, o con grandissima dilTìcultà, potuto
pigliare piede, nè fare quelli effetti
ch’ella fece. E così, in mentre eh’ ella
visse sotto i Re, la portò questi pericoli
di rovinare sotto un Re o debole o tristo. Due continove successioni di
principi virtuosi fanno grandi effetti: c come
le repubbliche bene ordinate hanno di
necessità virtuose successioni: c però gli
acquisti ctl auQumcnli loro sono grandi. Poi
che Roma ebbe cacciati i Re, mancò di
quelli pericoli i quali di sopradetti che
la portava, succedendo in lei uno Re o
debole o tristo. Perchè la somma dello
imperio si ridusse nc’ Consoli, i quali non
per eredità o per inganni o per ambizione
violenta, ma per suffragi liberi venivano a
quello imperio, ed erano sempre uomini
eccellentissimi: de’quali godendosi Roma la virtù e
la fortuna di tempo in tempo, potette venire
a quella sua ultima grandezza in
altrettanti unni, che la era stata
sotto i Re. Perchè si vede, come due
coutinove successioni di principi virtuosi sono
suffìzienti ad acquistare il mondo: come
furono Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno,
il clic tanto più debbe fare una repubblica,
avendo il modo dello eleggere non solamente
due successioni, ma infiniti principi
virtuosissimi, che sono l’uno dell'altro
successori: la quale virtuosa successione fia
sempre in ogni repubblica bene ordinata. Quanto
biasimo meriti quel principe e quella repubblica
che manca d'armi proprie. Debbono i presenti
principi c le moderne repubbliche, le quali
circa le difese ed offese mancano di
soldati propri, vergognarsi di loro medesime j e pensare,
con lo esempio di Tulio, tale difetto
essere non per mancamento d’uomini alti
alla milizia, ma per colpa loro, che
non hanno saputo fare i loro uomini militari.
Perchè Tulio, scudo stata Roma in pace
quaranta anni, non trovò, succedendo lui nel
regno, uomo che fussc stato mai alla
guerra : nondimeno, disegnando lui fare guerra,
non pensò di valersi nè di Sanniti,
nè di Toscani, nè di altri che
fussero consueti stare nell'armi; ma
deliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de’
suoi. E fu tanta la sua virtù, che in
un tratto il suo governo gli potè
fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero
che alcuna altra verità, che se dove
sono uomini non sono soldati, nasce per
difetto del principe, e non per altro
difetto o di sito o di natura : di che
ce n’*è uno esempio freschissimo. Perchè
ognuno sa, come ne’ prossimi tempi il re
d’Inghilterra assaltò il regno di Francia,
nè prese altri soldati clic i popoli suoi ;
e per essere stato quel regno più clic
trenta anni senza far guerra, non aveva
nè soldato nè capitano che avesse mai
militato: nondimeno, ei non dubitò con
quelli assaltare uno regno pieno di
capitani e di buoni eserciti, i quali erano
stati continovamcnte sotto l'armi nelle guerre d’Italia.
Tutto nacque da essere quel re prudente
uomo, e quel regno bene ordinato; il quale
nel tempo della pace non intermette gli
ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda
tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e
trattola dalla servitù dello imperio spartano;
trovandosi in una città usa a servire, ed
in mezzo di popoli effeminati ; non dubitarono, tanta
era la virtù loro ! di ridurgli sotto Parrai,
e con quelli andare a trovare alla campagna
gli eserciti spartani, e vincergli : e chi
he scrive, dice come questi due in
breve tempo mostrarono, che non solamente
in bacedemonia nascevano gli uomini di
guerra, ma in ogni altra parte dove
nascessino uomini, pur che si trovasse chi
li sapesse indirizzare alla milizia, come
si vede che Tulio seppe indirizzare i
Romani. E VIRGILIO non potrebbe meglio esprimere questa
oppinione, nè con altre parole mostrare di
aderirsi a quella, dove dice: u ... . Desidesque
movebit Tullus in arma viros. Quello che
sia da notare nel caso dei tre Orazi
romani , e dei Tulio, re di Roma, e Mezio,
re di Alba, convennero che quel popolo
fusse signore dell’ altro, di cui i soprascritti
tre uomini vincessero. Furono MORTI TUTTI I CURIAZI albani,
restò vivo uno degli Orazi romani; e per
questo, restò Mezio, re albaiio, con il
suo popolo, suggello ai Romani. E tornando quello
ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua sorella,
che era ad uno de’ tre Curiazi morti
maritata, clic PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello
Orazio per questo fallo fu messo' in
giudizio, e dopo molte dispute fu libero,
più per li prìeglii del padre, clic per
li suoi meriti. Dove sono da notare Ire
cose: una, che mai non si debbe con
parte delle sue forze arrischiare tutta la
sua fortuna ; l’ altra, che non mai in
una città bene ordinata li devmeriti
con li ineriti si ricompensano; la terza,
che non mai sono i partiti savi, dove
si debba o possa dubitare della inosservanza.
Perchè, gl’ importa tanto a una città lo
essere serva, che mai non si doveva
credere che alcuno di quelli Re o di
quelli Popoli stessero contenti che tre
loro cittadini gli avessino sotto* messi ;
come si vide che volle fare Mezio:
il quale, benché subito dopo la vittoria de’
Romani si confessassi vinto, e promettessi
la obedienza a Tulio; nondimeno nella prima
espedizione che egli ebbono a convenire contra i
Veienli, si vide come ci cercò d’
ingannarlo ; come quello che tardi s’era
avveduto della temerità del partito preso
da lui. E perchè di questo terzo notabile
se n’’è pnr luto assai, parleremo solo
degli altri due ne’ seguenti duoi capitoli. Che
non si debbe mettere a pericolo tutta la
fortuna e non tutte le forze ; c per questo j
spesso il
guardare i passi è dannoso. Non fu mai
giudicato partito savio mettere a pericolo tutta
la fortuna tua, e non tutte le forze.
Questo si fu in più modi. L’uno è
facendo come Tulio e Mezio, quando e’
commissouo la fortuna tutta della patria
loro, e la virtù di tanti uomini quanti
avea l’uno e l’altro di costoro negli
eserciti suoi, alla virtù e fortuna di
tre de’loro cittadini, clic veniva ad
essere una minima parte delle forze di
ciascuno di loro. Nè si avvidono, come
per questo partito tutta la fatica che avevano
durata i loro antecessori nell’ ordinare la
repubblica, per farla vivere lungamente libera e
per fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi che suta vana,
stando nella potenza di sì pochi a
perderla. La qual cosa da quelli Re
non potè esser peggio considerata. Cadesi
ancora in questo incon-
veniente quasi sempre per coloro, che, venendo
il nemico, disegnano di tenere i luoghi
diffìcili, e guardare i passi: perchè quasi
sempre questa deliberazione sarà dannosa, se
giù in quello luogo diffìcile comodamente
tu non potessi tenere tutte le forze
tue. In questo casotuie partito è da
prendere; ma scndo il luogo aspro, e non
vi potendo tenere tutte le forze tue,
il partito è dannoso. Questo mi fa
giudicare cosi lo esempio di coloro che,
essendo assaltati da un nemico potente, ed essendo
il paese loro circondato da’ monti e luoghi
alpestri, noti hanno mai tentato di
combattere il nemico in su’ passi e in
su’ monti, ma sono iti ad incontrarlo
di là da essi: o, quando non hanno
voluto far questo, lo hanno aspettato
dentro a essi monti, in luoghi benigni e
non alpestri. E la cugioite ne è suta
la preallegata : perchè, non si polendo
condurre alla guardia de’ luoghi alpestri molli
uomini, sì per non vi potere vivere
lungo tempo, si per essere i luoghi stretti
e capaci di pochi; non è possibile sostenere
un nemico clic venga grosso ad urtarti:
ed al nemico è facile il venire grosso,
perchè la intenzione sua è passare, e non
fermarsi; ed a chi l’ aspetta è impossibile aspettarlo
grosso, avendo ad alloggiarsi per più
tempo, non sapendo quando il nemico voglia
passare in luoghi, com’ io ho detto,
stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo
che tu ti avevi presupposto tenere, e nel
quale i tuoi popoli e lo esercito tuo
confidava, entra il più delle volte ne’
popoli e nel residuo delle genti tue tanto
terrore, che senza potere esperimentare la
virtù di esse, rimani perdente; c così
vieni ad avere perduta tutta la tua
fortuna con parte delle tue forze. Ciascuno
sa con quanta diftìcultà Annibaie passasse r
Alpi che dividono la Lombardia dalia
Francia, e con quanta difficoltà passasse
quelle che dividono la Lombardia dalla
Toscana : nondimeno i Romani l’aspettarono prima in
sul Tesino, e dipoi uel piano d’Arezzo; e
vollon più tosto, che il loro esercito
fusse consumato dal nemico nelli luoghi
dove poteva vincere, che condurlo su per
l’Alpi ad esser destrutto dalla malignità
del sito. E chi leggerà sensatamente tutte
le istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani
over tentato di tenere simili passi, e per
le ragioni dette, e perchè e' non si
possono chiudere tutti; sendo i monti come
campagne, ed avendo non solamente le vie consuete
e frequentate, ma molte altre, le quali se
non sono note a’ forestieri, sono note a’
paesani ; con l’aiuto de’quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contra alla
voglia di citi ti si oppone. Di che
se ne può addurre uno freschissimo esempio,
nel T 51 5 . Quando Francesco re di Francia
disegnava passare in Italia per lu
recuperatone dello Stalo di Lombardia, il
maggiore fondamento clic facevano coloro eli’
erano alla sua impresa contrari, era che
gli Svizzeri lo terrebbono a’ passi in su’
monti. E, come per esperienza poi si
vide, quel loro fondamento restò vano:
perché, lasciato quel re da parte due o
tre luoghi guardati da loro, se ne
venne per un’ altra via incognita ; e fu
prima in Italia, e loro appresso, che lo
avessino presentilo. Talché loro isbigottiti si
ritirarono in Milano, e tutti i popoli di
Lombardia si aderiron alle genti franciose;
sendo mancali di quella oppinione avevano,
che i Franciosi dovessino essere tenuti su’ monti. Le
repubbliche bene ordinate costituiscono premii c pene aJ
loro cittadini; ne compensano mai r uno con
l* altro. Erano stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI,
avendo con la sua virtù VINTI I CURIAZIl. Era
stato il fallo suo atroce,
avendo MORTO LA SORELLA: nondimeno dispiacque tanto
tale omicidio ai Romani, che io condussero
a disputare della vita, non ostante che gli
meriti suoi fossero tanto grandi c sì
freschi. La qual cosa a chi superficialmente
la considerasse, parrebbe uno esempio d’ ingratitudine popolare:
nondimeno chi la esaminerà meglio, e con
migliore considerazione ricercherà quali debbono
essere gli ordini delle repubbliche, biasimerà
quel popolo più tosto per averlo assoluto, che
per averlo voluto condeunare. E la ragione è
questa, che nessuna repubblica bene ordinata,
non mai cancellò i demeriti con gli
meriti de’ suoi cittadini; ma avendo ordinati i
preraii ad una buona opera e le pene
ad una cattiva, ed avendo premiato
uno per aver bene operato, se quel
medesimo opera
dipoi male, lo gastica, senza avere
riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando
questi ordini sono bene osservati, una
città vive libera molto tempo; altrimenti,
sempre rovinerà presto. Perchè, se ad un
cittadino che abbia fatto qualche egregia
opera per la città, si aggiugne, oltre
alla riputazione che quella cosa gli
arreca, una audacia e confidenza di potere,
senza temer pena, fare qualche opera non
buona ; diventerà in brievc tempo tanto insolente,
che si risolverà ogni civilità. È ben necessario,
volendo clic sia temuta la pena per
le triste opere, osservare i premii per le
buone; come si vede che fece Roma. C
benché una repubblica sia povera, e possa
dare poco, debbe di quel poco non
astenersi; perchè sempre ogni piccolo dono,
dato ad alcuno per ricompenso di bene
ancora che grande, sarà stimato, da chi
lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima
la istoria di ORAZIO CODE e quella di MUZIO SCEVOLA: come
V uno sostenne i nemici sopra un ponte,
tanto che si tagliasse: l’altro si arse
la mano, avendo errato, volendo
ammazzare Porscna, re delli Toscani. A costoro
per queste due opere tanto egregie, fu
donato dal pubblico due staiora di terra
per ciascuno. È nota ancora la istoria di MANLIO
Capitolino. A costui, per aver salvato il
Campidoglio da' Galli che vi erano a campo,
fu dato da quelli che insieme eon lui
vi erano assediati dentro, una piccola
misura di farina, il quale premio, secondo
la fortuna che allora correva in Roma,
fu grande; e di qualità che, mosso poi
Manlio, o da invidia o dalla sua cattiva
natura, a far nascere sedizione in Roma, e
cercando guadagnarsi il popolo, fu, senza
rispetto alcuno de’ suoi meriti, gittato precipite da
quello Campidoglio ch’egli prima, cou tanta
sua gloria, aveva salvo.
Chi vuole riformare uno stalo antico in
una città libera, ritenga almeno l’ombra
desmodi antichi. Colui che desidera o clic
vuole riformare uno stato d’una città, a
volere elle sia accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a
ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò
che a’ popoli non paia avere mutato ordine,
ancora che in fatto gli ordini nuovi
fussero al tutto alieni dai passati; perchè
lo universale degli uomini si pasce così
di quel che pare, come di quello che
è; anzi molte volte si muovono più
per le cose che paiono, che per
quelle clic sono. Per questa cagione i
Romani, conoscendo nel principio del loro
vivere libero questa necessità, avendo in
cambio d’ un Re creali duoi Consoli, non
vollono ch’egli avessino più clic dodici
littori, per non passare il numero di
quelli che ministravano ai Re. Olirà di
questo, facendosi in Roma uno sacrifizio
anniversario, il quale non poteva esser
fatto se non dalla persona del Re; e
volendo i Romani che quel popolo non avesse
a desiderare per la assenzia degli Re alcuna cosa
dell’ antiche j, creorono un capo di detto
sacrifìcio, il quale loro chiamorono Re
Sacrifìcolo, e lo sottomessono al sommo Sacerdote
: talmentechè quel popolo per questa via
venne a satisfarsi di quel sacrifizio, e non
avere mai cagione, per mancamento di esso,
di desiderare la tornata dei Re. E questo
si debbe osservare da tutti coloro che
vogliono scancellare uno antico vivere in una
città, e ridurla ad uno vivere nuovo c
libero. Perchè alterando le cose nuove le
menti degli uomini, ti debbi ingegnare che
quelle alterazioni ritenghino più del-r antico
sia possibile; e se i magistrati variano e di
numero e d'autorità e di tempo dagli antichi,
che almeno ritengliino il nome. E questo,
come ho detto, debbe osservare colui che
vuole ordinare una potenza assoluta, o per
via di repubblica o di regno: ma quello
che vuol fare una potestà assoluta, quale
dagli autori è chiamala tirannide, debbe rinnovare
ogni cosa, come nel seguente capitolo si
dirò. Un principe nuovo , in
i ima città o provincia presa da lui , 1
debbe fare ogni cosa nuova. Qualunque
diventa principe o d’ unacittà o d’uno
Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi
lussino deboli, c non si volga o per via
di regno o di repubblica alla vita civile;
il mcgliore rimedio che egli abbia a tenere
quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare
ogni cosa di nuovo in quello Stalo: come
è, nelle città fare nuovi governi con
nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi
uomini; fare i poveri ricchi, fece Davil
quando ei diventò Re: qui csuricnles
implevil bonis, et divites dimirti inanes ;
edificare oltra di questo nuove città,
disfare delie fatte, cambiare gli abitatori
da un luogo ad un altro;
ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta
in quella provincia, e che non vi sia
nè grado, nè ordine, nè stato, uè ricchezza,
che chi la tiene non la riconosca da
te; c pigliare per sua mira Filippo di
Macedonia, padre di Alessandro, il quale
con questi modi, di piccolo Re, diventò
principe di Grecia. E chi scrive di
lui, dice che tramutava gl uomini di
provincia in provincia, come i mandriani
tramutano le mandrie loro. Sono questi modi
crudelissimi, e nemici d’ogni vivere, non
solamente cristiano, ma umano; e debbegli
qualunche uomo fuggire, c volere piuttosto vivere
privato, che Re con tanta rovina degli
uomini : nondimeno, colui che non vuole pigliare
quella prima via del bene, quando si
voglia mantenere, convien die entri in
questo male. >la gli uomini pigliano
certe vie del mezzo, clic sono dannosissime;
perchè non sanno essere nè tutti buoni
nè tutti cattivi: come ne seguente
capitolo, per esempio, si mostrerà. Sanno
rarissime volle gli uomini essere al lutto
tristi o al fulto buoni. Papa Giulio secondo,
andando na Bologna per cacciare di quello
Stato la casa de’Bentivogli, la quale aveva
tenuto il principato di quella città cento anni,
voleva ancora trarre Giovampagoto Buglioni
di Perugia, della quale era tiranno, come
quello che aveva congiurato contro a tutti
gli tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo
animo e deliberazione nota a ciascuno, non
aspettò di entrare in quella città
con lo esercito suo che lo guardasse,
mn % entrò disarmato, non ostante vi fusse dentro
Giovampagolo con genti assai, quali per
difesa di sè aveva ragunate. Sicché,
portato da quel furore con il quale
governava tutte le cose, con la semplice
sua guardia si rimesse nelle mani del
nemico ; il quale dipoi ne menò seco,
lasciando un governadore in quella citta,
che rendesse ragione per la Chiesa. Fu
notala dagli uomini prudenti che col papa
erano, la temerità del papa e la
viltà di Giovampagolo ; uè potevano stimare
donde si venisse che quello noti avesse,
con sua perpetua fama, oppresso ad un
tratto il nemico suo, e sè arricchito di
preda, sendo col papa tutti li cardinali,
con tutte le lor delizie. Nè si poteva
credere si fusse astenuto o per bontà, o
per conscienza che lo ritenesse; perchè in
un petto d’ un uomo facinoroso, che si
teneva la sorella, che aveva morti i cugini
cd i nepoti per regnare, non poteva
scendere alcuno pietoso rispetto: ina si
conchiuse, che gli uomini no sanno essere
onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come
una tristizia ha in sè grandezza, o è in
alcuna parte generosa, eglino non vi sanno
entrare. Cosi Giovampagolo, il quale non stimava essere
incesto e pubblico parricida, non seppe, o, a
dir meglio, non ardì, avendon giusta
occasione, fare una impresa, dove ciascuno
avesse ammirato l’animo suo, e avesse di sè
lasciato memoria eterna; sendo il primo che
avesse dimostro ai prelati, quanto sia da
stimar poco chi vive c regna come loro; ed avesse
fatto una cosa, la cui grandezza avesse
superato ogni infamia, ogni pericolo, clic
da quella potesse depeudere. Per qual
cagione i Romani furono meno ingrati agli loro cittadini
che gli Ateniesi. Qualunque legge le cose
fatte dalle repubbliche, troverà in tutte qualche
spezie di ingratitudine contro a’ suoi
citladini; ma ne troverà meno in Roma che
in Atene> e per avventura in qualunque
altra repubblica. E ricercando la cagione di
questo, parlando di Roma c di Atene,
credo accadesse perchè i Romani avevano meno
cagione di sospettare de’ suoi cittadini, che
gli Ateniesi. Perchè a Roma, ragionando di
lei dalla cacciata dei Re intino a Siila e
Mario, non fu mai tolta la libertà da
alcuno .suo cittadino: in modo che in
lei non era grande cagione di sospettare
di loro, e, per conseguente, di offendergli
inconsideratamente. intervenne bene ad Atene il
contrario: perché, sendole tolta la libertà
da Pisistrato nel suo più florido tempo, e
sotto uno inganno di bontà ; come
prima la diventò poi libera, ricordandosi
delle ingiurie ricevute e della passata servitù,
diventò acerrima vendicatrice non solamente degli
errori, ma delP ombra degli errori de' suoi
cittadini. Di qui nacque l’esilio e la morte di
tanti eccellenti uomini; di qui Pordine
dello ostracismo, ed ogni altra violenza
che contra i suoi ottimati in vari tempi
da quella città fu fatta. Ed è verissimo
quello che dicono questi scrit-
tori della civiltà: che i popoli mordono più
fieramente poi ch’egli hanno recuperala la
libertà, che poi che l’hanno conservala.
Chi considerrà adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene, nè lauderà Roma;
ma ne accuserà solo la necessità, per
la diversità degli accidenti che in queste
città nacquero. Perchè si vedrà, chi
considererà le cose sottilmente, che se a
Roma fusse siila tolta la libertà come a
Atene, non sarebbe stata Roma più pia
verso i suoi cittadini, che si fusse
quella. Di che si può fare verissima
conieltura per quello che occorse, dopo la
cacciata dei Re, contra a Collatino ed a
Publio Valerio: de’ quali il primo, ancora
elicsi trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER
ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro, avendo
sol «lato di sè sospetto per edificare una casa
in sul monte Celio, fu ancora per essere
fatto esule. Talché si può stimare, veduto
quanto Roma fu in questi due sospettosa e
severa, che Farebbe usata la ingratitudine
come Atene, se da’suoi cittadini, come quella
ne’ primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fosse
stata ingiuriata. G per non avere a tornare
più sopra questa materia della ingratitudine,
ne dirò quello ne occorrerà nel seguente
capitolo. Quale sia più ingrato , o un popolo j o
un principe. Egli mi pare, a proposito
della soprascritta materia, da discorrere quale usi
con maggiori esempi questa ingratitudine, 0 un
popolo, o un principe. E per disputare
meglio questa parte, dico, come questo
vizio della ingratitudine nasce o dalla avarizia,
o dal sospetto. Perchè, quando o un popolo o
un priacipe ha mandato fuori un suo
capitano in una cspedizione importante, dove quel
capitano, vincendola, ne abbia acquistata assai
gloria ; quel principe o quel popolo è
tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in
cambio di premio, o ei lo disonora o ei T
offende, mosso dalla avarizia, non volendo,
ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa
uno errore che non ha scusa, anzi si
tira dietro una infamia eterna. Pure si
trovano molti principi che ci peccano. E Cornelio
TACITO dice, con questa sentenzia, la
cagione: Proclivius est inj ur ite, quarti beneficio
vicem cxsolvcre, quia grafia oneri, ultio
in questu fiabe tur. Ma quando ei non
lo premia, o, a dir meglio, l’offende, non
mosso da avarizia, ma da sospetto; allora
merita, e il popolo e il principe, qualche
scusa. E di queste ingratitudini usate per
tal cagione, se ne legge assai : perchè
quello capitano il quale virtuosamente ha
acquistato uno imperio al suo signore,
superando i ne-mici, e riempiendo sè di
gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di
necessità, e con i soldati suoi, e con i
nemici, e coi sudditi propri di quel
principe acquista tanta reputazione, che quella
vittoria non può sapere di buono a quel
signore che lo ha mandato. G perchè la
natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non
sa porre modo a ntssuna sua fortuna, è
impossibile che quel sospetto che subito
nasce nel principe dopo la vittoria di
quel suo capitano, non sia da quel
medesimo accresciuto per qualche suo modo o
termine usato insolentemente. Talché il
principe non può peusare ad altro che
assicurarsene; e per fare questo, pensa o di
farlo morire, o di torgli la reputazione
che egli si ha guadagnala nel suo
esercito e ne’ suoi popoli: e con ogni industria
mostrare che quella vittoria è nata non per
la virtù di quello, ma per fortuna, o per viltà
dei nemici, o per prudenza degli altri
capitani clic sono stati seco in tale l’azione.
Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato
dal suo esercito imperadore ; Antonio
Primo, che si trovava con un altro
esercito in llliria, prese le parti sue, e
ne venne in Italia contea a Vitellio
il quale regnava a Roma, e virluosissimamente
ruppe due eserciti Vitelliani, c occupò
Roma ; talché Muziano, mandato da Vespasiano,
trovò per la virtù d’Antonio acquistato •
il tutto, e vinta ogni di ffìcultà. 11
premio che Autonio ne riportò, fu che
Muziano gli tolse subito la ubidienza dello
esercito, e a poco a poco io ridusse in Roma senza
alcuna autorità: talché Antonio ne andò a
trovare Vespasiano, il quale era ancora in
Asia; dal quale fu in modo ricevuto,
che, in breve tempo, ridotto in nessun
grado, quasi disperato morì. E di questi
esempi ne sono piene le istorie. Ne’
nostri tempi, ciascuno che al presente
vive, sa con quanta industria e virtù
Consalvo Ferrante, militando nel regno di
Napoli contra a’ Franciosi per Ferrando Re
di Ragona, conquistasse e vincesse quel
regno; e come, per pre-
mio di vittoria, ne riportò che Ferrando si
parti da Ragona, e, venuto a Napoli, in
prima gli levò la obedienza delle genti d’
arme, c dipoi gli tolse le fortezze, ed
appresso lo menò seco in Spagna; dove
poco tempo poi, inonorato, mori. È tanto,
dunque, naturale questo sospetto ne’ principi,
che non se ne possono difendere; ed è
impossibile ch’egli usino gratitudine a quelli
che con vittoria hanno fatto sotto le
insegne loro grandi acquisti. E da quello
che non si difende un principe, non è
miracolo, nè cosa degna di maggior
considerazione, s.e un popolo non se ne
difende. Perchè, avendo una città che vive
libera, duoi fini, V uno lo acquistare,
l’altro il mantenersi libera ; conviene che
nell’ una cosa e nell’ altra per troppo
amore erri. Quanto agli errori nello
acquistare, se ne dirà nel luogo suo.
Quanto agli errori per mantenersi libera,
sono, intra
gli altri, questi: di offendere quei
cittadini elicla doverrebbe premiare; aver sospetto
di quelli in cui si doverrebbe confidare. E
benché questi modi in una repubblica venuta
alla corruzione siano cagione di grandi
mali, c che molle volte piuttosto la viene
alla tirannide, come intervenne a Roma di
Cesare, che per forza si tolse quello
che la ingratitudine gli negava; nondimeno
in una repubblica non corrotta sono cagione
di gran beni, e fanno che la ne vi\e
libera più, mantenendosi per paura ili punizione
gli uomini migliori, e meno ambiziosi. Vero è
che infra tutti i popoli che mai ebbero
imperio, per le cagioni di sopra discorse,
Roma fu la meno ingrata : perchè della
sua ingratitudine si può dire che non
ci sia altro esempio che quello di
Scipione; perchè Coriolano c Cammillo fumo
fatti esuli per ingiuria che l’uno e
l’altro aveva fatto alla Plebe. Ma all’
uno non fu perdonato, per aversi
sempre riserbato
contea al Popolo l’animo nemico; Paiteo
non solamente fu richiamato, ma per tutto
il tempo della sua vita adorato come
principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione,
nacque da un sospetto che i cittadini
cominciorno avere di lui, che degli altri
non s’era avuto: il quale nacque dalla
grandezza del nemico che Scipione aveva
vinto; dalla reputazione che gli aveva data
la vittoria di sì lunga e pericolosa
guerra; dalla celerità di essa ; dai favori
che la gioventù, la prudenza, e le
altre sue memorabili virtuti gli acquistavano.
Le quali cose furono tante, che, non
che altro, i magistrati di Roma temevano
della sua autorità: la qual cosa spiaceva
agli uomini savi, come cosa inconsueta in
Roma. E parve tanto straordinario il vivere
suo, che CATONE PRISCO, riputato santo, fu IL PRIMO a
fargli contra ; e a dire che una città non
si poteva chiamare libera, dove era un
cittadino che fusse temuto dai magistrati.
Talché, se il popolo di Roma 1 seguì
in questo caso L’OPINIONE DI CATONE, merita
quella scusa che di sopra ho detto
meritare quelli popoli e quelli principi che
per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque
questo discorso, dico, che usandosi questo
vizio della ingratitudine o per avarizia o per
sospetto, si vedrà come i popoli non mai
per T avarizia la usorno, e per sospetto assai i
manco che i principi, avendo meno cagione
di sospettare: come di sotto si dirà. Quali
modi debbo usare un principe o una
repubblica per fuggire questo vizio della
ingratitudine : c quali quel capitano o quel
cittadino per non essere oppresso da quella. Un
principe, per fuggire questa necessità di
avere a vivere con sospetto, o esser ingrato,
debbe personalmente andare nelle espedizioni;
come facevano nel principio quelli imperadori
romani, come fu ne’ tempi nostri il Turco,
c come hanno fatto e fanno quelli che sono virtuosi.
Perchè, vincendo, la gloria e lo acquisto è
tutto loro; e quando non vi sono, sendo
la gloria d’altrui, non pare loro potere
usare quello acquisto, s’ ei non spengono
in altrui quella gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati
ed ingiusti : e senza dubbio, è maggiore la
loro perdita, che il guadagno. Ma quando, o
per negligenza o per poca prudenza, e’ si
rimangono a casa oziosi, c mandano un capitano;
io non ho che precetto dar loro altro,
che quello che per lor medesimi si
sanno. .Ma dico bene a quel capitano, giudicando
io che non possa fuggire i morsi
della ingratitudine, che faccia una delle
due cose: o subito dopo la vittoria lasci
lo esercito c rimettasi nelle mani del suo
principe, guardandosi da ogni atto insolente o
ambizioso; acciocché quello, spogliato d’ogni
sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di
non lo offendere : o, quando questo
non gli paia di fare, prenda animosamente
la parte contraria, e tenga tutti quelli
modi per li quali creda che quello
acquisto sia suo proprio e non del principe
suo, facendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e
faccia nuove amicizie coi vicini, occupi
con li suoi uomini le fortezze, corrompa i
principi del suo esercito, e di quelli che
non può corrompere si. assicuri; e per
questi modi cerchi di punire il suo
signore di quella ingratitudine che esso
gli userebbe. Altre vie non ci sono:
ma, come di sopra si disse, gli
uomini non sanno essere nè al tutto tristi,
nè al tutto buoni: e sempre interviene che,
subito dopo la vittoria, lasciare lo
esercito non vogliono, portarsi modestamente non
possono, usare termini violenti e che abbino
in sè Tonorevole, non sanno; talché,
stando ambigui, intra quella loro dimora ed
ambiguità, sono oppressi. Quanto ad una repubblica,
volendo fuggire questo vizi dello ingrato,
non si può dare il medesimo rimedio
che al principe; cioè che vadia, e non
mandi, nelle cspedizioni sue, sendo necessitate a
mandare un suo cittadino. Conviene, pertanto,
che pei*rimedio io le dia, che la
tenga i medesimi modi che tenne la
repubblica romana, ad esser meno ingrata
che l’altre: il che nacque dai modi
del suo governo. Perchè, adoperandosi tutta
la città, e gli nobili e gli ignobili,
nella guerra, surgeva sempre in Roma in
ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati
di varie vittorie, che il popolo non
avea cagione di dubitare di alcuno di
loro, sendo assai, c guardando P uuo Patirò. E
in tanto si mantenevano interi, e respettivi di non
dare, ombra di alcuna ambizione, uè cagione
al popolo, come ambiziosi, d* offendergli ;
che venendo alla dittatura, quello maggior
gloria ne riportava, che più tosto la
deponeva. E cosi, non potendo simili modi
generare sospetto, non generavano ingratitudine.
In modo che, una repubblica che nott voglia
avere cagione d’essere ingrata, si debbo governare
come Roma ; c uno cittadino che voglia
fuggire quelli suoi morsi, debbc osservare i
termini osservati dai cittadini romani. Che »
capitani romani per errore commesso ?io«
furono mai istraordinariamcnlc puniti; nè furono mai
ancora puniti quando, per la ignoranza loro
o tristi partiti presi da loro, ne fissino
seguiti danni alla repubblica. 1 Romani, non
solamente, come di sopra avemo discorso,
furono manco ingrati die V altre repubbliche,
ma furono ancora più pii e più respctlivi
nella punizione de’ loro capitani degli eserciti, che
alcune altre. Perchè, se il loro errore
fussc stato per malizia, e’ lo
gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza,
non che lo punissino, e’ lo premiavano ed
onoravauo. Questo modo del procedere era
bene considerato da -loro: perchè e' giudicavano
che fusse di tanta importanza a quelli che
governavano gli eserciti loro, lo avere
l’animo libero ed espedito, e senza altri
estrinsechi rispetti nel pigliare i parliti, che non
volevano aggiugnere ad una cosa per sè
stessa difficile e pericolosa, nuove difficultà c
pericoli ; pensando che aggiugttendovcli, nessuno
potesse essere che operasse mai virtuosamente.
Verbigrazia, e’ mandavano uno esercito in Grecia
contra a Filippo di Macedonia, o in Italia
contra ad Annibale, o contro a quelli
popoli che vinsono prima. Era questo
cupitano clic era preposto a tale espedizione,
angustiato da tutte quelle cure che si
arrecavano dietro quelle faccende, le quali
sono gravi e importantissime. Ora, se a tali
cure si fus»sino aggiunti più esempi
di Romani ch’eglino avessino crucifissi o altrimenti morti
quelli che avessino perdute le giornale,
egli era impossibile che quello capitano
intra tanti sospetti potesse deliberare
strenuamente. Però, giudicando essi che a questi
tali fusse assai pena la ignominia dello
avere perduto, non gli vollono con altra
maggior pena sbigottire. Uno esempio ci è,
quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erono
Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno
preposti ad una parte dello esercito; de’
quali Sergio era all’incontro donde potevano
venire i Toscani, c Virginio dall’ altra
parte. Occorse che sendo assaltato Sergio
dai Falisci e da altri popoli, sopportò d’
essere rotto c fugato prima che mandare
per aiuto a Virginio. E dall’altra parte,
Virginio aspettando che si umiliasse, volle
piuttosto vedere, il disonore della patria sua,
e la rovina di quello esercito, clic
soccorrerlo. Caso veramente esemplare e tristo, c
da fare non buona coniettura della
Repubblica romana, se 1’ uno c l’altro non
fusscro stati gasligali. Vero è che, dove
un’altra repubblica gli a r ebbe puniti di
pena capitale, quella gli punì in danari.
II che nacque non perchè i peccali
loro non meritassino maggior punizione, ma
perchè -gli Romani voiiono in questo
caso, per le ragioni già dette, mantenere
gli antichi costumi loro. E quanto agii
errori per ignoranza, non ci è il più
bello esempio che quello di VARRRONE (si veda):
per la temerità del quale sendo rotti i
Romani a Canne da Annibaie, dove quella
Repubblica portò pericolo della sua libertà;
nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non
malizia, non solamente non lo gastigorno
ma lo onororno, e gli andò incontro
nella tornata sua in Roma tutto l’Ordine
senatorio; e non lo potendo ringraziare della
zuffa, Io ringraziarono eh’ egli era
tornato in Roma, c non si era disperato
delle cose romane. Quando Papirio Cursore volevu fare
morire Fabio, per avere contea al suo
comandamento combattuto coi Sanniti; intra le
altre ragioni che dal patire di Fabio
erano assegnale conira alla ostinazione del
Dittatore, era che il Popolo romano in
alcuna perdita de’ suoi Capitani non aveva
fatto mai quello che Papirio nella vittoria
voleva fare. XXXII. Una repubblica o uno principe
non < lebbe differire a beneficare gli uomini
nelle sue necessitati. Ancora che ai Romani
succedesse felicemente essere liberali al Popolo,
sopravvenendo il pericolo, quando Porsena venne
ad assaltare Roma per rimettere i Tarquini ;
dove il Senato dubitando della Plebe, che
non volesse piuttosto accettare i Re che
sostenere la guerra, per assicurarsene la
sgravò delle gabelle del sale, e d’ogni
gravezza ; dicendo come i poveri assai operavano
in benefizio pubblico se ci nutrivano i
lorofigliuoli ; e che per questo benefizio quel Popolo
si esponesse a sopportare ossidione, fame e
guerra: non sia alcuno
che, confidatosi in questo esempio, differisca
ne’tempi de’ pericoli a guadagnarsi il Popolo;
perchè mai gli riuscirà quello che riuscì
ni Romani. Perchè lo universale giudicherà
non avere quel bene date, ma dogli
avversari tuoi; e dovendo temere che, passata
la necessità, tu ritolga loro quello che
hai forzatamente loro dato, non arà tcco
obbligo alcuno. E la cagione perchè ai
Romani tornò bene questo partilo, fu perchè
lo Stato era nuovo, e non per ancora
fermo; ed aveva veduto quel Popolo, come
innanzi si erano fatte leggi in benefizio
suo, come quella delia appellagione alla Plebe; in
modo che ei potette persuadersi che quel
bene gli era fatto, non era tanto causato
dalla venuta dei nemici, quanto dalla
disposizione del Senato in beneficarli. Olirà
di questo, la memoria dei Re era
fresca; dai quali erano stati in molti
modi vilipesi ed ingiuriati. E per-chè simili
cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora
rade volte che simil remedi giovino. Però,
debbe qualunque tiene stato, cosi repubblica
come principe, considerare inuanzi, quali tempi gli
possono venire addosso contrari, c di quali
uomini ne’ tempi avversi si può avere di
bisogno; e dipoi vivere con loro in quel
modo che giudica, sopravvegnente qualunque
caso, essere necessitato vivere. E quello che
altrimenti si governa, o principe o repubblica, e
massime un principe; e poi in sul fatto crede,
quando il pericolo sopravviene, coi benefìzii
riguadagnarsi gli uomini; se ne inganna :
perchè non solamente non se ne assicura,
ma accelera la sua rovina. Quando uno inconveniente
è cresciuto o in uno Stalo o con tra
ad uno Stato , è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo. Crescendo In
Repubblica romana in reputazione, forze ed
imperio, i vicini, i quali prima non
avevano pensato quanto quella nuova Repubblica
potesse arrecare loro di danno, coniinciorno, ma tardi,
a conoscere lo errore loro ; e volendo rimediare
a quello che prima non avevano rimediato,
conspirorno ben quaranta popoli contra a Roma :
donde i Romani, intra gli altri rimedi
soliti farsi da loro negli urgenti
pericoli, si volsono a creare il Dittatore ;
cioè dare potestà ad uno uomo che
senza alcuna consulta potesse deliberare, e senza
alcuna appellagione potesse eseguire le sue
deliberazioni. Il quale rimedio come allora fu
utile, e fu cagione che vincessero gl*
imminenti pericoli, cosi fu sempre utilissimo
in tutti quelli accidenti che,
nello augumento dello imperio, in qualunque
tempo surgessino contra alla Repubblica. Sopra
il qual accidente è da discorrere prima,
come quando uno inconveniente che surga, o
in una repubblica o contra ad una
repubblica, causato da cagione intrinseca o
estrinseca, è diventalo lauto grande clic e’ comincia
far paura a ciascuno; è mollo più sicuro
partilo temporeggiarsi con quello, che tentare
di estinguerlo. Perchè, quasi sempre coloro
che tentano di ammorzarlo, fanno le sue
forze maggiori, e fanno accelerare quel
male che da quello si suspettava. E di
questi simili accidenti ne nasce nella
repubblica più spesso per cagione intrinseca,
che estrinseca : dove molte volte, o e’ si
lascia pigliare ad uno cittadino più forze
che non è ragionevole, o e’ si comincia a corrompere
uua legge, la quale è il nervo e la
vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere
questo errore in tanto, che gli è più
dannoso partito il volervi rimediare, che
lasciarlo seguire. E tanto più è difficile il
conoscere questi inconvenienti quando e’ nascono,
quanto e’pare più naturale agli uomini
favorire sempre i principii delle cose. E tali
favori possono, più che in alcuna altra cosa,
nelle opere che paiono che abbino in
sè qualche virtù, e siano operale da’ giovani:
perchè, se in una rcpubblica si vede
surgere un giovane nobile, quale abbia in
sè virtù istraordinaria, lutti gli occhi
de’ cittadini si cominciano a voltare verso
di lui, e concorrono senza alcuno rispetto
ad onorarlo ; in modo che, se in
quello è punto d* ambizione, accozzati i favori
che gli dà la natura e questo accidente,
viene subito in luogo, che quando i
cittadini si avveggono dell'errore loro, hanno
pochi rimedi ad ovviarvi; e volendo quelli tauti
ch’egli hanno, operarli, non fanno altro
che accelerare la potenza sua. Di questo
se ne potrebbe addurre assai esempi, ma
io ne voglio dare solamente uno della
citta nostra. Cosimo de’ MEDICI, dal quale
la casa de’ Medici in la nostra città
ebbe il principio della sua grandezza,
venne in tanta reputazione col favore che
gli dette la sua prudenza e la
ignoranza degli altri cittadini, che ei cominciò
a fare paura allo Stato; in modo clic
gli altri cittadini giudicavano l’offenderlo
pericoloso, ed il lasciarlo stare cosa
pericolosissima. Ma vivendo in quei tempi
Niccolò da Uzzano,' il quale nelle cose
civili era tenuto uomo espertissimo, ed
avendo fatto il primo errore di non
conoscere i pericoli clic dalla reputazione di
Cosimo potevano nascere; mentre che visse,
non permesse mai clic si facesse il
secondo, cioè che si tentasse di volerlo
spegnere, giudicando tale tentazione essere al
tutto la rovina dello Stato loro; come
si vide in fatto clic fu, dopo la
sua morte : perchè, non osservando quelli
cittadini che rimasono, questo suo
consiglio, si feciono forti contra a Cosimo, e
lo cacciorno da Firenze. Donde ne nacque
che la sua parte, per questa ingiuria
risentitasi, poco dipoi lo chiamò, e lo
fece principe della repubblica: al quale
grado senza quella manifesta opposizione non
sarebbe mai potuto ascendere. Questo medesimo intervenne
a Roma con Cesare; chè favorita da
Pompeio e dagli altri quella sua virtù, si
convertì poco dipoi quel favore in paura:
di che fa testimonio CICERONE, dicendo che
Pompeio aveva tardi cominciato a temer Cesare. La
qual paura fece che pensorono ai rimedi ; e
gli rimedi che feciono, accelerorno la
rovina della loro Repubblica. Dico adunque,
che dipoi che gii è difficile conoscere
questi mali quando e’surgono, causata
questa difficultà da uno inganno che ti
fanno le cose in principio ; è più savio
partito il temporeggiarle poiché le si
conoscono, che l’oppugnarle : perchè temporeggiaudole,
o per lor medesime si spengono, o almeno il
male si differisce in più lungo tempo. E
in tutte le cose debbono aprir gli
occhi i principi che disegnano cancellarle, o
alle forze ed impeto loro opporsi; di
non dare loro, in cambio di detrimento,
augumento ; e credendo sospingere una cosa,
tirarsela dietro, ovvero soffocare una pianta
con anuaffiarla. Ma si debbe considerare
bene le forze del malore, c quando ti
vedi suffizientc a sanarlo, mettervili senza
rispetto: altrimenti, lasciarlo stare, nò in alcun
modo tentarlo. Perchè interverrebbe, come di
sopra si discorre, e come intervenne a’
vicini di Roma: ai quali, poiché Roma
era cresciuta in tanta potenza, era più
salutifero con gli modi della pace cercare
di placarla c ritenerla addietro, che coi modi della
guerra farla pensare a nuovi ordini e nuove
difese. Perchè quella loro congiura non
fece altro che farli più uniti, più
gagliardi, e pensare a modi nuovi, medinoti i
quali in più breve tempo ampliorono la
potenza loro. Intra’quali fu la creazione
del Dittatore; per lo quale nuovo ordine
non solamente superorono gli imminenti pericoli,
ma fu cagione di ovviare a infiniti mali ,
ne’ quali senza quello rimedio quella
repubblica sarebbe incorsa, v-.j. ;• vk'u Urlimi*
llìl tòt* XXXIV. — l/autorità dittatoria fece bene , c
non danno , alla repubblica romana: c come le
autorità che i cittadini si tolgono s non quelle
che sono loro dai suffragi liberi date ,
sono alla vita civile perniciose. E’ sono
stati dannati da alcuno scrittore quelli
Romani che trovorono in quella città il
modo di creare il Dittatore, come cosa
che fusse cagione, col tempo, della
tirannide di Roma; allegando, come il primo
tiranno che fusse in quella città, la
comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo
che se non vi fusse stato questo,
Cesare non arebbe potuto sotto alcuno
titolo pubblico adonestare la sua tirannide.
La qual cosa non fu bene da colui
che tenne questa oppinione esaminala, e fu
fuori d’ogni ragione creduta. Perchè, e’
non fu il nome nè il grado del
Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l’
autorità presa dai cittadini per ia
diuturnità dello imperio: c se in Roma
fusse mancato il nome dittatorio, ne
arebbon preso un altro; perchè e’ sono
le forze che facilmente s’acquistano i nomi,
non i nomi le forze. si vedde che ’1
Dittatore, mentre che fu dato secondo gli
ordini pubblici, c non per autorità propria,
fece sempre bene alla città. Perchè e’
nuocono alle repubbliche i magistrati che si
fanno e l’autoritati che si danno per
vie istraor-dinarie; non quelle che vengono
per vieordinarie: come si vede che
segui inRoma in tanto progresso di
tempo, chemai alcuno Dittatore fece se
non benealla Repubblica. Di che ce ne
sono ra-gioni evidentissime. Prima, perchè a vo-lere che
un cittadino possa offendere epigliarsi
autorità istraordinaria, convienech’egli abbia
molte qualità le quali inuna repubblica
non corrotta non puòmai avere: perchè
gli bisogna esserericchissimo, ed avere
assai aderenti epartigiani, i quali non può
avere dovele leggi si osservano; e quando
pure vgli avesse, simili uomini sono
in modoformidabili, che i suffragi liberi
nonconcorrono in quelli. Oltra di questo,il
Dittatore era fatto a tempo, e nonin
perpetuo, e per ovviare solamente quella
cagione mediante la quale eracreato ; e la
sua autorità si estendevain potere
deliberare per sè stesso circai modi di
quello urgente pericolo, e fareogni cosa
senza consulta, e punire cia-scuno senza
appellagione: ma non po-teva far cosa che
fusse in diminuzionedello Stato; come
sarebbe stato torreautorità al Senato o al
Popolo, disfaregli ordini vecchi della
città, e farnede’ nuovi. In modo che,
raccozzato ilbreve tempo della sua
dittatura, c l’ autorità limitata che egli aveva,
ed il po-polo romano non corrotto; era
impos-sibile ch’egli uscisse de’ termini suoi,
enoccsse alla città: e per esperienza
sivede che sempre mai giovò. E veramen-te,
infra gli altri ordini romani, questoè uno
che merita esser consideralo, econnumerato
infra quelli che furono ca-gione della
grandezza di tanto imperio;perchè senza un
simile ordine le cittàcon difficoltà
usciranno degli accidentiistra ordinari : perchè
gli ordini consuetinelle repubbliche hanno
il moto tardo(non potendo alcuno consiglio
nè alcunomagistrato per sè stesso operare
ognicosa, ma avendo in molle cose
bisognol’uno dell’altro), e perchè nel
raccozzareinsieme questi voleri va tempo,
sono irimedi loro pericolosissimi, quando
eglihanno a rimediare a una cosa che
nonaspetti tempo. E però le repubblichedebbono
intra’ loro ordini avere un sl-mile modo :
e la Repubblica veneziana,la quale intra le
moderne repubblicheè eccellente, ha riservato
autorità a pa-chi cittadini, che ne’
bisogni urgenti,senza maggiore consulta, tutti
d’accordopossino deliberare. Perchè quando inuna
repubblica manca un simil modo
è necessario, o servando gli ordini ro-vinate, o
per non rovinare rompergli.Ed in una
repubblica non vorrebbe maiaccader cosa,
che coi modi estraordinaris’ avesse a governare.
Perchè, ancorache il modo istraordinario
per allorafacesse bene, nondimeno lo
esempio famale ; perchè si mette una
usanza dirompere gli ordini per bene
che poisotto quel colore si rompono
per male.Talché mai Ha perfetta una
repubblica,se con le leggi sue non ha
provvisto atutto, e ad ogni accidente posto
ti ri*medio, e dato il modo a governarlo.
Eperò, conchiudendo, dico che quelle re-pubbliche
le quali negli urgenti pericolinon hanno
rifugio o al Dittatore o asimili autoritati,
sempre ne’ gravi acci-denti rovineranno. È da
notare in que-sto nuovo ordine, il modo
dello elegger-lo, quanto dai Romani fu saviamenteprovvisto.
Perchè, sendo la creazionedel Dittatore con
qualche vergogna deiConsoli, avendo, di
capi della città, avenire sotto una
ubidienza come gli al- tri ; e
presupponendo che di questoavesse a nascere
isdegno fra i cittadini; vollono che l' autorità
dello eleggerlo fusse nei Consoli: pensando
che quando V accidente venisse, che Roma avesse bisogno
di questa regia potestà, e’ lo avessino a
fare volentieri; e facendolo loro, che dolessi
lor meno. Perchè le ferite ed ogni altro
male che Y uomo si fa da sè
spontaneamente e per elezione, dolgono di gran
lunga tneuo, che quelle che ti sono
fatte da altri. Ancora che poi negli
ultimi tempi i Romani usassino, in cambio
del Dittatore, di dare tale autorità al
Cousole, con queste parole: Videat Constila
ne Respublica quiddetrimenti captai . E per
tornare alla materia nostra, conchiudo, come i
vicini di Roma cercando opprimergli, gli
fcciono ordinare, non solamente a potersi difendere,
ma a potere, con più forza, più consiglio e
più autorità, offender loro. La cagione perchè in
Roma la creazione del decemvirato fa nociva
alla libertà di quella repubblicaj non
ostante che fosse creato po' suffragi
pubblichi e liberi. E’ pare contrario a quel clic
di sopra è discorso; che quella autorità
che si occupa con violenza, non quella eh’
è data con gli suffragi, nuoce alle
repubbliche; la elezione dei dicci cittadini
creati dal Popolo romano per fare le
leggi in Roma: i quali ne diventorno col
tempo tiranni, e senza alcun rispetto occuporno
la libertà di quella. Dove si debbe considerare
i modi del dare {'autorità, ed il tempo
perchè la si dà. E quando e’ si dia
autorità libera, col tempo lungo, chiamando
il tempo lungo un anno, o più; sempre
fia pericolosa; e farà gli effetti o buoni o
tristi, secondo che fieno tristi o buoni
coloro a chi la sarà data. E se si
considera l’autorità che ebber i Dicci, e quella
che avevano i Dittalori, si vedrò senza
comparazione quella de’ Dieci maggiore. Perchè,
creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il
Senato, con la loro autorità ; nò il Dittatore
la poteva torre loro: e s* egli avesse
potuto privare uno del consolato, uno del
senato, ei non poteva annullare l’ordine
senatorio, e fare nuove leggi. In modo che
il Senato, i Consoli ed i Tribuni, restando
con l’autorità loro, venivano ad essere
come sua guardia, a farlo non uscire della
via diritta. Ma nella creazione dei Dieci
occorse tutto il contrario ; perchè gli
annullorno i Consoli cd i Tribuni, dettono loro
autorità di fare leggi, ed ogni altra cosa,
come il Popolo romano. Talché, trovandosi
soli, senza Consoli, senza Tribuni, senza
appcllagionc al Popolo ; e per questo non
venendo ad avere chi osscrvassegli, ei
poterono, il secondo anno, mossi dall’
ambizione di Appio, diventare insolenti. E per
questo si debbo notare, che quando e’ si è
detto che una autorità data da’
suffragi liberi, non offese mai alcuna
repubblica; si presuppone che un popolo non
si conduca inai a darla, se non con
le debite circonstanzie, e ne’ debiti tempi: ma quando,
o per essere ingannato, o per qualche altra
cagione che lo accecasse, e’ si conducesse a
darla imprudentemente, e nel modo che ’l
Popolo romano la dette a’ Dieci, gl’
interverria sempre come a quello. Questo si
prova facilmente, considerando quali cagioni
mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci
cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto
quelle repubbliche che sono state tenute
bene ordinate, nel dare 1* autorità per
lungo tempo; come davano gli Spartani agli
loro Re, e come danno i Veniziani ai loro
Duci: perchè si vedrà, all* uno ed
all’ altro modo di costoro esser poste
guardie, che facevano che i Re non
potevano usare male quella autorità. Nè
giova in questo caso, che la materia
non sia corrotta; perchè una autorità
assoluta, in brevissimo tempo corrompe la
materia, c si fa amici c partigiani. Nè
gli nuoce o esser povero, o non avere
parenti; perché le ricchezze cd ogni altro
favore subito gli corre dietro: come
particolarmente nella creazione de’ detti Dieci
discorreremo. Pioti debbono i cittadini che hanno
avuti » maggiori onori, sdegnarsi de* minori. Avevano
i Romani fatti Marco Fabio e G. Manilio
consoli, e vinta una gloriosissima giornata
contea a’ Veicnti e gli Etruschi; nella
quale fu morto Quinto Fabio, fratello del
consolo, quale Io anno davanti era stato
consolo. Dove si debbe considerare, quanto
gli ordini di quella città erano atti a
farla grande; c quanto le altre repubbliche
che si discostano dai modi suoi, s’ingannano. Perchè,
ancora che i Romani fussino amatori grandi
della gloria, nondimeno
non stimavano cosa disonorevole ubbidire ora a
chi altra volta essi avevano comandato, e
trovarsi a servire in quello esercito del
quale erano stati principi. 11 qual costume
è contrario alla oppinione, ordini e modi
de’ cittadini de’tempi nostri: ed in
Vinegia è ancora questo errore, che uno
cittadino avendo avuto un grado grande, si
vergogni di accettare uno minore; e la
citta gli consente che se ne possa
discostare. La qual cosa, quando fusse
onorevole per il privato, è al tutto
inutile per il pubblico. Perchè più
speranza debbe avere una repubblica, e più
confidare in uno cittadino che da un
grado grande scenda a governare uno minore,
che in quello clic da uno minore
salga a governare un maggiore. Perchè a costui
non può ragionevolmente credere, se non li
vede uomini intorno, i qiiali siano di tanta riverenza
o di tanta virtù, che la novità di
colui possa essere con il consiglio ed autorità
loro moderata. E quando in Roma fosse stata
la consuetudine quale in Vinegia, e nell'
altre repubbliche c regni moderni, che chi
era stato una volta Consolo, non volesse
mai più andare negli eserciti se non
consolo; ne sarebbono nate infinite cose in
disfavore del viver libero; e per gli
errori che arebbono fatti gli uomini nuovi,
e per P ambizione che loro arebbono potuto usare
meglio, non avendo uomini intorno, nel
conspetto de’ quali ei temessino errare; e cosi
sarebbero venuti ad essere più sciolti : il
che sarebbe tornato tutto in detrimento pubblico.
Quali scandali partorì in Roma la legge
agraria : e come fare una logge in una
repubblica che risguardi assai indietro > e sia
conira ad una consuetudine antica della città , è
scandalosissimo. Egli è sentenza degli antichi
scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi
nel male c stuccarsi nel benej e come dul1’
una e dall* altra di queste due passioni nascono
i medesimi effetti. Perchè, qualunque volta è
tolto agli uomini il combattere per
necessità, combattono per ambizione: la quale è
tanto potente ne’ petti umani, che mai, a
qualunque grado si salgano, gli abbandona.
La cagione è, perchè la natura ha
creati gli uomini in modo, che possono
desiderare ogni cosa, e non possono conseguire
ogni cosa : talché, essendo sempre maggiore il
desiderio che la potenza dello acquistare,
ne risulta la mala contentezza di quello
che si possiede, e la poca satisfazionc
di esso. Da questo nasce il variare
della fortuna loro: perchè desiderando gli
uomini, parte di avere più, parte temendo
di non perdere lo acquistato, si viene
alle inimicizie ed alla guerra ; dalla
quale nasce la rovina di quella provincia,
e la esaltazione di quel1’ altra. Questo
discorso ho fatto perchè alla Plebe romana
non bastò assicurarsi de’ Nobili per la
creazione de’ Tribuni, al quale desiderio
fu constretta per necessità ; che lei
subito, ottenuto quello, cominciò a combattere
per ambizione, e volere con la Nobiltà
dividere gli onori e le sustanze, come cosa
stimata più dagli uomini. Da questo nacque
il morbo che partorì la contenzione della
legge agraria, ed in (ine fu causa
della distruzione della Repubblica romana. E perchè le
repubbliche bene ordinate hanno a tenere ricco
il pubblico, e li loro cittadini poveri ;
convenne che fusse nella città di Roma
difetto in questa legge: la quale o non
fusse fatta nel principio in modo che
la non si avesse ogni di a ritrattare;
o che la si differisse tanto in farla,
che fusse scandotoso il riguardarsi indietro; o
sendo ordinata bene da prima, era stata
poi dall’ uso corrotta; talché, in
qualunque modo si fusse, mai non si
parlò di questa legge in Roma, che
quella città non andasse sottosopra. Aveva
questa legge duoi capi principali. Ter l’
uno si disponeva clic non si potesse
possedere per alcun cittadino più che tanti
iugeri di terra; per V altro, che i campi
di che si privavano i nimici, si
dividessino intra il popolo romano. Veniva
pertanto a fare di duoi sorte offese ai
Nobili: perchè quelli che possedevano più
beni non permetteva la legge (quali erano
la maggior parte de’ Nobili), ne
avevano ad esser privi ; e dividendosi intra
la Plebe i beni de’ nimici, si toglieva a
quelli la via dello arricchire. Sicché,
venendo ad essere queste offese contra ad
uomini potenti, e che pareva loro, contrastandola,
difendere il pubblico; qualunque volta, com’ è
detto, si ricordava, andava sottosopra quella
città : ed i Nobili con pazienza ed
industria la temporeggiavano, o con trac fuora
un esercito, o che a quel Tribuno che la
proponeva si opponesse uno altro Tribuno; o
talvolta cederne parte; ovvero mandare una
colonia in quel luogo che si avesse a
distribuire: come intervenne del contado di
Anzio, per il quale surgendo questa disputa
della legge, si mandò in quel luogo
una colonia traila di Roma, alla quale
si consegnasse detto contado. Dove L. usa
un termine notabile, dicendo clic con
ditTìcultà si trovò in Roma eli i desse il
nome per ire in detta colonia: tanto
era quella Plebe più pronta a volere
desiderare le cose in Homa, che a
possederle in Anzio ! Andò questo umore di
questa legge così travagliandosi un tempo,
tanto che i Romani cominciarono a condurre le
loro armi nelle estreme parti di Italia, o
fuori di Italia; dopo al qual tempo
parve che la restasse. Il che nacque
perchè i campi che possedevano i nimici di
Roma essendo discosti dagli occhi della
Plebe, cd in luogo dove non gli era
facile il coltivargli, veniva meno ad
esserne desiderosa: ed ancora i Romani erano
meno punitori tic’ loro nemici in siinil
modo; e quando pure spogliavano alcuna terra
del suo contado, vi distribuivano colonia. Tanto che
per tali cagioni questa legge stette come
addormentata inOno a’ Gracchi: da’ quali
essendo poi svegliata, rovinò al tutto la
libertà romana; perchè la trovò raddoppiata
la potenza de’ suoi avversari, e si accese
per questo tante odio intra la Plebe
ed il Senato, che si venne all’ armi
ed al sangue, fuor d’ogni modo e costume
civile. Talché, non potendo i pubblici magistrati
rimediarvi, nè sperando più alcuna delle
fazioni in quelli, si ricorse a’ rimedi
privati, e ciascuna delle parti pensò di
farsi uno capo che la difendesse. Pervenne
in questo scandalo e disordine la Plebe, e
volse la sua riputazione a Mario, tanto che
la lo fece quattro volte Consolo; ed
in tanto continuò con pochi intervalli il
suo consolato, che si potette per sè
stesso far Consolo tre altre volte. Contra
alla qual peste non avendo la Nobiltà
alcuno rimedio, si volse a favorir Siila; e fatto
quello capo della parte sua, vennero alle guerre
civili * e dopo molto sangue e variar di
fortuna, rimase superiore la Nobiltà.
Risuscitorono poi questi umori a tempo di
Cesare c di Pompeo; perchè, fattosi Cesare
capo della parte di Mario, c Pompeo di
quella di Siila, venendo alle mani rimase
supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI
E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio e fine
ebbe la legge agraria. E benché noi
mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma
intra il Senato c la Plebe mantenessero
libera Roma, per nascerne da quelle leggi
in favore della libertà ; e per questo paia disforme
a tale conclusione il fine di questa legge
agraria ; dico come, per questo, io non
mi rimuovo da tale oppinionc: perchè
egli è tanta P ambizione de’ grandi, che se
per varie vie ed in vari modi la
non ò in una città sbattuta, tosto riduce
quella città alla rovina sua. In modo
che, se la contenzione della legge agraria
penò trecento anni a fare Roma serva, si
sarebbe condotta, per avventura, molto più
tosto iti servitù, quando la Plebe, e con
questa legge c con altri suoi appetiti,
non avesse sempre frenato la ambizione de’
Nobili. Vedasi per questo ancora, quanto
gli uomini stimano più la roba che
gli onori. Perchè la Nobiltà romana sempre
negli onori eedè senza scandali istraordinari alla
Plebe; ma come si venne alla roba, fu
tanta la ostinazione sua nel difenderla,
che la Plebe ricorse, per Sfo-gare 1’
appetito suo, a quelli istraordinari che di
sopra si discorrono. Del quale disordine
furono motori i Gracchi; de’ quali si dcbbe
laudare più la intenzione che la prudenza.
Perchè, a voler
levar via uno disordine cresciuto in una repubblica,
e per questo fare una legge che riguardi
assai indietro, è partito male considerato; e,
come di sopra largamente si discorse, non
si fa altro che accelerare quel male a
che quel disordine ti conduce : ma
temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o
per sè medesimo col tempo, avanti che
venga al fine suo, si spegne. XXXVIII. — Le
repubbliche deboli sono male risolute , e non si
sanno deliberare ; c se le pigliano mai alcuno
partito j nasce più da necessità che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e
parendo per questo agli Volaci ed agli
Equi che fusse venuto il tempo di
potere oppressar Roma; fatti questi due
popoli uno grossissimo esercito, assalirono gli
Latini e gli Ernici, e guastando il loro
paese, furono constretti gli Latini c gli
Ernici farlo intendere a Roma, c pregare che
fussero difesi da' Romani: ai quali, sendo i
Romani gravati dal morbo, risposero che pigliassero
partito di difendersi da loro medesimi e
con le loro armi, perchè essi non li
potevano difendere. Dove si conosce la
generosità e prudenza di quel Senato, e come
sempre in ogni fortuna volle essere quello
che fusse principe delle deliberazioni che
avessero a pigliare i suoi; nè si vergognò
mai deliberare una cosa che fusse contraria al
suo modo di vivere o ad altre deliberazioni
fatte da lui, quando la necessità gliene
comandava. Questo dico perchè altre volte
il medesimo Senato aveva vietato ai detti
popoli l’armarsi e difendersi ; talché ad uno
Senato meno prudente di questo, sarebbe
parso cadere del grado suo a concedere loro tale
difensione. Ma quello sempre giudicò le
cose come si debbono giudicare, e sempre
prese il meno reo partilo per migliore;
perchè male gli sapeva non potere difendere
i suoi sudditi; male gli sapeva che si
armassino senza loro, per le ragioni dette,
e per molte altre che si intendono:
nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati,
per necessità, a ogni modo, avendo il
nimico addosso; prese la parte onorevole, e
volle che quello clic gli avevano a fare,
lo facessino con licenzia sua, acciocché avendo
disubbidito per necessità, non si avvezzassino a
disubbidire per elezione. E benché questo paia
partito che da ciascuna repubblica dovesse esser preso;
nientedimeno le repubbliche deboli e male
consigliate non gli sanno pigliare, nè si
sanno onorare di simili necessità. Aveva il
duca Valentino presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendosene
tornare a Roma per la Toscana, mandò
in Firenze uno suo uomo a domandare il passo
per sé e per il suo esercito.
Consultossi in Firenze come si avesse a
governare questa cosa, nè fu mai consigliato
per alcuno di concedergliene. In che non
si seguì il modo romano: perchè, sendo
il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in
modo disarmati che non gli potevano vietare
il passare, era molto piu onore loro,
che paresse che passasse con permissione di
quelli, che a forza; perchè, dove vi fu
al tutto il loro vituperio, sarebbe stato
in parie minore quando I* avessero
governata altrimenti. Ma la più cattiva
parte che abbino le repubbliche deboli, è
essere irresolute; in modo che lutti i
partili che le pigliano, gli pigliano per
forza; e se vieti loro fatto alcuno bene,
lo fanno forzato, c non per prudenza loro.
Io voglio dare di questo duoi altri
esempi, occorsi ne* tempi nostri nello
stato della nostra città, nel mille
cinquecento. Ripreso che il re Luigi XII
di Francia ebbe Milauo, desideroso di
rendergli Pisa, per aver cinquanta mila
ducati che gli erano stati promessi da’
Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli
suoi eserciti verso Pisa, capitanati da
monsignor Beaumonte; benché francese, nondiraanco uomo
in cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi
questo esercito e questo capitano intra Cascina e
Pisa, per andare a combattere le mura; dove
dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla
espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonte, e
gli offerirono di dare la città allo
esercito francese con questi patti: che,
sotto la fede del re, promettesse non
la mettere in mano de’ Fiorentini, prima
che dopo quattro mesi. Il qual partito
fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in
modo che si seguì nello andarvi a campo, e
partissene con vergogna. Nè fu rifiutato il
partito per altra cagione, che per
diffidare dellafede del re; come quelli
che per debolezza di consiglio si erano
per forza messi nelle mani sue: e
dall’altra parte, non se ne fidavano, nè
vedevano quanto era meglio che il re
potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e
non la rendendo scoprire P animo suo, che
non la avendo, poterla loro promettere, e loro
essere forzati comperare quelle promesse. Talché
molto più utilmente arebbono fatto a consentire
che Beaumonlc V avesse, sotto qualunque
pròmessa, presa: come se ne vide la
espcrienza dipoi, die essendosi ribellato Arezzo,
venne a’ soccorsi de* Fiorentini mandato
dal re di Francia monsignor Imbalt con
gente francese; il qual giunto propinquo ad
Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare
accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede
volevano dare la terra, a similitudine de’
Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale
partito ; il che veggendo monsignor Imbalt, e
parendogli come i Fiorentini se ne inlendessino
poco, cominciò a tenere le pratiche dello
accordo da se, senza participazione de’
Commessaci : tanto che e’ io conchiuse a
suo modo, e sotto quello con le sue
genti se ne entrò in Arezzo, facendo
intendere a’ Fiorentini come egli erano
matti, e non si intendevano delle cose del
mondo: che se volevano Arezzo, lo fucessino
intendere al re, il quale lo poteva
dar loro molto meglio, avendo le sue
genti in quella città, che fuori. Non
si restava in Firenze di lacerare e
biasimare detto Imbalt; nè si restò mai,
infino a tanto che si conobbe che se
Beaumonte fusse stato simile a Imbalt, si
sarebbe avuto Pisa come Arezzo. E cosi, per
tornare a proposito, le repubbliche irresolute non
pigliano mai partiti buoni, se non per
forza, perchè la debolezza loro non le
lascia mai deliberare dove è alcuno dubbio; e
se quel dubbio non è cancellalo da una
violenza, che le sospinga, stanno sempre
mai sospese. XXXIX. — In diversi popoli si
veggono spesso i medesimi accidenti. E’ si
conosce facilmente per chi considera le
cose presenti e le antiche, come in tutte
le città ed in tutti i popoli sono
quelli medesimi desiderii e quelli medesimi
umori, e come vi furono sempre : in modo
che gli è facil cosa a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in
ogni repubblica le future, c farvi quelli
rimedi che dagli antichi sono stati usati ;
o non ne trovando degli usati, pensarne de’
nuovi, per la similitudine degli accidenti.
Ma perchè queste considerazioni sono neglette, o non
intese da chi legge ; o se le sono intese,
non sono conosciute da chi governa ; ne
seguita che sempre sono i medesimi scandali
in ogni tempo. Avendo la città di Firenze perduto
parte dello imperio suo, come Pisa ed altre
terre, fu necessitata a fare guerra* a coloro
che le occupavano. E perchè chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva
assai nella guerra, senza alcun frutto ;
dallo spendere assai ne risultava assai
gravezze ; dalle gravezze, infinite querele del
popolo ; e perchè questa guerra era amministrata
da uno magistrato di dieci cittadini che
si chiamavano i Dieci della guerra, 1* universale
cominciò a recarselo in dispetto, come quello
che fusse cagione della guerra e delle
spese di essa; e corniliciò a persuadersi
che tolto via detto magistrato, fusse tolto
via la guerra : tanto che avendosi a
rifare, non se gli fecero gli scambi ; e
lasciatosi spirare, si commisero le azioni
sue alla Signoria. La qual deliberazione fu
tanto perniziosa, che non solamente non
levò la guerra, come lo universale si
persuadeva ; ma tolto via quelli uomini
che con prudenza la amministravano, ne
seguì tanto disordine, die, oltre a Pisa,
si perde Arezzo e molti altri luoghi: in
modo che, ravvedutosi il popolo dello errore suo,
e come la cagione del male era la febbre
e non il medico, rifece il magistrato de’
Dieci. Questo medesimo umore si levò in
Roma conira al nome de’ Consoli : perchè,
veggendo quello Popolo nascere 1’ una
guerra dall' altra, e non poter mai
riposarsi ; dove e' dovevano pensare che la
nascesse dalla ambizione de’ vicini che gli
volevano opprimere; pensavano nascesse dall’
ambizione dei Nobili, che non potendo
dentro in Roma gastigar la Plebe difesa
dalla potestà tribunizia, la volevano condurre
fuori di Roma sotto i Consoli, per opprimerla dove
non aveva aiuto alcuno. E pensarono per
questo, che fusse necessario o levar via i
Consoli, o regolare in modo la loro
potestà, che e* non avessino autorità sopra
il popolo, nè fuori nè in casa. 11
primo che tentò questa legge, fu uno
Terentillo tribuno ; il quale proponeva che
si dovessero creare cinque uomini che
dovessino considerare la potenza de* Consoli, e
limitarla. II che alterò assai la Nobiltà,
parendoli che la maiestà dell’ imperio
fusse al tutto declinata, talché alla
Nobiltà non restasse più alcuno grado in
quella Repubblica. Fu nondimeno tanta la
ostinazione dei Tribuni, che il nome
consolare si spense ; e furono in fine
contenti, dopo qualche altro ordine, piuttosto
creare Tribuni con potestà consolare, che i
Consoli : tanto avevano più in odio il nome
che le autorità loro. E cosi seguitorno lungo
tempo, infino che conosciuto io errore
loro, còme i Fiorentini ritornorno ai Dieci,
così loro ricreorno i Consoli. XL. La creazione
del DECEMVIRATO in Roma, e quello che in
essa è da notare: dove si considera , intra molte
altre cose, come si può salvare per simile
accidente, o oppressore una repubblica. Volendo
discorrere particolarmente sopra gli accidenti
che nacquero in Roma per la creazione
del decemvirato, non mi pare soperchio
narrare prima tutto quello che segui per
simile creazione, e dipoi disputare quelle porti
che sono in esse azioni notabili : le
quali sono molte, e di grande considerazione,
cosi per coloro che vogliono mantenere una repubblica
libera, come per quelli che disegnassino
sommetterla. Perchè in tale discorso si
vedranno molti errori fatti dal Senato e
dalla Plebe in disfavore della libertà; e
molli errori fatti da APPIO, capo del
decemvirato; in disfavore di quella tirannide
che egli si aveva pre-supposto stabilire in
Roma. Dopo molte deputazioni c contenzioni seguite
intra il Popolo e la Nobiltà per fermare
nuove leggi in Roma, per le quali e’
si stabilisse più la libertà di quello
stato; mandarono, d’ accordo, Spurio Postumio con
duoi altri cittadini ad Atene per gli
essenti di quelle leggi che Solone dette a quella
città, acciocché sopra quelle potessero fondare
le leggi romane. Andati e tornati costoro,
si venne alla creazione degli uomini eh’
avessino ad esaminare e fermare de.tte leggi; e
ercorno dieci cittadini per un anno, tra i
quali fu creato APPIO CLAUDIO, il primo filosofo romano, uomo
sagace ed inquieto. E perchè e' potessimo
senza alcuno rispetto creare tali leggi, si
levarono di Roma tutti gli altri magistrati, ed
in particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi
lo appello al Popolo ; in modo che
tale magistrato veniva ad essere al tulio
principe di Roma. Appresso ad APPIO si
ridusse tutta 1’ autorità degli altri suoi
compagni, per gli favori clic gli faceva
la Plebe : perché egli s’ era fatto in
modo popolare con le dimostrazioni, che
pareva meraviglia eh’ egli avesse preso sì
presto una nuova natura c uno nuovo
ingegno, essendo stato tenuto innanzi a questo
tempo un crudele persecutore della Plebe.
Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo
più che dodici littori, i quali andavano
davanti a quello ch’era infra loro preposto. E
bench’egli avessino 1’ autorità assoluta, nondimeno
avendosi a punire un cittadino romano per
omicidio, lo citorno nel conspelto del Popolo, e
da quello lo fecero giudicare. Scrissero le
loro leggi in dicci tavole, ed avanti
che le confirmassero, le messono in
pubblico, acciocché ciascuno le potesse leggere c
disputarle; acciocché si conoscesse se vi
era alcuno difetto, per poterle binanti
alla confirmazionc loro emendare. Fece, in
su questo, Appio nascere un rornorc per
Bomn, che se a queste dieci tavole se
n’ aggiungcssiuo due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione ; talché questa
oppinionc dette occasione al Popolo di
rifare i Dieci per uno altro anno: a che
il Popolo si accordò volentieri; si perchè i
Consoli non si rifacessino; sì perchè
speravano loro potere stare senza Tribuni,
sendo loro giudici delle cause, come di
sopra si disse. Preso, adunque, partito di
rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a
cercare questi onori, ed intra i primi era
Appio; ed usava tanta umanità verso la
Plebe nel domandarla, che la cominciò ad
essere sospetta a suoi compagni : credebant cnim
liaud gratuitam in lanla superbia comilatcmfore.
E dubitando di opporsegli apertamente, diliberarono
farlo con arte; e benché e’ fusse
minore di tempo di tutti, dettono a lui
autorità di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo eh* egli osservasse i termini
degli altri di non
proporre sè medesimo, sendo cosa inusitata e
ignominiosa in Roma, Me vero imprdimentum
prò occasione arripuit ; e nominò sè intra i
primi, con meraviglia e dispiacere di tutti i
Nobili: nominò poi nove altri al suo
proposito. La qual nuova creazione fatta
per uu altro anno, cominciò a mostrare al
Popolo cd alla Nobiltà lo error suo. Perchè
subito Appio: finem fedi ferenda aliena
persona ; e cominciò a mostrare la innata sua
superbia, ed in pochi dì riempiè di
suoi costumi i suoi compagni. E per Sbigottire
il Popolo ed il Senato, in scambio di
dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette la paura eguale qualche giorno ; ma
cominciarono poi ad intrattenere il Senato, e
battere la Plebe: e s’ alcuno battuto dall*
uno, appellava ali’ altro, era peggio
trattalo nelP appeltagione che nella prima
causa. In modo che la Plebe, conosciuto
lo errore suo, cominciò piena di afflizione
a riguardare in viso i Nobili; et inde libcrtatis
captare a urani , linde servitutem tiinendoj in
cum s taluni rempublicam adduxerant. E alla
Nobiltà era grata questa loro afflizione,
ut ipsij teedio prcesenliunij Consules desiderar
ent. Vennero i di clic terminavano l’anno:
le due tavole delle leggi erano fatte,
ma non pubblicate. Da questo i Dicci
presono occasione di continovare nel
magistrato, c cominciorono a tenere con violenza
lo Stato, e farsi satelliti della gioventù
nobile, alla quale davano i beni di quelli
che loro condannavano. Quibus
donis Juventus coirumpebatur , et malebat
liccnliam suoni , i quatn omnium liberlatcm. Nacque in
questo tempo, che i Sabini ed i Volsci mossero
guerra a’ Romani: in su la qual paura
cominciarono i Dieci a vedere la debolezza dello
Stato loro; perchè senza il Senato non
potevano ordinare la guerra, e ragunando il
Senato pareva loro perdere lo Stato. Pure,
necessitati, presono questo ultimo partito: e ragunali i
Senatori insieme, molti de’ Senatori parlorono
contro alla superbia de’Dieci, ed in
particolare Valerio ed Orazio : e la
autorità loro si sarebbe al tutto spenta,
se non che il Senato, per invidia della
Plebe, non volle mostrare l’autorità sua,
pensando che se i Dieci deponevano il
magistrato voluntarii, che potesse essere che i
Tribuni della plebe non si rifacessero.
Dcliberossi adunque la guerra; uscissi fuori
con due eserciti guidati da parte di
detti Dieci; APPIO rimase a governare la
città. Donde nacque che si innamorò di
Virginia, e che volendola torre per forza,
il padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO: donde seguirono i tumulti di
Roma e degli eserciti ; i quali ridottisi insieme
con il rimanente della Plebe romana, se
ne andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto
clic i Dieci deposono il magistrato, e che
furono creali i Tribuni ed i Consolide ridotta
Roma nella forma della antica sua libertà.
Notasi, adunque, per questo testo, in prima
esser nato in Roma questo inconveniente
di creare questa tirannide, per quelle
medesime cagioni che nascono la maggiore parte delie
tirannidi nelle città: e questo è da troppo
desiderio del popolo d* esser libero, e da
troppo desiderio de’ nobili di comandare. E
quando c’ non convengono a fare una legge
in favore della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno, allora è
che subito la tirannide surge. Convennono
il Popolo ed i Nobili di Poma a creare i
Dieci, e crearli con tanta autorità, per
desiderio che ciascuna delle parti aveva,
1’ una di spegnere il nome consolare,
l’altra il tribunizio. Creati che furono, parendo
alla Plebe che Appio fusse diventato popolare
c battesse la Nobiltà, si volse il Popolo a
favorirlo. E quando un popolo si conduce a
far questo errore di dare riputazione ad uno
perchè balta quelli che egli ha in
odio, e che quello uno sia savio, sempre
interverrà che diventerà tiranno di quella
città. Perchè egli attenderà, insieme con
il favore del popolo, a spegnere la nobiltà
; e non si volterà inai alla oppressione
del popolo, se non quando ei V arà
spenta; nel qual tempo conosciutosi il
popolo essere servo, non abbi dove
rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti
coloro che hanno fondato tirannidi in le
repubbliche: c se questo modo avesse tenuto APPIO,
quella sua tironnide arebbe preso più vita,
e non sarebbe mancata si presto. Ma ei fece
tutto il contrario, nè si potette governare
più imprudentemente; cliè per tenere la
tirannide, c’si fece inimico di coloro che
glie T avevano data c che gliene potevano
mantenere, ed amico di quelli che non
erano concorsi a dargliene e che non gliene
arebbono potuta mantenere; e perdèssi coloro che
gli erano amici, e cercò di avere amici
quelli che non gli potevano essere amici.
Perchè, ancora che i nobili desiderino tiranneggiare,
quella parte della nobiltà che si truova
fuori della tirannide, è
sempre inimica al tiranno; nè quello se la
può mai guadagnare tutta, per l’ambizione
grande e grande avarizia che .è in lei,
non polendo il tiranno avere nè tante
ricchezze nè tanti onori, che a tutta
satisfaccia. E così Appio, lasciando il Popolo
ed accostandosi a’ Nobili, fece uno errore
evidentissimo, e per le ragioni dette di
sopra, e perchè a volere con violenza tenere
una cosa, bisogna che sia più potente
chi sforza, che chi è sforzato. Donde
nasce che quelli tiranni che hanno amico
lo universale ed mimici i grandi, sono più
sicuri; per essere la loro violenza
sostenuta da maggior forze, che quella di
coloro che hanno per inimico il popolo
ed amica la nobiltà. Perchè con quello
favore bastano a conservarsi le forze
intrinseche; come bastorno a Nabide tiranno di
Sparta, quando tutta Grecia ed il popolo
romano lo assaltò : il quale assicuratosi
di pochi nobili, avendo amico il popolo,
con quello si difese; il che non
arebbe potuto fare
avendolo inimico. In quello nitro grado per
aver pochi amici dentro, non bastano le
forze intrinseche, ma gli conviene cercare
di fuora. Ed hanno ad essere di tre
sorti: 1’ una satelliti forestieri, die li
guardino la persona; l’altra armare il
contado, che faccia quell’ oflìzio che arebbe
a fare la plebe; la terza aderirsi co’
vicini potenti, che li difendino* Chi tiene
questi modi e gli osserva bene, ancora
ch’egli avesse per inimico il popolo,
potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma APPIO
non poteva far questo di guadagnarsi il
contado, scudo una medesima cosa il contado
e Roma; c quel che poteva fare, non seppe:
talmente che rovinò nc’ primi principii
suoi. Fecero il Senato ed il Popolo
in questa creazione del decemvirato errori
grandissimi : perchè ancora che di sopra si
dica, in quel discorso che si fa del
Dittatore, che quelli magistrati che si
fanno da per loro, non quelli che fa
il popolo, sono nocivi alla libertà;
nondimeno il popolo debbe, quando egli
ordina i magistrali, fargli in modo che gli
abbino avere qualche rispetto a diventare tristi.
E dove e’ si debbe proporre loro guardia per mantenergli
buoni, i Romani lalevorono, facendolo solo
magistrato in Roma, ed annullando tutti gli
altri, per la eccessiva voglia (come di
sopra dicemmo) che il Senato aveva di
spegnere i Tribuni, e la Plebe di spegnere i
Consoli; la quale gli accecò in modo,
che concorsono in tale disordine. Perchè
gli uomini, come diceva il re Ferrando,
spesso fanno come certi minori uccelli di
rapina ; ne’ quali è tanto desiderio di
conseguire la loro preda, a che la natura
gli incita, che non sentono un altro
maggior uccello che sia loro sopra, per
ammazzargli. Conoscesi, adunque, per questo discorso,
come nel principio proposi, lo errore del
Popolo romano, volendo salvare la libertà ; e
gli errori di APPIO, volendo occupare la
tirannide. XLI. — Sahare
dalla Umilila alla superbia j dalla pietà alta
crudeltà senza debiti mezzij è cosa imprudente ed
inutile. Oltre agli altri termini male
usati da APPIO per mantenere la tirannide,
non fu di poco momento saltare troppo
presto da una qualità ad un’altra. Perchè la
astuzia sua nello ingannare la Plebe, simulando
d’essere uomo popolare, fu bene usata;
furono ancora bene usati i termini che
tenue perchè i Dieci si avessino a rifare;
fu ancora bene usata quella audacia di
creare sè stesso contra alla oppinione
della Nobiltà; fu bene usato creare
colleghi a suo proposito: ma non fu già
bene usato, come egli ebbe fatto questo,
secondo che di sopra dico, mutare in
un subito natura; e di amico, mostrarsi
nimico alla Plebe; di umano, superbo; di
facile, difficile; e farlo tanto presto, che
senza
scusa veruna ogni uomo avesse a conoscer
la fallacia dello animo suo. Perchè chi è
paruto buono un tempo, e vuole a suo
proposito diventar tristo, io debbe fare
per gli debiti mezzi ; ed in modo condurvisi
con le occasioni, che innanzi che la
diversa natura ti tolga de’ favori vecchi,
la te ne ubbia dati tanti degli nuovi,
che tu non venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e senza
amici, rovini. XL1I. — Quanto gli uomini facilmente
si possono corrompere. Notasi ancora in
questa materia del decemvirato, quanto facilmente
gli uomini si corrompono, e fatinosi diventare di
contraria natura, ancora che buoni e bene
educati; considerando quanto quella gioventù che
Appio si aveva eletta intorno, cominciò ad
essere amica della tirannide per uno poco
d’utilità che gliene conseguiva ; e come Quinto
Fabio, uno del numero de’ secondi Dieci,
sendo uomo oliimo, accecalo da un poco
di ambizione, e persuas dulia malignità di APPIO,
mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e
diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà
tanto più pronti i legislatori delle repubbliche
o de’ regni a frenare gli appetiti umani, c torre
loro ogni speranza di potere impune errare. XLIII.
— Quelli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati. Considerasi
ancora per il soprascritto trattato, quanta
differenza è da uno esercito contento e che
combatte per la gloria sua, a quello che è
male disposto e che combatte per la
ambizione d’ altri. Perchè, dove gli
eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi
sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre
perderono. Da questo essempio si può
conoscere parte delle cagioni della inutilità de’
soldati mercenurii; i quali non hanno altra
cagione clic li tenga fermi, che un poco di
stipendio che tu dai loro. La qual cagione
non è nè può essere bastante a fargli
fedeli, nè tanto tuoi amici, che voglino
morire per le. Perchè in quelli eserciti
che non è una affezione verso di quello
per chi e’ combattono, che gli facci
diventare suoi partigiani, non mai vi potrà
essere tanta virtù che basti a resistere
ad uno nimico un poco virtuoso. G perchè
questo amore non può nascere, nè questa
gara, da altro che da’ sudditi tuoi; è
necessario a volere tenere uno stato, a volere
mantenere una repubblica o uno regno, armarsi de’
sudditi suoi : come si vede che hanno
fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno
fatti grandi progressi. Avevano gli eserciti
romani sotto i Dieci quella medesima virtù;
ma perchè in loro non era quella
medesima disposizione, non facevano gli usilati
loro effetti. Ma com prima il magistrato
de’ Dieci fu spento, e che loro come
liberi cominciorno amilitare, ritornò in
loro il medesimo animo; e per conscguente,
le loro imprese avevano il loro fine felice,
secondo la antica consuetudine loro. XLIV. — Una
moltitudine senza capo, è inutile: e non si
debbo minacciare prima, c poi chiedere l'autorità. Era
la Plebe romana per lo accidente di
Virginia ridotta armata nel Monte Sacro.
Mandò il Senato suoi ambasciadori a
dimandare con quale autorità egli avevano
abbandonati i loro capitani, e ridottisi nel
Monte. E tanta era stimata l’autorità del
Senato, che non avendo la Plebe intra
loro capi, ninno si ardiva a rispondere. E L. dice,
ohe e’ non mancava loro materia a
rispondere, ma mancava loro chi facesse la
risposta. La qual cosa dimonstra appunto
la inutilità d’ una moltitudine senza
capo. Il qual disordinefu conosciuto da
Virginio, e per suo ordine si creò venti
Tribuni militari, che fussero loro capo a
rispondere e convenire col Senato. Ed avendo
chiesto che si mandasse loro Valerio ed
Orazio, ai quali loro direbbono la voglia
loro, non vi volsono andare se prima i
Dieci non deponevano il magistrato: ed arrivati sopra
il Monte dove era la Plebe, fu domandato
loro da quella, che volevano che si
creassero i Tribuni della plebe, e che si
avesse ad appellare al Popolo da ogni
magistrato, e che si dessino loro tutti i
Dieci, chè gli volevano ardere vivi.
Laudarono Valerio cd Orazio le prime loro
domande; biasimorono P ultima come impia, dicendo
: Crude - litatcm dannatisj in crudclitaiem ruitis ; e
consigliamogli che dovessino lasciare il fare
menzione de’ Dieci, e ch’egli attendessino a
pigliare V autorità e potestà loro: dipoi non
mancherebbe loro modo a satisfarsi. Dove
apertamente si conosce quanta stultizia c poca
prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io
voglio far male con essa; perchè non
si debbo mostrare l’animo suo, ma vuoisi
cercare d’ottenere quel suo desiderio in
ogni modo. Perchè e’ basta a dimandare a
uno le armi, senza dire: io ti voglio
ammazzare con esse; potendo poi che tu
bai l’arme in mano, satisfare allo appetito
tuo. XLV. — E cosa di malo esempio | non
osservare una legge falla , c massime dallo
autore d'essa: e rinfre- scare ogni di
nuove ingiurie in una t città, è a chi la
governa dannosis-i simo. Seguito lo accordo, e
ridotta Roma in la antica sua forma,
Virginio citò Appio innanzi al Popolo a
difendere la sua causa. Quello comparse
accompagnato da molti Nobili. Virginio comandò
che fussc messo in prigione. Cominciò Appio a
gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva
che non era degno di avere quella
nppellagionc che egli aveva distrutta, ed
avere per difensore quel Popolo che egli
aveva offeso. Appio replicava, come e’ non
aveano a violare quella appellagionc ch'egli
avevano con tanto desiderio ordinata. Pertanto
egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E
benché la scellerata vita di Appio
meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa
poco civile violare le leggi, e tanto più
quella che era fatta allora. Perchè io
non credo che sia cosa di più cattivo
esempio in una repubblica, che fare una
legge e non la osservare; e tanto più,
quanto la non è osservata da chi l’ ha
falla. Essendo Firenze stala riordinala nel suo
stato con l'aiuto di frate Girolamo
Savonarola, gli scritti
del quale mostrano la dottrina, la
prudenza, la virtù dello animo suo ; ed avendo
intra P altre conslituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si
potesse appellare al popolo dalle sentenze
che, per caso di Stato, gli Otto c la
Signoria dessino; la qual legge persuase
più tempo, e con difficoltà grandissima ottenne:
occorse che, poco dopo la confirmazicne
d’essa, furono condcunati a morte dalla Signoria per
conto di Stato cinque cittadini; e volendo
quelli appellare, non furono lasciati, e non
fu osservata la legge. Il che tolse
più riputazione a quel frate, che nessun
altro accidente: perchè, se quella appellagione
era utile, ei doveva farla osservare; s’
ella non era utile, non doveva farla
vincere. E tanto più fu notato questo
accidente, quanto che il frate in tante
predicazioni che fece poi clic fu rotta
questa legge, non mai o dannò chi P aveva
rotta, o lo scusò ; come quello che
dannare non voleva, come cosa che gli
tornava a proposito ; e scusare non la
poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo
ambizioso e paitigiano, gii tolse riputazione, e
dettegli assai carico. Offende ancora uno Stato assai,
rinfrescare ogni dì nello animo de’ tuoi
cittadini nuovi umori, per nuove ingiurie
ebe a questo e quello si fucciano : come
intervenne a Roma dopo il decemvirato. Perché
tutti i Dieci, ed altri cittadini, in
diversi tempi furono accusati e condannati: in
modo che gli era uno spavento grandissimo
in tutta la Nobiltà, giudicando che e’ non
si avesse mai a porre fine a simili
condennagioni, fino a tanto che tutta la
Nobiltà non fusse distrutta. Ed arebbe generato in
quella città grande inconveniente, se da
Marco Duellio tribuno non vi fusse stato
provveduto; il qual fece uno edit-to, che
per uno anno non fusse lecito ad
alcuno citare o accusare alcuno cittadino contano
: il che rassicurò tutta la Nobiltà. Dove
si vede quanto sia dannoso ad una
repubblica o ad un principe, tenere con le
continove pene ed offese sospesi e paurosi
gli animi dei sudditi. E senza dubbio, non
si può tenere il più pernicioso ordine: perchè
gli uomini che cominciano a dubitare di avere a
capitar male, in ogni modo si assicurano
ne’ pericoli, e diventano più audaci, e meno
rispettivi a tentare cose nuove. Però è
necessario, o non offendere mai alcuno, o fare le
offese ad un tratto; e dipoi rassicurare
gli uomini, e dare loro cagione di quietare
e fermare l’animo. XLVI. — Gli uomini salgono da una
ambizione ad unJ altra ; c prima si cerca
non essere offeso t dipoi di offendere altrui. Avendo
il Popolo romano ricuperala la libertà,
ritornato nel suo primo grado, ed in
tanto maggiore, quanto si erano fatte
dimolte leggi nuove In corroborazione della
sua potenza ; pareva ragionevole che Roma
qualche volta quictasse. Nondimeno, per
esperienza si vide il contrario; perchè
ogni di vi surgeva nuovi tumulti e nuove
discordie. E perchè Tito Livio prudentissimamente rende
la ragione donde questo nasceva, non mi
pare se non a proposito riferire appunto le
sue parole, dove dice che sempre o il
Popolo o la Nobiltà insuperbiva, quanto V altro
si umiliava ; e stando la Plebe quieta
intra i termini suoi, cominciarono i giovani
nobili ad ingiuriarla ; ed i Tribuni vi potevano
farepochi rimedi, perchè ancora loro erano
violati. La Nobiltà, dalP altra parte,
ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse
troppo feroce, nondimeno aveva a caro che
avendosi a trapassare il modo, lo trapassassino i
suoi, e non la Plebe. E cosi il desiderio
di difendere la libertà faceva che ciascuno
tanto si prevaleva, eh’ egli oppressava l’
altro. E V ordine di questi accidenti è,
che mentre clic gli uomini cercano di
non temere, cominciano a far temere altrui; e
quell ingiuria ch’egli scacciano da loro, la pongono
sopra un altro: come se fussc necessario
offendere, o essere offeso. Vedesi, per
questo, in quale modo, fra gli altri,
le repubbliche si risolvono; e in che modo
gli uomini salgono da una ambizione ad
un’ altra ; e come quella sentenza salustiaua
posta in bocca di Cesare, è verissima :
quod omnia mala exempla bonis mitiis orla
sunt. Cercano, come di sopra è detto, quelli
cittadini clie ambiziosamente vivono in una repubblica,
la prima cosa di non potere essere
offesi, non solamente dai privati, ma eziam
da’ magistrali : cercano, per potere fare
questo, amicizie ; e quelle acquistano per vie
in apparenza oneste, o con sovvenire di
danari, o con difendergli da’ potenti : e perchè
questo pare virtuoso, s’ inganna facilmente ciascuno, c
per questo non vi si pone rimedio ; intanto
che egli senza ostacolo perseverando, diventa
di qualità, che i privati cittadini ne
hanno paura, ed i magistrati gli hanno
rispetto. E quando egli è saJito a questo
grado, c non si sia prima ovvialo alla
sua grandezza, viene od essere in termine,
che volerlo urtare è pericolosissimo, per
le ragioni che io dissi di sopra del
pericolo che è nello urtare uno inconveniente
che abbi di già fatto augumento in
una città: tanto che la cosa si
riduce in termine, che bisogna o cercare
di spegnerlo con pericolo di una subita
rovina j o lasciandolo fare, entrare in una
servitù manifesta, se morte o qualche accidente
non te ne libera. Perchè, venuto
a’soprascrilti termini, che i cittadini ed i
magistrati abbino paura ad offender lui e
gli amici suoi, non dura dipoi molta
fatica a fare che giudichino ed offendino a
suo modo. Donde una repubblica intra gli
ordini suoi debbe avere questo, di
vegghiarc che i suoi cittadini sotto ombra
di bene non possino far male ; e di’
egli abbino quella riputazione che giovi, e
non nuoca, alla libertà: come nel suo
luogo da noi sarà disputato. XLVII. — Gli nomini j ancora
clic si ingannino ncJ generali j nei particolari
non si ingannano. Essendosi il Popolo
romano, come di sopra si dice, recato a
noia il nome consolare, e volendo che
potessiao esser fatti Consoli uomini plebei, o
che fusse limitata la loro autorità ; la
Nobiltà, per non deonestare l’ autorità consolare
nè con Tuna nè con 1’ altra cosa,
prese una via di mezzo, e fu contenta
che si creassino quattro Tribuni con
potestà consolare, i quali potcssino essere
cosi plebei come nobili. Fu contenta a
questo la Plebe, parendogli spegnere il
consolato, ed avere in questo sommo grado
la parte sua. Nacquene di questo un
caso notabile : che venendosi alla
creazione di questi Tribuni, e potendosi creare
tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti
fiobiii. Onde L. dice queste parole: Quorum
comitiorum eoenlus docuit, alias animo s in
contcntione l ib erta ti s et honoris, alios
secundum deposita certamina in incorrupto judicio esse.
Ed esaminando donde possa procedere questo,
credo proceda che gii uomini nelle cose
generali s’ ingannano assai, nelle particolari
non tanto. Pareva generalmente alla Plebe
romana di meritare il consolato, per avere
più parte in la città, per portare
più pericolo nelle guerre, per esser quella
che con le braccia sue manteneva Roma
libera, e la faceva potente. E parendogli, come è
detto, questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere
questa autorità in ogni modo. Ma come
la ebbe a fare giudizio degli uomini suoi
particolarmente, conobbe la debolezza di quelli,
e giudicò che nessuno di loro meritasse
quello che tutta insieme gli pareva
meritare. Talché vergognatasi di loro, ricorse a
quelli che Io meritavano. Della quale
deliberazione meravigliandosi meritamente L., dice
queste parole : /lane modestiam , aquila IcmquCj
et allitudinem animi, ubi moie in uno
inveneris , qua: lune populi universi fuit ? In
corroborazione di questo, se ne può addurre
un altro notabile essempio, seguito in
Capova da poi che Annibaie ebbe rotti i
Romania Canne; per la qual rotta sendo
tutta sollevata Italia, Capova stava ancora
per tumultuare, per P odio eli’ era intra
il Popolo ed il Senato; e trovandosi in
quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano,
e conoscendo il pericolo che portava quella
città di tumultuare, disegnò con suo grado
riconciliare la Plebe con la Nobiltà ; e fatto
questo pensiero, fece ragunare il Senato, c
narrò loro Podio che M popolo aveva contra
di loro, ed i pericoli che portavano
di essere ammazzati da quello, e data la
città ad Annibaie, sendo le cose de’
Romani afflitte : dipoi soggiunse, che se
volevano lasciaregovernare questa cosa a lui,
farebbe in modo che si unirebbono insieme ;
ma gli voleva serrare dentro al palazzo, e
co fare potestà al popolo di potergli
gastigare, salvargli. Cederono a questa sua oppinione
i Senatori, e quello chiamò il Popolo a coocione,
avendo rinchiuso in palazzo il Senato ; e
disse com’ egli era venuto il tempo
di potere domare la superbia della
Nobiltà, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da
quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la
sua custodia : ma perchè credeva che loro
non volessino che la loro città rimanesse
senza gover-
no, era necessario, volendo ammazzare i Senatori
vecchi, crearne de* nuovi. E per tanto
aveva messo tutti gli nomi degli Senatori
in una borsa, e comincierebbe a trargli in
loro presenza j ed egli farebbe i tratti di
mano in mano morire, come prima loro
avessino tro-
vato il successore. E cominciato a trarne uno, fu
al nome di quello levato un rumore
grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed
arrogante : e chiedendo Paeuvio che facessino lo
scambio, si racchetò tutta la conclone ; c dopo alquanto
spazio, fu nominato uno della plebe ; al
nome del quale chi cominciò a fischiare,
chi a ridere, chi a dirne male in uno
modo, e chi in un altro: o così seguitando
di mano in mano, tutti quelli che
furono nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. In modo che Pacuvio, presa
sopra questo occasione, disse: Poiché voi
giudicate che qucslu città stia male senza
Senato, ed a fare gii scambi a’ Senatori
vecchi non vi accordate, io penso che
sia bene che voi vi riconciliate insieme ;
perchè questa paura in la quale i Senatori
sono stati, gli arà fatti in modo
raumiliare, che quella umanità che voi
cercavate altrove, troverete in loro. Ed
accordatisi a questo, ne segui la unione di
questo ordine ; e quello inganno in che egli erano
si scoperse, come e’ furono constretti
venire a’ particolari. Ingannansi, olirà di
questo, i popoli generalmente nel giudicare le
cose e gli accidenti di esse j le quali
dipoi si conoscono particolamento, si
avveggono di tale inganno. Sendo stati i principi
della città cacciati da Firenze, e non vi essendo
alcuno governo ordinato, ma piuttosto una
certa licenza ambiziosa, ed andando le cose
pubbliche di inale in peggio ; molti
popolari veggiendo la rovina della città, e
non ne intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di qualche potente
che nutrisse i disordini, per poter fare
uno Stato a suo proposito, c torre loro la
libertà : c stavano questi tali per le
logge c per le piazze, dicendo male di
molti cittadini, e minacciandoli che se mai
si trovassero de’ Signori, scoprirebbono questo
loro inganno, e gli gastigarebbono. Occorreva spesso
che de’ simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salilo in quel
luogo, e che e* vedeva le i cose più
dappresso, conosceva i disordini donde nascevano,
ed i pericoli che soprastavano, e la difficoltà
del rimecitarvi. C veduto come i tempi, e no gli
uomini, causavano il disordine, diventava subito
d’ un altro animo, c di un’ altra fatta ;
perché la cognizione delle cose particolari
gli toglieva via quello inganno che nel
considerare generalmente si aveva presupposto.
Dimodoché, quelli che lo avevano prima,
quando era privato, sentito parlare, e vedutolo
poi nel supremo magistrato stare quieto,
credevano che nascesse, non per più vera
cognizione delle cose, ma perchè fusse stalo aggirato
e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a
molti uomini c molte volte, ne nacque tra
loro un proverbio, che diceva : Costoro
hanno uno animo in piazza, cd uno in
palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è
discorso, si vede come e’ si può fare
tosto aprire gli occhi a’ popoli, trovando
modo, veggendo che uno generale gl’ inganna,
ch’egli abbino a descenderc ai particolari ; come
fece Pacuvio in Capova, ed il --Senato
in Roma. Credo ancora, che si possa
conchiudere, che mai un uomo prudente non
debbe fuggire il giudizio popolare nelle
eo9e particolari, circa le distribuzioni de'
gradi e delle dignità : perchè solo in
questo il popolo non si inganna ; e se
si inganna qualche volta, Ha sì raro,
che s’ inganneranno più volte i pochi uomini
che avessino a fare simili distribuzioni.
Nè mi pare superfluo mostrare nel seguente
capitolo, P ordine che teneva il Senato per
isgannare il popolo nelle distribuzioni sue. XLYIII.
— Chi vuole che uno magistrato non sia
dato ad un vile o ad un tristo j lo
facci domandare o ad un troppo vile e
troppo tristo , o ad uno troppo nobile c troppo
buono. Quando il Senato dubitava che i Tribuni
con potestà consolare non fussino fatti d’
uomini plebei, teneva uno de’duoi modi: o
egli faceva domandare ai più riputati
uomini di Roma;o veramente, per i debiti
mezzi, corrompeva qualche plebcio sordido ed
ignobilissimo, che mescolati con i plebei che,
di miglior qualità, per T ordinario lo
domandavano, anche loro lo domandassino. Questo
ul-
timo modo faceva che la Plebe si vergognava
a darlo ; quel primo faceva che la si
vergognava a torlo, li che tutto torna a
proposito del precedente discorso, dove si
mostra che il popolo se s’ inganna de’
generali, de’particolari non s’inganna. XLIX. —
Se quelle città che hanno avuto il
principio libcrOj come Romaj hanno diffìcultà a
trovare leggi che le mantenghino ; quelle che
lo hanno immediate servo , ne hanno quasi una impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una
repubblica, provvedere a tutte quelle leggi che
la mantenghino libera, lo dimostra assai
bene il processo della Repubblica romana:
dove non ostante che fussino ordinate di
molte leggi da ROMOLO prima, dipoi da
Nuraa, da Tulio Ostilio e Servio, ed
ultimamente dai dieci cittadini creali a simile
opera ; nondimeno sempre nel maneggiare quella città
si scoprivano nuove necessità, ed era
necessario creare nuovi ordini: come intervenne
quando crearono i Censori, i quali furono uno
di quelli provvedimenti che aiutarono tenere Roma
libera, quel tempo che la visse in
libertà. Perchè, diventati arbitri de’ costumi di Roma,
furono cagione potissima che i Romani
diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel
principio della creazione di tal magistrato
uno errore, creando quello per cinque anni;
ma, dipoi non molto tempo, fu corretto
dalla prudenza di Mamereo dittatore, il
qual per nuova legge ridusse detto
magistrato a diciolto mesi. Il che i Censori
che vegghiavano, ebbono tanto per male, che
privorno Mamcrco del senato: la qual cosa e
dalla Plebe c dai Padri fu assai biasimata.
perchè la istoria
non ino*stra che Mamerco se ne
potesse difen-dere, conviene o che lo istorico
sia di-fettivo, o gli ordini di Roma in
questa parte non buoni : perchè non è bene
che
una repubblica sia in modo ordinata, ebe
un cittadino per promulgare una legge
conforme al vivere libero, ne possa essere
senza alcuno rimedio offeso. Ma tornando al
principio di questo discorso, dico che si
dehbe, per la creazione di questo nuovo
magistrato, considerare, che se quelle città
che hanno avuto il principio loro libero, e
che per se medesimo si è retto, come
Roma, hanno difHcultà grande a trovar leggi buone
per mantenerle libere ; non è meraviglia che
quelle città che hanno avuto il principio
loro immediate servo, abbino, non che
dilfìcultà, ma impossibilità ad. ordinarsi mai
in modo che le possino vivere civilmente e
quietamente. Come si vede che è intervenuto
alla città di Firenze; la quale, per
avere avuto il principio suo sottoposto
allo imperio ro-
mano, ed essendo vivuta sempre sotto governo
d* altri, stette un tempo soggetta, e senza
pensare a sè medesima: dipoi, venuta la
occasione di respirare, cominciò a fare suoi
ordini; i quali sendo
mescolati con gli antichi, che erano
tristi, non poterono essere buoni: e così è ita
maneggiandosi per dugento anni che si lia
di vera memoria, senza avere mai avuto
stato per il quale ella possa veramente
essere chiamata repubblica. E queste diflicultà
che sono state in lei, sono state
sempre in tutte quelle città che hanno
avuto i principii simili a lei. E benché molte
volte, per suffragi pubblici e liberi, si
sia dato ampia autorità a pochi cittadini
di potere riformarla; non pertanto mai l’
hanno ordinata a comune utilità, ma sempre
a proposito della parte loro : il che ha
fatto non ordine, ma maggiore disordine in
quella città. E per venire a qualche essempio particolare,
dico come intra le altre cose che si
hanno a considerare da uno ordinatore d’
una repubblica, è esaminare nelle mani di
quali uomini ci ponga 1’ autorità del
sangue coutra de’ suoi cittadini. Questo
era bene ordinato in Roma, perchè e’
si poteva appellare al Popolo ordinariamente : e
se pure fussc occorsa cosa importante, dove
il differire la esecuzione mediante la
appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio
del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al
qual rimedio non rifuggivano mai, se non
per necessità. Ma Firenze, c Y altre città
nate nel modo di lei, sendo serve, avevano
questa autorità collocata in un forestiero,
il quale mandato dal principe faceva tale
uffizio. Quando dipoi vennono in libertà,
mantennero questa autorità in un forestiero,
il quale chiamavano Capitano: il che, per
potere essere facilmente corrotto da’ cittadini
potenti, era cosa perniciosissima. Ma dipoi, mu-
randosi per la mutazione degli Stati questo
ordine, creorno otto cittadini che
facessino V uffizio di quel Capitano. Il
quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le
cagioni che altre volte sono dette: che i
pochi furono sempre ministri dc’po-ehi, e
de* più potenti. Da che si è guardata
la città di Vinegia; la quale ha dieci
cittadini, che senza appello possono punire
ogni cittadino. E perchè e* non basterebbono a
punire i potenti, ancora die ne nvessino
autorità, vi hanno constituito le Quarnntie:
c di più, hanno voluto che il Consiglio de’
Pregai, elicè il Consiglio maggiore, possa
gastigargli; In modo che non vi mancando
lo accusatore, non vi manca il giudice a
tener gli uomini potenti a freno. Non è dunque
meraviglia, reggendo come in Roma, ordinata
da sè medesima e da tanti uomini prudenti,
surgevano ogni di nuove cagioni per le
quali si aveva a fare nuovi ordini in
favore del viver libero j se nelle altre
città che hanno più disordinalo principio,
vi surgono tuli difficoltà, che le non
si possino riordinar mai. L. — iVon dcbbc
uno consiglio o uno magistrato potere
fermare le azioni della città. tirano consoli
in Roma Tito Quinzio Cincinnato c Gneo
Giulio Mento, i quali sendo disuniti, avevano
ferme tutte le azioni di quella Repubblica.
11 che veggcndo il Senato, gli
confortava a creare il Dittatore, per fare
quello che per le discordie loro non
poteva fare. Ma i Consoli discordando in
ogni altra cosa, solo in questo erano
d’accordo, di non voler creare il
Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo
altro rimedio, ricorse allo aiuto de’ Tribuni; i
quali, con l’autorità del Senato, sforzarono i
Consoli ad ubbidire. Dove si ba a notare,
in prima, la utilità del tribunato; il
quale non era solo utile a frenare l’
ambizione che i potenti usavano contra alla
Plebe, ma quella ancora ch’egli usavano
infra loro: 1’ altra, che mai si
debba ordinare in una città, che i pochi
possino tenere alcuna deliberazione di quelle
che ordinariamente sono necessarie a mantenere la
repubblica. Yerbigrazia, se tu dai una autorità
nd uno consiglio di fare una distribuzione
di onori c di utile, o ad uno magistrato
di amministrare una faccenda; conviene o imporgli
una necessità perchè ei l’ abbia a fare in
ogni modo; o ordinare, quando non la voglia fare
egli, che la possa e debba fare un altro:
altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e
pericoloso; come si vedeva che era in
Roma, se alla ostinazione di quelli Consoli
non si poteva opporre P autorità de’ Tribuni.
Nella Repubblica veneziana il Consiglio grande
distribuisce gli onori e gli utili. Occorreva
alle volte che P universalità, per isdegno o per
qualche falsa suggestione, non creava i
successori ai magistrati della città, ed a
quelli che fuori amministravano lo imperio
loro. Il che era disordine grandissimo:
perchè in un tratto, e le terre suddite e
la città propria mancavano de’ suoi legittimi
giudici; nè si poteva ottenere cosa alcuna,
se quella universalità di quel Consiglio
non si satisfaceva, o non s’ingannava. Ed avrebbe
ridotta questo inconveniente quella città a mal
termine, se dagli cittadini prudenti non vi
si fusse provveduto: i quali, presa occasione
conveniente, fecero una legge, che tutti i
magistrati che sono o fussino dentro e
fuori della città, mai vacassero, se non
quando fussino fatti gli scambi e i successori
loro. E cosi si tolse la comodità a quel
Consiglio di potere, con pericolo della
repubblica, fermare le azioni pubbliche. LI. Una
repubblica o uno principe debbe mostrare di
fare per liberalità quello a che la
necessità lo consiringe. Gli uomini prudenti
si fanno grado sempre delle cose, in
ogni loro azione, ancora che la necessità
gli constringesse a farle in ogni modo.
Questa prudenza fu usata bene dal Senato
romano, quando ei deliberò che si desse
lo stipendio del pubblico agli uomini che
militavano, essendo consueti militare del loro
proprio. Ma veggendo il Senato come in quel
modo non si poteva fare lungamente guerra,
e per questo non potendo nè assediare
terre, uè condurre gli eserciti discosto; e
giudicando essere necessario potere fare 1*
uno e 1’ altro ; deliberò che si dessino
detti stipendi; ina lo feciono in modo,
che si fecero grado di quello a che
la necessità gli constringeva; e fu tanto
accetto alla Plebe questo presente, che
Roma andò «sottosopra per la allegrezza,
parendole uno benefizio grande, quale mai
speravano di avere, e quale mai per loro
medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s*
ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando
come ella era cosa che aggravava, non
alleggeriva, la Plebe, scodo necessario porre i
tributi per pagare questo stipendio ;
nientedimeno non potevano fare tanto che la
Plebe non lo avesse accetto: il che
fu ancora augumentalo dal Senato per
il modo che distribuivano i tributi; perchè i più
gravi ed i maggiori furono quelli chVposono alla
Nobiltà, e gli primi che furono pagati. LII. — A reprimere la
insolenza di uno che surga in una
repubblica potente , non vi c più securo e
meno scandaloso modo , che preoccuparli quelle vie
per le quali e* viene a quella potenza. Yedesi
per il soprascritto discorso, quanto credito
acquistasse la Nobiltà con la Plebe per
le dimostrazioni fatte in benefizio suo, sì
del stipendio ordinato, si ancora del modo
del porre i tributi. Nel quale ordine se
la Nobiltà si fosse mantenuta, si sarebbe
levato via ogni tumulto in quella città, e
sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che
egli avevano con la Plebe, e, per
conseguente, quella autorità. E veramente, non si
può in una repubblica, e massime in quelle
che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso
e più facile, opporsi alla ambizione di
alcuno cittadino, che preoccuparli quelle vie,
per le quali si vede che esso cammina
per arrivare al grado che disegna, li
qual modo se fusse stalo usato contra
Cosimo de’ Medici, sarebbe stato miglior partito
assai per gli suoi avversari, che cacciarlo
da Firenze: perchè, se quelli cittadini che
gareggiavano seco, avessino preso lo stile
suo di favorire il popolo, gli venivano
senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle
arme di che egli si valeva più. SODERINI si
aveva fatto riputazione nella città di
Firenze con questo solo, di favorire
l’universale: il che nello universale gli
dava riputazione, come amatore della libertà
della città. E veramente, a quelli cittadini che
portavano invidia alla grandezza sua, era
molto più facile ed era cosa molto
più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa
per la repubblica, preoccupargli quelle vie
con le quali si faceva grande, che
volere contrapporsegli, acciocché con la
rovina sua rovinasse tutto il resto della
repubblica: perchè, se gli avessero levate
di mano quelle armi con le quali si
faceva gagliardo (il che potevano fare
facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli,
e in tutte le deliberazioni pubbliche, opporsegli
senza sospetto, e senza rispetto alcuno. E se
alcuno replicasse, che se i cittadini che
odiavano Piero, feciono errore a non gli
preoccupare le vie con le quali ei si
guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora
venne a fare errore, a non preoccupare quelle
vie per le quali quelli suoi avversari
lo facevano temere; di’ che Piero merita
scusa, si perchè gli era difficile il
farlo, sì perchè le non erano oneste a
lui : imperocché le vie con le quali
era offeso, ciano il favorire i Medici; con
li quali favori essi io battevano, e alla
fine !o rovinorno. Non poteva, pertanto, Piero onestamente
pigliare questa parte, per non potere
distruggere con buona fama quella libertà
alla quale egli era stato preposto a
guardia : dipoi, non potendo questi favori
farsi segreti e ad uno tratto, erano per
Piero pericolosissimi; perchè comunelle ei si
fusse scoperto amico de’ Medici, sarebbe
diventato sospetto ed odioso al popolo;
donde ai nimici suoi nasceva molto più
comodità di opprimerlo, che non avevano
prima. Debbono, pertanto, gli uomini in
ogni partito considerare i difetti ed i pericoli
di quello, e non gli prendere, quando vi
sia più del pericoloso che dell’ utile ;
nonostante che ne fusse stata data sentenza
conforme alla deliberazion loro. Perchè, facendo
altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli
come intervenne a Tullio; il quale volendo
torre i favori a Marc’ Antonio, gliene
accrebbe. Perchè, sondo Marc’ Antonio stato
giudicalo inimico del Senato, ed avendo
quello grande esercito insieme adunato, in
buona parte, dei soldati che avevano seguitato
la parte di Cesare; Tullio, per torgli
questi soldati, confortò il Senato a dare
riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con lo esercito
e con i Consoli contra a Marc' Antonio: allegando,
che subito che i soldati che seguitavano
Marc’ Antonio, scntissino il nome di
Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva
chiamar Cesare, lascerebbono quello, c si
aceosterebbono a costui ; e così restato Marc’ Antouio ignudo
di favori, sarebbe facile lo opprimerlo. La
qual cosa riuscì tutta al contrario; perchè
Marc’ Antonio si guadagnò Ottaviano; e lasciato
Tullio ed il Senato, si accostò a lui.
La qual cosa fu al tutto la
destruzione della parte degli Ottimati. 11
che era facile a conietturare: nè si doveva
credere quel che si persuase Tullio, ma
tener sempre conto di quel nome che
con tanto gloria aveva spenti i nimici
suoi, ed acquistatosi il principato in
Roma; nè si dovea credere mai potere, o
da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa
che fusse conforme al nome libero. LUI. —
Il popolo molte volte desidera la rovina
sua j ingannato da una falsa spezie di bene
: e come le grandi speranze e gagliarde promesse
facilmente lo muovono. Espugnata che fu la
città de’ Veienti, entrò nel Popolo romano
una oppinione, che fusse cosa utile per
la città di Roma, che la metà
de’ Romani andasse ad abitare a Veio ;
argomentando che, per essere quella città
ricca di contado, piena di edifizii e
propinqua a Roma, si poteva arricchire la
metà de’ cittadini romani, e non turbare
per la propinquità del sito nessuna azione
civile. La qual cosa parve al Senato
ed a’ più savi Romani tanto inutile e
tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere
piuttosto per patire la morte, che
consentire ad una tale deliberazione. In modo che,
venendo questa cosa in disputa, si accese
tanto la Plebe contra al Senato, che
si sarebbe venuto alle armi cd al sangue,
se il Senato non si fusse fatto scudo
di alcuni vecchi e stimati cittadini ; la
riverenza dc’quali frenò la Plebe, che la
non procede più avanti con la sua
insolenza. Qui si hanno a notare due cose.
La prima, che ’l popolo molte volte,
ingannato da una falsa immagine di bene,
desidera la rovina sua ; e se non gli è
fatto capace, come quello sia male, e quale
sia il bene, da alcuno in chi esso
abbia fede, si pone in le repubbliche
infiniti pericoli c danni. E quando la
sorte fu che il popolo non abbi fede
in alcuno, come qualche volta occorre,
sendo stato ingannato per lo addietro o
dalle cose o dagli uomini; si viene alla
rovina di necessità. Ed ALIGHIERI (si veda) dice a
questo proposito, nel discorso suo che fa
De Monarchia > che il popolo molte volte
grida viva la sua morie j C muoia la sua
vita. Da questa incredulità nasce, che
qualche volta in le repubbliche i buoni
partiti non si pigliano : come di sopra
si disse de’ Veneziani, quando assaltati da
tanti inimici non poterono prendere partito
di guadagnarsene alcuno con la restituzione
delle cose tolte ad altri (per le
quali era mosso loro la 'guerra, e fatta
la congiura de’ principi loro contro),
avanti che la rovina venisse. Pertanto,
considerando quello che è facile o quello che è
diffìcile persuadere ad un popolo, si può
fare questa distinzione: o quel che tu hai
a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o
perdita ; o veramente pare partito animoso, o
vile: e quando nelle cose che si mettono
innanzi ai popolo, si vede guadagno, ancora
che vi sia nascosto sotto perdila; e quando
e* paia animoso, ancora che vi sia nascosto
sotto la rovina della repubblica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine: e così fia
sempre difficile persuadere quelli partiti dove
apparisce o viltà o perdita, ancoraché vi fusse
nascosto sotto salute e guadagno. Questo che
io ho detto, si conferma con infiniti
esempi, romani e forestieri, moderni ed
antichi. Perchè da questo nacque la malvagia
opinione che surse in Roma di Fabio
Massimo, il quale non poteva persuadere al
Popolo romano, che fusse utile a quella
Repubblica procedere lentamente in quella guerra, e
sostenere senza azzuffarsi V impeto di Annibaie;
perchè quel Popolo giudicava questo partito
vile, c non vi vedeva dentro quella utilità
vi era ; nè Fabio aveva ragioni bastanti a
dimostrarla loro: c tanto sono i popoli
accecati in queste oppinioni gagliarde, che
benché il Popolo romano avesse fatto quello
errore di dare autorità al Maestro de’
cavalli di Fabio di potersi azzuffare,
ancora che Fabio non volesse; e che per
tale autorità il campo romano fusse per
esser rotto, se Fabio con la sua
prudenza non vi rimediava; non gli bastò
questa esperienza, che fece dipoi consolo VARRONE
(si veda), non per altri suoi meriti che
per avere, per tutte le piazze e tutti i
luoghi pubblici di Roma, promesso di
rompere Annibaie, qualunque volta gliene fusse
data autorità. Di che ne nacque la
zuffa e rotta di Canne, e presso che
la rovina di Roma. Io voglio addurre a
questo proposito ancora uno altro essempio
romano. Era stato Annibaie in Italia otto o
dieci anni, aveva ripieno di occhione de’
Romani tutta questa provincia, quando venne
in Senato Marco Centenio Penula, uomo
vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado
nella milizia), ed offersegli, che se gli
davano autorità di potere fare esercito di
uomini volutitari in qualunque luogo
volesse in Italia, ei darebbe loro, in
brevissimo tempo, preso o morto Annibaie. Al
Senato parve la domanda di costui
temeraria; nondimeno ei pensando che s’ ella
se gli negasse, e nel popolo si fusse
dipoi sapula la sua chiesta, che non
ne nascesse qualche tumulto, invidia e mal
grado contro all’ordine senatorio, gliene
concessono : volendo più tosto mettere a pericolo
tutti coloro che lo seguitassino, che fare surgere
nuovi sdegni nel Popolo; sappiendo quanto
simile partito fusse per essere accetto, e
quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò,
adunque, costui con una moltitudine inordinata
ed incomposita a trovare Annibaie; e non gli
fu prima giunto all* incontro, che fu con
tutti quelli che lo seguitavano rotto e
morto. In Grecia, nella città di Atene, non
potette mai Nicia, uomo gravissimo e
prudentissimo, persuadere a quel popolo, che non
fusse bene andare ad assaltare Sicilia:
talché, presa quella deliberazione contra alla
voglia de’ savi, ne seguì al tutto la
rovina di Atene. Scipione quando fu fatto
consolo, e che desiderava la provincia di
Affrica, promettendo al tutto la rovina di
Cartagine; a che non si accordando il Senato per
la sentenza di Fabio Massimo, minacciò di
proporla nel Popolo, come quello clic
conosceva benissimo quanto simili deliberazioni
piaccino a’ popoli. Potrebbesi a questo proposito
dare esempi della nostra città : come fu
quando messere Ercole Bentivogli, governadore delle
genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini,
poiché ebbono rotto llartolommeo d’ Alviano a
San Vincenti, andarono a campo a Pisa ; la
qual impresa fu deliberata dal popolo in
su le promesse gagliarde di messcr Ercole, ancora
che molti savi cittadini la biasimassero:
nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti da
quella universale volutila, la qual era
fondata in su le promesse gagliarde del
governadore. Dico, adunque, come non è la
più facile via a fare rovinare una
repubblica dove il popolo abbia autorità,
che metterla' in imprese gagliarde : perchè, dove
il popolo sia di alcuno momento, sempre
fieno accettale; nè vi arà, chi sarà
d’ altra
oppinione, alcuno rimedio. Ma se di questo
nasce la rovina della città, ne nasce ancora,
e più spesso, la rovina particolare de*
cittadini che sono preposti a simili
imprese : perchè, avendosi il popolo presupposto
la vittoria, eomee’vienc la perdita, non ne
accusa nè la fortuna, nè la impotenza
di chi ha governato, ma la tristizia e
la ignoranza sua; e quello il più
delle volte o ammazza, o imprigiona, o confina:
come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi,
ed a molti Ateniesi. Nè giova loro alcuna
vittoria che per lo addietro avessino
avuta, perchè tutto la presente perdita
cancella : come intervenne ad Antonio Giacomini nostro,
il quale non avendo espugnata Pisa, come
il popolo aveva presupposto ed egli
promesso, venne in tanta disgrazia popolare,
che non ostante infinite sue buone opere
passate, visse più per umanità di coloro
che ne avevano autorità, che per alcun’
altra cagione che nel popolo lo difendesse. liv#
— Quanta autorità abbia uno uomo grande a
frenare una moltitudine concitata. Il secondo
notabile sopra il testo nel superiore
capitolo allegato, è, che veruna cosa è
tanto atta a frenare una moltitudine concitata,
quanto è la riverenza di qualche uomo grave
e di autorità, che se le faccia incontro j
nè senza cagione dice VIRGILIO (si veda): “Tutn
vietate graverà ac meritis si forte virum Conspexere
, sileni , arrectisque aur^®n^ci* Per tanto, quello
che è proposto a uno esercito, o quello che
si trova in una città, dove nascesse tumulto,
debbe rappresentarsi in su quello con maggior grazia
e piu onorevolmente che può, mettendosi intorno
le insegne di quel grado che tiene,
per farsi più reverendo. Era, pochi anni
sono, Firenze diviso in due fazioni,
Fratesche ed Arrabbiate, che cosi si
chiamavano; e venendo ali’ arme, ed essendo
superati i Frateschi, intra i quali era
Pagolantonio Soderini, assai in quelli tempi
riputato cittadino; cd andandogli
in quelli tumulti il popolo armato a casa per
saccheggiarla; messer Francesco suo fratello,
allora vescovo di Volterra, ed oggi
cardinale, si trovava a sorte in casa : il
quale, subito sentito il romore e veduta la
turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e
di sopra il rocchetto episcopale, si fece
incontro a quelli armati, e con la persona e
con le parole gli fermò ; la qual
cosa fu per tutta la città per molti
giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque,
come e’ non è il più fermo nè il più
necessario rimedio a frenare una moltitudine
concitata, che la presenza d’ uno uomo
che per presenza paia e sia reverendo.
Vedesi, adunque, per tornare al preallegato
testo, con quanta ostinazione la Plebe romana accettava
quel partito d’ andare a Yeio, perchè Io
giudicava utile, nè vi conosceva sotto
il danno vi era ? e come nascendone assai
tumulti, ne sarebbero nati scandali, se il
Senato con uomini gravi e pieni di
riverenza non avesse frenato il loro furore. lv.
— Quanto facilmente si conduellino le cose
in quella città dove la moltitudine non è
corrotta: e che dove è e qualità , non si può
fare principato / e dove la non èj non si può
far repubblica. Ancora clie di sopra si
sia discorso assai quello sia da temere o
sperare delle città corrotte; nondimeno non mi pare
fuori di proposito considerare una deliberazione
del Senato circa il voto ehe Cammillo
aveva fatto di dare la decima parte
ad Apolline della preda de’ Veienti : la
qual preda sendo venuta nelle mani della
Plebe romana, nè se ne potendo altrimenti
riveder conto, fece il Senato uno editto,
che ciascuno dovesse rappresentare al
pubblico la decima parte di quello gli
aveva predalo. E benché tale deliberazione non
avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso
altro modo, c per altra via satisfatto ad Àpolliue
in satisfazione della Plebe; nondimeno si
vede per tali deliberazioni quanto quel
Senato confidasse nella bontà di quella, e
come e’ giudicava che nessuno fusse per
non rappresentare appunto tutto quello che
per tale editto gli era comandato. E dall’
altra parte si vede, come la Plebe
non pensò di fraudare in alcuna parte
lo editto con il dare meno che non
doveva, ma di liberarsi da quello con
il mostrarne aperte indignazioni. Questo
essempio, con molti altri che di sopra
si sono addotti, mostrano quanta bontà e
quanta religione fusse in quel Popolo, e
quanto bene fusse da sperare di lui. E
veramente, dove non è questa bontà, non si
può sperare nulla di bene; come non
si può sperare nelle provincic che in
questitempi si veggono corrotte: come è la Italia
sopra tutte le altre; ed ancora la Francia
di tale corruzione ritengono parte. E se in
quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni di,
deriva non tanto dalla bontà de' popoli,
la quale ìh buona parte è mancata; quanto
dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non
solamente per la virtù sua, ma per l’ordine
di quelli regni, che ancora non sono
guasti. Vedesi bene nella provincia della
Magna, questa bontà e questa religione ancora
in quelli popoli esser grande; la qual
fa che molte repubbliche vi vivono libere,
ed in modo osservano le loro leggi,
che nessuno di fuori nè di dentro
ardisce occuparle. E che sia vero che in
loro regni buona parte di quella antica
bontà, io nc voglio dare uno essempio
simile a questo detto di sopra del Senato e
della Plebe romana. Usano quelle repubbliche,
quando gli occorre loro bisogno di avere a
spendere alcuna quantità di danari per
conto pubblico, che quelli magistrati o consigli
che ne hanno autorità, ponghino a tutti
gli abitanti della città uno per cento, o
dua, di quello che ciascuno ha di valsente.
E fatta tale deliberazione secondo 1’ ordine
della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi
agli esecutori di tale imposta; e, preso
prima il giuramento di pagare la
conveniente somma, getta in una cassa a ciò
deputata quello clic secondo la conscienza
sua gli pare dover pagare: del qual
pagamento non è testimonio alcuno, se non
quello che paga. Donde si può conictturare,
quanta bontà e quanta religione sia ancora in quelli
uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi
la vera somma: perchè, quando la non
si pagasse, non pitterebbe la imposizione
quella quantità che loro disegnassero secondo
le antiche che fussino usitate riscuotersi; e non
gitlando, si conoscerebbe la fraude; e
conoscendosi, arebbon preso altro modo che
questo. La quale bontà è tanto più da
ammirare in questi tempi, quanto ella è più
rara : anzi si vede essere rimasa
sola in quella provincia. Il che nasce
da due cose : Y una, non avere avuti
commerzi grandi co’ vicini; perchè nè quelli
sono ili a casa loro, nè essi sono
iti a casa altrui; perchè sono stati
eontenli di quelli beni, e vivere di quelli
cibi, vestire di quelle lane che dà il
paese: d’onde è stata tolta via la cagione
d’ogni conversazione, ed il principio di
ogni corruttela; perchè non hanno possuto
pigliare i costumi nè franciosi nè spagnuoli
nè italiani, le quali nazioni tutte insieme
sono la corruttela del mondo. L’ altra
cagione è, che quelle repubbliche dove si è
mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non
sopportano che alcuno loro cittadino nè sia
nè viva ad uso di gentiluomo: anzi
mantengono infra loro una pari equalità, ed
a quelli signori e gentiluomini che sono in
quella provincia, sono inimicissimi ; c se per
caso alcuni pervengono loro nelle mani,
come priacipi di corruttela e cagione di
ogni scandalo, gli ammazzano. E' per chiarire questo
nome di gentiluomini quale e’ sia. dico
che gentiluomini sono chiamali quelli che
ociosi vivono de’ proventi delle loro
possessioni abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare, o di alcuna altra
necessaria fatica a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni repubblica ed in
ogni provincia; ma più perniciosi sono
quelli che, oltre alle predette fortune,
comandano a ca- stella, ed hanno sudditi che ubbidiscono
a loro. Di queste due sorti di uomini ne
sono pieni il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui
nasce che in quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica, nè alcuno vivere
politico; perchè tali generazioni di uomini
sono al tutto nemici di ogni civiltà.
Ed a volere in provincie fatte in simil
modo introdurre una repubblica, non sarebbe
possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno ne fusse
arbitro, non arebbe altra via che farvi
un regno. La ragione è questa, che dove è
tanto la materia corrotta che le leggi
non bastino a frenarla, vi bisogna ordinare
insieme con quelle maggior forza ; la quale
è una mano regia, che con la potenza
assoluta ed eccessiva ponga freno alla
eccessiva ambizione e corruttela de’ potenti.
Verificasi questa ragione cou lo esempio di Toscana
: dove si vede in poco spazio di
terreno stale longamente tre repubbliche,
Firenze, Siena e Lucca ; e le altre città
di quella provincia essere in modo serve,
che, con l’ animo e con T ordine, si vede o
che le mantengono, o che le vorrebbono
mantenere la loro libertà. Tutto è nato per
non essere in quella provincia alcun
signore di castella, c nessuno o pochissimi
gentiluomini ; ma esservi tanta equalità, che facilmente
da uno uomo prudente, e che
delle antiche civilità avesse cognizione, vi
si introdurrebbe un viver civile. Ma lo
infortunio suo è stato tanto grande, che
infino a questi tempi non ha sortito alcuno
uomo che lo abbia potuto o saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa
conclusione: che colui che vuole fare dove
sono assai gentiluomini una repubblica, non la
può fare se prima non gli spegne
tutti: e che colui che dove è assai
equalità vuole fare uno regno o uno
principato, non lo potrà mai fare se
non trae di quella «qualità molti di
animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in nome,,
donando loro castella e possessioni, c dando loro
favore di sustanze e d’uomini ; acciocché, posto
in mezzo di loro, mediante quelli mantenga
la sua potenza ; cd essi, mediante quello,
la loro ambizione; e gli altri siano
constretti n sopportare quel giogo che la
forza, e non altro mai, può far sopportare
loro. Ed essendo per questa via
proporzione da chi sforza a chi è sforzato,
stanno fermi gli uomini ciascuno nello
ordine loro. E perchè il fare d’ una
provincia atta ad essere regno una
repubblica, c d’ una atta ad essere repubblica
farne un regno, è materia da uno uomo
che per cervello e per autorità sia raro;
sono stati molti che Io hanno voluto
fare, e pochi che lo abbino saputo
condurre. Perchè la grandezza della cosa parte sbigottisce
gli uomini, parte in modo gli ’mpedisce,
che ne’ primi principii mancano. Credo che a
questa mia oppiatone, che dove sono
gentiluomini non si possa ordinare repubblica,
parrà contraria la esperienza della Repubblica veneziana,
nella quale non usano avere alcuno grado
se non coloro che sono gentiluomini. A che
si risponde, come questo essempio non ci
fa alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella
Repubblica sono piu in nome che in
fatto; perchè loro non hanno grandi entrate
di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi
fondate in sulla mercanzia e cose mobili; e
di più, nessuno di loro tiene castella, o
ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini:
ma quel nome di gentiluomo in loro è
nome di degnila e di riputazione, senza essere fondato
sopra alcuna di quelle cose che fa
che nell’ altre città si chiamano i gentiluomini.
E come le altre repubbliche hanno tutte le
loro divisioni sotto vari nomi, così
Vinegia si divide in gentiluomini e popolari ; e
vogliono che quelli abbino, ovvero possino
avere, tutti gli onori; quelli altri ne
sieno al tutto esclusi. Il che non fa
disordine in quella terra, per le ragioni
altra volta dette. Gonstituisca, adunque, una
repubblica colui dove è, o è fatta una
grande egualità; ed alP incontro ordini un
principato dove è grande inequalità : altrimenti farà
cosa senza propprzione, e poco durabile. LYI. — Innanzi che
segnino i grandi accidenti in una città o
in una provincia , vengono segni che gli
pròìioslicanOj o uomini che gli predicono. Donde
e* si nasca io non so, ina si vede
pei* gli antichi e per gli moderni essempi,
che mai non venne alcuno grave accidente
in una città o in una provincia, che
non sia stato, o da indovini o da
revelazioni o da prodigi, o da altri segni
celesti, predetto. E per non mi discostare
da casa nei provare questo, saciascuno
quanto da frate Girolamo Savonarola fusse
predetta innanzi la venuta del re Carlo
Vili di Francia in Italia; e come, olirà
di questo, per tutta Toscana si disse
esser sentite in aria e vedute genti d’
arme, sopra Arezzo, che si azzuffavano
insieme. Sa ciascuno olirà di questo, come
avanti la morte di Lorenzo de’ Medici
vecchio fu percosso il duomo nella sua
più alta parte con una saetta celeste,
con l'ovina grandissima di quello edilìzio.
Sa ciascuno ancora,, come poco innanzi che
Soderini, quale era stato fatto gonfaloniere a
vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo
del suo grado, fu il palazzo medesimamente
da un fulgore percosso. Potrcbbesi, olirà
di questo, addurre più essempi, i quali per
fuggire il tedio lascerò. Narrerò solo
quello che L., innanzi alla venuta
de’ Franciosi in Roma : cioè, come uno
Marco Cedizio plebeio, riferì al Senato avere udito
di mezza notte, passando per la Via
Nuova, una voce maggiore che umana, la
quale lo ammoniva che riferisse ai
magistrati, come i Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo credo sia da essere
discorsa ed interpretata da uomo che abbia
notizia delle cose naturali e soprannaturali: il
che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere
che, sendo questo aere, come vuole alcuno
filosofo, pieno d’ intelligenze ; le quali per
naturale virtù prevedendo le cose future, ed
avendo compassione agli uomini, acciò si
possino preparare alle difese, gli avvertiscono
con simili segni. Pure, comunelle si sia,
si vede cosi essere la verità; e che
sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie. L VII. — La plebe
insieme è gagliarda; di per se è debole. Erano
molti Romani, scudo seguita per la passata
de* Franciosi la rovina della lor patria,
andati ad abitare a Yeio, contea alla
constituzione ed ordine del Senato: il
quale, per rimediare a questo disordine, comandò
per i suoi editti pubblici che ciascuno,
infra certo tempo e sotto certe pene,
tornasse ad abitare a Roma. De’quali editti,
da prima per coloro contea a chi e*
venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando
si appressò il tempo dello ubbidire, tutti
ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole :
Ex fcrocibus universtSj singtili metti suo
obedienfes fuere. E veramente, non si può mostrare
meglio la natura d’ una moltitudine in
questa parte, che si dimostri in questo
testo. Perchè la moltitudine è audace nel
parlare molte volte contra alle deliberazioni
del loro principe; dipoi, come veggono la
pena in viso, non si fidando Y uno
dell’ altro, corrono ad ubbidire. Talché si
vede certo, che di quel che si dica
uno popolo circa la mala o buona
disposizion sua, si debbe tenere non gran
conto, quando tu sia ordinato in modo
da poterlo mantenere, s’ egli è ben disposto; s’
egli è mal disposto, da poter provvedere
che non ti offenda. Questo s’intende per
quelle male disposizioni che hanno i popoli,
nate da qualunque altra cagione, che o per
avere perduto la libertà, o il loro principe stato
amato da loro, e che ancora sia vivo;
perchè le male disposizioni che nascono da
queste cagioni, sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno bisogno di grandi
rimedi a frenarle : 1' altre sue indisposizioni
fieno facili, quando ci non abbia capi a
chi rifuggire. Perchè non ci è cosa, dall’
un canto, più formidabile che una
moltitudine sciolta e senza capo; e, dall’
altra parte, non è cosa più debole :
perchè, quantunque ella abbi 1’ armi in
mano, fia facile ridurla, purché tu abbi
ridotto da potere fuggire il primo impeto;
perchè quando gli animi sono un poco
raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a
tornare a casa sua, cominciano a dubitare di
loro medesimi, e pensare alla salute loro, o con fuggirsi
o con l’accordarsi. Però una moltitudine così
concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha
subito a fare infra sè medesima un capo
che la corregga, tenghila unita e pensi alla
sua difesa ; come fece la Plebe romana,
quando dopo la morte di Virginia si
partì da Roma, e per salvarsi feciono infra
loro venti Tribuni: e non facendo questo,
interviene loro scmj)re quel che dice L.
nelle soprascritte parole, che tutti insieme sono
gagliardi; e quando ciascuno poi comincia a
pensare al proprio pericolo, diventa vile e
debole. LVIIL — ì.a moltitudine è più savia e più
costante che un principe. Nessuna cosa
essere più vana e più inconstante che la
moltitudine: cosi L. nostro, come tutti
gli altri istorici affermano. Perchè spesso
occorre, nel narrare le azioni degli
uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno
a morte, e quel medesimo di poi pianto e
sommamente desiderato: come si vede avere
fatto il Popolo romano di Manlio
Capitolino, il quale avendo CONDENNATO A MORTE,
sommamente dipoi desiderava. E le parole dell*
autore son queste: Populum brevi, posteaquam ab co
periculum nullum eral , dcsidcrium rjus tenuit.
Ed altrove, quando mostra gli accidenti che
nacquero in Siracusa dopo la morte di
Girolamo nipote di Ierone, dice: Hcec
natura mulliludinis est : aut umiliter servii ,
aut superbe domi • natur. Io non so se
io mi prenderò una provincia dura, e piena
di tanta difficoltà, che mi convenga o
abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo
difendere una cosa, la quale, come ho
detto, da tutti gli scrittori è accusata.
Ma, comunehc si sia, io non giudico
nè giudicherò mai essere difetto difendere
alcune oppinioni con le ragioni, senza
volervi usare o la autorità o la forza.
Dico adunque, come di quello difetto di
che accusano gli scrittori la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gli uomini
particolarmente, e massime i principi; perchè ciascuno
che non sia regolato dalle leggi, farebbe
quelli medesimi errori che la moltitudine
sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perchè
e’ sono c sono stati assai principi, e de’
buoni e de’ savi ne sono stati pochi; io
dico de’ principi che hanno potuto rompere
quel freno che gli può correggere; intra i
quali non sono quegli re che nascevano
in Egitto, quando in quella antichissima
antichità si governava quella provincia con
le leggi; nè quelli che nascevano in
Sparta; nè quelli che a’ nostri tempi
nascono in Francia: il quale regno è
moderato più dalle leggi, che alcuno altro
regno di che ne’ nostri tempi si abbi
notizia. E questi re che nascono sotto
tali constituzioni, non sono da mettere
in quel numero, donde si abbia a considerare la
natura di ciascuno uomo per sè, e vedere
se egli è simile alla moltitudine: perchè a
rincontro loro si debbe porre una
moltitudine medesimamente regolata dalle leggi
come sono loro; e si troverà in lei
essere quella medesima bontà che noi
veggiamo essere in quelli, e vedrassi quella
nè superbamente dominare nè umilmente servire:
come era il Popolo romano, il quale
mentre durò la Repubblica incorrotta, non
servì mai umilmente nè mai dominò superbamente; anzi
con li suoi ordini e magistrati tenne il
grado suo onorevolmente. E quando era necessario
insurgerc contra a uno potente, lo faceva;
come si vede in Manlio, ne’ Dieci, ed
in altri che cercorno opprimerla : e quando
era necessario ubbidire a’ Dittatori ed a’
Consoli per la salute pubblica, lo faceva.
E se il Popolo romano desiderava Manlio
Capitolino morto, non è meraviglia; perchè e*
desiderava le sue virtù, le quali erano state
tali, che la memoria di esse recava compassione
a ciascuno; cd arebbono avuto forza di fare
quel medesimo effetto in un principe,
perchè 1* è sentenza di tutti li scrittori,
come la virtù si lauda e si ammira
ancora negli inimici suoi: e se Manlio,
infra tanto desiderio, fusse risuscitato, il
Popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fece, tratto che
lo ebbe di prigione, che poco di poi
lo condennò a morte; nonostante die si
vegga di principi tenuti savi, i quali
hanno fatto morire qualche persona, e poi
sommamente desideratala : come Alessandro, Clito ed altri
suoi amici ; ed Erode, Marianne. Ma quello
che lo istorico nostro dice della natura
della moltitudine, non dice di quella che è
regolata dalle leggi, come era la romana;
ma della sciolta, come era la siracusana:
la quale fece quelli errori che fanno
gli uomini infuriati e sciolti, come fece
Alessandro magno, ed Erode, ne’ casi detti.
Però non è più da incolpare la natura
della moltitudine che de’ principi, perchè tutti
egualmente errano, quando tutti senza rispetto
possono errare. Di che, oltre a quello che ho
detto, ci sono assai essempi, ed intra
gli imperadori romani, ed intra gli altri
tiranni e , principi; dove si vede tanta
incostanza e tanta variazione di vita, quanta
mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo, adunque, contea olla comune oppimene,
la qual dice come i popoli, quando sono
principi, sono vari, mutabili, ingrati;
affermando che in loro non sono altrimente
questi peccati che si siano ne’ principi particolari.
Ed accusando alcuni i popoli ed i principi
insieme, potrebbe dire il vero; ma
traendone i principi, s’inganna; perchè un popolo
che comanda e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti
che un principe, o meglio che un
principe, eziandio stimato savio: e dall’altra
parte, un priucipe sciolto dalle leggi,
sarà ingrato, vario ed imprudente più che
uno popolo. E che la variazione del
procedere loro nasce non dalla natura
diversa, perchè in tutti è ad un modo: e
se vi è vantaggio di bene, è nei popolo;
ma dallo avere più o meno rispetto alle
leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro
vive. E chi considerrà il Popolo romano,
lo vedrà essere stato per quattrocento anni
iuimico del nome regio, ed amatore della
gloria e del bene comune della sua
patria: vedrà tanti essempi usati da lui,
clic testiiuoniauo 1’ una cosa e V altra. £
se alcuno mi allegasse la ingratitudine eh7
egli usò centra a Scipione, rispondo quello die di
sopra lungamente si discorse in questa
materia, dove si mostrò i popoli essere
meno iugraii de’ principi. Ma quanto alla
prudenza ed alla stabilità, dico, come uno
popolo è più prudente, più stabile e di
miglior giudicio che un principe. E uon
senza cagione si assomiglia la voce d7
un popolo a quella di Dio; perchè si
vede una oppinioue universale fare effetti
meravigliosi ne’ pronostichi suoi: talché pare
che per occulta virtù e’ prevegga il suo
male ed il suo bene. Quanto al
giudicare le cose, si vede rarissime volte,
quando egli ode due concionanti che tendino
in diverse parti, quando e’ sono di egual
virtù, che non pigli *ia oppinione
migliore, e che non sia capace di quella
verità ch’egli ode. £ se nelle cose
gagliarde, o che paiano utili, come di
sopra si dice, egli erra ; molte volte
erra ancora uri principe nelle sue proprie
passioni, le quali sono molle più che
quelle de’ popoli. Yedesi ancora, nelle sue
elezioni ai magistrati, fare di lunga
migliore elezione che uno principe; nè mai
si persuaderà ad un popolo, che sia
bene tirare alla degnila uno uomo infame e
di corrotti costumi: il che facilmente e
per mille vie si persuade ad un principe.
Yedesi un popolo cominciare ad avere in
orrore una cosa, e molti secoli stare in
quella oppinione: il che non si vede
in uno principe. E dell’ una e dell’
altra di queste due cose voglio mi
basti per testimone il Popolo romano: il
quale, in tante centinaia d’anni, in tante
elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece
quattro elezioni di che quello si avesse a
pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto
in odio il nome regio, che nessuno obbligo
di alcuno suo cittadino, che tentasse quel
nome, potette fargli fuggire le debite
pene. Yedesi, oltra di questo, le città
dove i popoli sono principi, fare in
brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che
quelle che sempre sono state sotto un
principe ! come fece Roma dopo la cacciata
de’ re, ed Atene da poi che la si
liberò da Pisistrato. 11 che non può nascere
da altro, se non che sono migliori
governi quelli de* popoli che quelli de*
principi. Nè voglio che si opponga a questa
mia oppinione tutto quello che lo istorico
nostro ne dice nel preallcgato testo, ed
in qualunque altro; perchè, se si
discorreranno tutti i disordini de’popoli, tutti
i disordini de* principi, tutte le glorie
de* popoli, tutte quelle de’ principi, si
vedrà il popolo di bontà e di gloria
essere di lunga supcriore. E se i principi
sono superiori a* popoli nello ordinare
leggi, formare vite civili, ordinare statuti
ed ordini nuovi ; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate,
eh’ egli aggiungono senza dubbio alla
gloria di coloro che l’ordinano. Ed in
somma, per epilegare questa materia, dico
come hanno durato assai gli stati de’
principi, hanno durato assai gli stati
delle repubbliche, e l’uno e l’ altro ha
avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi :
perchè un principe che può fare ciò
che vuole, è pazzo; un popolo che può
fare ciò che vuole, non è savio. Se,
adunque, si ragionerà d' un principe obbligato
alle leggi, ed’ un popolo incatenalo
da quelle, si vedrà più virtù nel
popolo che nel principe: se si ragionerà
dell’ uno e dell’altro sciolto, si vedrà • meno
errori nel popolo che nei principe; e
quelli minori, ed aranno maggiori rimedi.
Perchè ad un popolo licenzioso e tumultuario, gli
può da un uomo buono esser parlato, e
facilmente può essere ridotto nella via buona
: ad un principe cattivo non è alcuno che
possa parlare, nè vi è altro rimedio che
il ferro. Da che si può far coniettura
della importanza della malattia dell’uno e
dell’altro: chè se a curare la malattia del
popolo bastano le parole, ed a quella del
principe bisogna il ferro, non sarà mai
alcuno che non giudichi, che dove bisogna
maggior cura, siano maggiori errori. Quando
un popolo è bene sciolto, non si temono
le pazzie che quello fa, nè si ha
paura del mal presente, ma di quello
che ne può nascere, potendo nascere infra
tanta confusione un tiranno. Ma ne’ principi
tristi interviene il contrario: che si teme il
male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi
gli uomini che la sua cattiva vita
possa far surgere una libertà. Sì che
vedete la differenza dell’ uno e dell’
altro, la quale è quanto dalle cose che
sono, a quelle che hanno ad essere. Le
crudeltà della moltitudine sono contra a
chi ei temono clic occupi il ben comune
: quelle d’ un principe sono contro a chi
ci temono che occupi il bene proprio.
Ma la oppiti ione contro ai popoli
nasce perchè de’ popoli ciascuno dice male
senza paura e liberamente, ancora mentre che
regnano: de’ principi si parla sempre con
mille paure e mille rispetti. Nè mi pare
fuor di proposito, poiché questa materia mi
vi tira, disputare nel seguente capitolo di
quali confederazioni altri si possa più
fidare, o di quelle falle con una
repubblica, o di quelle fatte con ui>
principe. LIX. — Di quali confederazioni , o lega,
altri si può più fidare ; o di quella
fatta con una repubblica , o di quella fatta
con uno principe. Perchè ciascuno dì
occorre che P uno principe con l’altro, o V
una repubblica con l’altra, fanno lega ed
amicizia insieme ; ed ancora similmente si
contrae confederazione ed accordo intra una
repubblica ed uno principe mi pare di esaminare
qual fede è più stabile, e di quale si
debba tenere più conto, o di quella d’
una repubblica, o di quella d’ uno principe,
lo, esaminando tutto, credo che in molti
casi e’ siano simili. ed in alcuni vi
sia qualche disformità. Credo per tanto,
che gli accordi fatti per forza non
ti saranno nè da un principe nè da
una repubblica osservali; credo che quando
la paura dello stato venga, l'uno e l'altro,
per non lo perdere, ti romperà la
fede, e ti userà ingratiludine. Demetrio,
quel che fu chiamato espugnatore delle
cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti
benefici! : occorse dipoi, che sendo rotto da’
suoi inimici, e rifuggendosi in Atene, come
in città amica ed a lui obbligata, non
fu ricevuto da quella : il che gli
dolse assai più che non aveva fatto
la perdita delle genti e dello esercito
suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare
in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a
Tolomeo, il quale era per lo addietro
da lui stato rimesso nel regno; e fu
da lui morto. Le quali cose si vede che
ebbero le medesime cagioni; nondimeno fu
più umanità usata e meno •ingiuria dalla
repubblica, che dal principe. Dove è,
pertanto, la paura, si troverà in
fallo la medesima fede. E se si troverà o
una repubblica o uno principe, che per
osservarti la fede aspetti di rovinare, può
nascere questo ancora da simili cagioni. E
quanto al principe, può molto bene
occorrere che egli sia amico d’ un
principe potente, che se bene non ha
occasione allora di difenderlo, ei può
sperare che col tempo e* lo restituisca
nel principato suo; o veramente che, avendolo
seguito come partigiano, ei non creda
trovare nè fede nè accordi con il
nimico di quello. Di questa sorte sono
stati quelli principi del reame di Napoli
che hanno seguite le parti franciose. E
quanto alle repubbliche, fu di questa sorte
Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina
per seguire le parti romane; e di questa
Firenze, per seguire nel 4512 le parti franciose.
E credo, computata ogni cosa, che in questi
casi, dove è il pericolo urgente, si
troverà qualche stabilità più nelle repubbliche,
che ne’ principi. Perche, sebbene le
repubbliche avessino quel medesimo animo e quella
medesima voglia che un principe, lo avere
il moto loro tardo, farà che le
porranno sempre più a risolversi che il
principe, e per questo porranno più a
rompere la fede di lui. Romponsi le
confederazioni per lo utile. In questo le
repubbliche sono di lunga più osservanti
degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre
essempi, dove uno miuinio utile ha fatto
rompere la fede ad uno principe, e dove
una grande utilità non ha fatto rompere
la fede ad una repubblica : come fu
quello partito che propose Temistocle agli
Ateniesi, a’ quali nella conclone disse che
aveva uno consiglio da fare alla loro
patria grande utilità ; ma non lo poteva
dire per non lo scoprire, perchè
scoprendolo si toglieva la occasione del
farlo. Onde il popolo di Atene elesse
Aristide, al quale si comunicasse la cosa,
e secondo dipoi che paresse a lui se
ne deliberasse: al quale Temistode mostrò
come I* armata di tutta Grecia, ancora
che stesse sotto la fede loro, era in
lato che facilmente si poteva guadagnare o
distruggere; il che faceva gli Ateniesi al
tutto arbitri di quella provincia. Donde
Aristide riferì ai popolo, il partito di
Temistocle essere utilissimo, ma disonestissimo :
per la qual cosa il popolo al tutto
lo ricusò. II che non arebbe fatto
Filippo Macedone, e gli altri principi che
più utile hanno cerco e più guadagnato con
il rompere la fede, che con verun
altro modo. Quanto a rompere i patti per
qualche cagione di inosservanza, di questo
io non parlo come di cosa ordinaria;
ma parlo dì quelli che si rompono per
cagioni istrasordinarie: dove io credo, per
le cose (lette, che il popolo facci
minori errori che il principe, e per questo
si possa Fidar più di lui che del
principe. LX. — Come il consolato e qualungue
altro magistrato in Roma si (lava senza
rispetto di età. E’ si vede per V
ordine della istoria, come la Repubblica
romana, poiché ’i consolato venne nella
Plebe, concesse quello ai suoi cittadini
senza rispetto di età o di sangue; ancora
cbe il rispetto della età mai non
fusse in Roma, ma sempre si andò a
trovare la virtù, o in giovane o in vecchio
cbe la fusse. Il che si vede per
il testimone di Valerio Corvino, che fu
fatto Consolo nell! Ventitré anni: e Valerio
detto, parlando ai suoi soldati, disse come
il consolato crai prcetnium virfulisj, non
sanguinis. La qual cosa se fu bene
considerata, o no, sarebbe da disputare assai. E
quanto al sangue, fu concesso questo per
necessità ; e quella necessità che fu in
Roma, sarebbe in ogni città che volesse
fare gli effetti che fece Roma, come
altra volta si è detto: per- i! chè
e’ non si può dare agli uomini
disagio senza premio, nè si può torre la
SPERANZA di conseguire il premio senza pericolo.
E però a buona ora convenne che la Plebe avesse
speranza di avere il consolato ; e di
questa SPERANZA si nutrì un tempo senza
averlo. Dipoi non bastò la speranza, che e’
convenne che si venisse allo effetto. Ma
la città che non adopera la sua plebe
ad alcuna cosa gloriosa, la può trattare a
suo modo, come altrove si disputò: ma
quella elle vuole fare quel che fe
Roma, non ha a fare questa distinzione. E
dato che così sia, quella del tempo
non ha replica ; anzi è necessaria : perchè
nello eleggere uno giovane in uno grado
che abbi bisogno d’ una prudenza di
vecchio, conviene, avendovelo ad eleggere la
moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire
qualche sua nobilissima azione. E quando un
giovane è di tanta virtù, che si sia
fatto in qualche cosa notabile conoscere ;
sarebbe cosa dannosissima che la città non
se «e potesse valere allora, e che la
avesse ad aspettare che fusse invecchiato
con lui quel vigore deir animo, quella
prontezza, della quale in quella età la
patria sua si poteva valere : come si
valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione,
di Pompeio e di molti altri che trionfarono
giovanissimi. Laudano sempre gli uomini, ma noti sempre
ragionevolmente, gli antichi tempi, e gli
presenti accusano: ed in modo sono delle
cose passate partigiani, che non solamente
celebrano quelle etadi che da loro sono
state, per la memoria che ne hanno
lasciata gli scrittori, conosciute ; ma quelle
ancora che, sendo già vecchi, si ricordano
nella loro giovanezza avere vedute. E quando
questa loro oppinionc sia falsa, come il
più delle volte è, mi persuado varie essere
le cagioni che a questo inganno gli
conducono. E la prima credo sia, che delle cose
antiche non s’intenda al tutto lu verità; e
che di quelle il più delle vollesi
nasconda quelle cose che recherebbono a
quelli tempi infamia; e quelle altre che
possono partorire loro gloria, si remlino
magnifiche ed amplissime. Però che i più
degli scrittori in modo * alla fortuna
de’ vincitori ubbidiscono, che per fare le
loro vittorie gloriose, non solamente accrescono
quello che da loro è virtuosamente operato,
ma ancora le azioni de’ nimici in
modo illustrano, che qualunque nasce dipoi in qualunque
delle due provincie, o nella vittoriosa o nella
vinta, ha cagione di maravigliarsi di
quelli uomini e di quelli tempi, ed è
forzato sommamente laudargli ed amargli. Olirà
di questo, odiando gli uomini le cose o
per timore o per invidia, vengono ad essere spente
due potentissime cagioni delP odio nelle
cose passate, non ti potendo quelle offendere,
e non ti dando cagione d’ invidiarle. Ma
al contrario interviene di quelle cose che
si maneggiano e veggono ; le quali, pei* la
intera cognizione di esse, non ti essendo
in alcuna parte nascoste* e conoscendo in quelle
insieme con il bene molte altre cose
che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle
alle antiche molto inferiori, ancora che
in verità le presenti molto più di
quelle di gloria e di fama meritassero:
ragionando non delie cose pertinenti alle
arti, le quali hanno tanta chiarezza in
sè, che i tempi possono torre o dar loro
poco più gloria che per loro medesime
si meritino ; ma parlando di quelle
pertinenti alla vita e costumi degli
uomini, delle quali non se ne veggono
sì chiari testimoni. Replico, pertanto, essere
vera quella consuetudine del laudare e biasimare
soprascritta ; ma non essere già sempre vero
che si erri nel farlo. Perchè qualche
volta è necessario che giudichino la verità ;
perchè essendo le cose umane sempre in
molo, o le salgono, o lescendono. E vedesi
una città o una provincia essere ordinata
al vivere politico da qualche uomo
eccellente; ed, un tempo, per la virtù
di quello ordinatore, andare sempre in
augumento verso il meglio. Chi nasce allora
in tale stato, ed ei laudi più li
antichi tempi che i moderni, s’ inganna ;
ed è causato il suo inganno da quelle
cose che di sopra si sono dette. Ma
coloro che nascono dipoi, in quella città o
provincia, che gli è venuto il tempo
che la scende verso la parte più rea,
allora non s’ ingannano. E pensando io come
queste cose procedino, giudico il mondo
sempre essere stalo ad un medesimo modo,
ed in quello esser stato tanto di
buono quanto di tristo ; ma variare questo
tristo e questo buono di provincia in provincia: come
si vede per quello si ha notizia di quelli
regni antichi che variavano dall’uno all’altro
per la variazione de’ costumi; ma il mondo
restava quel medesimo. Solo vi era questa
differenza, che dove quello aveva prima collocata
la sua virtù in Assiria, la collocò
in Media, dipoi in Persia, tanto che
la ne venne in Italia ed a Roma: e se
dopo 10 imperio romano non è seguito imperio
che sia durato, nè dove il mondo abbia
ritenuta la sua virtù insieme; si vede
nondimeno essere sparsa in di molte nazioni
dove si viveva virtuosamente; come era il
regno de’ Franchi, 11 regno de’ Turchi,
quel del Soldano; ed oggi i popoli della
Magna ; e prima quella setta Saracina che
fece tante gran cose, ed occupò tanto
mondo, poiché la distrusse lo imperio
romano orientale. In tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste
sètte è stata quella virtù, ed è ancora
in alcuna parte di esse, che si desidera,
e che con vera laude si lauda. E chi
nasce in quelle, e lauda i tempi passati
più che i presenti, si potrebbe ingannare;
ma chi nasce in Italia ed in Grecia,
e non sia divenuto o in Italia oltramontano o
in Grecia turco, ha ragione di biasimare i
tempi suoi, e laudare gli altri : perchè in
quelli vi sono assai cose, che gli
fanno meravigliosi ; in questi non è cosa
alcuna che gli ricomperi da ogni estrema
miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di
religione, non di leggi, non di milizia;
ma sono maculati d’ ogni ragione bruttura. E
tanto sono questi vizi più detestabili,
quanto ei sono più in coloro che
seggono prò tribunali, comandano a ciascuno, e
vogliono essere adorati. .Ha tornando al
ragionamento nostro, dico che se il
giudicio degli uomini è corrotto in
giudicare quale sia migliore, o il secolo
presente o l’antico, in quelle cose dove
per l’antichità ei non ha possuto
avere perfetta cognizione come egli ha de’
suoi tempi ; non doverrebbe corrompersi ne’
vecchi nel giudicare i lempi della gioventù
e vecchiezza loro, avendo quelli e questi
egualmente conosciuti e visti. La qual cosa
sarebbe vera, se gli uomini per tutti i
tempi della lor vita l'ussero del medesimo
giudizio, ed avessero quelli medesimi appetiti :
ma variando quelli, ancora che i tempi nou variino,
non possono parere agli uomini quelli
medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti,
altre considerazioni nella vecchiezza, che nella
gioventù. Perchè, mancando gli uomini quando
li invecchiano di forze, e crescendo di giudizio e
di prudenza; è necessario che quelle cose
che in gioventù parevano loro sopportabili e buone,
ineschino poi invecchiando insopportabili e cattive ; e
dove quelli ne doverrebbono accusare il
giudicio loro, ne accusano i tempi. Sendo. ultra
di questo, gli appetiti umani insaziabili,
perchè hanno dalla natura di potere e voler
desiderare ogni cosa, e dalla fortuna di
potere conseguirne poche; ne risulta
continuamente una mala contentezza nelle menti
umane, ed un fastidio delle cose che
si posseggono: il che fa biasimare i
presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i
futuri ; ancora che a fare questo non
fussino mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so,
adunque, se io meriterò d’ essere numerato
tra quelli che si ingannano, se in
questi mia discorsi io lauderò troppo i
tempi degli antichi Romani, e biasimerò i
nostri. E veramente, se la virtù che allora
regnava, ed il vizio che ora regna,
non fussino più chiari che il sole,
andrei col parlare più rattenuto, dubitando
non incorrere in quello inganno di che
io accuso alcuni. Ma essendo la cosa
si manifesta che ciascuno la vede, sarò
animoso in dire manifestamente quello che
intenderò di quelli e di questi tempi;
acciocché gli animi de’ giovani che questi
mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e
prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la
fortuna ne dessi loro occasione. Perchè gli
è offizio di uomo buono, quel bene che
per la malignità de’ tempi e della fortuna
tu non hai potuto operare. insegnarlo nd
altri, acciocché sendone molti capaci, alcuno
di quelli, più amato dal Cielo, possa
operarlo. Ed avendo ne’ discorsi del
superior libro parlato delle deliberazioni fatte
da* Romani pertinenti al di dentro della
città, in questo parleremo di quelle, che
’\ Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello
imperio suo. I. — Quale fu più cagione
dello imperio che acquistarono i Romani , o la
virtùj o la fortuna. Molti hanno avuta
oppinione, intra i quali è Plutarco, gravissimo
scrittore, che ’1 Popolo romano nello acquistare lo
imperio fusse più favorito dalla fortuna
che dalla virtù. Ed intra le altre ragioni
che ne adduce, dice che per confessione
di quel popolo si dimostra, quello avere
riconosciute dalla fortuna tutte le sue
vittorie, avendo quello edificati più templi
alla Fortuna, che ad alcun altro Dio. E
pare che a questa oppinione si accosti
Livio; perchè rade volte è che facci
parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti
della virtù, che non vi aggiunga la
fortuna. La qual cosa io non voglio
confessare in alcun modo, nè credo ancora
si possa sostenere. Perchè, se non si è
trovato mai repubblica che abbi fatti i
progressi che Roma, è nato che non si è
trovata mai repubblica che sia stata
ordinata a potere acquistare come Roma. Perchè la
virtù degli eserciti gli feciono acquistare
Io imperio; e l’ordine del procedere, ed il
modo suo proprio, e trovato dal suo primo
legislatore, gli fece mantenere lo acquistato:
come di sotto largamente in più discorsi
si narrerà. Dicono costoro, che non avere
mai ac*» cozzate due potentissime guerre in
uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù
del Popolo romano ; perchè e’ non ebbero
guerra con i Latini, se non quando egli
ebbero non tanto battuti i Sanniti, quanto
che la guerra fu da* Romani fatta in
difensione di quelli ; non combatterono con i
Toscani, se prima non ebbero soggiogati i
Latini, ed enervati con le spesse rotte
quasi in tutto i Sanniti: che se due
di queste potenze intere si fussero, quando
erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio
si può facilmente conietturare che ne sarebbe seguito
la rovina della romana Repubblica. Ma,
comunelle questa cosa nascesse, mai non
intervenne che eglino avessino due potentissime
guerre in un medesimo tempo: anzi parve
sempre, o nel nascere dell’ una, l’altra si
spegnesse; o nel spegnersi dell’ una, l’altra nascesse.
11 che si può facilmente vedere per T
ordine delle guerre fatte da loro: perchè,
lasciando stare quelle che feciono prima
che Roma fusse presa dai Franciosi, si
vede che, mentre che combatterno con gli
Equi e con i Volsci, mai, mentre questi
popoli furono potenti, non si levarono
contro di lor uitre genti. Domi costoro,
nacque la guerra contea ai Sanniti; e
benché innanzi che finisse tal guerra i popoli latini
si ribellassero da’ Romani, nondimeno quando
tale ribellione segui, i Sanniti erano in
lega con Roma, e con il loro esercito
aiutorono i Romani domare la insolenza latina. I
quali domi, risurse la guerra di Sannio.
Battute per molte rotte date a’ Sanniti
le loro forze, nacque la guerra de’
Toscani; la qual composta, si rilevarono di
nuovo i Sanniti per la passata di Pirro
in Italia. Il quale come fu ribattuto, e
rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con
i Cartaginesi: nè {ìrima fu tal guerra
finita, che tutti i Franciosi, e di là e di
qua dall’ Alpi, congiurarono conti a i Romani;
tanto che intra Popolonia e Pisa, dove è
oggi la torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa guerra,
per ispazio di venti anni ebbero guerra
di non molta importanza; perchè non
eombatterono con altri che con i Liguri, c
con quel rimanente de’ Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero tanto che nacque
la seconda guerra cartaginese, la qual per
sedici anni tenne occupata Italia. Finita
questa con massima gloria, nacque la guerra
macedonica ; la quale tìnita, venne quella d’
Antioco e d’ Asia. Dopo la qual vittoria,
non restò in tutto il mondo nè
principe nè repubblica che, di per sè, o
tutti insieme, si potessero opporre alle
forze romane. Ma innanzi a quella ultima
vittoria, chi considerrà l’ ordine di queste
guerre, ed il modo del . procedere loro,
vedrà dentro mescolate con la fortuna una
virtù e prudenza grandissima. Talché, chi
esaminasse la cagione di tale fortuna, la
ritroverebbe facilmente: perchè gli è cosa certissima,
che come un principe e un popolo viene
in tanta riputazione, che ciascuno principe e
popolo vicino abbia di per sè paura
ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d essi mai lo assalterà,
se non necessitato ; in modo che e’
sarà quasi come nella elezione di quel
polente, far guerra con quale di quelli
suoi vicini gli parrà, e gii altri con
la sua industria quietare. I quali, parte
rispetto alla potenza suo, parte ingannati
da quei modi che egli terrà per
nddormentargli, si quietano facilmente; e gli
altri potenti che sono discosto, e che non
hanno coinmerzio seco, curano la cosa come cosa
longinqua, e che non appartenga loro. Nel
quale errore stanno tanto che questo
incendio venga loro presso : il quale
venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se
non con le forze proprie; le quali
dipoi non bastano, sendo colui diventato
potentissimo. Io voglio lasciare andare, come i
Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo
romano i Yolsci e gli Equi; e per non
essere troppo prolisso, mi farò da’ Cartaginesi
: i quali erano di gran potenza c di grande
estimazione quando i Romani combattevano con i Sanniti
e con i Toscani ; perchè tii già tenevano
tutta 1’ Affrica, tenevano ia Stintigna e
la Sicilia, avevano dominio in parte della
Spagna. La quale polenza loro, insieme
con V esser discosto ne’ confini dal Popolo
romano, fece che non pensarono mai di
assaltare quello, nè di soccorrere i Sanniti e
Toscani: anzi fecero come si fa nelle
cose che crescono, più tosto in lor
favore collegandosi con quelli, e cercando l’amicizia
loro. Nè si avviddono prima del1’
errore fatto, che i Romani, domi tutti i
popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi,
cominciarono a combattere insieme dello imperio
di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a’ Franciosi che a’ Cartaginesi, e cosi
a Filippo re de’ Macedoni, e ad Antioco; e ciascuno di
loro credea, mentre che il Popolo romano
era occupato con l’altro, che quell’ altro
lo superasse, ed essere a tempo, o con
pace o con guerra, difendersi da lui. In
modo che io credo che la fortuna che
ebbono in questa parte i Romani, 1’
arebbono tutti quelli principl che
procedessero come i Romani, c fussero di
quella medesima virtù che loro. Sarebbeci
da mostrare a questo proposito il modo
tenuto dal Popolo romano nello entrare
nelle provincie d’ altri, se nei nostro
trattato de’ principati non ne avessimo
parlato a lungo ; perchè in quello questa
materia è diffusamente disputata. Dirò solo
questo brevemente, come sempre s’ingegnarono avere
nelle provincie nuove qualche amico che
fusse scala o porta a salirvi o entrarvi, o
mezzo a tenerla : come si vede che per.
il mezzo de’ Capovani entrarono in Sannio, de’
Camertini in Toscana, de’ Mamertini in
Sicilia, de’ Saguntini in Spagna, di
Massinissa iti Affrica, degli Eloli in
Grecia, di Eumene ed altri principi in Asia,
de’ Massiliensi e deili Edui in Francia. E così
non mancarono mai di simili appoggi, per
potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare
le provincie e nel tenerle. Il che quelli
popoli che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che quelli che ne
saranno non buoni osservatori. E perchè ciascuno possa
meglio conoscere, quanto potè più la virtù
che la fortuna loro ad acquistare quello
imperio ; noi discorreremo nel seguente capitolo
di che qualità furono quelli popoli con i
quali egli ebbero a combattere, e quanto erano
ostinati a difendere la loro libertà. 11. — Con
quali popoli i Romani ebbero a combattere , e come
ostinatamente quelli difendevano la loro libertà. Nessuna
cosa fece più faticoso a* Romani superare i
popoli d* intorno, c parte delle provincie
discosto, quanto lo amore che in quelli
tempi molti popoli avevano alla libertà; la
quale tanto ostinatamente difendevano, che mai
se non da una eccessiva virtù sarebbono
stati * soggiogati. Perchè, per molti essempi si conosce
a quali pericoli si mettessino per mantenere o
ricuperare quella ; quali vendette e’
facessino contra a coloro che V avessino loro
occupata. Conoscesi ancora nelle lezioni
delle istorie, quali danni i popoli e le
città riccvino per la servitù. E dove in
questi tempi ci è solo una provincia la
quale si possa dire che abbia in sè
città libere, ne* tempi antichi in tutte
le provincie erano assai popoli liberissimi.
Vedesi come in quelli tempi de’ quali
noi parliamo al presente, in Italia, dall’
Alpi che dividono ora la Toscana dalla
Lombardia, insino alla punta d’Italia, erano
molti popoli liberi; com’erano i Toscani, i
Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che
in quel resto d’ Italia abitavano. Nè si
ragiona mai che vi fusse alcuno re,
fuora di quelli che regnarono in Roma, e
Porsena re di Toscaua; la stirpe del
quale come si estinguesse, non ne parla
la istoria. Ma si vede bene, come in
quelli tempi che i . Romani andarono a
campo a Veio, la Toscana era libera : e
tanto si godea della sua libertà, e tanto
odiava il nome del principe, che avendo
fatto i Veienti per loro difensione un re
in Veio, e domandando aiuto a' Toscani
contra ai Romani ; quelli, dopo molte
consulte fatte, deliberarono di non dare
aiuto a’Veienti, infino a tanto che vivessino
sotto ’1 re; giudicando non esser bene
difendere la patria di coloro che V avevano
di già sottomessa ad altrui. E facil cosa è
conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione
del vivere libero; perchè si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato
nè di domiuio nè di ricchezza, se non
mentre sono state in libertà. E veramente
meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza
venne Atene per ispazio di cento anni,
poiché la si liberò dalla tirannide di
Pisistrato. Ma sopra tutto meravigliosissima cosa
è a considerare, a quanta grandezza venne Roma,
poiché la si liberò da’ suoi Re. La
cagione è facile ad intendere; perchè non
il bene particolare, ma il bene comune è
quello che fa grandi le città.
E senza dubbio, questo bene comune non è
osservato se non nelle repubbliche; perchè
lutto quello che fa a proposito suo, si
eseguisce; e quantunque e’ torni in danno di
questo o di quello privato, e’ sono tanti
quelli per chi detto bene fa, che lo
possono tirare innanzi contra alla disposizione
di quelli pochi che ne fussino oppressi.
Al contrario interviene quando vi è uno
principe; dove il più delle volte quello
che fa per lui, offende la città; e
quello che fa per la città, offende
lui. Dimodoché, subito che nasce una
tirannide sopra un viver libero, il manco
male che ne resulti a quelle città, è non
andare più innanzi, nè crescere più in
potenza o in ricchezze ; ma il più delle
volte, anzi sempre, interviene loro, che le
tornano indietro. E se la sorte facesse che
vi surgesse un tiranno virtuoso, il quale ,
per animo e per virtù d’ arme ampliasse
il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a lui proprio:
perchè e’ non può onorare nessuno di quelli
cittadini che siano valenti c buoni, che egli
tiranneggia, non volendo avere ad avere
sospetto di loro. Non può ancora le
città che egli acquista, sottometterle o farle
tributarie a quella città di che egli è
tiranno: perchè il farla potente non fa
per lui; ma per lui fa tenere lo Stato
disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna
provincia riconosca lui. Talché di suoi
acquisti, solo egli ne profitta, e non
la sua patria. E chi volesse confermare
questa oppinione con infinite altre ragioni,
legga Senofonte nel suo trattato che fa
De Tirannide. Non è meraviglia adunque, che
gli antichi popoli con tanto odio
perseguitassino i tiranni, ed nmassiiio il vivere
libero, e che il nome della libertà fusse
tanto stimato da loro: come intervenne
quando Girolamo nipote di lerone siracusano fu morto
in Siracusa, che venendo le novelle della
sua morte in nel suo esercito, che
non era molto lontano da Siracusa,
cominciò prima a tumultuare, e pigliare 1’
armi contro agli ucciditori di quello; ma
come ei sentì che in Siracusa si
gridava libertà, allettato da quel nome, si
quietò tutto, pose giti V ira contra a’
tirannicidi, e pensò come iti quella città
si potesse ordinare un viver libero. Non è
meraviglia ancora, che i popoli faccino
vendette istraordinaric contra a quelli che gli
hanno occupata la libertà. Di che ci
sono stali assai esempi, de’ quali ne
intendo referire solo uno, seguilo in
Coreica, città di Grecia, ne’ tempi della
guerra peloponnesiaca; «love sendo divisa quella
provincia in due fazioni, delle quali 1’
una seguitava gli Ateniesi, V altra gli
Spartani, ne nasceva che di molte città,
che erano infra loro divise, T una parte
seguiva F amicizia di Sparta, l’altra di
Atene: ed essendo occorso clic nella detta
città prcvalessino i nobili, e togliessino la
libertà al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi
ripresero le forze, e posto le mani addosso
a tutta la nobiltà, gli rinchiusero in una
prigione capace di tutti loro; donde gli
traevano ad otto o dieci per volta, sotto
titolo di mandargli in esilio iti diverse
parli, e quelli con molti crudeli essempi
facevauo morire. Di che sendosi quelli che
restavano accorti, deliberarono, in quanto era a
loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa
; ed armatisi di quello potevano, combattendo
con quelli vi volevano entrare, la entrata
della prigione difendevano; di modo che il
popolo, a questo romore fatto concorso, scoperse
la parte superiore di quel luogo, e quelli
con quelle rovine sufìbeorno. Seguirono ancora in
delta provincia molti altri simili casi orrendi
e notabili : talché si vede esser vero, che
con maggiore impeto si vendica una libertà
che ti è suta tolta, che quella che
li è voluta torre. Pensando dunque donde
possa nascere, che in quelli tempi antichi,
i popoli fussero più amatori della libertà
che in questi; credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gli uomini
manco forti : la quale credo sia la
diversità della educazione nostra dalla antica,
fondata nella diversità della religione nostra
dalla antica. Perchè avendoci la nostra religione
mostra la verità e la vera via, ci fa
stimare meno l’onore del mondo: onde i
Gentili stimandolo assai, ed avendo posto
in quello il sommo bene, erano nelle
azioni loro più feroci. Il che si può
considerare da molte loro constituzioni,
cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrificii
loro, alla umilila de’ nostri ; dove è
qualche pompa più dilicata che magnifica,
ma nessuna azione feroce o gagliarda. Quivi
non mancava la pompa nè la magnificenza
delle cerimonie, ma vi si aggiungeva 1*
azione del sacrificio pieno di sangue e di
ferocia, ammazzandovisi moltitudine di animali :
il quale aspetto sendo terribile, rendeva gli
uomini simili a lui. La religione antica,
oltre di questo, non beatificava se non
gli uomini pieni di mondana gloria: come
erano capitani di eserciti, e principi di
repubbliche. La nostra religione ha glorificato
più gli uomini umili e contemplativi, che
gli attivi. Ha dipoi posto il sommo
bene nella umilila, abiezione, nello dispregio
delle cose umane: quell’ altra lo poneva
nella grandezza dello animo, nella fortezza
del corpo, ed in tutte le altre cose
atte a fare gli uomini fortissimi. E se la
religione nostra richiede che abbi in te
fortezza, vuole che tu sia atto a patire
più che a fare una cosa forte. Questo
modo di vivere, adunque, pare che abbi
rendutoil mondo debole, e datolo in preda
agli uomini scellerati; i quali sicuramente lo
possono maneggiare, veggendo come la università
degli uomini, per andare in paradiso, pensa
più a sopportare le sue battiture, che a
vendicarle. E benché paia che si sia
effeminato il mondo, e disarmato il cielo,
nasce più senza dubbio dalla viltà degli
uomini, che hanno interpretato la nostra
religione secondo l’ ozio, e non secondo la
virtù. Perchè, se considerassino come la
permette la esultazione e la difesa della
patria, vedrebbono come la vuole che
noi l’amiaino ed onoriamo, e prepariamoci
ad esser tali che noi la possiamo
difendere. Fanno adunque queste educazioni, e si false
interpretazioni, che nel mondo non si vede
tante repubbliche quante si vedeva aulicamente;
nè, per conscguente, si vede ne’ popoli
tanto amore alla libertà quanto allora :
ancora che io creda piuttosto essere
cagione di questo, che lo imperio romano
con le sue arme e sua grandezza spense
tutte le repubbliche e lutti i viveri
civili E benché poi tal imperio si sia
risoluto, non si sono potute le città
ancora rimettere insieme nè riordinare alla
vita civile, se non in pochissimi luoghi
di quello imperio. Pure, comunelle si
fusse, i Romani in ogni minima parte del
mondo trovarono una congiura di repubbliche
armatissime, ed ostinatissime atia difesa della
libertà loro. Il che mostra che '1
Popolo romano senza una rara ed estrema
virtù mai non le arebbe potute superare. E
per darne esseinpio di qualche membro,
voglio mi basti lo essempio de’ Sanniti : i
quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo
confessa, che fussero sì potenti, e 1’ arme loro
si valide, che potessero infino al tempo
di Papirio Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere a’ Romani (che fu
uno spazio di XLVI anni), dopo tante rotte,
rovine di terre, e tante stragi ricevute
nel paese loro; massime veduto ora quel
paese dove erano tante cittadi e tanti
uomini, esser quasi che disabitato : ed
allora vi era tanto ordine, e tanta
forza, eh’ egli era insuperabile, se da
una- virtù romana non fusse stato assaltato.
E facil cosa è considerare donde nasceva quello
ordine, c donde proceda questo disordine; perchè
tutto viene dal viver libero allora, ed
ora dal viver servo. Perchè tutte le
terre e le provincie che vivono libere in
ogni parte, come di sopra dissi, fanno i
progressi grandissimi. Perchè quivi si vede
maggiori popoli, per essere i matrimoni più
liberi, e più desiderabili dagli uomini : perchè
ciascuno procrea volentieri quelli figliuoli che
crede potere nutrire, non dubitando che il
patrimonio gli sia tolto; thè eT conosce
non solamente che nascono liberi e non
schiavi, ma che possono mediante la virtù
loro diventare principi. Veggonvisi le
ricchezze multiplicare in maggiore numero, e
quelle che vengono dalla cultura, e quelle
che vengono dalle arti. Perchè ciascuno
volentieri multiplica in quella cosa, e cerca
di acquistare quei beni, che crede
acquistati potersi godere. Onde ne nasce
che gli uomini a gara pensano ai privati
ed a’ pubblici comodi; e l’ uno e l’altro
viene meravigliosamente a crescere. II contrario
di tutte queste cosesegue in quelli paesi
che vivono scivi; c tanto più mancano del
consueto bene, quanto è più dura la
servitù. E di tutte" le servitù dure,
quella è durissima che li sottomette ad una
repubblica : E una, perchè la è più durabile, e
manco si può sperare d’ uscirne; Y altra,
perchè il fine della repubblica è enervare
ed indebolire. per accrescere il corpo suo,
tutti gli altri corpi. 11 che non la
un principe che ti sottometta, quando quel principe
non sia qualche principe barbaro, destruttore
de’ paesi, e dissipatore di tutte le
civilità degli uomini, come sono i principi
orientali. Ma s’ egli ha in sè ordini
umani ed ordinari, il più delle volte
ama le città sue soggette egualmente, ed a
loro lascia T arti tutte, e quasi lutti gli
ordini antichi. Talché, se le non possono
crescere come libere, elle non rovinano
anche come serve; intendendosi della servitù
in quale vengono le città servendo ad
un forestiero, perchè di quella d’ uno loro
cittadino
ne parlai di sopra. Chi considerrù,
adunque, tutto quello che si è detto, non
si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano
sendo liberi, e della debolezza in che e’
vennero poi servendo: e L. ne fa fede
in più luoghi, e massime nella guerra d’
Annibaie, dove ei mostra che essendo i
Sanniti oppressi da una legione d’ uomini
che era in Nola, mandorono oratori ad
Annibale, a pregarlo che gli soccorresse; i quali
nel parlar loro dissono, che avevano per cento
anni combattuto con i Romani con i propri
loro soldati e propri loro capitani, e molte
volte avevano sostenuto duoi eserciti consolari e
duoi consoli; e che allora a tanta bassezza
erano venuti, che non si potevano a pena
difendere da una piccola legione romana che
era. III. — Roma divenne grande città rovinando
le città circonvicine , e ricevendo i forestieri
facilmente aJ suoi onori. Crescit inlerea
Roma Albce ruinis. Quelli che disegnano che
una città faccia grande imperio, si debbono
con ogni industria ingegnare di farla piena
di abitatori ; perchè senza questa abbondanza di
uomini, mai non riuscirà di fare grande
una città. Questo si fa in duoi modi;
per amore, e per forza. Per amore, tenendo
le vie aperte e secure a’ forestieri
che disegnassero venire ad abitare in
quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri :
per forza, disfacendo le città vicine, e
mandando gli abitatori di quelle ad abitare
nella tua città. Il che fu tanto
osservato in Roma, che nel tempo del
sesto Re in Roma abitavano ottantamila
uomini da portare armi. Perchè i Romani
vollono fare ad uso del buono cultivatore;
il quale, perche una pianta ingrossi, e
possa pròdurre e maturare i fruiti suoi,
gli taglia i primi rami che la mette,
acciocché, rimasa quella virtù nel piede di
quella pianta, possino col tempo nascervi più verdi
e più fruttiferi. E che questo modo tenuto
per ampliare e fare imperio, fusse necessario e
buono, lo dimostra Io essempio di Sparta e
di Atene : le quali essendo due repubbliche
armatissime, ed ordinate di ottime leggi,
nondimeno non si condussono alla grandezza dello
imperio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e
non tanto bene ordinata quanto quelle. Di
che non se ne può addurre altra cagione, che
la preallegata: perchè Roma, per avere
ingrossato per quelle due vie il corpo
della sua città, potette di già mettere
in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed
Atene non passarono mai ventimila per
ciascuna. Il che nacque, non da essere
il sito di Roma più benigno che
quello di coloro, ma solamente da
diverso modo di procedere. Perché Licurgo,
fondatore della repubblica spartana , considerando nessuna cosa
potere più facilmente risolvere le sue
leggi che la commistione di nuovi abitatori,
fece ogni cosa perchè i forestieri non
avessino a conversarvi: ed, oltre al non
gli ricevere ne’ matrimoni, alla civiltà, ed
alle altre conversazioni che fanno convenire
gli uomini insieme, ordinò che in quella
sua repubblica si spendesse monete di
cuoio, per tor via a ciascuno il desiderio
di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi
alcuna arte; di qualità che quella città
non potette mai ingrossare di abitatori. E perchè
tutte le azioni nostre imitano la natura,
non è possibile nè naturale che uno pedale
sottile sostenga un ramo grosso. Però una
repubblica piccola non può occupare città
nè regni che siano più validi nè più
grossi di lei; e se pure gli occupa,
gP interviene come a quello albero che
avesse più. grosso il ramo
che ’l piede," che sostenendolo con
fatica, ogni piccolo vento lo fiacca: come si
vede che intervenne a Sparla, la quale avendo
occupate tutte le città di Grecia, non
prima se gli ribellò Tebe, che tutte P
altre cittadi se gli ribellarono, e rimase
i! pedale solo senza rami. Il che non
potette intervenire a Roma, avendo il piè
si grosso, che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo modo adunque di
procedere, insieme con gli altri che di
sotto si diranno, fece Roma grande e
potentissima. Il che dimostra L. in due
parole, quando disse: Crcscit intcrea Roma
Albce ruinis. IV. — Le repubbliche hanno tentili
tre modi circa lo ampliare. Chi ha
osservato le antiche istorie, Iruova come
le repubbliche hanno tre modi circa lo
ampliare. L* uno è stato quello che
osservorono i Toscani antichi, di essere una
lega di più repubbliche insieme, dove
non sia alcuna che avanzi l’ altra nè
di autorità nè di grado; e nello
acquistare, farsi 1’ altre città compagne, in
simil modo come in questo tempo fanno i
Svizzeri, e come nei tempi antichi feciono
in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perchè
gli Romani feciono assai guerra con i
Toscani, per mostrar meglio la qualità di
questo primo modo, ini distenderò in dare
notizia di loro particolarmente. In Italia,
innanzi allo imperio romano, furono i Toscani per
mare e per terra potentissimi: e benché delle
cose loro non ce ne sia particolare
istoria, pure c’è qualche poco di memoria,
e qualche segno della grandezza loro; e si
sa come e* mandarono una colonia in
su ’l mare di sopra, la quale
chiamarono Adria, che fu si nobile, che
la dette nome a quel mare che ancora i
Latini chiamano Adriatico. Intendesi ancora,
come le loro arme furono ubbidite dal
Tevere per infìno ai piè dell’ Alpi,
che ora cingono il grosso di Italia;
non ostante che dugento anni innanzi che i
Romani crescessino in molte forze, detti
Toscani perderono lo imperio di quel paese
che oggi si chiama la Lombardia; la
quale provincia fu occupata da’ Franciosi : i
quali mossi o da necessità, o dalla
dolcezza dei frutti, e massime del viuo,
vennono in Italia sotto Bellovcso loro
duce; e rotti e cacciati i provinciali, si posono
in quel luogo, dove edificarono di molte
cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal
nome che tenevano allora ; la quale tennono
fino che da’ Romani fussero domi. Vivevano,
adunque, i Toscani con quella equalità , e procedevano
nello ampliare in quel primo modo che di sopra
si dice: e furono dodici città, tra le
quali era Chiusi, Yeio, Fiesole, Arezzo,
Volterra, e simili: i quali per via di lega
governavano lo imperio loro; nè poterono
uscir d’Italia con gli acquisti ; e di
quella ancora rimase intatta gran parte,
per le cagioni che di sotto
si diranno. V altro modo è farsi compagni j
non tanto però che non ti rimanga il
grado del comandare, la sedia dello imperio
ed il titolo delle imprese : il quale
modo fu osservato da’ Romani. 11 terzo
modo è farsi immediate sudditi, e non compagni;
come fecero gli Spartani e gli Ateniesi.
De' quali tre modi, questo ultimo è al
tutto inutile; come c’ si vide che fu
nelle sopraddette due repubbliche: le quali
non rovinarono per altro, se non per
avere acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perchè, pigliar cura di
avere a governare città con violenza, massime quelle
che tassino consuete a viver libere, è una
cosa diffìcile e faticosa. E se tu non
sei armato e grosso d’ armi, non le
puoi nè comandare nè reggere. Ed a voler
esser così fatto, è necessario farsi compagni
che ti aiutino ingrossare la tua città
di popolo. E perchè queste due città non
feciono nè1’ uno nè I’ altro, il
modo del procedere loro fu inutile. E
perché Roma, la quale è nello esempio del
secondo modo, fece l’uno e T altro; però
salse a tanta eccessiva potenza. E perchè la è
stata sola a vivere cosi, è stata ancora
sola a diventar tanto potente : perchè, avendosi ella
fatti di molti compagni per tutta Italia, i
quali in di molte cose con eguali leggi
vivevano seco; e dall’ altro canto» come di
sopra è detto, sendosi riservato sempre la
sedia dello imperio ed il titolo del
comandare; questi suoi com-pagni venivano, che
non se ne avvedevano, con le fatiche e
con il sangue loro a soggiogar sè stessi.
Perchè, come cominciorono a uscire con gli
eserciti di Italia, e ridurre i regni in
provincie, e farsi soggetti coloro che per esser
consueti a vivere sotto i Re, non si curavano
d* esser soggetti; ed avendo governadori
romani, ed essendo stati vinti da eserciti
con ii titolo romano ; non riconoscevano
per superiore altro che Roma. Di modo
che quelli compagni di Roma che erano
in Italia, si trovarono in un tratto
cinti da’ sudditi romani, cd oppressi da
una grossissima città come era Roma ; e
quando e’ si avviddono dello inganno sotto
i! quale erano vissuti, non furono a tempo
a rimediarvi: tanta autorità aveva presa Roma
con le provincie esterne, e tanta forza si
trovava in seno, avendo la sua città
grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie, gli
congiurassino contea, furono in poco tempo
perditori della guerra, peggiorando le loro
condizioni; perchè di compagni, diventarono ancora
loro sudditi. Questo modo di procedere,
come è detto, è stato solo osservato da’
Romani: nè può tenere altro modo una
repubblica che voglia ampliare; perchè la
esperienza non te ne ha mostro nessuno
più certo o più vero. 11 modo preallegato
delle leghe, come viverono i Toscani, gii
Achei e gli Etoli, e come oggi vivono i
Svizzeri, è dopo a quello de’ Romani il miglior
modo; perchè non si potendo con quello
ampliare assai, ne seguitano duoi beni: l’
uno, che facilmente non ti tiri guerra
addosso; l’altro, che quel tanto che tu
pigli, lo tieni facilmente. La cagione del
non potere ampliare, è lo essere una
repubblica disgiunta, e posta in varie
sedi: il che fa che difficilmente possono
consultare e deliberare. Fa ancora che non
sono desiderosi di dominare: perchè essendo
molte comunità a* participarc di quel
dominio, non istimano tanto tale acquisto,
quanto fa una repubblica sola, che spera
di goderselo tutto. Governansi, oltra di questo,
per concilio, c conviene che siano più
tardi ad ogni deliberazione, che quelli che
abitano dentro ad un medesimo cerchio.
Vedesi ancora per esperienza, che simile
modo di procedere ha un termine fisso,
il quale non ci è esempio che mostri
che si sia trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici comunità ;
dipoi non cercare di andare più avanti :
percliè sendo giunti al grado che par
loro potersi difendere da ciascuno, non
cercano maggiore dominio ; sì perchè la necessità
non gli stringe di avere piò potenza; si
per non conoscere utile negli acquisti, per
le cagioni dette di sopra. Perchè gli
arebbono a fare una delle due cose; o
seguitare di farsi compagni, e questa
moltitudine farebbe confusione; o gli arebbono a
farsi sudditi : e perchè e’ veggono in
questo difficultà, e non molto utile nel
tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando
e’ sono venuti a tanto numero che paia
loro vivere sicuri, si voltano a due cose:
P una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni ;
c per questi mezzi trarre da ogni parte
danari, i quali facilmente intra loro si
possono distribuire: 1* altra è militare per
altrui, e pigliar stipendio da questo e da
quello principe che per sue imprese gli
soldo ; come si vede che fanno oggi i
Svizzeri, e come si legge che facevano i
preallegati. Di che il* è testimone Tito
Livio, dove dice che, venendo a parlamento
Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio
Flamminio, e ragionando d'accordo alla presenza
d’ un pretore degli Etoli ; in venendo a
parole detto pretore con Filippo, gli fu
da quello rimproverato la avarizia e la
infidelità, dicendo che gli Etoli non si
vergognavano militare con uno, e poi mandare
loro uomini ancora al servigio del nimico ;
talché molte volte intra dnoi contrari
eserciti si vedevano le insegne di Etolia.
Conoscesi, pertanto, come questo modo di
procedere per leghe, è stato sempre simile, ed
ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che
quel modo di fare sudditi è stato sempre
debole, ed avere fatto piccoli profitti; e
quando pure egli hanno passato il modo,
essere rovinati tosto. E se questo modo di
fare sudditi è inutile nelle repubbliche armate,
in quelle che sono disarmate è inutilissimo:
come sono state ne’ nostri tempi le
repubbliche di Italia. Conoseesi, pertanto,
essere vero modo quello che tennono i
Romani 5 il quale è tanto più mirabile,
quanto e’ non ee il’ era innanzi a
Roma essempio, e dopo Roma non è stalo
alcuno elio gli abbi imitati. E quanto alle
leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega
di Svevia che gli imita. E, come
nel fine di questa materia si dirà,
tanti ordini osservati da Roma, così
pertinenti alle cose di dentro come a
quelle di fuora, non sono ne* presenti
nostri tempi non solamente imitati, ma non
n’è tenuto alcuno conto ; giudicandoli alcuni non
veri, alcuni impossibili, alcuni non a proposito
ed inutili : tanto che standoci con questa
ignoranza, siamo preda di qualunque ha
voluto correre questa provincia. E quando la
imitazione de’ Romani paresse difficile, non
doverrebhe parere cosi quella degli antichi
Toscani, massime a’ presenti Toscani. Perchè, se quelli
non poterono, per le cagioni dette, fare
uno imperio simile a quel di Roma, poterono
acquistare in Italia quella potenza che
quel modo del procedere concesse loro. 11
che fu per un gran tempo securo, con
somma gloria d’ imperio e d’arme, e massima
laude di costumi e di religione. La
qual potenza e gloria fu prima diminuita
da’ Franciosi, dipoi spenta da’ Romani; e fu
tanto spenta, che, ancora che duemila anni
fa la potenza de’ Toscani fusse grande,
al presente non ce n’ è quasi memoria. La qual
cosa mi ha fatto pensare donde nasca
questa oblivione delle cose: come '
nel seguente capitolo si discorrerà. V. —
Che la variazione delle sèlle e delle lingue
insieme con l'accidente de' diluvi o delle
pesti j spegno la
memoria delle cose. A quelli FILOSOFI che hanno
voluto che’l mondo sia stato eterno, credo
che si potesse reificare, che se tanta
antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci
fusse memoria di più che cinque mila
anni; quando e’ non si vedesse come
queste memorie de* tempi per diverse
cagioni si spengano: delle quali parte
vengono dagli nomini, parte dal cielo.
Quelle che vengono dagli uomini, sono LE
VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè quando surge
una setta nuova, cioè una religione nuova,
il primo studio suo è, per darsi
reputazione, estinguere la vecchia; e quando egli
occorre che gli ordinatori delia nuova setta
siano di lingua diversa, la spengono
facilmente. La qual cosa si conosce
considerando i modi che ha tenuti la
religione cristiana contra alla SETTA GENTILE;
la quale ha cancellati tutti gli ordini,
tutte le ceremonie di quella, e spenta
ogni memoria di quella antica teologia.
Vero è che non gli è riuscito spegnere in
tutto la notizia delle cose fatte dagli
uomini eccellenti di quella : il die è
nato per AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il
che fecero forzatamente, avendo a scrivere questa legge
nuova con essa. Perchè, se V avessino
potuta scrivere con nuova lingua, considerato
le altre persecuzioni gli feciono, non
ci sarebbe ricordo alcuno delle cose
passate. E chi legge i modi tenuti da san
Gregorio e dagli altri capi della religione
cristiana, vedrà con quanta ostinazione e’
perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo
P opere de* poeti e delli istorici, minando le
immagini, e guastando ogni altra cosa che
rendesse alcun segno della antichità. Talché,
se a questa persecuzione egli avessino aggiunto
una nuova lingua, si sarebbe veduto in
brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da
credere, pertanto, che quello che ha voluto
fare la religione cristiana contra alla setta gentile,
la gentile abbi fatto contra u quella
che era innanzi a lei. E perchè queste
sètte in cinque o in seimila anni variarono
due o tre volle, si perdè in memoria
delle cose fatte innanzi a quel tempo. E se
pure ne resta alcun segno, si considera
come cosa favolosa, e non è prestato loro
fede : come interviene alla istoria di
Diodoro Siculo, che benché e’ renda ragione
di quaranta o cinquanta mila anni, nondimeno è
riputata, come io credo che sia, cosa
mendace. Quanto alle cause che vengono dal
cielo, sono quelle che spengono la umana generazione,
e riducono a pochi gli abitatori di parte
del mondo. E questo viene o per peste o per
fame o per una inondazione d* acque : e la
più importante è questa ultima, sì perchè
la è più universale, sì perchè quelli
che si salvano sono uomini tutti montanari
e rozzi, i quali non avendo notizia di
alcuna antichità, non la possono lasciare a’
posteri. E se infra loro si salvasse alcuno
che ne avesse notizia, per farsi riputazione
e nome, la nasconde, e la perverte a suo
modo ; talché ne resta solo a* successori
quanto ei ne ha voluto scrivere, e non
altro. E che queste inondazioni, pesti e fami
venghino, non credo sia da dubitarne; sì
perchè ne sono piene tutte le istorie,
sì perchè si vede questo effetto della
oblivione delle cose, sì perchè e’ pare
ragionevole che sia: perchè la natura, come
ne’ corpi semplici, quando vi è ragunato assai materia
superflua, muove per sè medesima molte
volte, e fa una purgazione, la quale è
salute di quel corpo ; così interviene in
questo corpo misto della umana generazione,
che quando tutte le provincie sono ripiene
di abitatori, in modo che non possono
vivere, nè possono andare altrove, per
esser occupati e pieni tutti i luoghi; e quando
la astuzia e malignità umana è venuta dove la
può venire, conviene di necessità che il
mondo si purghi per uno de’ tre modi
; acciocché gli uomini essendo divenuti pochi e
battuti, vivano più comodamente, e diventino
migliori. Era adunque, come di sopra è
detto, già tu Toscana potente, piena di
religione e di virtù ; aveva i suoi costumi
e la sua LINGUA PATRIA: il che tutto è
stato spento dalla potenza romana. Talché,
come si è detto, di lei ne rimane
solo la memoria del nome. Vi. — Come i
Romani procedevano nel fare la guerra. Avendo
discorso come i Romani procedevano nello
ampliare, discorreremo ora come e’ procedevano
nel fare la guerra ; ed in ogni loro
azione si vedrà con quanta prudenza ei
diviarono dal modo universale degli altri,
per fa-
cilitarsi la via a venire a una suprema grandezza.
La intenzione di chi fa guerra per
elezione, o vero per ambizione, è acquistare e
mantenere lo acquistato; e procedere in modo
con esso, che I’ arricchisca c non
impoverisca il paese e la patria sua. È
necessario dunquc, e nello acquistare e nel
mantenere, pensare di non spendere; anzi
far ogni cosa con utilità del pubblico suo.
Chi vuol fare tutte queste cose, conviene
che tenga lo stile e modo romano: il
quale fu in prima di fare le guerre, come
dicono i Franciosi, corte e grosse; perchè,
venendo in campagna con eserciti grossi,
tutte le guerre eh’ egli ebbono co’
Latini, Sanniti e Toscani le espedirono in
brevissimo tempo. E se si noteranno tutte
quelle che feciono dal principio di Roma
infino alla ossidione de’ Yeienti, tutte si
vedranno espedite, quale in sei, quale in
dieci, quale inventi di. Perchè l’uso
loro era questo: subito che era scoperta
la guerra, egli uscivano fuori con gli
eserciti all’ incontro del nimico, e subito
facevano la giornata. La quale vinta, i
nimici, perchè non fussc guasto loro il
contado affatto, venivano alle condizioni; ed i Romani
gli condennavano in terreni: i quali terreni
gli convertivano in privati comodi, o gli
consegnavano ad una colonia; la quale posta
in su le frontiere di coloro, veniva
ad esser guardia de’ confini romani, con
utile di essi coloni, che avevano quelli
campi, e con utile del pubblico di Roma,
che senza spesa teneva quella guardia. Nè
poteva questo modo esser più seeuro, o più
forte, o piu utile: perchè mentre che i
nimici non erano in su i campi, quella
guardia bastava : come e’ fussino usciti fuori grossi
per opprimere quella colonia, ancora i Romani
uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con
quelli; e fatta e vinta la giornata, imponendo
loro più gravi condizioni, si tornavano in
casa. Così venivano ad acquistare di mano in
mano riputazione sopra di loro, e forze
in sè medesimi. E questo modo vennono
tenendo infino che mutorno modo di
procedere in guerra: il che fu dopo
la ossidione de’ Veienti ; dove, pei*potere
fare guerra lungamente, gli ordinarono di
pagare i soldati, che prima, per non
essere necessario, essendo le guerre brevi,
non gli pagavano. E benché i Rotflani
dessino il soldo, e che per virtù di
questo ei potessino fare le guerre più
lunghe, e per farle più discosto la
necessità gli tenesse più in su’ campi ;
nondimeno non variarono mai dal primo
ordine di finirle presto, secondo il luogo
ed il tempo; nè variarono mai dal
mandare le colonie. Perchè nel primo ordine
gli tenne, circa il fare le guerre
brevi, olirà il loro naturale uso, T
ambizione de’ Consoli ; i quali avendo a
stare un anno, e di quello anno sei
mesi alle stanze, volevano finire la guerra
per trionfare. Nel mandare le colonie, gli
tenne 1’ utile e la comodità grande
che ne risultava. Variarono bene alquanto
circa le prede, delie quali non erano
cosi liberali come erano stati prima ; sì
perchè e* non pareva loro tanto necessario,
avendo i soldati lo stipendio; sì perchè
essendo le prede maggiori, disegnavano d*
ingrassaie di quelle in modo il
pubblico, che non lussino constretti a fare
le imprese con tributi della città. li *
quale ordine in poco tempo fece il
loro erario ricchissimo. Questi duoi modi,
adunque, e circa il distribuire la preda, e
circa il mandar le colonie, feciono che
Roma arricchiva della guerra j dove gli altri principi
e repubbliche non savie ne impoveriscono. E
ridusse la cosa in termine, che ad un
Consolo non pareva poter trionfare, se non
portava col suo trionfo assai oro ed
argento, e d’ ogni altra sorte preda, nello
erario. Cosi i Romani con i soprascritti
termini, e coti il finire le guerre presto,
sendo contenti con lunghezza straccare i nemici, e
con rotte e con le scorrerie e con accordi
a loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi
e più potenti. VII — Quanto terreno i Romani davano
per colono. Quanto terreno i Romani
distribuiisino per colono, credo sia molto
diffìcile trovarne la verità. Perchè io
credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove
e* mandavano le colonie. E giudicasi che ad
ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fusse parca : prima, per poter
mandare più uomini, sendo quelli diputati
per guardia di quel paese; dipoi perchè
vivendo loro poveri a caso, non era
ragionevole che volessino che I loro uomini
abbondassino troppo fuora. E Tito Livio
dice, come preso Veio e’ vi mandorno
una colonia, e distribuirono a ciascuno tre
iugeri e sette once di terra; che sono
al modo nostro. Perchè, oltre alle cose soprascritte,
e’ giudicavano che non lo assai terreno,
ma il bene coltivato bastasse. È necessario
bene, che tutta la colonia abbi campi
pubblici dove ciascuno possa pascere il suo
bestiame, e selve dove prendere del legname
per ardere ; senza le quali cose non
può una colonia ordinarsi. Vili. — La cagione
perchè i popoli si partono da * luoghi patriij cd
inondano il paese altrui. Poiché di sopra
si è ragionato del modo nel procedere della
guerra osservato da’ Romani, c come i Toscani
furono assaltati da* Franciosi ; non mi pare alieno
dalla materia discorrere, come e’ si fanno
di due generazioni guerre. L’una è fatta
per ambizione de* principi o delle repubbliche,
che cercano di propagare lo imperio; come
furono le guerre che fece Alessandro Magno,
e quelle che feciono i Romani, e quelle che
fanno ciascuno di, 1* una potenza con F
altra. Le quali guerre sono pericolose, ma
non cacciano al tutto gli abitatori d*
una provincia ; perchè e’ basta al
vincitore solo la ubbidienza de’ popoli, e
il più delle volte gli lascia vivere
con le loro leggi, e sempre con le
loro case, e ne’ loro beni. L’altra
generazione di guerra è, quando un popolo
intero con tutte le sue famiglie si
beva d’ uno luogo, necessitato o dalla fame
o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e
nuova provincia; non per comandarla, come quelli di
sopra, ma per possederla tutta particolarmente, e
cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di
quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E
di queste guerre ragiona Salustio nel fine
dell’ Iugurtiuo, quando dice che vinto lugurta,
si senti il moto de’ Franciosi che venivano
in Italia : dove e’ dice che ’l Popolo
romano con tutte le altre genti combattè
solamente per chi dovesse comandare, ma con
i Franciosi si combattè sempre per la
salute di ciascuno. Perchè ad un principe o
una repub-
spegnere solo coloro che comandano ; ma a
queste popolazioni conviene spegnere ciascuno,
perchè vogliono vivere di quello che altri
viveva. I Romani ebbero tre di queste
guerre pericolosissime. La prima fu quella
quando Roma fu presa, la quale fu
occupata da quei Franciosi che avevano
tolto, come di sopra si disse, la Lombardia
a’ Toscani, e fattone loro sedia; della quale L.
ne allega due cagioni: la prima, come
di sopra si disse, che furono allettati
dalla dolcezza delle frutte, c del vino di
Italia, delle quali mancavano in Francia;
la seconda che, essendo quel regno francioso moltiplicato
in tanto di uomini, che non vi si
potevano più nutrire, giudicarono i principi di
quelli luoghi, che fusse necessario che una
parte di loro andasse a cercare nuova
terra; e fatta tale deliberazione, elcssono per
capitani di quelli che si avevano a
partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de’
Franciosi : de’ quali Belloveso venne in
Italia, e Si» coveso passò in Ispagna.
Dalla passata del quale Belloveso, nacque
la occupazione di Lombardia, c quindi la guerra che
prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa,
fu quella che fecero dopo la prima
guerra cartaginese, quando tra Piombino e Pisa
ammazzarono più che dugentomila Franciosi. La
terza fu quando i Todeschi e Cimbri vennero
in Italia : i quali avendo vinti più
eserciti romani, furono vinti da Mario.
Vinsero adunque i Romani queste tre guerre
pericolosissime. Ne era necessario minore virtù a
vincerle; perchè si vede poi, come la virtù
romana mancò, e che quelle arme perderono
il loro antico valore, fu quello imperio
distrutto da simili popoli : i quali furono
Goti, Vandali c simili, che occuparono tutto
lo imperio occidentale. Escono tali popoli
de* paesi loro, rome di sopra si
disse, cacciati dalla necessitò: e la necessitò
nasce o dalla fame, o da una guerra ed
oppressione clic ne’ paesi propri è loro fatta;
talché e’ sono constretti cercare nuove
terre. E questi tali, o e’ sono grande
numero ; ed allora con violenza entrano ne'
paesi altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i
loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano
il nome della provincia: come fece Moisè, e
quelli popoli che occuparono lo imperio
romano. Perchè questi nomi nuovi che sono
nella Italia e nelle altre provincie, non
nascono da altro che da essere state
nomate così da’ nuovi occupatoci : come è
la Lombardia, che si chiamava Gallia
Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia
Transalpina, ed ora è nominata da’ Franchi,
chè cosi si chiamavano quelli popoli che
la occuparono: la Schiavoniu si chiamava
Illiria, l’Ungheria Pannonia; l’Inghilterra Britannia:
c molte altre provincie che hanno mutato
nome, le quali sarebbe tedioso raccontare.
Moisè ancora chiamò Giudea quella parte di
Soria occupata da lui. E perchè io ho
detto di sopra, che qualche volta tali
popoli sono cacciati della propria sede per
guerra, donde -sono constretti cercare nuove
terre; ne voglio addurre lo essempio de’
Maurusii, popoli anticamente in Soria : i quali,
sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando
non poter loro resistere, pensarono essere
meglio salvare loro medesimi, t* lasciare
il paese proprio, che per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con
loro famiglie, se ne andarono in Affrica,
dove posero la loro sedia, cacciando via
quelli abitatori che in quelli luoghi
trovarono. G così quelli che non avevano potuto
difendere il loro paese, poterono occupare
quello d’ altrui. E Procopio, che scrive la
guerra che fece Bellisario co’ Vandali occupatori
della Affrica, riferisce aver letto lettere
scritte in certe colonne ne’ luoghi dove
questi Maurusii abitavano, le quali dicevano : S
os Maurusii , qui fugimus a facie Jesu latronis
filii flava. Dove apparisce In cagione
della partita loro di Soria. Sono, pertanto,
questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da
una ultima necessità ; e s’ egli non
riscontrano buone armi, non saranno mai
sostenuti. Ula quando quelli che sono
constretti abbandonare la loro patria non
sono molti, non sono sì pericolosi come
quelli popoli di chi si è ragionato;
perchè non possono usare tanta violenza, ma
conviene loro con arte occupare qualche
luogo, e, occupatolo, mantenervisi per via
di amici e di confederali : come si vede
che fece ENEA, Didone, i Massiliesi e simili ; i
quali lutti, per consentimento de’ vicini,
dove e’ posorno, poterono mantenervisi. Escono i popoli
grossi, e sono usciti quasi tutti de’ paesi
di Scizia ; luoghi freddi e poveri: dove,
per essere assai uomini, cd il paese
di qualità da non gli potere nutrire,
sono forzati uscire, avendo molte cose che
gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E
se da cinquecento anni in qua, non è
occorso che alcuni di questi popoli abbino
inondato alcuno paese, è nato per più
cagioni. La prima, la grande evacuazione
che fece quel paese nella declinazione
dello imperio; donde uscirono più di trenta
popolazioni. La seconda è che la Magna e 1’
Ungheria, donde ancora uscivano di queste
genti, hanno ora il loro paese bonificato
in modo, che vi possono vivere agiatamente;
talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall’
altra parte, sendo loro uomini bellicosissimi,
sono come uno bastione a tenere che
gli Sciti, i quali con loro confinano, non
presumino di potere vincergli o passargli. E
spesse volte occorrono movimenti grandissimi da’
Tartari, che sono dipoi dagli Ungheri e da
quelli di Polonia sostenuti; e spesso si
gloriano, che se non fussino 1’ arme
loro, la Italia e la Chiesa arebbe molle
volle sentito il peso degli eserciti
tartari. E questo voglio basti quanto a’
prefati popoli. IX. Quali cagioni comunemente faccino
nascere le guerre intra i polenti. La
cagione che fece nascere guerra intra i
Romani ed i Sanniti, che erano stati in
lega gran tempo, è una cagione comune che
nasce infra tutti i principati potenti. La
qual cagione o la viene a caso, o la è
fatta nascere da colui che desidera muovere
la guerra. Quella che nacque intra i Romani
ed i Sanniti, fu a caso; perchè la
intenzione de’ Sanniti non fu, muovendo guerra
a’Sidicini, e dipoi a’ Campani, muoverla ai
Romani. .\Ia sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a
Roma fuora della oppinione de’ Romani e de’
Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai
Romani, come cosa loro difendergli, e pigliare
quella guerra che a loro parve non potere
con loro onore fuggire. Perchè e’pareva
benea’Romani ragionevole non potere difendere i
Campani come amici, eontra ai Sanuiti
amici, ma pareva ben loro vergogna non
gli difendere come sudditi, ovvero raccomandali;
giudicando, quando e’ non avessino presa
tal difesa, torre la via a tutti quelli
che disegnassino venire sotto la potestà
loro. Ed avendo Roma per fine lo
imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa
medesima cagione dette principio alla prima
guerra conira a’ Cartaginesi, per la
difensione che i Romani presono de*
Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a
caso. Ma non fu
già a caso di poi la seconda guerra
che nacque infra loro; perchè Annibaie capitano
Cartaginese assaltò i Saguntini amici de’ Romani
in Ispagna, non per offendere quelli, ma
per muovere l’arme romane, ed avere
occasione di combatterli, c passare in Italia.
Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre
consueto intra i potenti, e che si hanno e
della fede, e d’altro, qualche rispetto. Perchè,
se io voglio fare guerra con uno
principe, ed infra noi siano fermi capitoli
per un gran tempo oservati, con altra
giustificazione e con altro colore assalterò io
un suo amico che lui proprio 5 sappiendo
massime, che nello assaltare lo amico, o ci
si risentirà, ed io arò V intento mio
di fargli guerra ; o non si risentendo, si
scuoprirà la debolezza o la infidelità sua
di non difendere un suo raccomandato. E 1’
una e I' altra di queste due cose è
per torgli riputazione, e per fare più facili i
disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per
la dedizione de' Campani, circa il muovere
guerra, quanto di sopra si è detto; e
di più, qual rimedio abbia una città
che non si possa per sè stessa
difendere, e voglisi difendere in ogni modo da
quel clic l'assalta: il quale è darsi Uberamente
a quello che tu disegni che ti difenda;
come feciono i Capovani ai Romani, ed i
Fiorentini al ré Roberto di Napoli : il
quale non gli volendo difendere come amici,
gli difese poi come sudditi contra alle
forze di Castruceio da Lucca, die gli
opprimeva. X. — I danari non sono il nervo della
guerra j secondo che è la comune oppi ninne. Perchè
ciascuno può cominciare una guerra a sua
posta, ma non finirla, debbe uno principe,
avanti che prenda una impresa, misurare le
forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma
debbe avere tanta prudenza, che delle sue
forze ei non s’inganni; ed ogni volta
s’ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal
sito, o dalla benivoienza degli uomini, mancando
dall’ altra parte d’ arme proprie. Perchè
le cose predette ti accrescono bene le
forze, ma le non te ne danno ; e per
sè medesime sono nulla ; e non giovano
alcuna cosa senza l’arme fedeli. Perchè i
danari assai, non ti bastano senza quelle;
non ti giova la fortezza de! paese; e
la fede ‘e benivoienza
degli uomini non dura, perchè questi non
ti possono essere fedeli, non gli potendo
difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni luogo
inaccessibile diventa piano, dove i forti
difensori mancano. I danari ancora non solo
non ti difendono, ina ti fanno predare
più presto. Nè può essere più falsa
quella comune oppinione che dice che i
danari sono il nervo della guerra. La
quale sentenza è detta da Quinto Curzio
nella guerra che fu intra A'ntipatro
macedone c il re spartano: dove narra, che
per difetto di danari il re di Sparta
fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; che
se ei differiva la zuffa pochi giorni,
veniva la nuova in Grecia della morte
di Alessandro, donde e* sarebbe rimaso
vincitore senza combattere. Ma mancandogli i
danari, e dubitando che lo esercito suo per
difetto di quelli non Io abbandonasse, fu
constretto tentare la fortuna della zuffa:
talché Quinto Curzio per questa cagione
afferma, i danari essere il nervo della
guerra. La qual sentenza è allegata ogni
giorno, v da’ principi non tanto prudenti
che basti, seguitata. Perchè, fondatisi sopra quella,
credono che basti loro a difendersi avere
tesori assai, e non pensano che se ’1
tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe
vinto Alessandro, i Greci nrebbon vinti i Romani;
ne’ nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti
i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed
i Fiorentini insieme non arebbono avuta
difficultà in vincere Francesco Maria, nipote
di papa Giulio II, nella guerra di Urbino.
Ma tutti i soprannominali furono vinti da
coloro che non il danaro, ma i buoni
soldati stimano essere il nervo della
guerra. Intra le altre cose che Creso
re di Lidia mostrò a Solone ateniese, fu
un tesoro innumerabile ; c domandando quel che
gli pareva della potenza sua, gli rispose
Solone, che per quello non lo giudicava
più potente; perchè la guerra si faceva
col ferro e non con P oro, e che poteva
venire uno che avesse piu ferro di
lui, e torgliene. Olir’ a questo, quando, dopo
la morte di Alessandro Magno, una
moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e
poi in Asia; e mandando i Franciosi oratori
al re di Macedonia per trattare certo
accordo ; quel re, per mostrare la
potenza sua e per {sbigottirli, mostrò loro
oro ed argento assai: donde quelli
Franciosi che di già avevano come ferma
la pace, la j uppono ; tanto desiderio in
loro crebbe di torgli quell’oro: e cosi fu
quel re spogliato per quella cosa che
egli aveva per sua difesa accumulata. 1
Yeniziani, pochi anni sono, avendo ancora
lo erario loro pieno di tesoro, perderono
tutto lo Stato, senza potere essere difesi
da quello. Dico pertanto, non l’ oro, come grida
la comune oppinione, essere il nervo della
guerra, ma i buoni soldati : perchè 1’
oro non è suflìzienle a trovare i buoni soldati,
ma i buoni soldati son ben sutlìzienti a
trovare l’ oro. Ai Romani, s’egli avessero
voluto fare la guerra più con i danari
che con ii ferro, non sarebbe bastato
avere tutto il tesoro del mondo,
considerato le grandi imprese che fcciono, e
le difficoltà che vi ebbono dentro. Ma
facendo le loro guerre con il ferro,
non patirono mai carestia dell' oro; perchè
da quelli cheli temevano era portato Toro
infino ne’ campi. E se quel re spartano per
carestia di danari ebbe a tentare la
fortuna della /uffa, intervenne a lui quello,
per conto de’danari, che molte volte è
intervenuto per altre cagioni; perchè si è
veduto che, mancando ad uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame
o azzuffarsi, si piglia il partito sempre
di azzuffarsi, per essere più ono*revole, e
dove la fortuna ti può in qualche
modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte,
che veggendo uno capitano al suo esercito
nimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi
con quello e tentare la fortuna della zuffa
; o aspettando eh’ egli ingrossi, avere a combattere
in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi.
Ancora si è visto (come intervenne ad
Asdrubale quando nella Marca fu assaltato
da Claudio Verone, insieme con l’altro
Consolo romano), che un capitano che è
necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre
elegge il combattere ; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere;
ed in quello altro, avere a perdere in
ogni modo. Sono, adunque, molte necessitati
che fanno a uno capitano fuor della sua
intenzione pigliare partito di azzuffarsi; intra
le quali qualche volta può essere la
carestia de’ danari : nè per questo si
debbono i danari giudicare essere il nervo
della guerra, più che le altre cose
che inducono gli uomini n simile necessità.
Non è, adunque, replicandolo di nuovo. 1’
oro il nervo della guerra; ma i buoni
soldati. Son bene necessari i danari in
secondo luogo, ina è una necessità che i
soldati buoni per sè medesimi la vincono;
perchè è inipossibile che a’ buoni soldati
manchino i danari, come che i denari pei* loro medesimi
truovino i buoni soldati. Mostra questo che
noi diciamo essere vero, ogni istoria in
mille luoghi; non ostante che Pericle
consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con
tutto il Peloponneso, mostrando che e*
potevano vincere quella guerra con la
industria e con la forza del danaio. E
benché in tale guerra gli Ateniesi
prosperassino qualche volta, in ultimo la
perderono; e valsoti più il consiglio e gli
buoni soldati di Sparta, che la industria
ed il danaio di Atene. Ma L. è di
questa oppinione più vero testimone che
alcuno altro, dove discorrendo se Alessandro
Magno fusse venuto in Italia, s’ egli
avesse vinto i Romani, mostra esser tre
cose necessarie nella guerra ; assai soldati e buoni,
capitani prudenti, e buona fortuna : dove esaminando
quali o i Romani o Alessandro prevalessino in
queste cose, fa dipoi la sua conclusione
senza ricordare mai i danari. Doverono i
Capovani, quando furono ricfiiesti da’ Sidicini
che prendessino T arme per loro contea
ai Sanniti, misurare la potenza loro dai
danari, c non dai soldati: perchè, preso
ch’egli ebbero partito di aiutarli, dopo
due rotte furono constretti farsi tributari
de’ Romani, se si vollono salvare. Non è
partito prudente fare amicizia con un
principe che abbia più oppinionc che forze. Volendo
Tito Livio mostrare lo errore de’ Sidicini
a fidarsi dello aiuto de’ Campani, e lo
errore de’ Campani a credere potergli
difendere, non lo potrebbe dire con più
vive parole, dicendo: Campani magie nomen
in auxilium Sidicinorunij quam vires ad
prcesidium atlulcrunl. Dove si debbe notare,
che le leghe si fanno co’ principi che
non abbino o comodità di aiutarti per la
distanzia del sito, o forze di farlo per
suo
disordine o altra sua cagione, arrecano più
fama che aiuto a coloro ehe se ne fidano:
come intervenne ne’ dì nostri a* Fiorentini,
quando, nel 147£t, il papa ed il re
di Napoli gli assaltarono; che essendo
amici del re di Francia, trassono di
quella amicizia magis nomcn , r/nam praesidium :
come interverrebbe ancora a quel principe, che
confidatosi di Massimiliano imperatore, facesse qualche
impresa; perchè questa è una di quelle
amicizie che arrecherebbe a chi la facesse
magis nomcn 9 quam prassi -ditinij come si
dice in questo testo, che arrecò quella de’
Capovani ai Sidicini. Errarono, adunque, in
questa parte i Capovani, per parere loro
avere più forze che non avevano. E così
fa la poca prudenza delti uomini qualche
volta, che non sappiendo nè potendo difendere
sè medesimi, vogliono prendere imprese di
difendere altrui : come fecero ancoro i
Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani
allo Incontro dello esercito de’ Sanniti,
mandorono ambasciadori al Consolo romano, a
fargli intendere come ci volevano pace
intra quelli duoi popoli, e come erano per
fare guerra centra a quello che dalla pace
si discostasse*, talché il Consolo, ridendosi di
questa proposta, alla presenza di detti
ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al
suo esercito comandò che andasse a trovare il
nimico, mostrando ai Tarentini con 1’
opera, e non con le parole, di che
risposta essi erano degni. Ed avendo nel
presente capitolo ragionato dei parliti che
pigliano i principi al contrario per la
difesa d’ altrui, voglio nel seguente
parlare di quelli che si pigliano per
la difesa propria. XII. — Scegli è meglio , temendo di
essere assaltalo > inferire , o aspettare la guerra. lo
lio sentito da uomini assai pratichi nelle
cose della guerra qualche volta disputare,
se sono duoi principi quasi di eguali
forze, se quello più gagliardo abbi bandito
la guerra contra a quello altro, quale sia
miglior partito per Poltro; o aspettare il
nimico dentro ai confini suoi, o andarlo a
trovare in casa, ed assaltare lui: e ne
fio sentito addurre ragioni da ogni parte.
E chi difende lo andare assaltare altrui,
nc allega il consiglio che Creso dette a
Ciro, quando arrivato in su* confini de’
Massageli per fare lor guerra, la lor
regina Tarniri gli mandò a dire, che eleggesse
quale de' duoi partiti volesse; o entrare
nel regno suo, dovè essa Ip aspetterebbe; o
volesse che ella venisse a trovar lui. E
venuta la cosa in disputazionc, Creso,
contra alla oppinione degli altri, disse
che si andasse a trovar lei ; allegando che
se egli la vincesse discosto al suo
regno, che non gli torrebbe il regno,
perchè ella arebbe tempo a rifarsi; pia se
la vincesse dentro a’ suoi confini, potrebbe
seguirla in su la fuga, e non le
dando spazio a rifarsi, torli io Stato.
Allegane ancora il consiglio che dette
Annibaie ad Antioco, quando quel re
disegnava fare guerra ai Romani: dove ei
mostrò come i Romani non si potevano
vincere se non in Italia, perchè quivi
altri si poteva valere delle arme e delle
ricchezze e degli amici loro ; chi gli
combatteva fuora d’ Italia, e lasciava loro la
Italia libera, lasciava loro quella fonte, che mai
li mancava vita a somministrare forze dove
bisogna ; e conchiuse che ai Romani si
poteva prima torre Roma che lo imperio;
prima la Italia che le altre provincie.
Allega ancora Agatocle. che non potendo
sostenere la guerra di casa, assaltò i
Cartaginesi clic glieuc facevano, e gli ridusse a
domandare pace. Allega Scipione, che per
levare la guerra d’ Italia, assaltò la
Affrica. Chi parla al contrario dice, che chi
vuole fare capitare male uno nimico, lo
discosti da casa. Allegane gli Ateniesi, che
mentre che feciono la guerra comoda alla
casa loro, restarono superiori; e come si
discostarono, ed andarono con gli eserciti
in Sicilia, perderono la libertà. Allega le
favole poetiche, dove si mostra che Anteo,
re di Libia, assaltato da Ercole Egizio,
fu insuperabile mentre che Io aspettò
dentro a* confini del suo regno; ma
come e’ se ne discosto per astuzia di
Ercole, perdè lo Stalo e la vita. Onde è
dato luogo alla favola di Anteo, che
sendo in terra ripigliava le forze da
sua madre, che era la Terra; e che
Ercole avvedutosi di questo, lo levò in
alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora
i giudizi moderni. Ciascuno sa come Ferrando
re di .Napoli fu ne’ suoi tempi
tenuto uno savissimo principe: e venendo la
fama, duoi anni avanti la sua morte,
come il re di Francia Carlo Vili
voleva venire ad assaltarlo, avendo fatte
assai preparazioni, ammalò; e venendo a morte,
intra gli altri ricordi che lasciò ad
Alfonso suo figliuolo, fu che egli
aspettasse il nimico dentro al regno; e per
cose del mondo non traesse forze fuori
dello Stato suo, ma lo aspettasse dentro
aisuoi confini tutto intero; il che
non fuosservato da quello; ma mandato uno esercito
in Romagna, senza combattere perdè quello c
lo Stato. Le ragioni che, oltre alle
cose dette, da ogni parte si adducono,
sono : che chi assalta viene con maggiore
animo che chi aspetta, il che fa più
confidente lo esercito; toglie, oltra di
questo, molte comodità al nimico di potersi
valere delle sue cose, non si potendo
valere di quei sudditi che sieno
saccheggiati; e per avere il nimico in
casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarre da loro danari ed
affaticargli : sicché e’ viene a seccare
quella fonte, come dice Annibaie, che fa
che colui può sostenere la guerra. Oltre
di questo, i suoi soldati, per trovarsi ne*
paesi d’ altrui, sono più necessitati a
combattere; e quella nccessila fa virtù,
come più volte abbiamo detto. Dall’ altra
parte si dice ; come aspettando il nimico,
si aspetta con assai vantaggio, perchè
senza disagio alcuno tu puoi dare a quello
molti disagi di vettovaglia, e d’ ogni
altra cosa che abbia bisogno uno esercito :
puoi meglio impedirli i disegni suoi, per la notizia
del paese cheta hai più di lui: puoi
con più forze incontrarlo, per poterle
facilmente tutte unire, ma non potere già
tutte discostarle da casa: puoi sendo rotto
rifarti facilmente; sì perchè del tuo
esercito se ne salverà assai, per avere i
rifugi propinqui; si perchè il supplemento
non ha a venire discosto: tanto che tu
vieni arrischiare tutte le forze, e non
tutta la fortuna ; e discostandoti, arrischi tutta
la fortuna, e non tutte le forze. Ed
alcuni sono stati che per indebolire meglio
il suo nimico, Io lasciano entrare
parecchie giornate in su il paese loro, e
pigliare assai terre; acciò che lasciando i
presidii in tutte, indebolisca il suo
esercito, e possiulo dipoi combattere più
facilmente. Ma, per dire ora io quello
che io ne intendo, io credo che si
abbia a fare questa distinzione: o io ho il
mio paese armato, come i Romani, o come hanno i
Svizzeri; o io l’ho disarmato, come avevano i
Cartaginesi, o come Y hanno i re di Francia
e gli Italiani. In questo caso, si debbe
tenere il nimico discosto a casa; perchè
scudo la tua virtù nel danaio e non
negli uomini, qualunque volta ti è impedita
la via di quello, tu sei spacciato;
nè cosa veruna te lo impedisce quanto
la guerra di casa. In essempi ci
sono i Cartaginesi; i quali mentre che ebbero
la casa loro libera, poterono con le rendite
fare guerra con i Romani; e quando la
avevano assaltata, non potevano resistere ad
Agatoeie. I Fiorentini non avevano rimedio ulcuuo
con Castruccio signore di Lucca, perchè ci
faceva loro la guerra in casa; tanto
che gli ebbero a darsi, per essere difesi,
al re Roberto di Napoli. Ma morto Castruccio,
quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di
assaltare il duca di Milano in casa,
ed operare di torgli il regno: tanta
virtù monstrarono nelle guerre louginque, e tanta
viltà nelle propinque. Ma quando i regni
sono armati, come era armata Roma e come sono
i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto
più ti appressi loro: perchè questi corpi
possono unire più forze a resistere ad
uno impeto, che non possono ad assaltare
altrui. Nè mi muove in questo caso I’
autorità di Annibaie, perchè la passione e Y
utile suo gli faceva cosi dire ad
Antioco. Perchè, se i Romani avessino avute
in tanto spazio di tempo quelle tre
rotte in Francia* ch’egli ebbero in .Italia
da Annibaie, senza dubbio erano spacciati: perchè
non si sarebbono valuti de’ .residui degli
eserciti, come si valsono in Italia; non
arebbono avuto a rifarsi quelle comodità; nè
potevano con quelle forze resistere ai
nimico, che poterono. Non si trova che,
per assaltare una provincia, loro mandassino
mai fuora eserciti clic passassino cinquantamila
persone; ma per difendere la casa ne
misono in arme conira ai Franciosi, dopo
la prima guerra punica, diciotto centinaia
di migliaia. Nè arebbono potuto poi romper quelli
in Lombardia, come gli ruppono in Toscana;
perchè contro a tanto numero di ninnici
non arebbono potuto condurre tante forze sì
discosto, nè combattergli con quella comodità. I
Cimbri ruppono uno esercito romano in la
Magna, nè vi ebbono i Romani rimedio. Ma
come egli arrivorono in Italia, e che poterono
mettere tutte le loro forze insieme, gli
spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori
di casa, dove e’ non possono mandare
più che un trenta o quarantamila uomini;
ma vincergli in casa, dove e’ ne
possono raccozzare centomila, è difficilissimo.
Conchiuggo adunque di nuovo, che quel
principe che ha i suoi popoli armati ed
ordinali alla guerra, aspetti sempre in
casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia
a rincontrare: ma quello che ha i suoi
sudditi disarmati, ed il paese inusitato
della guerra, se la discosti
sempre da casa il più che può. E così
r uno e l* altro, ciascuno nel suo grado, si
difenderà meglio. XIII. — Che si viene di
bassa a gran fortuna più con la
fraude, che con la forza. Io stimo essere
cosa verissima, che rado, o non mai,
intervenga che gli uomini di piccola
fortuna venghino a gradi grandi, senza la
forza e senza la fraude; purché quel grado
al quale altri è pervenuto, non ti sia o
donalo, o lasciato per eredità. Xè credo
si truovi mai che la forza sola
basti, ma si troverà bene che la
fraude sola basterà: còme chiaro vedrà
colui che leggerà la vita di Filippo
di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e
di molti altri simili, che d’ infima ovvero
di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o
ad imperi grandissimi. Mostra Senofonte, nella
sua vita di Ciro, questa necessità delio
ingannare; consideralo che la prima ispedizione
che fa fare a Ciro contea il re di
Armenia, è piena di fraude, e come con
inganno, e non con forza, gli fa occupare
il suo regno; e non conchiude altro per
tale azione, se non che ad un principe
che voglia fare gran cose, è necessario
imparare a ingannare. Fagli, olirà di questo,
ingannare Ciassare, re de’ .Medi, suo zio
materno, in più modi; senza la quale
fraude mostra che Ciro non poteva pervenire
a quella grandezza che venne. Nè credo che
si truovi mai alcuno constiluito in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la
forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene
solo con la fraude : come fece Giovanni
Galeazzo per tor lo Stato e lo imperio
di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E
quei che sono necessitati fare i principi
ne’ principi! degli augumenti loro, sono
ancora necessitate a fare le repubbliche, infimo
che le sieno diventate potenti, e che basti
la forza sola. E perchè Roma tenne in
ogni parte, o per sorte o per elezione,
tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò
ancora di questo. Nè potè usare, nel
principio, il maggiore inganno, che pigliare
il modo di sopra discorso da noi, di
farsi compagni ; perchè sotto questo nome
se li fece servi: come furono i Latini,
ed altri popoli all’ intorno. Perchè prima
si valse dell* arme loro in domare i
popoli convicini, e pigliare la riputazione dello
Stato: dipoi, domatogli, venne in tanto
augumento, che la poteva battere ciascuno.
Ed i Latini non si avviddono mai di
essere al tutto servi, se non poi che
viddono dare due rotte ni Sanniti, e
costrettigli ad accordo. La (piale vittoria,
come ella accrebbe gran riputazione ai
Romani eoi principi longinqui, clic
mediante quella sentirono il nome romano e
non l’armi; così generò invidia e sospetto
in quelli che vedevano e sentivano l’armi,
intra i quali furono i Latini. E tanto potè
questa invidia e questo timore, che non solo i
Latini, ma le colonie che essi avevano
in Lazio, insieme con i Campani, stati poco
innanti difesi, congiurarono contra al nome
romano. E mossono questa guerra i Latini nel
modo che si dice di sopra, che si
muovono la maggior parte delle guerre,
assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini
contra ai Sanniti; a’ quali i Sanniti facevano guerra
con licenza de’ Romani. E che sia vero
che i Latini si movessino per avere conosciuto
questo inganno, lo dimostra L. nello bocca
di Annio Setiuo pretore latino, il quale
nel consiglio loro disse queste parole :
Nam, si ctìam mine sub umbra feederis
cequi servilutem pati possumus ctc. Yedesi
pertanto i Romani ne’ primi augumenti loro non
essere mancati eziam della fraude; la quale fu
sempre necessaria ad usare a coloro che di
piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire
: la quale è meno vituperabile quanto è più
coperta, come fu questa de’ Romani. XIV. —
Ingannatisi molte volle gli uomini j credendo con
la umilila vincere la superbia. Vedesi molle
volte come la umilila non solamente* non
giova, ma nuoce, massimamente usandola con
gli uomini insolenti, che, o per invidia o
per altra cagione, hanno concetto odio
teco. Di che ne fa fede lo istorico
nostro in questa cagione di guerra intra i
Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i Sanniti con
i Romani, che i Latini gli avevano assaltati, i
Romani non vollono proibire ai Latini tal
guerra, desiderando non gli irritare: il
che non solamente non gli irritò, ma
gli fece diventare più animosi contro a
loro, e si scopersono più presto inimici.
Di che ne fanno fede le parole usate
da! prefato Annio pretore
latino nel medesimo concilio, dove dice: Tentaslis
patientiam negando mililem: (jais dubitai
cxarsisse eos ? Pcrtulerunt (amen hunc dolorem.
Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs feederatos
suos audierunl, ncc mnverunt se ab urbe. I Inde hcec
illis tanta modestia j, ni si a eonscienlia
virium , et n os trarum , et suarum? Conoscesi,
pertanto, chiarissimo per questo testo, quanto
la pazienza de’ Romani accrebbe P arroganza de’
Latini. E però, mai uno principe debbe
volere mancare del grado suo, e non
debbe mai lasciare alcuna cosa d’accordo,
volendola lasciare onorevolmente, se non quando
e’ la può, o e’ si crede che la
possa tenere : perchè gli è meglio quasi
sempre, sendosi condotta la cosa in termine
che tu non la possa lasciare nel modo
detto, lasciarsela torre con le forze, che
con la paura delle forze. Perchè se
tu la lasci con In paura, lo fai
per levarli la guerra, ed il più delle
volte non te la lievi: perche colui a
chi tu arai con una viltà scoperta concesso
quella, non starà saldo, rao ti vorrà
torre delle altre cose, e si accenderà più
contra di te, stimandoti meno; e dall'altra
parte, in tuo favore troverai i difensori
più freddi, parendo loro che tu sia o
debole, o vile: ma se tu, subito scoperta
la voglia dello avversario, prepari le
forze, ancoraché le siano inferiori a lui.
quello ti comincia a stimare; stimanti più
gli altri principi allo intorno; ed a tale
viene voglia di aiutarti, sendo in su P
arme, che abbandonandoti non ti aiuterebbe mai. Questo
si intende quando tu abbia uno inimico;
ma quando ne avessi più, rendere delle
cose che tu possedessi ad al •euno
di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse
di già scoperta la guerra, e per smembrarlo
dagli altri confederati tuoi inimici, fia
sempre partito prudente. XV. — Gli Stati
deboli sempre fieno ambigui nel risolversi : e sempre
le deliberazioni lente sono nocive.
in questa medesima materia, ed in questi
medesimi principi! di guerra intra i Latini
ed i Romani, si può notare come in
ogni consulta è bene venire allo individuo
di quello die si ha a deliberare, e non
stare sempre in ambiguo, nè in su lo
incerto della cosa. Il che si vede
manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando c’pensavano alienarsi da’ Romani.
Perchè avendo presentito questo cattivo umore
che ne’ popoli latini era entrato, i
Romani, per eertificarsi della cosa, c per
vedere se potevano senza mettere mano
all’arme riguadagnarsi quelli popoli, fecero loro intendere,
come e’ mandassero a Roma otto cittadini,
perchè avevano a consullare con loro. I
Latini, inteso questo ed avendo conscienza
di molte cose fatte centra alla voglia
de’ Romani, fcciono consiglio per ordinare
chi dovesse ire a Roma, e dargli commissione
di quello ch’egli avesse a dire. E stando
nel consiglio in questa disputa, Annio loro
pretore disse queste parole: Ad sumiuam veruni
nostrarum pertinerc arbitrar , ut vogilctis magis ,
quid agendum nobis, quam quid loqucndum
sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc
rebus nerba. Sono, senza dubbio, queste parole
verissime, e debbono essere da ogni principe e
da ogni repubblica gustate : perchè nella
ambiguità e nella incertit udine di quello
che altri voglia fare, non si sanno
accomodare le parole; ma fermo una volta
1’ animo, e deliberalo quello sia da
eseguire, è facil cosa trovarvi le parole,
lo ho notato questa parte più volentieri,
quanto io ho molte volte conosciuto tale
ambiguità avere nociuto alle pubbliche azioni,
con danno i* con vergogna della repubblica
nostra. E sempre mai avverrà, che ne* partiti ilubbii,
e dove bisogni animo a deliberargli, sarà questa
ambiguità, quando abbino ad esser consigliati e
deliberati da uomini deboli. Non sono meno
nocive ancora le deliberazioni lente e tarde, che
ambigue ; massime quelle che si hanno a
deliberare in favore di alcuno amico :
perchè con la lentezza loro non si
aiuta persona, e nuocesi a sè mede- simo. Queste
deliberazioni così fatte procedono o da debolezza
di animo e ili forze, o da malignità di
coloro che hanno a deliberare; i quali, mossi
dalla passimi propria di volere rovinare lo
Stato o adempire qualche suo desiderio, non lasciano
seguire la deliberazione, ma la impediscono e
la attraversano. Perchè i buoni cittadini,
ancora che vegghino una foga popolare
voltarsi alla parte perniciosa, mai impediranno
il deliberare, massime di quelle cose che
non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo
liranno in Siracusa, essendo la guerra grande
intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i
Siracusani in disputa se dovevano seguire V
amicizia romana o la cartaginese. E tanto era
lo ardore delle parti, che la cosa
stava ambigua, uè se ne prendeva alcuno
partito; insino a tanto che Apollonide, uno
de’ primi in Siracusa, con una sua
orazione piena di prudenza, mostrò come non
era da biasmare chi teneva E oppinione ili
aderirsi ai Romani, nè quelli che volevano seguire
la parte cartaginese; ma era bene da
detestare quella ambiguità e tardità di
pigliare il partito, perchè vedeva al tutto
in tale ambiguità la rovina della
repubblica; ma preso che si fusse il
partito, qualunque e’ si fosse, si poteva
sperare qualche bene. Nè potrebbe mostrare
più Tito Livio che si faccia in
questa parte, il danno che si tira
dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora
in questo caso de’ Latini : perchè, sendo i
Latini ricerchi da loro gli stessine
neutrali, e che il re venendo in Italia
gli avesse a mantenere nello Stato e ricevere
in proiezione: e dette tempo un mese
alla città a ratificarlo. Fu differita tale
ratificazione da chi per poca prudenza
favoriva le cose di Lodovico: intantoehè,
il re già sendo in su la vittoria, e
volendo poi i Fiorentini ratificare , non fu la
ratificazione accettata ; come quello che conobbe i Fiorentini
essere venuti forzati, e non voluntari nella
amicizia sua. Il che costò alla città
di Firenze assai danari, e fu per perdere
lo Stato : come poi altra volta per
simile causa li intervenne. E tanto più
fu dannabile quel partito, perchè non si
servi ancora il duca Lodovico; il
quale se avesse vinto, arebbe mostri molti
più segni di inimicizia conira ai
Fiorentini, che non fece il re. E benché
del male che nasce alle repubbliche di questa
debolezza se ne sia di sopra in uno
altro capitolo discorso; nondimeno, avendone di
nuovo occasione per un nuovo accidente, ho
voluto replicarne', parendomi, massime, materia che
debba esser dalie repubbliche simili alla
nostra notala. XVI. — Quanto i soldati ne’ nostri
tempi si disformino dalli anttcht ordini. ha
più importante giornata che fu mai fatta
in alcuna guerra con alcuna nazione dal
Popolo romano, fu questa che ei fece
con i popoli latini, nel consolato di
Torquato e di Decio. Perchè ogni ragione
vuole, che cosi come i Latini per averla
perduta diventarono servi, così sarebbono stati
servi i Romani, quando non la avessino
vinta. E di questa oppinone è L.; perchè in
ogni parte fa gli eserciti pari di
ordine, di virtù, di ostinazione c di
numero : solo vi fa differenza, che i capi
dello esercito romano furono più virtuosi
che quelli dello esercito latino. Yedesi
ancora come nel maneggio di questa giornata
nacquero duoi accidenti non prima nati, e che dipoi
hanno rari esempi: che de’ duoi Consoli,
per tenere fermi gli animi de’ soldati, ed
ubbidienti al comandamento loro, e diliberati al
combattere, 1’ uno ammazzò sè stesso, e I’
altro il figliuolo. La parità, che L. dice essere
in questi eserciti, era che, per avere
militato gran tempo insieme, erano pari di
lingua, d’ ordine e d’ arme: perchè nello
ordinare la zuffa tenevano uno modo
medesimo $ e gli ordini ed i capi degli
ordini avevano medesimi nomi. Era dunque
necessario, sondo di pari forze e di pari
virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria,
che fermasse e facesse più ostinati gli
animi dell’ uno che dell’altro: nella quale
ostinazione consiste, come altre volte si è
detto, la vittoria; perchè, mentre che la
dura ne’ petti di quelli che combattono,
mai non danno volta gli eserciti. E perchè la
durasse più ne’ petti de’ Romani che de’
Latini, parte la sorte, parte la virtù de’
Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad
ammazzare il figliuolo, e Decio sè stesso.
Mostra Tito Livio, nel mostrare questa
purililà di forze, tutto l’ ordine che
tenevano i Romani nelli eserciti e nelle zuffe.
Il quale esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello
che io vi giudico notabile, e quello che
per essere negletto da tutti i capitani di
questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuffe
di molti disordini. Dico, adunque, che per
il testo di Livio si raccoglie, come
lo esercito romano aveva tre divisioni
principali, le quali toscanamente si possono
chiamare tre schiere; e nominavano la prima
astati, la seconda principi, la terza
triarii: e ciascuna di queste aveva i suoi
cavalli. Nello ordinare una zuffa, ei
mettevano gli astatiinnanzi ; nel secondo
luogo, per diritto,
dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi
; nel terzo, pure nel mede»imo filo,
collocavano i triadi. I cavalli di tulli questi
ordini gli ponevano a destra ed a sinistra
di queste tre battaglie; le schiere de’
quali cavalli, dalla forma loro e dal
luogo, si chiamavano alce , perchè parevano come
due alie di quel corpo. Ordinavano la
prima schiera delli astati, che era nella
fronte, serrata in modo insieme che la
potesse spignere e sostenere il nimico. La
seconda schiera de’ principi, perchè non
era la prima a combattere, ma bene le
conveniva soccorrere alla prima quando fusse
battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano
i suoi ordini radi, e di qualità che la
potesse ricevere in sè senza disordinarsi
la prima, qualunque volta, spinta dal
nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza
schiera de* triadi aveva ancora gli ordini
più radi che la seconda, per potere
ricevere in sè, bisognando, le due prime
schiere de’ principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste schiere in questa forma,
appiccavano la zuffa : e se gli astati
erano sforzati o vinti, si ritiravano nella
ra-dila degli ordini de’ principi ; e
tuttiinsieme uniti, fatto di due schiere un
J corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora
erano ributtati e sforzati, si ritiravano tutti
nella radila degli ordini de* trioni; e
tutte tre le schiere diventate un corpo,
rinnovavano la zuffa : dove essendo
superati, per non avere più da rifarsi,
perdevano la giornata. E perchè ogni volta
che questa ultima schiera de’ triarii si
adoperava, lo esercito era in pericolo, ne
nacque quel proverbio: Res redacta est ad
triarios ; che ad uso toscano vuol dire:
Noi abbiamo messo I’ ultima posta. I
capitani dei nostri tempi, come egli hanno
abbandonato tutti gli altri ordini, e della
antica disciplina ei non ne osservano parte
alcuna, cosi hanno abbandonata questa parte, la
quale non è di poca importanza: perchè chi
si ordina da potersi nelle giornate rifare
tre volte, ha ad avere tre volte
inimica la fortuna a volere perdere, ed ha
ad avere per riscontro una virtù che
sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi
non sta se non in su M primo
urto, come stanno oggi gli eserciti
cristiani, può facilmente perdere ; perchè
ogni disordine, ogni mezzana virtù gli può
torre la vittoria. Quello che fa agli
eserciti nostri mancare di potersi rifare
tre volte, è lo avere perduto il modo
di ricevere I* una schiera uelP altra.
Il che nasce perchè al presente sf
ordinano le giornate con uno di questi
duoi disordini: o ei mettono le loro
schiere a spalle P una delP altra, e fanno
la loro battaglia larga per traverso, e
sottile per diritto; il che la fa più
debole, per aver poco dal petto alle
schiene. E quando pure, per farla più
forte, ei riducono le schiere per il verso
de’ Romani, se la prima fronte è rotta,
non avendo ordine di essere ricevuta dalla
seconda, s’ ingarbugliano insieme tutte, e rompono
sè medesime: perché se quella dinanzi è
spinta, ella urta la seconda; se la
seconda si vuol far innanzi, ella è
impedita dalla prima : donde che urlando
la prima la seconda, e la seconda la
terza, ne nasce tanta confusione, che
spesso uno minimo accidente rovina uno
esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi
nella zuffa di Ravenna, dove mori monsignor
de Pois, capitano delle genti di Prandi
(la quale fu, secondo i nostri tempi, assai
bene combattuta giornata) s’ ordinarono con uno
de’ soprascritti modi; cioè clic l’uno e 1’ altro
esercito venne con tutte le sue genti
ordinate a spalle : in modo che non
venivano’ avere nè 1’ uno nè 1’ altro
se non una fronte, ed erano assai più
per il traverso cìie per il diritto.
E questo avviene loro sempre dove egli hanno la
campagna grande, come gli avevano a Ravenna :
perché, conoscendo il disordine che fanno
nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo
fuggouo quando e’ possono col fare la
fronte larga, coni’ t detto ; ma quando
il paese gli ristringe, si stanno nel
disordine soprascritto, senza pensare il rimedio.
Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese
inimico, o se e’ predano, o se e’ fanno
altro maneggio di guerra. Ed a santo Regolo
in quel di Pisa, ed altrove, dove i
Fiorentini furono rotti da' Pisani ne’ tempi
della guerra che fu tra i Fiorentini e
quella città, per la sua ribellione dopo
la passata di Carlo re di Francia in
Italia, non nacque tal rovina d’ altronde,
clic dalla cavalleria amica; la quale sendo
davanti e ributtata da’ nimici, percosse nella
fanteria
fiorentina, e quella ruppe : donde tutto il
restante delle genti dierono volta : e messcr
Ciriaco dal Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza
mia molte volle, non essere mai stato
rotto se non dalla cavalleria degli amici.
1 Svizzeri, che sono i maestri delle
moderne guerre, quando ei militano coi
Franciosi, sopra tulle le cose hanno cura
di mettersi in lato, che la cavalleria
amica, se fusse ributtata, non gli urti. E
benché queste cose paiano facili ad
intendere, e facilissime a farsi; nondimeno non
si è trovato ancora alcuuo de’ nostri
contemporanei capitani, che gli antichi ordini
imiti, e gli moderni corregga. E benché gli
abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando
1’ una parte antiguardo, l’altra battaglia e
l’altra retroguardo; non se ne servono ad
altro che a comandargli nelli alloggiamenti: ma
nello adoperargli, rade volte è, come di
sopra è detto, che a tutti questi corpi
non faccino correre una medesima fortuna. E perchè
molti, per scusare la ignoranza loro,
allegano che la violenza delle artiglierie
non patisce che in questi tempi si
usino molti ordini degli antichi, vo-glio
disputare nel seguente capitolo que-sta materia,
ed esaminare se le artiglierie impediscono
che non si possa usare l’ antica virtù. XVII.
— Quanto si debbino sii inave dagli
eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e
se quella oppiatone che se ne ha in
universale j è vera. Considerando io, oltre alle
cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate
ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso,
giornate, e dagl’ Italiani fatti d’arme) furono
fatte dai Romani in diversi tempi ; mi è
venuto in considerazione la oppinione universale
di molti, che vuole che se in quelli
tempi fussino state le artiglierie, non
sarebbe stato lecito a’ Romani, nè sì
facile, pigliare le provincie; farsi tributari i
popoli, come e’ feciono ; nè arebbono in
alcuno modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono aiTcora,
che mediante questi instrumenti de’ fuochi,
gli uomini non possono usare nè mostrare
la virtù loro, come e’ potevano anticamente. E
soggiungono una terza cosa : che si viene
con piu diflìeultà alle giornale che
non si veniva allora, nè vi si può
tenere dentro quegli ordini di quelli tempi
; talché la guerra si ridurrà col tempo
in su le artiglierie. E giudicando non
fuora di proposito disputare se tali oppiuioui sono
vere, e quanto le artiglierie abbino cresciuto o
diminuito di forze agli eserciti, e se le
tolgano o danno occasione ai buoni capitani
di operare virtuosamente ; comiucerò a parlare quanto alla
prima loro oppinione : che gli eserciti
antichi romani non arebbono fatto gli
acquisti che feciono, se le artiglierie lussino
state. Sopra che, rispondendo, dico: come
e’si fa guerra o per difendersi, o per offendere;
donde si ha prima ad esaminare a quale
di questi duoi modi di guerra le
faccino più utile, o più danno. E benché
sia che dire fla ogni parte, nondimeno
io credo che senza comparazione faccino più
danno a chi si difende, che a chi offende.
La ragione che io ne dico è, che
quel che si difende, o egli è dentro a una
terra, o egli è in su’ campi dentro ad
uno steccato. S* egli è dentro ad una
terra, o questa terra è piccola, come sono
la maggior parte delle fortezze, o la è grande:
nel primo caso, chi si difende è al
tutto perduto, perchè P impeto delle artiglierie
è tale, che non trova muro, ancoraché
grossissimo, che in pochi giorni ei non
abbatta; e se chi è dentro non ha buoni
spazi da ritirarsi c con fossi e con
ripari, si perde; nè può sostenere 1*
impeto del nimico che volesse dipoi entrare
per la rottura del muro, nè a questo
gli giova artiglieria che avesse: perchè questa
è una massima, che dove gli uomini in
frotta e con impeto possono andare, le
artiglierie non gli sostengono. Però i furori
oltramontani nella difesa delle terre non sono sostenuti:
sou bene sostenuti gli assalti italiani, i
quali non in frolla, ma spicciolati si
conducono alle battaglie, le quali loro,
per nome mollo proprio,
chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno con
questo disordine e questa freddezza ad una
rottura d’ un muro dove sia artiglierie,
vanno ad una manifesta morte, c conira a
loro le artiglierie vogliono: ma quelli
clic in frotta condensati, e che runo
spinge l’altro, vengono ad una rottura, se
non sono sostenuti o da fossi o da ripari,
entrano in ogni luogo, c le artiglierie non gli
tengono; e se ne muore qualcuno, non
possono essere tanti che gl’ impedischino
la vittoria. Questo esser vero, si è
conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli
oltramontani in Italia, e mas-
sime in quella di Brescia : perchè, sendosi
quella terra ribellata da’ Franciosi, e tenendosi
ancora per il re di Francia la
fortezza, avevano i Veneziani, per sostenere V
impeto che ila quella potesse venire nella
terra, munita tutta la strada di
artiglierie che dalla fortezza alla città scendeva,
e postane a fronte e ne’ fianchi, ed in
ogni altro luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois non fece alcuno conto ;
anzi quello con il suo squadrone, disceso a
piede, passando per il mezzo di quelle,
occupò la città, nè per quelle si
sentì eli’ egli avesse ricevuto alcuno
memorabile danno. Talché, chi si difende in
una terra piccola, conte è detto, c trovisi
le mura in terra, e non abbia spazio
di ritirarsi con r ripari e con fossi, ed
abbiasi a fidare in su le artiglierie, si
perde subito. Se tu difendi tuta terra
gronde, e che tu abbia comodità di
ritirarti, sono nondiinanco senza comparazione
più utili le artiglierie a chi è di fuori,
che a chi è dentro. Prima, perchè a volere
che una artiglieria nuoca a quelli che sono
di fuora, tu sei necessitato levarti con
essa dal piano della terra; perchè, stando in
sul piano, ogni poco di argine e di riparo
che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu
non gli puoi nuocere. Tanto che avendoti
ad alzare, e tirarti sul corridoio delle
mura, o in qualunque modo levarti da terra,
tu ti tiri dietro due difficoltà: la
prima, che non puoi condurvi artiglieria
della grossezza e della potenza che può
trarre colui di fuora, non si potendo
ne’ piccoli spazi maneggiare le cose grandi
; I’ altra, che quando bene tu ve la
potessi condurre, tu non puoi fare quelli
ripari fedeli e sicuri, per salvare detta
artiglieria, che possono fare quelli di
fuora, essendo in su M terreno, ed
avendo quelle comodità e quello spazio che
loro medesimi vogliono: talmentechè, gli è
impossibile a chi difende una terra, tenere
le artiglierie ne’ luoghi alti, quando
quelli che soli di fuora abbino assai
artiglierie e polenti; e se egli hanno a venire
con essa ne’ luoghi bassi, ella diventa in
buona parte inutile, come è detto. Talché
la difesa della città si ha a ridurre a
difenderla con le braccia, come anticamente
si faceva, e con la artiglieria minuta : di che
se si trae un poco di utilità
rispetto a quella artiglieria minuta, se ne cava incomodità
che contrappesa alia comodità della artiglieria ;
perchè, rispetto a quella,. si riducono le mura
delle terre, basse e quasi sotterrate ne’ fossi:
talché, com’e’ si viene alle battaglie di mano,
o per essere battute le mura o per
essere ripieni i fossi, ha chi è dentro
molti più disavvantaggi che non aveva
allora, E però, come di sopra si disse,
giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia
le terre, che a chi è campeggiato. Quanto
alla terza cosa, di ridursi in uno
campo dentro ad uno steccato per non
fare giornata, se non a tua comodità o
vantaggio; dico che in questa parte tu
non hai più rimedio ordinariamente a difenderti
di non combattere, che si avessino gli
antichi; e qualche volta, per conto delle
artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Per- chè, se
il nimico ti giunge addosso, ed abbia
un poco di vantaggio del paese, come
può facilmente intervenire; e truovìsi più
alto di te; oche nello arrivare alio
tu non abbi ancora fatti i gini, e
copertoli bene con que luto, e senza che
tu abbi alcun ti disalloggia, e sei forzato
usci fortezze tue, e venire alla zuffa intervenne
agli Spagnuoli nel nata di Ravenna* i quali
essent nili tra il fiume del Ronco ed gine,
per non lo avere tirato U che
bastasse, e per avere i Frai poco il
vantaggio del terreno, constretti dalle artiglierie
usci fortezze loro, e venire alla zi dato,
come il più delle volte de sere, che
il luogo che tu avess con il campo
fusse più eminenti altri all’ incontro, c
che gli ar; sino buoni e sicuri, tale
che, r il sito e 1’ altre tue preparazio miro
non ardisse di assaltarti; in questo caso a
quelli modi c cainente si veniva, quando
uno il suo esercito in lato da non pi
sere offeso: i quali sono, co paese,
pigliare o campeggiare le terre tue amiche,
impedirti le vettovaglie; tanto che tu
sarai forzato da qualche necessità a
disalloggiare, e venire a giornata ; dove le
artiglierie, come di sotto si dirà, non
operano molto. Considerato, adunque, di quali
ragioni guerre feciono i Romani, e reggendo come
ei feciono quasi tutte le lor guerre
per offendere altrui, e non per difender
loro; si vedrà, quando sieno vere le
cose dette di sopra, come quelli arebbono
avuto più
vantaggio, e piu presto arebbono fatto i loro
acquisti, se le fussino state in quelli
tempi. Quanto alla seconda cosa, che gli
uomini non possono mostrare la virtù loro,
come ei potevano anticamente, mediante la
artiglieria ; dico eh’ egli è vero, che
dove gli uomini spicciolati si hanno a
mostrare, eh’ e’ portano più pericoli che
allora, quandoavessino a scalare una terra, o
fare simili assalti, dove gli uomini non
ristretti insieme, ma di per sè 1’
uno dall’ altro avessiuo a comparire. E vero die
gli capitoni e capi degli stanno sottoposti
più al perii! morte che allora, potendo
esser con le artiglierie in ogni lu giova
loro lo essere nelle ultii «Ire, e muniti
di uomini fortissi dimeno si vede che P
uno c P questi duoi pericoli fanno ra danni
istraordinari : perchè munite bene non si
scalano, i con assalti deboli ad assaltarh volerle
espugnare, si riduce la una ossidionc, come
anticamen ceva. Ed in quelle clic pure pe si
espugnano, non sono molto i pericoli che
allora: perchè n cavano anche in quel
tempo a fendeva le terre, cose da trarre se
non erano si furiose, facevam all’ ammazzare
gli uomini, *il s fello. Quanto alla
morte de’ci de’ condottieri, ce ne sono,
in v tro anni che sono state le
guerre simi tempi in Italia, meno esempi,
che non era in dieci anni di tempo
appresso agii antichi. Perchè, dal conte Lodovico
della Mirandola, che morì a Ferrara quando i
Veniziani pochi anni sono as- saltarono quello
Stato, ed il Duca di Nemors, che morì
alla Ciriguuola, in fuori; non è occorso
che d’artiglierie ne sia morto alcuno;
percdiè monsignor di Pois a Ravenna mori di
ferro, e non di fuoco. Tanto che, se
gli uomini non dimostrano particolarmente la
loro virtù, nasce non dalle artiglierie, ma
dai cattivi ordini, e dalla debolezza degli
eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto,
non la possono dimostrare nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro,
che non si possa venire alle mani, fc
che la guerra si condurrà tutta in su
P artiglierie, dico questa oppinione essere al
tutto falsa; e così ila sempre tenuta da
coloro che secondo P antica virtù vorranno
adoperare gli eserciti loro. Perchè, chi
vuole fare uno esercito buono, gli
conviene, con eser<o veri, assuefare gli
uomini scostarsi al nimico, e venire
cmenare della spada, e al pig
il petto; e si debbe fondare ile
fanterie clic in su’ cavagli, gioni che
di sotto si diranno, si fondi in su i
fanti ed in i predetti, diventano al
tutto le inutili; perchè con più facilit terie
nello accostarsi al nimict fuggire il colpo
delle artiglieri) potevano anticamente fuggire degli
elefanti, de’ carri falcati riscontri inusitati,
clic le farmane riscontrarono ; contra sempre
trovarono il rimedio: più facilmente lo
arebbono tr<tra a queste, quanto egli è pi tempo
nel quale le artiglierie i nuocere, che
non era quello potevano nuocere gli
elefanti < Perchè quelli nel mezzo delb disordinavano;
queste solo in zuffa (i Spediscono: il
quale impedìmento facilmente le fanterie
fuggono, o con andare coperte dalla natura
del sito, o con abbassarsi in su la
terra quando le tirano. 11 che unclie
per esperienza si è visto non essere
necessario, massime per difendersi dalle artiglierie grosse
; le quali non si possono in modo bilanciare,
o che se le vanno alte le non ti
truovino, o che se le vanno basse le non
ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle
mani, questo è più chiaro che la luce,
che nè le grosse nè le piccole ti possono
poi- offendere: perchè, se quello che ha 1’
artiglierie è davanti, diventa tuo prigione; s’
egli è dietro, egli offende prima 1’ amico
che te; a spalle ancora non ti può
ferire in modo che tu non lo possa
ire a trovare, e ne viene a seguitare l’effetto
detto. Nè questo ha molta disputa ; perchè
se ne è visto l’essempio de’ Svizzeri, i quali a
Novara, nel 4513, senza artiglierie e senza cavagli,
andarono a trovare lo esercito francioso munito
di artiglierie alle fortezze sue, e Io ruppon aver
alcuno impedimento da q la ragione è,
oltre alle cose sopra, clic l’artiglieria
ha biso sere guardata, a volere che la da
mura o da fossi o da argini gli manca
una di queste guani prigione, o la diventa
inutile : interviene quando la si ha a e con
gli uomini; il che gli ii nelle
giornate e zuffe campali. P le non si
possono adoperare, s quel modo che adoperavano
gl gli instrumenti da trarre; che levano
fuori delle squadre, p comhatlessino fuori dell i
ordini volta che o da cavalleria o erano
spinti, il refugio loro er alle legioni.
Chi altrimenti ne ! non la intende
bene, e fidasi s< cosa che facilmente lo
può in E se il Turco, mediante l’ ar conila
al Sofi ed il Soldauo h vittoria, è
nato non per altra virtù di quella,
che per lo spavento elle lo inusitato
roraore messe nella cavalleria loro. Conchiuggo
pertanto, venendo al fine di questo
discorso, l’ artiglieria essere utile in
uno esercito quando vi sia mescolata l’antica
virtù; ma senza quella, contea a uno
esercito virtuoso è inutilissima. XVIII. — Come
per V autorità de’ Romani j c per lo cssempio
della antica milizia, si debbe stimare più
lè fanterie che i cavagli.
E’ si può per molte ragioni e per
molti essempi dimostrare chiaramente, quanto i Romani
in tutte le militari azioni stimassino
più la milizia a piè che a cavallo, e sopra
quella fondassino tutti i disegni delle
forze loro: come si vede per molti
essempi, ed infra gli altri, quando si
azzuffarono con i Latini appresso il lago
Regiilo; dove già essendo inclinato lo
esercito romano, per soccorrere ai suoi
fecero discenti uomini da cavallo a piede, e f via,
rinnovata la zuffa, ebbon< toria. Dove
si vede manifeste Romani avere più
confidato in scudo a piede, che manleneiu vallo.
Questo medesimo termini in molte altre
zuffe, e sempre rono ottimo rimedio in gli
lort Nè si opponga a questo la < di
Annibaie, il quale veggendo i nata di
Canne, che i Consoli fatto discendere a piè
gli loro facendosi belle di simile parti Quatti
tnallem vinclos milii cquilcs ; cioè: io
arci più car gli dessino legati. La
quale < ancoraché la sia stata in bo uomo
eccellentissimo, nondimt ha a ire dietro alla
autorità, più credere ad una Repubblicf e a tanti
Capitani eccellentissin rono in quella, che
ad uno s<baie: ancoraché senza le auto siano
ragioni manifeste. Perchè 1’ uomo
a piede può andare in molti luoghi, dove uon
può andare il cavallo; puossi insegnarli
servare 1' ordine, e turbato che fusse,
come e’ lo abbia a riassumere: a’ cavagli è
diffìcile fare servare l’ordine, ed impossibile,
turbati che sono, riordinargli. Olirà di
questo, si trova, come negli uomiui, de’ cavagli
che kanno poco animo, e di quelli che
ne hanno assai: e molte volte interviene
che un cavallo animoso è cavalcato da un
uomo vile, ed uno cavallo vile da uno
animoso; ed in qualunque modo che segua questa
disparità, ne nasce inutilità e di- sordine.
Possono le fanterie ordinate facilmente rompere i
cavagli, e difficilmente esser rotte da quelli.
La quale oppinione è corroborata, oltre a molti essempi
antichi e moderni, dalla autorità di coloro che
danno delle cose civili regola : dove
mostrano come in prima le guerre si
cominciarono a fare con i cavagli, perchè non
era ancora 1’ onlinc delle fanterie; ma coi si
ordinarono, si conobbe subi loro erano più
utili, che quell per questo però che i
cavalli i necessari negli eserciti, e per perle,
e per scorrere e predai per seguitare i nimici
quando in fuga, c per essere ancora una
opposizione ai cavagli dej. sari: ma il
fondamento e il n l’esercito, c quello chesi debl
mare, debbono essere le fan infra i peccali
de* principi ita1 hanno fatto Italia serva
de’ I n q ii ci è il maggiore, clic ave poco
conto di questo ordine, volto tutta la
loro cura alla cavallo. Il quale disordine
è na malignità de* capi, e per la ign coloro
che tenevano stato. Pere dosi ridotta la
milizia italiana, ticinque anni indietro, in uo non
avevano stato, ma erano < pitali! di
ventura, pcusorono s me polessino mantenersi
la riputazione stando armati loro, e disarmati i
principi. E perchè uno numero grosso di fanti
non poteva loro essere continuamente pagato, e
non avendo sudditi da poter valersene, ed
uno piccolo numero non dava loro
riputazione, si volgono a tenere cavagli :
perchè dugcnto o trecento cavalli che erano
pagati ad uno condottiere, lo mantenevano
riputato; ed il pagamento non era tale,
che dagli uomini che tenevano stato non
potesse essere adempiuto. E perchè questo seguisse
più facilmente, e per mantenersi più in
riputazione, levarono tutta l’ affezione e la
riputazione da’ fanti, e ridussonla in
quelli loro cavalli: e in tanto crebbono
questo disordine, che in qualunque grossissimo
esercito era una minima parte di fanteria.
La quale usanza fece in modo debole,
insieme con molti altri disordini che si
mescolarono con quella, questa milizia italiana,
che questa provincia è stata facilmente calpesta
(ia tutti gii oltramontani. >più
apertamente questo errore, mare più i cavalli
che le fantei uno altro essempio romano. E Romani
a campo a Sora, ed i usciti fuori della
terra una tu cavalli per assaltare il
campo, fece all’ incontro il Maestro de romano
con la sua cavalleria, e di petto, la
sorte dette che nel scontro i capi dell’
uno e dell’ alti
cito morirono; e restali gli alti*governo, e
durando nondimeno I i Romani per superare
più fac lo inimico, scesono a piede, e cc sono
i cavalieri nimici, se si voi fendere, a
fare il simile: e co questo, i Romani ne
riportarom toria. Non può esser questo eì maggiore
in dimostrare quanto virtù nelle fantericche ne’
cavag che se nelle altre fazioni i Con cevano
discendere i cavalieri i era per soccorrere
alle fanterie i tivano, e che avevano
bisogno ili aiuto; ma in questo luogo
e’ discesono, non per soccorrere alle
fanterie nè per eombattere con uomini a
piè de’ nimici, ma combattendo a cavallo co’
cavalli, giudicareno, non potendo superargli a
cavallo, potere scendendo più facilmente vincergli.
Io voglio adunque conchiudere, che una
fanteria ordinata non possa senza grandissima
diffìcultà esser superata, se non da
una altra fanteria. Crasso e Marc’ Antonio
romani corsone per il dominio de’ Parti
molte giornate con pochissimi cavalli ed
assai fanteria, ed all’ incontro avevano
innumerabili cavalli de’ Parti. Crasso vi
rimase con parte dello esercito morto.
Marc’ Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco, in
queste afflizioni romane si vede quanto le
fanterie prevalevano ai cavalli : perchè essendo
in un paese largo, dove i monti son
radi, ed i fiumi radissimi, le marine
longinque, e discosto da ogni comodità;
nondimanco Marc’ Antonio, al giudicio de’ Parti
medesimi, mente si salvò; nè mai ebbe tutta
la cavalleria pnrtica te ordini dello
esercito suo. Se rimase, chi leggerà bene
le s vedrà come e’ vi fu piuttosto che
forzato: nè mai, in tutti sordini, i Parti
ardirono di uri sempre andando costeggiando pedendogli
le vettovaglie, prò gli e non gli
osservando, lo et od una estrema miseria.
Io avere a durare più fatica in p quanto
la virtù delle fanterie lente ebe quella
de’ cavalli, : fussino assai moderni essenv rendono
testimonianza pieniss è veduto novemila Svizzeri i da
noi di sopra allegata, and frontale
diecimila cavalli ed fanti, e vincergli: perchè i
cf li potevano offendere: i fanti, ] gente
in buona parte guascoi ordinata, stimavano
poco. Yi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra
Milano Francesco re di Francia, che aveva
seco ventimila cavalli, qua-♦ rantamila fanti e
cento carra d’artiglieria ; e se non vinsono
la giornata come a Novara, combatterono due
giorni virtuosamente; e dipoi, rotti che furono, la
metà di loro si salvarono. Presunse Marco
Regolo Attilio, non solo con la fanteria
sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e
se il disegno non gli riuscì, non fu
però che la virtù della sua fanteria
non fusse tanta, che ei non confidasse
tanto in lei che credesse superare quella
difficoltà. Replico, pertanto, che a voler
superare i fanti ordinati, è necessario opporre
loro fanti meglio ordinati di quelli:
altrimenti, si va ad una perdita manifesta.
Ne’ tempi di Filippo Visconti, duca di
Milano, scesouo ili Lombardia circa sedicimila
Svizzeri: donde il Duca avendo per capitano
allora il Carmignuola, lo mandò con circa mille
cavalli e pochi fanti allo incontro loro.
Costui non sappiendo 1* 01 combatter loro,
ne andò ad inc< con i suoi cavalli,
presu me nd( subito rompere. Ma trovatogli
i avendo perduti molti de’ suoi u ritirò :
ed essendo valentissimo sappiendo negli accidenti
nuovi nuovi partiti, rifattosi di gente a
trovare; e venuto loro all’i fece smontare a
piè tutte le s d’ arme, e fatto testa
di quelle fanterie, andò ad investire i S quali
non ebbono alcun rimet chè, sendo le
genti d’arme de gnuola a piè e bene armate, facilmente
entrare infra gli 01 Svizzeri, senza patire
alcuna lei entrati tra questi, poterono- fu offendergli:
talché di tutto il ni quelli, ne
rimase quella parte per umanità del Carmignuola servata.
Io credo che molti co questa differenza
di virtù che I’ uno e 1’ altro di
questi ordir: tanta la infelicità di questi
tempi, che nè gli essempi antichi nè i
moderni, nè la confessione dello errore è
sufficiente a fare che i moderni principi si
rav-vegghino ; e pensino che a volere ren-dere
riputazione alla milizia d’ una pro-vincia o
d’ uno Stato, sia necessario ri-suscitare
questi ordini, tenergli appresso,dar loro
riputazione, dar loro vita, ac-ciocché a lui e
vita c riputazione ren-dino. E come e’diviano
da questi modi,così diviano dagli altri
modi detti disopra : onde ne nasce
che gli acquistisono a danno, non a
grandezza d’uno Stato, come di sotto si
dirà. Che gli acquisii nelle re-pubbliche non
bene ordinate e che
secondo la romana virtù non procedono, sono
a rovina, non a esalta-
zione di esse. Queste contrarie oppinioni alla
verità, fondale in su’ mali essempi che
da que-sti nostri corrotti secoli sono
stati in-trodotti, fanno che gli uomini non
pen-sano a limare dai consueti modi. Quandosi
sarebbe potuto persuadere a uno ita-liano da
trenta anni in dietro, che die-cimila fanti
potessino assaltare in uiipiano diecimila
cavalli ed altrettanli, fanti, e con quelli non
solamente combattere,ina vincergli; come si
vede per lo essempio da noi più
volle allegato, a Novara? E benché le istorie
ne siano piene, /amen non ci arebbero
prestato fede; e se ci avessero prestato
fede, arebbero detto che in questi tempi
s’arma meglio, e che una squadra d’ uomini d’arme
sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non
che una fanteria: e così conqueste false
scuse corrompevano il giudizio loro; nè
arebbero considerato, che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquanta mila cavalli di
Tigrane; e che tra quelli cavalieri era una
sorte di cavalleria simile al tutto agii
uomini d’arme nostri: c così questa fallacia è
stata scoperla dallo essempio delle genti
oltramontane. E come e’ si vede per quello essere
vero, quanto alla fanteria, quello che
nelle istorie si narra; così doverrebbero
credere esser veri ed utili tutti gli altri
ordini antichi. E quando questo fusse credulo,
le repubbliche ed i principi er rerebbero meno;
sariano più forti ad op-porsi ad uno
impeto che venisse loro ad-dosso; non
spererebbero nella fuga: e quelli che
avessino nelle mani un vivere civile, Io
saperebbero meglio indirizzare, o per la via
dello ampliare, o per la via del mantenere;
e crederebbero che lo accrescere la città
sua d’ abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati,
far capitale delle prede, domare il nimico
con le scorrerie e con le giornate e non
con le ossidioni, tenere ricco il pubblico,
povero il privato, mantenere con sommo
studio li esercizi militari, sono le vie a
fhre grande una repubblica, ed acquistare
imperio. E quando questo modo dello ampliare
non gli piacesse, penserebbe che gli
acquisti per ogni altra via sono la
rovina delle repubbliche, e porrebbe freno ad
ogni ambizione; regolando bene la sua città dentro
con le leggi e co’ costumi, proi- bendogli r
acquistare e solo pensando a difendersi, e le
difese tenere ordinate bene: come fanno le
repubbliche della Magna, le quali in questi
modi vivono e sono vi v ute libere un
tempo. Nondi- meno, come altra volta dissi
quando di- scorsi la differenza che era da
ordinarsi per acquistare a ordinarsi per mante- nere; è
impossibile che ad una repubblica riesca lo
stare quieta, c godersi la sua libertà e
gli pochi confini: perchè, se lei non
molesterà altrui, sarà molestata ella ; e dallo
essere molestata le nascerà la voglia e la
necessità dello acquistare; c quando non avesse
il nimico fuora, lo troverebbe in casa :
come pare necessario intervenga a tutte le grandi
cittadi. b se le repubbliche della Magna
possono vivere loro in quel modo, ed
hanno potuto durare un tempo; nasce da
certe condizioni che sono in quel paese,
le quali non sono altrove, - senza le
quali non potrebbero tenere simil modo
di vivere. Era quella parte della Magna
di che io parlo, sottoposta allo imperio
romano come la Francia e la Spagna:
ma venuto dipoi in declinazione 1* imperio,
e ridottosi il titolo di tale imperio in
quella provincia, comin-ciarono quelle ciltadi
più potenti, se-condo la viltà o necessità
degFimpera-dori, a farsi libere, ricomperandosi dallo imperio,
con riservargli un piccolo censo annuario;
tanto che, a poco a poco, tutte quelle
cittadi che erano immediate dello imperadore, e
non erano soggette ad alcuno principe, si
sono in simil modo ricomperate. Occorse in
questi medesi- mi tempi che queste cittadi
si ricomperavano, che certe comunità sottoposte
al duca d’Austria si ribellarono da lui;
tra le quali fu Filiborgo, c Svizzeri, e si- mili
; le quali prosperando nel principio, pigliarono
a poco a poco tanto augumento, che, non
che e’sieno tornati sotto il giogo d’
Austria, sono in timore a tutti i loro
vicini: e questi sono quelli che si
chiamano Svizzeri. É, adunque, questa provincia
compartita in Svizzeri, repubbliche (che chiamano
terre franche), principi ed imperadore. E la
cagione che, intra tante diversità di vivere, non
vi nascono, o, se le vi nascono, non vi
durano molto le guerre, è quel segno dell’
imperadore ; il quale, avvenga che non abbi
forze, nondimeno ha fra loro tanta
riputazione, eli’ egli è uno loro
conciliatore, e con T autorità sua, interponendosi
come mezzano, spegne subito ogni scandalo. E
le maggiori e le più lunghe guerre vi
siano state, sono quelle che sono seguite
intra i Svizzeri ed il duca d’Austria; e
benché da molti anni in qua lo
imperadore ed il duca d’Austria sia
una cosa medesima, non per tanto non
ha mai potuto superare l’audacia ilei
Svizzeri, dove non è mai stato modo
d’accordo, se non per forza. Nè il
resto della Magna gli ha porti molti aiuti;
sì perchè le comunità non sanno offendere
chi vuole vivere libero come loro ; sì
perchè quelli principi, parte non possono
per esser poveri, parte non vogliono per
avere invidia alla potenza sua. Possono
vivere, adunque, quelle comunità contente del
piccolo loro dominio, per non avere
cagione, rispetto aii’dulorità imperiale, di
disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro
alle mura loro, per aver il nimico
propinquo, e. che piglierebbe 1’ occasione
d’-oc-euparle, qualunque volta le discordassino. Che
se quella provincia fusse condizionata
altrimenti, converrebbe loro cercare d’ ampliare
e rompere quella loro quiete. E perchè altrove
non sono tali condizioni, non si può
prendere questo modo di vivere; e bisogna o
ampliare per via di leghe, o ampliare come
i Romani. E ehi si governa altrimenti, cerca non
la sua vila, ma la sua morte e
rovina: perchè in mille modi e per molte cagioni
gli acquisii sono dannosi; perchè gli sta
molto bene insieme acquistare imperio, c non
forze; e chi acquista imperio e non forze insieme,
conviene che rovini. Non può acquistare
forze chi impoverisce nelle guerre, ancora
che sia vittorioso; che ei mette più
che non trae degli acquisti: come hanno
fatto i Veniziani ed i Fiorentini, i quali sono stati
molto più deboli, quando V uno aveva la
Lombardia e V altro la Toscana, che non
erano quando 1’ uno era contento del
mare, e V altro di sei .miglia di confini.
Perchè tutto è nato da avere voluto
acquistare, e non avere saputo pigliare il
modo; e tanto più meritano biasimo, quanto
egli hanno meno scusa, avendo veduto il
modo hanno tenuto i Romani, ed avendo
potuto seguitare il loro essempio, quando i
Romani, senza alcuno essempio, per la
prudenza loro, da loro medesimi lo seppono
trovare. Fanno, oltra di questo, gli
acquisti qualche volta non mediocre dauuo
ad ogni bene ordinata repubblica, quando e’ si acquista
una città o una provincia piena di delizie,
dove si può pigliare di quelli costumi
per la conversazione che si ha con
quelli: come intervenne a Roma, prima, nello
acquisto di Capova; e dipoi, ad Annibale. E
se Capova fusse stata più longinqua dalla
città, che lo errore de* soldati non
avesse avuto il rimedio propinquo; o che
Roma fusse stata in alcuna parte corrotta;
era senza dubbio quello acquisto la rovina
della Repubblica romana. E L. fa fede di
questo con queste parole: Jam lune minime
salubris militari disciplina Capita j instrumentum
omnium nolupta- tunij dclinitos militimi animos
avertit a memoria patria, E veramente, simili città
o provincie si vendicano contra al vincitore
senza zuffa e senza sangue ; perchè,
riempiendoli de’ suoi tristi co- stumi, gli
espongono ad essere vinti da
qualunque gli assalta.
E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue
salire, aver considerata questa parte, dicendo:
thè nei petti romani per gli acquisti delle
terre peregrine erano intrati i costumi peregrini
; ed in cambio di parsimonia e di altre
eccellentissime virtù, gala et luxuria incubuitj
victumque ulciscìtur orbem. Se, adunque, V
acquistare fu per esser perniziosi ai
Romani nei tempi che quelli con tanta
prudenza e tanta virtù procedevano, che sarà
adunque a quelli che discosto dai modi
loro pro- cedono ? e che, oltre agli altri errori
che fanno, di che se ne è di
sopra di- scorso assai, si vagliono dei
soldati o mercenari o ausiliari ? Donde ne
risulta loro spesso quei danni di che
nel se- guente capitolo si farà menzione. Gap.
XX. — Quale pericolo porti quel principe o
quella repubblica che si vale della milizia
ausiliare o merce- naria. Se io non avessi
lungamente trattato in altra mia opera,
quanto sia inutile la milizia mercenaria ed
ausiliare, e quanto utile la propria, io
mi disten-derei in questo discorso assai
più clic non farò ; ma avendone altrove
parlato a lungo, sarò in questa parte brieve. Nè
mi è paruto in tutto da passarla, avendo
trovato in L., quanto ai soldati ausiliari,
sì largo essempio ; per- chè soldati ausiliari sono
quelli che un principe o una repubblica
manda, capitanati c pagati da lei, in tuo
aiuto. E venendo al testo di L., dico che,
avendo i Romani, in diversi luoghi, rotti
due eserciti de’ Sanniti con li eserciti
loro, i quali avevano mandati al soccorso
de* Capovani; e per questo liberi i Capovani
da quella guerra ehe i Sanniti facevano
loro; e volendo ritornare verso Roma; ed
acciò che i Capovani, spogliati di presidio,
non diventassino di nuovo preda dei
Sanniti; lasciarono due legioni nel paese
di Capova, che gli difendesse. Le quali
legioni marcendo nell* ozio, cominciarono a
dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata
la patria e la riverenza del Senato,
pensarono di- prendere T armi, ed insignorirsi di
quel paese che loro con la loro virtù
avevano difeso, parendo loro che gli abitatori non
fussino degni di possedere quelli beni che
non sapevano difendere. La qual cosa
presentita, fu dai Romani op- pressa e corretta:
come, dove noi par- leremo delle congiure,
largamente si mostrerà. Dico pertanto di
nuovo, come di tutte V altre qualità di
soldati, gli ausiliari sono i più dannosi.
Perchè in essi quel principe o quella repubblica che
gli adopera in suo aiuto, non ha autorità
alcuna, ma vi ha solo V autorità colui
che li manda. Perchè i soldati au- siliari
sono quelli che ti sono mandati da un
principe, come ho detto, sotto suoi
capitani, sotto sue insegne e pagati da
lui: come fu questo esercito che i Romani
mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto
eh’ egli hanno, il piùdelle volte
predano così colui che gli hacondotti,
come colui contea a chi e’ sonocondotti ; e
lo fanno o per malignità delprincipe che
gli manda, o per ambizionloro. E benché la
intenzione de’ Romaninon fusse di rompere
1’ accordo e leconvenzioni che avevano
fatte coi Capo-vani; nondimeno la facilità
che parevaa quelli soldati di opprimergli
fu tanta,che gli potette persuadere a pensare
ditorre ai Capovani la terra e lo
stato.Potrebbesi di questo dare assai
essempi;ma voglio mi basti questo, e quello
deiRegini, ai quali fu tolto la vita
e laterra da una legione che i Romani
viavevano messa in guardia. Debbe, adun-que,
un principe o una repubblica pi-gliare
prima ogni altro partilo, che ri-correre a
conti aì re nello Stato suo persua
difesa genti nusiliarie, quando eis’ abbia a
fidare sopra quelle ; perchèogni patto,
ogni convenzione, ancora chedarà, di’ egli
arà col nemico, gli saràpiù leggieri
che tal partito. E se si leg-geranno bene
le cose passate, c diseor-rerannosi le presenti,
si troverà, peruno che n’abbia avuto
buon fine, infi-niti esser rimasi ingannati.
Ed uno prin-cipe o una repubblica ambiziosa
nonpuò avere la maggiore occasione di
oc-cupare una città o una provincia, cheesser
richiesto che mandi gli esercitisuoi alla
difesa di quella. Pertanto, co-lui che è
tanto ambizioso che, non so-lamente per
difendersi ma per offenderealtri, chiama
simili aiuti, cerca d’acqui-stare quello che
non può tenere, e cheda quello che
gliene acquista gli puòfacilmente esser
tolto. Ma l’ ambizionedell’ uomo è tanto
grande, che per ca-varsi una presente
voglia, non pensa almale che è in
brieve tempo per risul-targliene. Nè lo
muovono gli antichi es-sempi, cosi in
questo come nell’ altrecose discorse; perchè,
se e’ fussino mossida quelli, vedrebbero
come quanto piùsi mostra la liberalità
coi vicini, e d’es-sere più alieno da
occupargli, tanto piùti si gettano in
grembo: come di sotto,per lo essempio
de’ Capovani, si dirà.Gap. XXI. — Il
primo Pretore che i Ro-mani mandarono in
alcun luogoj fua Capova, dopo quattrocento
anni chZcominciarono a far guerra. Quanto i
Romani nei modo del pro- cedere loro circa
Y acquistare fossero differenti da quelli che
ne’ presenti tempi ampliano la iuri&dUionc
loro, si è assai di sopra discorso; e come
e’ lasciavano quelle terre, che non disfacevano,
vivere con le leggi loro, eziandio quelle
che non come compagne, ma come soggette si
arrendevano loro; ed in esse non lu- sciavano
alcun segno d’ imperio per il Popolo
romano, ma Y obbligavano ad alcune condizioni,
le quali osservando, le mantenevano nello
stato e dignità loro. E conoscesi questi modi
esser stati osservati infino che gli
uscirono d’ Ita- lia, e che cominciarono a ridurre i
re- gni e gli Stati in provincie. Di questo ne
è chiarissimo essempio, che il primo
Pretore che fusse mandato da loro in alcun
luogo, fu a Capova: il quale vi mandarono,
non per loro ambizione, ma perchè e’
ne furono ricerchi dai Capo-vani; i quali,
essendo intra loro discordia, giudicarono esser
necessario avere dentro nella città un
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse.
Da questo essempio gli Anziati mossi, e
constretti dalla medesima necessità, domandarono ancora
loro un Prefetto; e Tito Livio dice in
su questo accidente, ed in 6U questo
nuovo modo d’ imperare, quod /aro non
solttm arma j sed jura romana pollebant. Yedesi,
pertanto, quanto qu$- sto modo facilitò I’
augumento romano. Perché quelle città, massime,
che sono use a viver libere, o consuete
governarsi per suoi provinciali, con altra quiete
stanno contente sotto uno dominio che non
veggono, ancora eli’ egli avesse in sè
qualche gravezza, che sotto quello che
veggendo ogni giorno, pare loro che ogni
giorno sia rimproverata loro la servitù.
Appresso, ne seguita un al-tro bene per
il principe: che non avendo i suoi ministri
in mano i giudizi, ed i magistrati che
civilmente o criminal- mente rendono ragione in
quelle cittadi, non può nascere mai
sentenza con ca- rico o infamia del principe; e
vengono per questa via a mancare molte cagioni «li
calunnia e d’ odio verso di quello. E che
questo sia il vero, oltre agli antichi esscinpi
che se ne potrebbono addurre, ee n’ è
uno essempio fresco in Italia. Perchè, come
ciascuno sa, scudo Genova stata più volte
occupata da’ Franciosi, sempre quel re,
eccetto che ne’ presenti tempi, vi ha
mandato un governatore francioso che in suo
nome la governi. Al presente solo, non
per elezione del re, ma perchè cosi
ha ordinato la ne- cessità, ha lasciato
governarsi quella città per sè medesima, e
da un gover- natore genovese. E senza dubbio, chi
ricercasse quali di questi duoi modi rechi
più sicurtà al re dell* imperio di essa,
e più contentezza a quelli popolari, senza dubbio
approverebbe questo ultimo modo. Oltra di
questo, gli uomini tanto più ti si
gettano in grembo, quanto più tu pari
alieno dallo occupargli ; e tanto meno ti
temono per conto della loro li- bertà,
quanto più sei umano e dome- stico con
loro. Questa dimestichezza e liberalità fece i
Capovani correre a chie- dere il Pretore ai
Romani : che se dai Romani si fusse
mostro una minima voglia di mandarvelo,
subito sarebbono ingelositi, c si sarebbono
discostati da loro. Ma che bisogna ire
per gli essempi a Capova ed a Roma,
avendone in Fi-lenze ed in Toscana?
Ciascuno sa quanto tempo è che la città
di Pistoia venne volontariamente sotto V imperio
fioren-tino. Ciascuno ancora sa quanta inimi-cizia è
stata intra i Fiorentini, ed i Pi-sani, Lucchesi
e Sanesi : e questa diver-sità d’animo non è nata
perchè i Pi-stoiesi non prezzino la loro libertà come
gli altri, e non si giudichino da quanto
gli altri; ma per essersi i Fio-rentini
portoti con loro sempre come fratelli, e
con gli altri come nimici. Questo ha
fatto clic i Pistoiesi sono corsi volontari
sotto F imperio loro : gli altri hanno
fatto e fanno ogni forza per non vi
pervenire. E senza dubbio, i Fioren- tini se, o
per vie di leghe o di aiuto, avessero
dimesticati e non inselvatichiti i suoi vicini, a
quest’ora sarebbero si-gnori di Toscana. Non è
per questo che io giudichi che non si
abbia ad operare l’armi e le forze; ma
si debbono riser- vare in ultimo luogo,
dove e quando gli altri modi non bastino. Quanto
siano false molte volte le oppinioni degli
uomini nel giudicare le cose grandi. Quanto
siano false molte volle le op-
pinioui degli uomini, 1’ hanno visto e veggono
coloro che si trovano testimoni delle loro
deliberazioni: le quali molle volte, se non
sono deliberate da uomini eccellenti, sono
contrarie ad ogni verità. E perchè gli
eccellenti uomini nelle repubbliche corrotte, nei
tempi quieti massime, e per invidia c per
altre ambiziose cagioni, sono inimicati; si va dietro
a quello che da uno comune in- ganno è
giudicato bene, o da uomini
che più presto vogliono i favori che il bene
deir universale, è messo innanzi. Il quale
inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi,
e per necessità si rifugge a quelli che
nei tempi quieti erano come dimenticati :
come nel suo luogo in questa parte
appieno si discorrerà. Nascono an cora
certi accidenti, dove facilmente sono ingannali
gli uomini che non hanno grande Esperienza
delle cose, avendo in sè quello accidente
che nasce molti ve* risimili, atti a far
credere quello die gli uomini sopra tal
caso si persuadono. Queste cose si sono
dette per quello che Numicio pretore,
poiché i Latini furono rotti dai Romani,
persuase loro; e per
quello che pochi anni sono si credeva per
molti, quando Francesco 1 re di Francia
venne ali’ acquisto di Milano, che era
difeso dai Svizzeri. Dico per- tanto, che,
essendo morto Luigi XII, e succedendo nel
regno di Francia Fran- cesco d’ Angolem, c
desiderando resti- tuire al regno il ducato
di Milano, stato pochi anni innanzi
occupato dai Sviz- zeri mediante il conforto
di Papa Giu-lio II, desiderava aver aiuti
in Italia che gli facilitassero l’ impresa ;
cd oltre ni Veniziani, che il re
Luigi s’aveva rigua- dagnati, tentava i Fiorentini e
Papa Leone X ; parendogli la sua impresa più fucile
qualùnque volta s’ avesse riguada-gnati costoro,
per essere le genti del re di Spagna
in Lombardia, ed altre forze dello
imperadore in ^Verona. Non cede Papa Leone
alle voglie del re, ma fu persuaso da
quelli che lo consigliavano (secondo si
disse), si stesse neutrale, mostrandogli in
questo partito consistere la vittoria certa:
perchè per la Chiesa non si faceva
avere potenti in Italia nè il re nè i
Svizzeri; ma volendola ridurre nell’antica libertà,
era necessario liberarla dalla servitù dell’
uno e dell’altro. E perchè vincere 1’ uno e
1’ altro, o di per sè o tutti due
insieme, non era possibile 'r conveniva che
superassino 1’ uno l’altro, e che la Chiesa
con gli amici suoi urlasse quello poi
che rimanesse vincitore. Ed era impossibile
trovare migliore occasione che la presente,
sen-do 1’ uno e 1’ altro in su’
campi, ed aven-do il Papa le sue
forze ad ordine da potere rappresentarsi in
sui confini di Lombardia, e propinquo all’
uno e l’altro esercito, sotto colore di
voler guardare le cose sue, e quivi tanto
stare che ve- nissero alla giornata; la
quale ragione- volmente, sendo Y uno e V altro esercito
virtuoso, doverrebbe esser sanguinosa per tutte
due le parti, e lasciare in modo debilitato
il vincitore, che fusse al Papa facile
assaltarlo e romperlo: e cosi ver- rebbe con sua
gloria a rimanere signore di Lombardia, ed
arbitro di tutta Italia. E quanto questa
oppiuione fusse falsa, si vide per lo
evento della cosa: perchè, sendo dopo una
lunga zuffa sufi supe- rati i Svizzeri, non
che le genti del Papa c di Spagna
presumessero assaltare i vincitori, ma si
prepararono alla fuga ; la quale ancora non
sarebbe loro giovata, se non fusse stato o
la umanità o la freddezza del re, che
non cercò la seconda vittoria, ma gli
bastò fare accordo con la Chiesa. Ha
questa oppinione certe ragioni che discosto
paiono vere, ma sono al tutto aliene
dalla verità. Perchè, rade volte accade che
M vincitore perda assai suoi soldati: perchè de5
vincitori ne muore nella zuffa, non nella
fuga ; e nello ardore del combattere, quando
gli uo- mini hanno volto il viso 1*
uno all* altro, ne cade pochi, massime
perchè la dura poco tempo il più
delle volte; e quando pur durasse assai
tempo, e de’ vincitori ne morisse assai, è tanta
la riputazione che si tira dietro la
vittoria, ed il ter- rore che la porta
seco, che di lunga avanza il danno
che per la morte de'suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il
quale, in su la oppinione che e* fusse
debilitato, andasse a trovarlo, si troverebbe
ingannato; se già non fusse l’esercito
tale, che d’ogni tempo, e to- nanti alla
vittoria e poi, potesse com- batterlo. In questo
caso e’ potrebbe, se- condo la sua fortuna
e virtù, vincere e perdere; ma quello clic
si fusse az- zuffato prima, ed avesse
vinto, arebbe piuttosto vantaggio dall’altro. 11
che si conosce certo per la esperienza
de’ Lati- ni e per la fallacia che Nummo
pretore prese, e per il danno che ne
riportorno quelli popoli che gli crederono:
il quale, vinto che i Romani ebbero i
Latini, gri-dava per tutto il paese di
Lazio, che allora era tempo assaltare i
Romani de- bilitati per la zuffa avevano
fatta con loro; e che solo appresso i
Romani era rimaso il nome della vittoria,
ma tutti gli altri danni avevano sopportati
come se fussino stati vinti; c che ogni
poco di forza che di nuovo gli
assaltasse, era per spacciargli. Donde quelli
popoli che gli crederono, fecero nuovo
esercito, e su- bito furono rotti, e patirono
quel danno che patiranno sempre coloro che
ter- ranno simili oppinioni. Quanto i Romani nel giudicare
i sudditi per alcuno acci- dente che necessitasse
tal giudizio j fuggivano la via del mezzo.
Jam Laiio is status crai rerum * ut ncque
pacem , ncque bcllum pati possnnt. Di tutti
gli stati infelici, è infelicissimo quello d’
un principe o d’ una repub- blica clic è
ridotto in termine che non
può ricevere la pace, o sostenere la guerra
: a che si riducono quelli che sono dalie
condizioni della pace troppo offesi ; e dall’
altro canto, volendo far guerra, convien
loro o gittarsi in preda di chi gli
aiuti, o rimanere preda del nimico. Ed a
tutti questi termini, si viene per cattivi
consigli, e cattivi pala- titi, da non avere
misuralo bene le forze sue, come di
sopra si disse. Perchè quella repubblica o quei
principe che bene le misurasse, con
difficultà si cou- durrebbe nel termine si
condussono i Latini: i quali quando non dovevano accordare
con i Romani, accordarono; e quando non dovevano
rompere loro guerra, la ruppono: e così
seppono fare in modo, che la inimicizia
ed amicizia dei Romani fu loro ugualmente
danno- sa. Erano, adunque, vinti i Latini ed al tutto
afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi
da Cammillo: il quale avendogli costretti a darsi
e rimettersi nelle brac- cia de’ Romani, ed
avendo messo la guar- dia per tutte le
terre di Lazio, e preso da tutte gli
staticità ; tornato in Roma, riferì al
Senato come tutto Lazio era nelle mani' del
Popolo romano. E per- chè questo giudizio è
notabile, e ineritad’ essere osservato, per
poterlo imitare
quando simili occasioni sono date a’
principi, io voglio addurre le parole di
Li- vio poste in bocca di Cammillo; le
quali fanno fede e del modo che i Romani tennono
in ampliare, e come ne’ giudizi di Stato
sempre fuggirono la via del mezzo, e si
volsono agli estremi: perchè un governo non
è altro che tenere in modo i sudditi, che
non ti possano o debbano offendere. Questo
si fu o con assicurarsene in tutto,
togliendo loro ogni via da nuocerti; o con
beneficargli in modo, che non sia
ragionevole ch’egli- no abbino a desiderare di
mutar fortuna. li che tutto si comprende, e
prima per la proposta di Cammillo, c poi
per il giudizio dato dal Senato sopra
quella. Le parole sue furono queste: Dii
im- mortale s ita vos potentcs hujus constiti fecerunl,
ut sit Lalium, an non sii , in vostra
manu posuerint. Jtaque pacctn vobiSj quod
ad Lalinos allinei, parare in perpeluum,
vcl scevicndo, vel ig na- scendo potestis. Vultis
crudeliter consti- leve in dedilos, viclosque ?
licei delere omno I. aduni. Vultis, exemplo
majorum, auqcrc rem romanam , viclos in civita- lem
accipiendo ? materia crescendi per summam gloriam
suppeditat. Certe id fìrmissimum imperium est,
quo obedien- tes gaudenl. Illorum igitur anirnos
, dum cxpcctatione , slupenl, seti pana, seu benefìcio
prceoccupari opportet. A questa proposta successe
la deliberazione del Senato: la quale fu,
secondo le parole del Consolo, che recatosi
innanzi, terra per terra, tutti quelli eh’
erano di mo- mento, o gli beneficarono o gli
spenso- no ; facendo ai beneficati esenzioni, pri
vilegi, donando loro la città, e da ogni parte
assicurandogli ; di quelli altri dis- fecero le
terre, mandaronvi colonie, ri- dussongli in
Roma, dissiparongli tal- mente che con \9
arme e con il consiglio non potevano più
nuocere. Nè usorno mai la via neutrale
in quelli, come ho detto, di momento.
Questo giudizio deb- bono i principi imitare. A
questo do- vevano accostarsi i Fiorentini, quando nel
1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val
di Chiana : il che se avessino fatto, nrebbero
assicurato l’ imperio loro, e fatta grandissima
la città di Firenze, e datogli quelli
campi che per vivere gli mancano. Ma
loro usarono quella via del mezzo, la
quale è perniziosissima nel giudicare gli uomini;
e parte degli Aretini ne confinarono, parte
ne con- dennarono; a tutti tolsono gli
onori e gli loro antichi gradi nella
città; e la- sciarono la città intera. E se alcuno
cit- tadino nelle deliberazioni consigliava che Arezzo
si disfacesse ; a quelli che pareva esser
più savi, dicevano come sarebbe poco onore
della repubblica disfarla, perchè parrebbe che
Firenze mancasse di forze di tenerla. Le
quali ragioni sono di quelle che paiono e
non sono vere; perchè con questa medesima
ragione non si arebbe ad ammazzare uno
parricida, uno scellerato e scandaloso, sendo vergogna
di quel principe mostrare di non aver
forze da poter frenare uno uomo solo. E
non veggono questi tali che hanno simili
oppinioni, come gii uomini particolarmente, ed
una città tutta in-sieme pecca talvolta
contra ad uno Stato, che per esempio
agli altri, per sicurtà di sé, non ha
altro rimedio un principe che spengerla. E
l’onore con-siste nel sapere e potere castigarla
; non nel potere con mille pericoli tenerla: perchè
quel principe che non castiga chi erra,
in modo che non possa più errare, è
tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i
Romani dettero, quanto sia necessario si
conferma ancora per la sentenza che dettero
de’ Privernati.
Dove si debbe, per ii testo di
Livio, no-tare due cose: 1’ una, quello
che di so-pra si dice, che i sudditi
si debbono o beneficare o spengere: Poltra,
quanto la generosità dell’ animo, quanto il
par- lare il vero giovi, quando egli è detto uel
conspetto degli uomini prudenti. Era ragunato
ii Senato romano per giudicare de’ Privernati, i
quali sendosi ribellati, erano di poi per
forza ritornati sotto la ubbidienza romana.
Erano mandati dal popolo di Priverno molti
cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo
venuti al conspetto di quello, fu detto
ad un di loro da un de’ Sena- tori,
quam pcenam merilos Privernales censeret. Al
quale Privernate rispose : E am y quam
merentur qui se libevtale dignos ccnsent.
Al quale il Consolo re- plicò : Quid si
pcenam remiltimus vobis, qualcm nos pacati i
vobiscum habituros speremus ? A che quello
rispose: Si bo~m tm dederitis , et fidelem
et perpetuarli ; si malam , haud diuturna
m. Donde la più savia parte del
Senato, ancora che molli se n’ alterassino,
disse: se audi •visse vocem el liberi
et viri ; nec credi posse Uhm popolum , aul
hominem, de nique in ea condilione cujus
eum pestìi -teat, diutius quam nccesse sii,
mansu rum. ibi pacem esse fidam , ubi
volun-tarii pacati svit , ncque eo loco ubi
scr-vitutem esse velini , / idem sperandovi esse.
Ed in su queste parole, deliberorno che i
Privcrnati fussero ciltadini roma- ni, e de’
privilegi della civililà gli ono- rarono, dicendo
: eos demum qui nihil prceterquam de
liberiate cogitant,dignos esse , qui Romani fiant.
Tanto piacque agli animi generosi questa
vera e ge- nerosa risposta; perchè ogni altra ri-
sposta sarebbe stata bugiarda e vile. E coloro
che credono degli uomini altri- menti, massime
di quelli che sono usi o ad essere o a
parere loro essere li- beri, se n’ingannano; e
sotto queslo inganno pigliano partiti non
buoni per sé, e da non satisfare a
loro. Di che nascono le spesse ribellioni e
le rovine degli Stati. Ma per tornare
al discorso nostro, conchiudo, e per questo e per
quello giudizio dato dai Latini: quando si
ha a giudicare cittadi potenti, e che sono
use a vivere libere, conviene o * spegnerle o
carezzarle ; altrimenti, ogni giudizio è vano. E
debbesi fuggir al tutto la via del
mezzo, la quale è pcr-niziosn, come la
fu a’ Sanniti quando avevano rinchiuso i
Romani alle forche Caudine; quando non
volleno seguire il parere di quel vecchio,
che consigliò che i Romani si lasciassero
andare ono-rati, o che s’ ammazzassero tutti ; ma
pigliando una via di mezzo disarman- dogli c
mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono
andare pieni d’ ignominia e di sdegno.
Talché poco dipoi conobbero con lor danno
la sentenza di quel vec- chio essere stata
utile, e la loro dili-berazione dannosa; come
nel suo luogo più appieno si discorrerà..
XXIV. — Le fortezze generalmente sono molto
più dannose che utili.
Parrà forse a questi savi de* nostri tempi
cosa non bene considerata, che i Romani
nel volere assicurarsi dei popoli di Lazio
e della città di Priverno, non pensassino
di edificarvi qualche fortezza, la qual
fusse un freno a tenergli in fe- de; sendo,
massime, un detto in Firenze, allegato da*
nostri savi, che Pisa e P al- tre simili
città si debbono tenere con le fortezze. E
veramente, se i Romani fus- sino stati
fatti come loro, egli arebbero pensato di
edificarle; ma perchè egli erano d* altra
virtù, d’ altro giudizio, d’ altra potenza,
e’ non le edificarono. E mentre che Roma
visse libera, e che la seguì gli ordini
suoi e le sue vir- tuose constiluzioni, mai
n’edificò per tenere o città o provincie; ma
salvò bene alcune delle edificate. Donde ve- duto
il modo del procedere de’ Romani
in questa parte, e quello eie’ prìncipi de’
nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione,
se gli è bene edificare fortezze, se le
fanno danno o utile a quello che I’
edifica. Dehbesi, adunque, considerare come le
fortezze si fanno o per difendersi
da’nimici, o per difen- dersi da’ soggetti. Nel
primo caso le non sono necessarie; nel
secondo dan- nose. E cominciando a render ragione perchè
nel secondo ^caso le siano dan- nose, dico
che quel principe o quella repubblica che
ha paura de’ suoi sud- diti e delta
ribellione loro, prima con- viene che tal
paura nasca da odio che abbiano i suoi
sudditi seco; l’odio, da’ mali suoi portamenti ;
i mali porta-menti nascono o da poter credere
te-nergli con forza, o da poca prudenza di
chi gli governa : ed una delle cose
clic fa credere potergli forzare, è l’ avere loro
addosso le fortezze; perchè i mali trattamenti,
clic sono cagione dell’ odio, nascono in
buona parte per avere quel principe, o
quella repubblica, le fortez- ze: le quali,
quando sia vero questo, di gran lunga
sono più nocive, che utili. Perchè in
prima, come è detto, le ti fanno essere
più audace e più violento nei sudditi;
dipoi, non ci è quella si- curtà che tu
ti persuadi : perchè tutte le forze, tutte
le violenze che si usano per tenere
un popolo, sono nulla eccetto che due; o
che tu abbia sempre da met- tere in
campagna* un buono esercito, come avevano i
Romani; o che gli dis- sipi, spenga, disordini,
disgiunga, in modo che non possino
convenire ad of- fenderti. Perchè se tu gP
impoverisci, spoliatis arma supersunt : se tu
gli di- sarmi, furor arma ministrai: se tu ammazzi
i capi, e gli altri segui d’ ingiu- riare,
rinascono i capi, come quelli det- P idra:
se tu fai le fortezze, le sono utili
ne’ tempi di pace, perchè ti danno più
animo a far loro male; ma ne’ tempi di
guerra sono inutilissime, perchè le so- no
assaltate dal nimico e da’ sudditi, nè è possibile
che le faccino resistenza ed all’uno ed
all’altro. E se inai furono disutili, sono
ne’ tempi nostri rispetto alle artiglierie ;
per il furore delle quali i luoghi piccoli,
e dove altri non si possa ritirare con
li ripari, è impossibile di- fendere, come di
sopra discorremmo. Io voglio questa materia
disputarla più tritamente. 0 tu, principe, vuoi
con que- ste fortezze tenere in freno il
popolo delia tua città; o tu, principe, o
tu, re- pubblica, vuoi frenare una città
occu-pata per guerra. Io ini voglio voltare al
principe, e gli dico: che tal fortezza per
tenere in freno i suoi cittadini non può
essere più inutile di quello eh’ ella è,
per le cagioni dette di sopra ; perchè la
ti fa più pronto c men rispettivo ad oppressateli
; e quella oppressione gli fa si esposti
alla tua roviua, e gli ac-cende in modo,
che quella fortezza che ne è cagione, non
ti può poi difendere. Tanto che un
principe savio e buono, per mantenersi buono,
per non dare cagione nè ardire a’ figliuoli
di diven-tare tristi, mai non farà
fortezza, ac-ciocché quelli non in su le
fortezze, ina in su la benivolenza degli
uomini si fondino. E se il conte Francesco
Sforza, diventato duca di Milano, fu riputato savio,
e nondimeno fece in Milano una fortezza ;
dico che iti questo caso ei non fu
savio, e V effetto ha dimostro, come tal
fortezza fu a danno, e non a sicurtà de’
suoi eredi. Perchè giudicando me-diante quella
viver sicuri, e potere of-fendere gli cittadini e
sudditi loro, non perdonarono ad alcuna
generazione di violenza; talché diventati sopra
modo odiosi, perderono quello Stato come prima
il nimico gli assaltò: nè quella fortezza
gli difese, nè fece loro nella guerra
utile alcuno, e nella pace avea loro fatto
danno assai. Perchè se non avessiuo avuto
quella, e se per poca prudenza avessino
maneggiati agramente i loro cittadini, arebbero
scoperto il pe- ricolo più presto, e sarebbonsene
riti- rati; ed orebbero poi potuto più
ani-mosamente resistere all’ impeto franciosoco’
sudditi amici senza fortezza, die con quelli
inimici con la fortezza: le quali non
ti giovano in alcuna parte; perchè, o le
si perdono per frali de di chi le guarda,
o per violenza di chi I’ assalta, o per
fame. E se tu vuoi che le ti gio- vino,
e ti aiutino a ricuperare uno Stato perduto,
dove ti sia solo rimaso la for- tezza ;
ti conviene avere uno esercito, con il
quale tu possa assaltare colui che t’ha
cacciato: e quando tu abbia questo esercito,
tu riavesti lo Stato in ogni mo- do,
eziandio che la fortezza non \i fusse
; c tanto più facilmente, quanto gli uomini ti
fussiuo più amici che non ti erano avendogli
mal trattati per l’orgoglio della fortezza. E
per isperienzn s’ è vi- sto, come questa
fortezza di Milano, nè agli Sforzeschi nè
a’ Franciosi, ne’ tempi avversi dell’ uno e
dell’ altro, non ha fatto a alcunb di
loro utile alcuno; anzi a tutti ha recato
danni e rovine assai. non avendo pensato
mediante quella a più onesto modo di
tenere quello Stato. Guido Ubaldo duca di
Urbiuo, figliuolo di Federigo, che fu ne’
suoi tempi tanto stimato capitano, sendo
cacciato da Ce* sarc Borgia, figliuolo di
papa Alessan- dro VI, dello stato; come
dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò,
fece rovinare tutte le fortezze clic erano
in quella pro- vincia, giudicandole dannose. Perchè, sendo
quello amato dagli uomini, per rispetto di
loro non le voleva ; e per conto de’
nimici, vedeva non le poter di- fendere,
avendo quelle bisogno d’ uno esercito in
campagna, che le difendesse; talché si
volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i
Bentivogli di Bologna, fece in quella città
una fortezza ; e dipoi faceva assassinare quel
popolo da un suo go- vernatore : talché
quel popolo si ribellò, e subito perde la
fortezza ; e cosi non gli giovò la fortezza
e 1* offese, intanto clic portandosi altrimenti,
gli arebbe giovato. Niccolò da Castello,
padre de’ Yi teili, tornato nella sua
patria donile era esule, subito disfece due
fortezze vi aveva edificale papa Sisto IV,
giudican- do, non la fortezza, ma la benivolenza del
popolo l’avesse a tenere in quello stato.
Ma di tutti gli altri essempi il più
fresco, il più notabile in ogni parte, ed
atto a mostrare la inutilità dello edi- ficarle e
1’ utilità del disfarle, è quello di
Genova, seguito ne’ prossimi tempi. Ciascuno
sa come, nel 1507, Genova si ribellò
da Luigi XII re di Francia, il quale
venne personalmente e con tutte le forze
sue a racquietarla ; e ricuperata che 1’ ebbe,
fece una fortezza, fortissima di tutte l’
altre delle quali al presente si avesse
notizia: perchè era per silo e per
ogni altra circonstanza inespugna-) bile, posta
in su una punta di colle che si
distende nel mare, chiamato dai Ge- novesi
Codefa ; e per questo batteva tutto il
porto, e gran parte della terra di Ge- nova.
Occorse poi, nel 1512, che sendo cacciate
le genti franciose d’ Italia,. Gc- novo,
nonostante la fortezza, si ribellò; e prese
lo stalo di quella Ottaviano Fre-
*goso, il quale con ogni industria, in termine
di sedici mesi, per fame la espugnò. E
ciascuno credeva e da molti» n* era
consigliato, che la conservasse per suo rifugio
in ogni accidente: ma esso, come
prudentissimo, conoscendo che non le fortezze,
ma la volontà degli uomini mantenevano i
principi in stato, la ro-vinò. E cosi,
senza fondare lo stato suo in su la
fortezza, ma in su la virtù e prudenza
sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a
variare lo stato di Genova sole- vano
bastare mille fanti, gli avversari suoi l’
hanno assaltato con diecimila, e non T
hanno potuto offendere. Vedesi adunque per
questo, come il disfare la fortezza non
ha offeso Ottaviano, ed il farla non
difese il re di Francia. Per- chè, quando
e’ potette venire in Italia con l’
esercito, e’ potette ricuperare Ge- nova, non
vi avendo fortezza; ma quando e’ non
potette venire in Italia con l’cser-cito,
e* non potette tenere Genova, aven-dovi la
fortezza. Fu, adunque, di spesa al re
di farla, e vergognoso il perderla; a Ottaviano
glorioso il racquistarla, ed utile il
rovinarla. Ma vegnamo alle re- pubbliche che
fanno le fortezze noli nella patria, ma
nelle terre che le acqui- stano. Ed a
mostrare questa fallacia, quando e’ non
bastasse V essempio detto di Francia e di
Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa :
dove i Fiorentini fecero le fortezze per
tenere quella città ; e non conobbero che
una città stata sempre inimica del nome
fiorentino, vissuta li- bera, e che ha alla
ribellione per rifu- gio la libertà, era
necessario, volendola tenere, osservare il modo
romano; o farsela compagna, o disfarla. Perchè la
virtù delle fortezze si vidde nella venula del
re Carlo; al quale si dettono o per poca
fede di chi le guardava, o per ti- more
di maggior male: dove, se le non fussino
state, i Fiorentini non arcbbero fondato 11
potere tenere Pisa sopra quelle, e quel
re non arebbe potuto per quella via
privare i Fiorentini di quella città; e gli
modi con li quali si fussi mantenuta
fino a quel tempo, sarebbero stati per
avventura sufficienti a conser- varla, e senza dubbio
non arebbero fatto più cattiva pruova che
le fortezze. Con- chiudo dunque, che per
tenere la patria propria, la fortezza è dannosa
; per te- nere le terre che si acquistano,
le for- tezze sono inutili: e voglio mi basti I’
autorità de’ Romani, i quali nelle terre che
volevano tenere con violenza, smu- ravano, e non
muravano. E chi contra questa oppinione
n’allegassi negli anti- chi tempi Taranto, e ne’
moderni Bre- scia, i quali luoghi mediante le
fortezze furono ricuperati dalla ribellione dei sudditi
; rispondo che alla ricuperazione di Taranto,
in capo d’ uno anno, fu mandato Fabio
Massimo con tutto lo esercito, il quale
sarebbe stato alto a ricuperarlo eziandio
se non vi fusse stata la fortezza; e
se Fabio usò quella via, quando la
non vi fusse stata dareb- be usata
un’altra, che arebbe fatto il medesimo
effetto. Ed io non so di che utilità
sia una fortezza che, a renderti la terra,
abbia bisogno, per la ricupe-razione d’
essa d* uno esercito consolare, e d’ un
Fabio Massimo per capitano. E che i Romani
1* avessino ripresa in ogni modo, si
vide per V essempio di Capova ; dove
non era fortezza, e per virtù dello
esercito la riacquistarono. Ma vegliamo a Brescia.
Dico, come rade volte occorre quello che è
occorso in quella ribellione, clic la
fortezza che rimane nelle forze tue, sendo
ribellata la terra, abbia uno esercito
grosso e propinquo, coiti’ era quel de’
Franciosi : perchè, essendo mon- signor di Fois,
capitano del re, con l’esercito a Bologna, intesa
la perdita di Brescia, senza differire ne
andò a quella volta, ed in tre giorni
arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra.
Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di
Brescia, a volere clic la giovasse,
bi-sogno d’ un monsignor di Fois, c d’ un esercito
francioso che in tre dì la soc- corresse.
Sì clic F esscmpio di questo, all’ incontro
degli essempi contrari, non basta ; perchè
assai fortezze sono state, nelle guerre de’
nostri tempi, prese e riprese con la
mcdesimu fortuna che si è ripresa e presa
la campagna, non so- lamente in Lombardia,
ma in Romagna, nel regno di Napoli, c
per tutte le parti d’ Italia. Ma, quanto
allo edificar for- tezze per difendersi da’ n
inaici di fuora, dico che le non sono
necessarie a quelli popoli nè a quelli regni
che hanno buoni eserciti; ed a quelli che
non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perchè i buoni eserciti senza le fortezze
sono sufficienti a difendersi ; le fortezze senza
i buoni eserciti non ti possono difendere. E
que-sto si vede per isperienza di quelli
che sono stati e nei governi e nell* altre cose
tenuti eccellenti; comesi vede dei Romani e
degli Spartani: che se i Ro- mani non
edificavano fortezze, gli Spar-tani non
solamente si astenevano da quelle, ma non
permettevano d’ aver mura alla loro città;
perchè volevano che la virtù dell* uomo
particolare, non .altro difensivo, gli
difendesse. Dondechè, essendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura
d’ Atene gli parevano belle, gli rispose:
Si, se le fussino abitate da donne.
Quel principe, adunque, che abbi buoni
eserciti, quan- do in sulle marine alla
fronte dello Stato suo abbia qualche
fortezza che possa qualche dì sostenere lo
inimico infino che sia a ordine, sarebbe qualche volta
cosa utile, ma la non è necessaria. Ma
quando il principe non ha buono esercito,
avere le fortezze per il suo Stato o
alle frontiere, gli sono o dan- nose o inutili :
dannose, perchè facil- mente le perde, e perdute
gli fanno guerra ; o se pur le fussino
sì forti che M nimico non le potesse
occupare, sono lasciate indietro dallo esercito
nimico, evennono ad essere di nessuno
frutto:
perchè i buoni eserciti, quando non hanno gagliardissimo
riscontro, entrano neipaesi nitnici senza
rispetto di città o di fortezza che si
lascino indietro; come si vede nell*
antiche istorie, e come si vede fece
Francesco Maria, il quale ne’ prossimi tempi
per assaltare Urbino si lasciò indietro
dieci città ni miche, senza alcuno
rispetto. Quel principe, adunque, che può
fare buono esercito, può fare senza
edificare fortezza; quello che non ha V
esercito buono, non debbe edificare. Debbe
bene afforzare la città dove abita, e
tenerla munita, e ben di- sposti i cittadini di
quella, per poter sostenere tanto un impelo
nimico, o che accordo, o che aiuto esterno
lo liberi. Tutti gli altri disegni sono
di spesa ne’ tempi di pace, ed
inutili ne’ tempi di guerra. E così, chi
considererà tutto quello ho detto, conoscerà i
Romani, come savi in ogni altro loro
ordine, cosi furono prudenti in questo giudizio dei
Latini e de’ Privernati ; dove, non pensando a
fortezze, con più virtuosi modi e più savi
se ne assicurarono. Che lo assaltare una
città disunita, per occuparla mediante la sua
disunione, è partito contrario. Era tanta
disunione nella Repubblica romana intra la
Plebe e la Nobiltà, clic i Veienti insieme
con gli Etrusci, me- diante tale disunione,
pensarono potere estinguere il nome romano.
Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i
campi di Roma, mandò il Senato loro
contra Gii. Manlio e 2M. Fabio; i quali
avendo con- dotto il loro esercito propinquo
allo eser- cito de’ Veienti, non cessavano i Veien- ti,
e con assalti e con obbrobri, offendere e
vituperare il nome romano: e fu tanta la
loro temerità ed insolenza, che i Ro- mani
di disuniti diventarono uniti; e venendo
alla zuffa, gli ruppono e vin- sono. Vedesi
pertanto, quanto gli uomini s’ ingannano, come
di sopra discorrem- mo, nel pigliare
de’ parliti; c come molte volte credono
guadagnare una cosa, e la perdono.
Credeltono i Veienti assal- tando i Romani disuniti,
vincergli; c quello assalto fu cagione
della unione di quelli, e della rovina
loro. Perchè la cagione della disunione
delle repubbli- che il più delle volte è P
ozio e la pace; la cagione della unione è
la paura e la guerra. E però, se i Veienti
fussiuo stati savi, eglino arebbono, quanto
più disu- nita vedevano Roma, tanto più tenuta da
loro la guerra discosto, e con Parti della
pace cerco d’oppressargli. Il modo è cercare
di diventare confidente di quella città
ciré disunita; ed infino che non vengono
alP arme, come arbitro, maneg- giarsi intra
le parli. Venendo alParme, dare lenti
favori alla parte più debole; si per
tenergli più in su la guerra, e fargli
consumare; si perchè le assai forze non
gli facessero tutti dubitare che tu volessi
opprimergli, e diventar loro principe. E quando
questa parte è go-vernata bene, interverrà
quasi sempre che Y ara quel fine che
tu hai presup- posto. La città di Pistoia,
come in altro discorso e ad altro proposito
dissi, non venne alla Repubblica di Firenze con
altra arte che con questa; perchè, sendo
quella divisa, c favorendo i Fio- rentini or
Furia parte or l’altra, senza carico dell’
una e dell’ altra, la condus- sono in
termine, che, stracca di quel suo vivere
tumultuoso, venne sponta- neamente a gittarsi nelle
braccia di Fi- renze. La città di Siena
non ha mai mu- tato stato col favore de’
Fiorentini,' se non quando i favori sono stati
deboli e pochi. Perchè, quando e’ sono
stali assai e gagliardi, hanno fatto quella
città unita alla difesa di quello stato
che regge. Io voglio aggiungere ai
soprascritti un al- tro essempio. Filippo
Visconti, duca di Milano, più volte mosse
guerra ai Fio- rentini, fondatosi sopra le
disunioni loro, e sempre ne rimase perdente;
talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue
imprese, come le pazzie de’ Fiorentini gli avevano
fatto spendere inutilmente due milioni d’
oro. Restarono, adunque, co- me di sopra si
dice, ingannati i Veienli e gli Toscani da
questa oppinione, e fu- rono alfine in una
giornata superati dai Romani. IT così per
Io avvenire ne re- sterà ingannato qualunque
per simile via e per simile cagione crederà
oppres- sore un popolo. Il vilipendio e V impro-perio
genera odio conira a coloro che r usano j senza
alcuna loro utilità. lo eredo che sta
una delle grandi pru-denze che usino gli
uomini, astenersi o dal minacciare, o dallo
ingiuriare alcuno con le parole: perchè 1’
una cosa e l’al- tra non tolgono forze al
nimico; ma l’una lo fa più cauto;
l’altra gli fa avere maggiore odio contra
di te, e pensare con maggiore industria
di of-fenderti. Yedesi questo per lo essempio de*
Veienti, de’ quali nel capitolo supe-riore si è
discorso; i quali alla ingiu-ria della guerra
aggiunsono, contra ai Romani, l’obbrobrio delle
parole: dal quale ogni capitano prudente
debbe fare astenere i suoi soldati ; perchè
le son cose che infiammano ed accendono il nimico
alla vendetta, ed in uessuna parte lo
impediscono, come è detto, alla offesa; tanto
che le sono tutte arme che ven- gono
contra a te. Di che ne seguì già uno
essempio notabile in Asia: dove Gabade,
capitano de’ Persi, essendo stato a campo ad
Amida più tempo, ed avendo diliberato,
stracco dal tedio della ossi- dione,
partirsi; levandosi già col campo, quelli
della terra venuti tutti in su le mura,
insuperbiti della vittoria, non perdonarono a
nessuna qualità d’ ingiu- ria, vituperando, accusando,
rimprove-rando la viltà e la poltroneria del
ni-mico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio;
e ritornato alla ossidione, tan-ta fu la
indegnazione della ingiuria, che in pochi
giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo
intervenne a’Veienti: a’ quali, coni’ è detto,
non bastando il far guerra a’ Romani,
ancora con le pa- role gli vituperarono; ed
andando in- iìno in su lo steccato
del campo a dir loro ingiuria, gl’ irritarono
molto più con le parole che con P
arme : e quelli soldati che prima combattevano
mal vo- lentieri, costrinsero i Consoli ad appic- care
la zuffa; talché i Veienti portarono la
pena, come gli antedetti, della con-tumacia
loro. Hanno adunque i buoni principi di
esercito, ed i buoni governa-tori di repubblica,
a far ogni opportuno
l imedio, che queste ingiurie e rimproveri non
si usino o nella città o nello eser- cito
suo, nè infra loro, nè contra il
ni-mico: perchè usati contra al nimico, ne nascono
gli inconvenienti soprascritti; infra loro,
farebbono peggio non vi si riparando, come
vi hanno sempre gli uomini prudenti
riparato. Avendo le le-gioni romane state
lasciate a Capova congiurato conil a a’ Capovani,
come nel
suo luogo si narrerà; ed essendone di questa
congiura nata sedizione, la quale fu poi
da Valerio Corvino quietata ; in- tra all*
altre conslituzioni che nella con- venzione si
fecero, ordinarono pene gra-vissime a coloro che
improverassino mai ad alcun di quelli
soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto
nella guerra di An- nibaie capitano sopra
certo numero di servi che i Romani, per
carestia d’uo- mini, avevano armati, ordinò,
intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse
la servitù di alcuno di loro. Tanto
fu stimato dai Romani, co- me di sopra
s’è detto, cosa dannosa il vilipendere gli
uomini, ed il rimprove- rare loro alcuna
vergogna; perchè non è cosa che accenda
tanto gli animi loro, nè generi maggiore
sdegno, o da vero o da beffe che si
dica : ISam facetice aspcrcCj quando nimium
ex vero traxe rc, acretn sui memorianx
relinquunt. Cap. XXVII. — Ai principi e repubbli-che
prudenti debbe bastare vincere;perchè il
più delle volle j quando non basti j si perde. Lo
usare parole contra al nimico
pocoonorevoli, nasce il più delle volte
dauna insolenza che ti dà o la
vittoria ola falsa speranza della vittoria;
la qualefalsa speranza fa gli uomini ‘non
sola-mente errare nel dire, ma ancora
nellooperare. Perchè questa speranza, quandola
entra ne’ petti degli uomini, fa
loropassare il segno, e perdere il più
dellevolte quella occasione d’ avere un
benecerto, sperando d’ avere un meglio
in-certo. E perchè questo è un terminedie merita
considerazione, ingannando-cisi dentro gli uomini
molto spesso, econ danno dello stato
loro; e’ mi pareda dimostrarlo particolarmente
con es-sempi antichi e moderni, non si
potendocon le ragioni così distintamente
dimo-Digitized by Googlestrare. Annibaie, poi
ch’egli ebbe rottii Romani a Canne, mandò
suoi oratoria Cartagine a significare la
vittoria, echiedere sussidi. Disputossi nel
senatodi quello s’ avesse a fare.
ConsigliavaAnnone, un vecchio e prudente cittadinocartaginese,
che si usasse questa vitto-ria saviamente
in far pace coi Romani,potendola avere
con condizioni onesteavendo vinto; e non
s’aspettasse d’averlaa fare dopo la perdita:
perchè la in-tenzione de’ Cartaginesi doveva
essere,mostrare ai Romani come e’ bastavan
a combattergli ; ed avendosene avutovittoria, non
si cercasse di perderla perla speranza d’
una maggiore. Non fupreso questo partito;
ma fu bene poidal senato cartaginese
conosciuto savio,quando 1’ occasione fu
perduta. AvendoAlessandro Magno già preso
tutto l’orien-te, la repubblica di Tiro,
nobile in quellitempi e potente per avere
la loro cittàin acqua come i Veniziani,
veduta lagrandezza d’ Alessandro, gli
mandaronooratori a dirgli, come volevano esseresuoi
buoni servitori e dargli quella ub-bidienza
voleva, ma che non erano giàper
accettare nè lui nè le sue genti
nellaterra : donde sdegnato Alessandro cheuna
città gli volesse chiudere quelleporte che
tutto il mondo gli aveva aper-te, gli
ributtò, e non accettate le condi-zioni loro,
vi mandò a campo. Era laterra in
acqua, e benissimo di vettova-glie e d’ altre
munizioni necessarie alladifesa munita: tanto
che Alessandro do-po quattro mesi s*
avvide, che una cittàgli toglieva quel
tempo alla sua gloriache non gli
avevano tolti molti altriacquisti ; e diliberò
di tentare 1* accordo,e concedere loro
quello che per loromedesimi avevano
domandato. Ma quellidi Tiro insuperbiti,
non solamente nonvolsero accettare l*
accordo, ina ammaz-zorono chi venne a
praticarlo. Di cheAlessandro sdegnato, con
tanta forza simise alla espugnazione, che
la prese edisfece, ed ammazzò e fece
schiavi gliuomini. Venne, nel 4512, uno
esercitospagnuolo in su 'I dominio
fiorentinoper rimettere i Medici in Firenze, e
ta-glieggiare la città, condotti da’ cittadinid’ entro,
i quali avevano dato loro spranza, che
subito fussero in su ’1 domi-nio
fiorentino, piglierebbono V arme inloro favore;
ed essendo entrati nel piano,e non si scoprendo
alcuno, ed avendocarestia di vettovaglie,
tentarono V ac-cordo: di che insuperbito il
popolo dFirenze, non lo accettò-; donde
ne nacquela perdita di Prato, e la
rovina di quelloStato. Non possono,
pertanto, i principiche sono assaltati far
il maggiore errore,quando 1* assalto è
fatto da uomini digran lunga più
potenti di loro, che ri-cusare ogni
accordo, massime quandogli è offerto: perchè
non sarà mai of-ferto si basso, che
non vi sia dentro inqualche parte il
bene essere di coluiche io accetta, e
vi sarà parte della suavittori?. Perchè
e’ doveva bastare al po-polo di Tiro,
clic Alessandro accettasse quelle condizioni
che egli aveva prima rifiutate; ed era
assai vittoria la loro, quando con Y armi
in mano avevano fatto condiscendere un
tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare
ancora al popolo fiorentino, e gli era
assai vittoria, se lo esercito spagnuolo
cedeva a qual- cuna delle voglie di quello, e
le sue non adempieva tutte: perchè la
intenzione di quello esercito era mutare lo
stato in Firenze, e levarlo dalla devozione di Francia,
e trarre da lui danari. Quando di tre
cose e’ ne avesse avute due, che son
1’ ultime; ed al popolo ne fusse re* stata
una, che era la conservazione dello stato
suo; ci aveva dentro ciascuno qual- che onore
e qualche satisfazione, nè si doveva il
popolo curare delle due cose, rimanendo
vivo ; nè doveva, quando bene egli avesse
veduta maggiore vittoria, e quasi certa,
voler mettere quella in al- cuna parte a
discrezione della fortuna, andandone Y ultima
posta sua: la quale qualunque prudente mai
arrischierà se non necessitato. Annibaie partito
iT Ita-lia, dove era stato sedici anni
glorioso, richiamato da’ suoi Cartaginesi a soc- correre
la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface;
trovò perduto il regno di Nu- midia;
ristretta Cartagine intra i termini delle sue
mura, alla quale non restava altro rifugio,
che esso e T esercito suo : e conoscendo
come quella era 1’ ultima posta della
sua patria, non volle prima metterla a
rischio, di’ egli ebbe ten- tato ogni altro
rimedio; e non si ver- gognò di domandare
la pace, giudicando se alcuno rimedio aveva
la sua patria, era in quella, e non
nella guerra: quale sendogli poi negata,
non volle mancare, dovendo perdere, di
combattere; giudi- cando potere pur vincere ; o
perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibaie, il
quale era tanto virtuoso ed aveva il suo
esercito intero, cercò prima la pace che
la zuffa, quando ci vide che per- dendo
quella, la sua patria diveniva ser-va ; che
debbe fare un altro di manco virtù e
di manco isperienza di lui? Ma gli
uomini fanno questo errore: che non sanno porre
termini alle speranze loro, ed in su
quelle fondandosi, senza mi*surarsi altrimenti,
rovinano. Quanto sia pericoloso
ad una repubblica o ad uno principe non
vendicare una ingiuria falla con-tro al
pubblico o conira al privalo. Quello che
facciano fare agli uomini gli sdegni,
facilmente si conosce per quello che
avvenne ai Romani, quando e’ mandarono i
tre Fabi oratori ai Fran- ciosi, che erano
venuti ad assaltare la Toscana, ed in
particolare Chiusi. Per- chè, avendo mandato il
popolo di Chiusi per aiuto a Roma, i Romani
mandarono ambasciatori a’ Franciosi, che in nome del
Popolo romano significassero a quelli, si
astenessino di far guerra ai Toscani. I
quali oratori, sendo in su M luogo, e più
atti a fare che a dire, venendo i Franciosi
c i Toscani alla zuffa, si mi- sero intra i
primi a combattere contra a quelli : onde ne
nacque che essendo conosciuti da loro,
tutto lo sdegno che avevano contra a’
Toscani, volsero con- tea ai Romani. 11
quale sdegno diventò maggiore, perchè, avendo i
Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con
il Senato romano di tale ingiuria, e do- mandato
che in satisfazione del danno fussino dati
loro i soprascritti Fabi; non solamente non
furono consegnati loro, o in altro modo
castigati; ma ve- nendo i comizi, furono fatti
Tribuni con potestà eousolare. Talché, veggendo i
Franciosi quelli onorati che dovevano esser
puniti, ripresono tutto esser fatto in loro
dispregio ed ignominia; ed ac- cesi d’ ira
e di sdegno, vennero ad as- saltare Roma, e
quella presero, eccetto il Campidoglio. La
quale rovina nacque a* Romani solo per
la inosservanza della
giustizia; perchè avendo peccato i loro ambasciatori
conira jus gcntiunij e do-
vendo esser gastigati, furono onorati. Però è
da considerare quanto ogni re- pubblica ed
ogni principe debbe tenere conto di fare
simile ingiuria, non sola- mente contra ad
una universalità, ma ancora contra ad uno
particolare. Per- chè, se uno uomo è offeso
grandemente o dal pubblico o dal privato, e non
sia
vendicato secondo la satisfazione sua; se
e’ vive in una repubblica, cerca an- cora
con la rovina di quella vendicarsi ; se
e’ vive sotto un principe, ed abbia in
sè alcuna generosità, non si acquieta mai,
in fino che in qualunque modo si vendichi
contra di lui, ancora che egli vi
vedesse dentro il suo proprio male. Per
verificare questo, non ci è il più bello
nè il più vero essemrpio che quello di
Filippo di Macedonia, padre di Ales- sandro.
Aveva costui in la sua corte Pausania,
giovine bello e nobile, del quale era
innamorato Aitalo; uno de' pri- mi uomini che
fusse presso a Filippo; cd a\endolo più
volte ricerco che dovesse consentirgli, e
trovandolo alieno da si- mili cose, deliberò
di avere con inganno e per forza quello
che per altro verso vedeva non potere
avere. E fatto un so- lenne convito, nel
quale Pausania e molti altri nobili baroni
convennero, fece, poi- ché ciascuno fu pieno
di vivande e di vino, prendere Pausania ; e condottolo
allo stretto, non solamente per forza sfogò
la sua libidine, ma ancora, per maggiore
ignominia, lo fece da molti degli altri
in simile modo vituperare. Della quale
ingiuria Pausania si dolse più volte con
Filippo ; il quale, avendolo tenuto un
tempo in speranza di vendi- carlo, non
solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo
al governo d’ una provincia di Grecia.
Donde Pausania, vedendo il suo nimico
onorato e non gastigato, volse tutto lo
sdegno suo non contra a quello che gli
aveva fatto in-giuria, ma conira a Filippo
che non P aveva vendicato: ed una mattina
so- lenne, in su le nozze della figliuola
di Filippo maritata ad Alessandro di Epiro, andando
Filippo al tempio a celebrarle, in mezzo di
due Alessandri, genero e figliuolo, l’ammazzò.
Il quale essempio è molto simile a quello
de’ Romani, no- tabile a qualunque governa: che
mai non debba tanto poco stimare un uomo, che
e’ creda, aggiungendo ingiuria sopra ingiuria,
che colui che è ingiuriato non pensi di
vendicarsi con ogni .suo peri-colo e particolar
danno. La fortuna accieca gli animi degli
uominij quando la non imolc che quelli
si opponghino a* di-segni suoi. Se e’ si
considerrà bene come proce-dono le cose
umane, si vedrà molte volte nascere cose e
venire accidenti a’ quali i cieli al tutto
non hanno voluto che si provvegga. E quando
questo eh’ io dico intervenne a Roma, «love
era tanta virtù, tanta religione e tanto
ordine; non è meraviglia che gli intervenga
molto più spesso in una città o in
una provincia che manchi delle cose
sopradette. E per-chè questo luogo è notabile
assai a di-mostrare la potenza del cielo
sopra le cose umane, Tito Livio largamente
e con parole efficacissime lo dimostra ; di-cendo
come, volendo il cielo a qualche fine, che
i Romani conoscessono la po-tenza sua, fece
prima errare quelli Fa-bi che andarono
oratori a’ Franciosi, e mediante F opera loro
gli concitò a far guerra a Roma: dipoi
ordinò, che per reprimere quella guerra non
si fa-cesse in Roma cosa alcuna degna del Popolo
romano; avendo prima ordinato che Camillo,
il quale poteva essere solo unico rimedio a
tanto male, fusse man- dato in esilio ad
Ardea: dipoi venendo i Franciosi verso Roma,
coloro che per rimediare allo impeto
de’Volsci, ed altri finitimi loro inimici,
avevano creato molte volte un Dittatore,
venendo i Franciosi non lo crearono. Ancora,
nel fare la elezione de’ soldati, la
feciono debole e senza alcuna istraordinaria
diligenza; e furono tanto pigri a pigliare
l’ arme, che a fatica furono a tempo a
scontrare i Franciosi sopra il fiume d’
Allia, disco* sto a Roma dieci miglia. Qui
i Tribuni posero il loro campo, senza
alcuna con* sueta diligenza ; non provvedendo il luogo
prima, nou si circondando con fossa e con
steccato, non usando alcuno rimedio umauo o
divino ; e nello ordi- nare la zuffa, fecero
gli ordini rari e deboli: in modo che
nè i soldati uè i capitani fecero cosa
degna della romana disciplina. Combattessi poi
senza alcuno sangue; perchè e’ fuggirono prima
che fussiuo assaltati, e la maggior parte se ne
andò a Veio, 1’ altra si ritirò a Ro- ma; i
quali senza entrare altrimenti nelle case
loro, se ne entrarono in Cam-
pidoglio; in modo che il Senato, senza peusare
di difender Roma, non chiuse, non che
altro, le porte; e parte se ne fuggi,
parte con gli altri se ne entra- rono
in Campidoglio Pure, nel difender quello
usarono qualche ordine non tu-multuario; perchè
e’ non lo aggravarono di genti inutili;
messonvi tutti i fru-menti che poterono,
acciocché potessino sopportare 1’ ossidione j e
della turba inutile de’ vecchi e delle
donne e de’ fan-ciulli, la maggior parte se
ne fuggi nelle
terre circunvicine, il rimanente restò in Roma
in preda de’ Franciosi. Talché, chi avesse
letto le cose fatte da quel popolo tanti
anni innanzi, e leggesse dipoi quelli tempi,
non potrebbe a nessun modo cre- dere che
fusse stato un medesimo po- polo. E detto
che Tito Livio ha tutti i sopraddetti
disordini, conchiude: Adeo obcoecat animo» fortuna ,
cum vini suam ingruentem refringi non vult.
Nè può essere -43ÌÙ vera «{«està
conclusione: on- de gli uomini che vivono
ordinariamente nelle grandi avversità 0 prosperità, me-
ritano manco laude 0 manco biasimo. Perchè il
più delle volte si vedrà quelli ad
una rovina e ad una grandezza es- scr
stati condotti da una comodità grande che
gli hanno fatto i cieli, dandogli oc-casione, o
togliendoli di potere operare virtuosamente. Fa
bene la fortuna que-sto, che la elegge
uno uomo, quando la voglia condurre cose
grandi, di tanto spirito e di tanta virtù,
che e’ conosca quelle occasioni che la gli
porge. Cosi medesimamente, quando la voglia con- durre
grandi rovine, la vi prepone uo-mini che
aiutino quella rovina. E se alcuno fusse
che vi potesse ostare, o la lo ammazza, o
la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcun bene. Conoscesi questo
benissimo per questo testo, come la fortuna
per far maggiore Roma, e condurla a quella
grandezza venne, giudicò fusse necessario batterla (come
a lungo nel principio del seguente libro
discorreremo), ma non volle già in tutto
rovinarla. E per questo si vede che la
fece esulare, e non morire, Cam- mino; fece
pigliare Roma, e non il Cam-pidoglio ; ordinò
che i Romani, per ri parare Roma, non
pensassino alcuna cosa buona; per difendere
il Campido-glio, non mancarono di alcuno
buono or-dine. Fece, perchè Roma fusse presa, che
la maggior parte de’ soldati che fu-rono
rotti ad Allia, se n’ andarono a Veio;
e così, per la difesa della città di Roma,
tagliò tutte le vie. E nell’ ordinar questo,
preparò ogni cosa alla sua ricupe- razione ;
avendo condotto uno esercito romano intero a
Veio, e Cammillo ad Ardea, da poter fare
grossa testa, sotto un capitano non
maculato d’ alcuna igno- minia per la '
perdita, ed intero nella sua riputazione,
per la ricuperazione della patria sua.
Sarebbeci da addurre in confirmazione delle
cose delle qual- che essempio moderno; ma
per non gli giudicare necessari, potendo
questo a qualunque satisfare, gli lascerò
indietro. Affermo bene di nuovo, questo essere verissimo,
secondo che per tutte ì’islo- rie si
vede, che gli uomini possono se- condare la
fortuna e non opporsegli; possono tessere gli
orditi suoi, e non rompergli. Debbono bene
non si abban- donare mai ; perchè non
sappiendo il fine suo, ed andando quella
per vie tra- verse ed incognite, hanno
sempre a spe-rare, e sperando non si abbandonare
in qualunque fortuna ed in qualunque tra-vaglio
si trovino.
Cap. XXX. — Le repubbliche c gli prin-cipi
veramente polenti non comperano l* amicizie
con danari, ma con la virtù e con la
riputazione delle forze. Erano i Romani assediati
nel Campi-doglio, ed ancoraché gli aspettassino
il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati
dalla fame, vennono a compo- sizione con i
Franciosi di ricomperarsi certa quantità d'oro; e
sopra tale con-venzione pesandosi di già
l’oro, so-pravvenne Cammillo con V esercito suo
:il che fece, dice lo istorico, la
fortuna,ut Romani auro redempti non vivcrent.
La qual cosa non solamente è notabile in
questa parte, ma cziam nel processo delle
azioni di questa Repubblica ; dove si vede
che mai acquistarono terre con danari, mai
feciono pace con danari, ma sempre con
la virtù delle armi: il che non credo
sia mai intervenuto ad alcuna altra
repubblica. Ed intra gli altri segni per i
quali si conosce la po-tenza d’ uno
Stato, è vedere come e' vive con gli
vicini suoi. E quando e’ si go- verna in
modo che i vicini, per averlo amico, siano
suoi pensionari, allora è certo segno che
quello Stato è potente: ma quando detti
vicini, ancoraché in- feriori a lui, traggono da
quello danari, allora è segno grande di
debolezza di quello. Legghinsi tutte le istorie
romane, e vedrete come i Massiliensi, gli Edui, Rodiani,
lerone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i
quali tutti erano vi- cini ai confini dello
imperio romano, per avere l’amicizia di
quello, concor- revano a spese ed a tributi ne’
bisogni d’ esso, non cercando da lui
altro pre- mio che lo essere difesi. Al
contrario
si vedrà negli Stati deboli: e comin- ciandosi
dal nostro di Firenze, ne’ tempi passati,
nella sua maggior riputazione, non era signorotto
in Romagna che non avesse da quello
provvisione; e di più la dava ai Perugini,
ai Castellani, e a tutti gli altri suoi
vicini. Che se questa città fusse stata
armata e gagliarda, sa- rebbe tutto ito per
contrario: perchè tutti, per avere la
protezione di essa, arebbero dato danari a
lei, e cereo non di vendere la loro
amicizia, ma di com-perare la sua. Nè
sono in questa viltà vissuti soli i
Fiorentini, ma i Yiniziani, ed il re di Francia;
il quale, con uno tanto regno, vive
tributario de’ Svizzeri
e del re d’ Inghilterra. Il che tutto
na-sce dallo avere disarmali i popoli suoi, ed
avere piuttosto voluto, quel re e gli altri
prenominati, godersi un presente
utile di potere saccheggiare i popoli, e fuggire
uno immaginato piuttosto che vero pericolo,
che fare cose che gli as- sicurino, e
faccino i loro Stati felici in perpetuo. li
quale disordine se parto- risce qualche tempo
qualche quiete, è cagione col tempo di
necessità, di danni e rovine irrimediabili. E
sarebbe lungo raccontare quante volte i
Fiorentini, Ve- niziani, e questo regno, si
sono ricom- perati in su le guerre ; e
quante volte si sono sottomessi ad una
ignominia, che i- Romani furono una sola
volta per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante
terre i Fiorentini e Veniziatri hanno comperate;
di che si è veduto poi ii disordine, e
come le cose che si acquistano con 1’
oro, non si sanno difendere col ferro.
Osservarono i Ro- mani questa generosità e questo modo di
vivere, mentre che vissono liberi; ma
poiché egli entrarono sotto gli im- peradori,
e che gli imperadori comin- ciarono ad esser
cattivi, ed amore più P ombra che il
sole, cominciarono an- cora essi a ricomperarsi,
ora dai Parti, ora dai Germani, ora
da altri popoli convicitty: il che fu
principio della ro- vina di tanto imperio.
Procedevano, per- tanto, simili inconvenienti dallo
avere disarmati i suoi popoli: di che ne
re- sulta un altro maggiore, che quanto il nimico
più ti s’ appressa, tanto ti trova più
debole. Perchè chi vive ne’ modi delti
di sopra, traila male quelli sud- diti che
sono dentro all’ imperio suo, per avere
uomini ben disposti a tenere il nimico
discosto. Di questo nasce, che per. tenerlo
più discosto, ei dà provvi- sione a questi
signori e popoli che sono propinqui ai
confini suoi. Donde nasce che questi Stati
così fatti fanno uu poco di resistenza
in sui confini, ma comeii nimico gli
ha passati, ei non hanno ri- medio alcuno.
E non si avveggono, co- me questo modo del
loro procedere è conila ad ogni buono
ordine. Perchè il cuore c le parti vitali
d* uu corpo si hanno a tenere armate, e
non l’ estre- mità d’esso; perchè senza quelle
si vive, ed offeso quello si muore : c
questi Stati tengono il cuore disarmato, e
le maui c li piedi armati. Quello che
abbia fatto questo disordine a Firenze, si è
veduto, e vedesi ogni di: chè come uno
eser- cito passa i confini, e che gli entrano propinquo
al cuore, non ritrova più alcuno rimedio.
De’ Veniziani si vidde pochi anni fono
la medesima pruova; c se la lorp città
non era fasciata dal- P acque, se ne
sarebbe veduto it fine. Questa isperienza
non si è vista sì spesso in Francia,
per essere quello sì gran regno, eh*
egli ha pochi nimici supe-riori. Nondimeno,
quando gli Inghilesi, nel 1513, assaltarono
quel regno, tremò tutta quella provincia;
ed il re mede- simo, e ciascuno altro,
giudicava che una rotta sola gli potesse
torre lo Stato. Ai Romani interveniva il
contrario; per- chè quanto più il nimico si
appressava a Roma, tanto più trovava quella città
potente a resistergli. E si vidde nella ventila
d’ Annibaie in Italia, che dopo tre rotte,
c dopo tante morti di capi- tani e di
soldati, ei poterono non solo sostenere il
nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque
dallo avere bene armato il cuore, e delle
estremità tenere poco conto. Perchè il
fondamento dello stato suo era il popolo
di Roma, il nome la-tino, e V altre terre
compagne in Italia, e le loro colonie;
donde e' traevano tanti soldati, che furono
suftmenti con quelli a combattere, e tenere il
mondo. E che sia vero, si vede per la
domanda che fece Annone cartaginese a quelli
oratori d’ Annibaie dopo la rotta di Canne:
i quali avendo magnificato le cose fatte da
Annibaie, furono domandali da An-none, se
del popolo romano alcuno era venuto a
domandar pace, e se del nome latino e delle
colonie alcuna terra si era ribellata dai
Romani; e negando quelli l’ una e l’altra cosa,
replicò Annone: Questa guerra è ancora intera
come prima. Vedesi, pertanto, e per questo discorso,
e per quello che più volte ab bianio
altrove detto, quanta diversità sia dal
modo del procedere delle repub-bliche presenti, a
quello delle antiche. Vedesi ancora per
questo ogni di mira- colose perdite e miracolosi
acquisti. Per- chè, dove gli uomini hanno
poca virtù, la fortuna dimostra assai la
potenza sua; e perchè la è varia, variano
le repubbliche e gli Stati spesso; e varieranno sempre,
iniino che non surga qualcuno
che sia dell’ antichità tanto amatore, che la
regoli in modo, che la non abbi
ca-gione di dimostrare ad ogni girare di sole
quanto ella puote. Cap. XXXI. — Quanto sia
pericoloso credere agli sbandili. E’ non mi
pare fuori di proposito ra-gionare, intra
questi altri discorsi, quanto sia cosa
pericolosa credere a quelli che sono cacciati
della patria sua, essendo cose che ciascuno
di si hanno a prati- care da coloro che
tengono Stati: po- tendo, massime,
dimostrare questo con uno memorabile essempio
detto da Tito Livio nelle sue istorie,
ancora che sia foo- x ra di proposito
suo. Quando Alessandro Magno passò con Y
esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro,
cognato e zio di quello, venne con genti
in Italia, chia- mato dagli sbanditi Lucani, i
quali gli dettono speranza che potrebbe mediatiti
loro occupare tutta quella provincia. Donde
che quello, sotto la lode e spe-ranza loro,
venuto in Italia, fu morto da quelli;
sendo loro promesso Hi ritor-nata nella
patria dai loro cittadini, se 10
ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto
sia vana e la fede e le promesse di
quelli che si trovano privi della loro
patria. Perchè, quanto alla fede, si ha
ad estimare che qualunque volta possono per
altri mezzi che per 11 tuoi rientrare
nella patria loro, che iasceranno te ed
aceosterannosi ad altri, nonostante qualunque
promessa ti aves- sino fatta. E quanto alla
vana promessa
e speranza, egli è tanta la voglia estrema die
è in loro di ritornare in casa, che e’
credono naturalmente molte cose che sono
false, e molte ad arte ne aggiun- gono:
talché, tra quello che credono e quello che
dicono di credere, ti riem- piono di speranza
}. tulmentechè fonda-toti in su quella, tu
fai una spesa in vano, o tu fai una
impresa dove tu ro-vini. Io voglio per
cssempio mi basti Alessandro predetto, e di
più Temisto- cle ateniese; il quale essendo
fatto ri- bello, se ne fuggi in Asia a
Dario, dove gli promisse tanto, quando ei
volesse assaltare la Grecia, che Dario si
volse alla impresa. Le quali promesse non
gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna
o per tema di supplicio, av- velenò sè
stesso. E se questo errore fu fatto da
Temistocle, nomo eccellentissi- mo, si debbe
stimare che tanto più vi errino coloro
che, per minor virtù, si lasceranno più
tirare dalla voglia e dalla passione loro.
Debbe, adunque, un prin-cipe andare adagio
a pigliare imprese sopra la relazione d’ un
confinato, per- chè il più delle volle se
ne resta o con vergogna, o con danno
gravissimo. E perchè ancora rade volle
riesce il pi- gliare le terre di furto, e
per intelli- genza che altri avesse in
quelle, non mi pare fuor di proposito
discorrerne nel seguente capitolo; aggiungendovi con quanti
modi i Romani le acquistavano. Cap. XXXII. —
In quanti modi i Romani occupavano le terre. Essendo
i Romani tutti volti alla guer- ra, fecero
sempre mai quella con ogni vantaggio, e
quanto alla spesa, e quanto ad ogni altra
cosa che in essa si ricerca. Da
questo nacque che si guardarono dal pigliare
le terre per ossidione ; perchè giudicavano
questo modo di tanta spesa e di tanto
scomodo, che superasse di gran lunga la
utilità che dello acquisto si potesse
trarre: e per questo pensa-rono che fusse
meglio e più utile sog-giogare le len e per
ogni altro modo che assediandole; donde in
tante guerre ed in tanti anni ci sono
pochissimi essem- pi di ossidioni fatte da
loro. I modi, adunque, con i quali gli
acquistavano le città, erano o per espugnazione,
o per dedizione. La espugnazione era o per
forza e per violenza aperta, o per forza
mescolata con fraude. La violenza aperta
era o con assalto, senza percuo- tere le
mura (il che loro chiamavano aggredì urbem
coronaj perchè con tutto l’ esercito circondavano
la città, e da tutte le parti la
combattevano; e molte volte riuscì loro che
in uno assalto piglia-rono una città,
ancora che grossissima,
come quando Scipione prese Cartagine nuova
in (spaglia) : o, quando questo assalto non
bastava, si dirizzavano a rompere le mura
con arieti, o con al- tre loro macchine
belliche: o e’ facevano una cava, e per quella
entravano nella città (nel qual modo
presono la città de’ Veìenti) : o, per
essere eguali a quelli che difendevano le
mura, facevano torri di legname, o facevano
argini di terra appoggiati alle mura di
fuori, per ve-nire all’ altezza di esse
sopra quelli. Contea questi assalti, chi
difendeva le terre, nel primo caso circa
lo essere assaltato intorno intorno, portava più subito
pericolo, ed avea più dubbi rime-di: perchè
bisognandoli in ogni loco avere assai
difensori, o quelli ch’egli aveva non erano
tanti che potessero o supplire per tutto, o
cambiarsi ; o se potevano, non erano tutti
di eguale ani- mo a resistere, e da una
parte che fusse inclinata la zuffa, si
perdevano tutti. Però occorse, come io ho
detto, che molte volte questo modo ebbe
felice suc-cesso. Ma quando non riusciva al
primo, non lo ritentavano molto, per esser
mo-do pericoloso per lo esercito : perchè difendendosi
in tanto spazio, restava per tutto debile a
potere resistere ad una eruzione che quelli
di dentro avessino fatta, ed anche si
disordinavano e strac-cavano i soldati; ma per
una volta ed allo improvviso tentavano tal
modo. Quanto alla rottura delle mura, sì
op-
ponevano, come re’ presenti tempi, con ripari. E
per resistere alle cave, face-vano una
contraccava, e per quella si opponevano al
nimico, o con le armi o con altri
ingegni: intra i quali era que- sto, che egli
empivano dogli di penne, nelle quali
appiccavano il fuoco, ed ac- cesi gli
mettevano nella cava, i quali con il fumo e
con il puzzo impedivano l'entrata a'
nimici. E se con le torri gli assaltavano,
s' ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto
agli argini di terra, rompevano il muro
da basso, dove l'ar- gine s'appoggiava, tirando
dentro la ter- ra che quelli di fuori
vi ammontavano; talché ponendosi di fuori
la terra, e le- vandosi di dentro, veniva a
non cre-scere 1' argine. Questi modi di
espugna-zione non si possono lungamente tentare: ma
bisogna o levarsi da campo, e cer-care per
altri modi vincere la guerra; come fece
Scipione, quando entrato in
Affrica, avendo assaltato litica e non gli riuscendo
pigliarla, si levò dal campo, e cercò di
rompere gii eserciti cartagi-nesi: ovvero
volgersi alla ossidione; come feciono a Vcio,
Capova, Cartagine e lerusalem e simili terre, che
per os-sidione occuparono. Quanto allo acqui-
stare le terre per violenza furtiva, oc-corre come
intervenne di Palepoli, cheper trattato di
quelli di dentro i Romani la occuparono. Di
questa sorte espugna-zione dai Romani c da
altri ne sono state tentate molte, e poche
ne sono riu-scite : la ragione è che ogni
minimo impedimento rompe il disegno, e gli impedimenti
vengono facilmente. Perchè, o la congiura si
scuopre innanzi che si venga all’atto : e
scuopresi non con molta diftìcultà, sì per
la infedelità di coloro con chi la è
comunicata, sì per la diffì- cullù del
praticarla, avendo a convenire con nimici, e con
chi non ci è licito, se non sotto
qualche colore, parlare. Ma quando la
congiura non si scoprisse nel
maneggiarla, vi surgono poi nel met-terla
in atto mille dilYicultà. Perchè, o se
tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se
tu vieni dopo, si guasta ogni cosa : se
si lieva un rumore furtivo, come 1’
oche del Campidoglio : se si rompe uno
ordine consueto : ogni minimo erro-re ed
ogni minima fallacia che si piglia, rovina
la impresa. Aggiungonsi a que- sto le tenebre
della notte; le quali met- tono più paura a
chi travaglia in quelle cose pericolose. Ed
essendo la maggior parte degli uomini che
si conducono a simili imprese, inesperti
del sito del paese e de’ luoghi, dove
ei sono menati, si confondono, inviliscono,
ed implicano per ogni minimo e fortuito
accidente; ed ogni immagine falsa è per
fargli met-tere in volta. Nè si trovò
mai alcuno che fusse più felice in
queste espedizioni
fraudolente c notturne, che Arato Sicio-neo;
il quale quanto valeva in queste,tanto
nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime:
il che si può giudicare fusse più
tosto per una occulta virtù clic era
in lui, che perchè in quelle natu- ralmente
dovesse essere più felicità. Di questi
modi, adunque, se ne praticano assai, pochi
se ne conducono alla pruova,-
e pochissimi ne riescono. Quanto allo acquistare
le terre per dedizione, o le si danno
volontarie, o forzate. La vo-lontà nasce o per
qualche necessità estrin-seca che gli costringe a
rifuggirsi sotto; come fece Capova ai
Romani; o per de-siderio di esser governati
bene, sendo allettati dal governo buono che
quel prin-cipe tiene in coloro che se
gli sono vo-lontari rimessi in grembo ;
come fcrono i Rodiani, i Massiliensi ed altri
simili cittadini, che si deltono al Popolo
ro-'mano. Quanto alla dedizione forzata, o tale
forza nasce da una lunga ossidione, come
di sopra si è detto; o la nasce da una
continua oppressione di correrie, depredazioni,
ed altri mali trattamenti, i quali volendo
fuggire, una città si arren- de. Di tutti i
modi detti, ì Romani usa- rono più questo
ultimo che nessuno; ed attesono più che quattrocento
cinquanta anni a straccare i vicini con le
rotte e con le scorrerie, e pigliare mediani!
gli accor- di riputazione sopra di loro,
come altre volte abbiamo discorso. E sopra
tal modo si fondarono sempre, ancora che
gli ten-tassino tutti; ma negli altri
trovarono cose o pericolose, o inutili. Perchè nella ossidione
è la lunghezza e la spesa; nella espugnazione,
dubbio e pericolo; nelle congiure, la
incerlitudine. E vid-dono che con una rotta
d’esercito ini-mico acquistavano un regno in
un gior-no; e nel pigliare per ossidione una città
ostinata, consumavano molti anni. XXXUI. — Come i
Romani davano agli loro capitani degli
eserciti le commissioni libere. lo stimo che
sia da considerare, leg-gendo questa liviana
istoria, volendone far profitto, tutti i modi
del procedere del Popolo e Senato romano. E infra
P altre cose che meritano considerazione, sono :
vedere con quale autorità ei man-davano fuori
i loro Consoli, Dittatori ed altri Capitani
degli eserciti ; de’ quali si vede V
autorità essere stata grandis-
sima, ed il Senato non si riservare al-tro
che P autorità di muovere nuove guerre, e
di confirmare le paci; tutte P altre cose
rimetteva nell’ arbitrio e potestà del
Consolo. Perchè, deliberata
eh* era dal Popolo e dal Senato una guerra,
verbigrazia contra ai Latini, tutto il
resto rimettevano nelP arbitrio del Consolo;
il quale poteva o fare uua giornata o non
la fare, e campeggiare questa o quell* altra
terra, come a lui pareva. Le quali cose
si verificano per molti essempi, e massime
per quello che occorse in una ispedizione
contra ai Toscani. Perchè, avendo Fabio Consolo vinto
quelli presso a Sutri, e disegnando con P
esercito dipoi passare la selva Cimino, ed
andare in Toscana; non so-lamente non si
consigliò col Senato, raa non gli ne
dette alcuna notizia, an-cora che la guerra
fusse per aversi a fare in paese
nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si
testifica ancora per la dilibe-razione che
all’ incontro di questo fu fatta dal
Senato : il quale avendo inteso la vittoria
che Fabio aveva avuta, du-bitando che
quello non pigliasse partitodi passare per
le dette selve in Tosca-na, giudicando che
fusse bene non ten-tare quella guerra e
correre quel peri-colo, mandò a Fabio due
Legati u far-gli intendere non passasse in Toscana;
i quali arrivarono che vi era già pas-sato,
ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio
di impeditoci della guerra, tor-narono
ambasciadori dello acquisto e della gloria
avuta. E chi considera bene questo termine,
lo vedrà prudentissima-mente usato : perchè,
se il Senato avesse
voluto che un Consolo procedesse nella guerra
di mano in mano, secondo che quello
gli commelteva, lo faceva meno circunspetlo e
più lento; perchè non gli sarebbe parato
che la gloria della vittoria fusse tutta
sua, ma che ne participasse il Senato
con il consiglio del quale ei si
fusse governato. Oltra di questo, il Senato
si obbligava a voler consigliare una cosa
che non se ne po-teva intendere; perchè,
nonostante che in quello fussino tutti
uomini esercita-tissimi nella guerra, nondimeno non essendo
in sul luogo, e non sappiendo infiniti
particolari che sono necessari sapere a voler
consigliar bene, areb-bono, consigliando, fatti
infiniti errori. E per questo e’ volevano
che ’1 Consolo per sè facesse, e che
la gloria fusse tutta sua; lo amore
della quale giudica- vano che fusse freno e
regola a farlo operar bene. Questa parte si
è più vo- lentieri notata da me, perchè io
veggio che le repubbliche de’ presenti tempi, come
è la veneziana e fiorentina, la intendono
altrimenti ; e se gli loro ca-pitani,
provveditori o commissari hanno a piantare una
artiglieria, lo vogliono
intendere, e consigliare. Il quale modo merita
quella laude che meritano gli altri, i
quali tutti insieme I’ hanno con- dotte ne’
termini che al presente si truovano. .LIBRO
TERZO. I. — A volere
che una sella o una repubblica viva lungamente ,
è neces-sario ritirarla spesso verso il suo principio. Egli
è cosa verissima, come tutte le cose del
mondo hanno il termine della vita loro.
Ma quelle vanno tutto il corso che è
loro ordinato dal cielo general- mente, che
non disordinano il corpo loro, ma tengonlo
in modo ordinato, o che non altera, o s'
egli altera, è a sa-lute, e non a danno suo. E
perchè io parlo de’ corpi misti, come
sono le re-pubbliche e le sètte, dico clic
quelle al-(eruzioni sono u salute, che le
riducono verso i principi! loro. E però quelle
sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita,
che mediatiti gli ordini suoi si pos sono
spesso rinnovare; ovvero che per accidente,
fuori di detto ordine, vengono a detta
rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la
luce, che non si rinnovando que- sti corpi,
non durano. Il modo del rin- novargli è,
come è detto, ridurgli verso i principii suoi.
Perchè tutti i pri nei pi i delle
sètte, e delle repubbliche, e dei regni, conviene
che abbino in sè qual- che bontà, mediante
la quale ripiglino la prima riputazione, ed
il primo augu- mento loro. E perchè nel
processo del tempo quella bontà si
corrompere non interviene cosa che la
riduca al segno, ammazza di necessità quel
corpo. E que- sti dottori di medicina dicono,
parlando dei corpi degli uomini, quoti quolidie aggregatur
aliquidj quod quandoque indiget curalione. Questa
riduzione verso il
principio, parlando delle repubbliche, si fa o
per accidente estrinseco, o per prudenza
intrinseca. Quanto al primo, si vede come
gli era necessario che Roma fusse presa
dai Franciosi, a volere che la rinascesse; e
rinascendo, ripigliasse nuova vita e nuova virtù;
e ripigliasse la osservanza della religione e
della giu-
stizia, le quali in lei cominciavano a macularsi.
Il che benissimo si comprende per l’istoria
di, Livio, dove ei mostra che nel
trar fuori 1’ esercito contra ai Franciosi,
e nel creare i Tribuni con potestà consolare,
non osservarono al- cuna religiosa cerimonia.
Così medesi-mamente, non solamente non privarono i
tre Fabi i quali conira jus gcntium avevano
combattuto contra i Franciosi, ma gli crearono
Tribuni. E debbesi fa- cilmente presupporre, che dell’
altre con stituzioni buone ordinate da
Romolo, e ila quelli altri principi
prudenti, si co- minciasse a tenere meno conto
che non era ragionevole e necessario a tenere il vivere
libero. Veline, adunque, questa
battitura estrinseca, acciocché tutti gii ordini
di quella città si ripigliassero; e si
mostrasse a quel popolo, non so- lamente essere
necessario mantenere la religione e la giustizia,
ma ancora sti- mare i suoi buoni cittadini, e
far più conto della loro virtù, che
di quelli co- modi che e’ paresse loro
mancare me-diante 1’ opere loro. Il che
si vede che successe appunto; perchè,
subito Ripresa Roma, rinnovarono tutti gli
ordini del 1’ antica religione loro;
punirono quelli Fabi die avevano combattuto
conira jus genfìum ; ed oppresso stimarono tanto
la virtù e bontà di Cammillo, che posposto,
il Senato e gli altri, ogni in- vidia,
rimettevano in lui tutto il pondo di
quella Repubblica. È necessario, adun- que, come è
detto, che gli uomini che vivono insieme
in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o
per questi ac-cidenti estrinsechi o per gli
intrinsechi. E quanto a questi, conviene che nasca o
da una legge la quale spesso rivegga il
conto agii uomini che sono in quel corpo;
o veramente da uno uomo buono che nasca
fra loro, il quale con gli suoi essempi
e con le sue opere virtuose, faccia il
medesimo effetto che l’ordine. Surge, adunque,
questo bene nelle re- pubbliche, o per virtù
d’un uomo o per virtù d’ uno ordine. E
quanto a questo ultimo, gli ordini che
ritirarono la Re-pubblica romana verso il
suo principio, furono i Tribuni della plebe, i
Censori, e tutte 1’ altre leggi che
venivano con tra all’ambizione ed alla
insolenza degli uomini. I quali ordini hanno
bisogno d’ esser fatti vivi dalla virtù d’
un cit- tadino, il quale animosamente concorra ad
eseguirli contra alla potenza di quelli che
gli trapassano. Delle quali esecu- zioni, innanzi
alla presa di Roma dai Franciosi, furon
notabili, la morte de’ figliuoli di Bruto,
la morte de’ dieci cit-tadini, quella di
Melio Frumentario: dopo la presa di Roma,
fu la morte di Man-lio Capitolino, la
morte del figliuolo di Manlio Torquato, la
esecuzione di Papi-rio Cursore conira a Fabio
suo maestro
de’ Cavalieri, la accusa degli Scipioni. Le
quali cose, perchè erano eccessive e notabili,
qualunque volta ne nasceva una, facevano
gli uomini ritirare verso il se- gno: e
quando le cominciarono ad es-ser più rare,
cominciarono ancora a dare più spazio agii
uomini di corrompersi, e farsi con maggiore
pericolo e più tu- multo. Perchè dalP una
all’altra di simili esecuzioni non vorrebbe
passare, il più, dieci anni: perchè,
passato questo tempo, gli uomini cominciano a
variare co’ co-stumi, e trapassare le leggi ; e
se non nasce cosa per la quale si
riduca loro a memoria la pena, e ritruovisi negli
animi loro la paura, concorrono tosto tanti
delinquenti, che non si possono più punire
senza pericolo. Dicevano, a questo proposito,
quelli che hanno go-vernato lo Stato di
Firenze dal 1434 infino al 1494, come
egli era necessario ripigliare ogni cinque
anni lo Stato; altrimenti, era difficile
mantenerlo : e chiamavano ripigliare lo Stato,
mettere quel terrore e quella paura negli uo- mini
che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo
in quel tempo battuti quelli che avevano,
secondo quel modo di vivere, male operato.
Ma come di quella batti- tura la memoria
si spegne, gli uomini prendono ardire di
tentare cose nuove, e di dir male; c però è
necessario prov-vedervi, ritirando quello verso i suoi principii.
Nasce ancora questo ritira-mento delle
repubbliche verso il loro principio dalle
semplici virtù d’un uomo, senza dipendere
da alcuna legge che ti stimoli ad
alcuna esecuzione: nondiman co sono di
tanta riputazione e di tanto essempio, che
gli uomini buoni dispe-rano imitarle, e gli
tristi si vergognano a tenere vita contraria a
quelle. Quelli che in Roma particolarmente
feciono questi buoni effetti, furono Orazio Code,
Scevola, Fabrizio,* i duoi Deci, Regolo Attilio,
ed alcuni altri ; i quali con i loro essempi
rari e virtuosi facevano in Roma quasi il
medesimo effetto che si faces-sino le
leggi e gli ordini. E se le ese-cuzioni
soprascritte, insieme con questi particolari
essempi, fussino almeno se-guite ogni dieci
anni in quella città, ne seguiva di
necessità che la non si sarebbe mai
corrotta: ma coinè e’ cominciarono a diradare
1’ una e V altra di queste due cose, cominciarono
a moltiplicare le cor- ruzioni. Perchè dopo Marco
Regolo non vi si vidde alcun simile
essempio: e ben- ché in Roma surgessino i duoi
Catoni, fu tanta distanza da quello a loro,
ed intra loro dall’ uno all’ altro, e
rimasono sì soli, che non potettono con
gli es- sempi buoni fare alcuna buona
opera; e massime P ultimo Catone, il quale tro- vando
in buona parte la città corrotta, non
potette con lo essempio suo fare che i
cittadini diventassino migliori. E questo basti
quanto alle repubbliche. Ma quanto alle
sètte, si vede ancora queste rinnovazioni
essere necessarie per lo essempio della
nostra religione; la quale se non fusse
stata ritirata verso il suo principio da
san Francesco c da san Do- menico, sarebbe
al lutto spenta. Perchè questi, con la
povertà e con ressempio della vita di
Cristo, la ridussono nella mente degli
uomini, che già vi era spen- ta : e furono
sì potenti gli ordini loro nuovi, cli’ei
sono cagione che la diso- nestà de’ prelati
e de’ capi della reli- gione non la rovini;
vivendo ancora po- veramente, ed avendo tanto
credito nelle confessioni con i popoli e nelle
predi- cazioni, che c’ danno loro ad intendere come
egli è male a dir male del male, e che
sia bene vivere sotto 1* ubbidienza loro, e
se fanno errori, lasciargli gasli gare a
Dio: e così quelli fanno il peg- gio che
possono, perchè non temono quella punizione
che non veggono e non credono. Ha, adunque,
questa rinnova- zione mantenuto, e mantiene questa re- ligione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e
ridurre le leggi di quelli
verso il suo principio. E si vede quanto buono
effetto fa questa parte nel regno di
Francia; il quale regno vive sotto le leggi
e sotto gli ordini più clic alcuno altro
regno Delle quali leggi ed ordini ne
sono mnntenitori i parlamenti, c mas- sime quel di
Parigi ; le quali sono da lui rinnovate
qualunque volta e’ fa una esecuzione contra
ad uno principe di quel regno, e che
ei condanna il re nelle sue sentenze.
Ed infino a qui si è mantenuto per
essere stato uno ostinato esecutore contra a
quella nobiltà : ma qualunque volta e’ ne
lasciasse alcuna impunita, c che le venissino a
multi- plicare, senza dubbio ne nascerebbe o che
le si arebbono a correggere con disordine
grande, o che quel regno si
risolverebbe. Conchiudesi, pertanto, non esser
cosa più necessaria in un vivere comune, o
setta o regno o repubblica che sia, che
rendergli quella riputazione ch’egli aveva ne’
princi pii suoi; ed in-gegnarsi che siano
ol gli ordini buoni O i buoni uomini che
facciano questo effetto, e non l’ abbia a fare
una for/.a estrinseca. Perchè, ancora che qualche
volta la sia ottimo rimedio, come fu
a Roma, ella è tanto pericolosa, che non è
in modo alcuno da disperarla. E per dimostrare
a qualunque, quanto le azioni degli uomini
particolari facessino grande Roma, e causassimo
in quella città molti buoni effetti, verrò
alla narrazione e is- corso di quelli:
intra i termini de qua I. questo terzo
libro ed ultima parte d. questa prima
Deca si conchiudera. E benché le azioni
degli re bissino grand, e notabili, nondimeno,
dichiarandole la istoria diffusamente, le
lasceremo indie- tro; nè parleremo altrimenti di
loro, eccetto che di alcuna cosa che
«vessino operata appartenente alti loro privat, comodi
; e coniincierenci da BiutOj pa drc della
romana libertà. FI. — Come gli è cosa
sapientissima simulare in tempo la pazzia. Non
fu alcuno mai tanto prudenti1, -nè
tanto stimato savio, per alcuna sua egregia
operazione, quanto merita d’ es- ser tenuto lunio
Bruto nella sua simu- lazione della stultizia.
Ed ancora che Tito Livio non esprima
altro che una cagione che Io inducesse a
tale simula- zione, quale fu di potere più
sicura- mente vivere, e mantenere il patrimonio suo;
nondimanco, considerato il suo modo di
procedere, si può credere che simulasse
ancora questo per essere man- co osservato,
ed avere più comodità di opprimere i re e
di liberare la sua pa- tria, qualunque
volta gliene fussc data occasione. E che
pensasse a questo, si vide, prima, nello
interpretare l’oracolo di Apolline, quando simulò
cadere per baciare la terra, giudicando per
quello aver favorevoli gli Dii ai pensieri
suoi; e dipoi, quando sopra la moria Lucre-zia,
inira il padre ed il marito ed altri parenti
di lei, ei fu il primo a trarle il coltello
dalla ferita, e far giurare ai circonstanli,
che mai sopporterebbono che per lo avvenire
alcuno regnasse in Roma. Dallo essempio di
cgsIuì hanno ad imparare tutti coloro che
sono mal- contenti d’ uno principe; e debbono
pri- ma misurare e pesare le forze loro, e se
sono si potenti che possino scoprirsi suoi
nimici e fargli apertamente guerra, debbono
entrare per questa via, come manco
pericolosa e più onorevole. Ma se sono di
qualità che a fargli guerra aperta le forze
loro non bastino, deb- bono con ogni
industria cercare di far- segli amici ; cd
a questo effetto, entrare per tutte quelle
vie che giudicano esser necessarie, seguendo i
piaceri suoi, e pigliando diletto di tutte
quelle cose che veggono quello dilettarsi.
Questa dipie- sticliezza, prima, ti fa
vivere sicuro; e, senza portare alcun
pericolo, ti fa go-derc la buona
fortuna di quel principe insieme con esso
lui, e ti arreca ogni comodità di satisfare
all* animo tuo. Vero è ebe alcuni dicono
che si vorrebbe con gli principi non
stare sì presso che la rovina loro ti
coprisse, nè sì discosto che rovinando
quelli tu non fussi a tempo a salire
sopra la rovina loro: la qual via del
mezzo sarebbe la più vera, quando si
potesse conservare; ma per- chè io credo
che sia impossibile, con- viene ridursi ai
duoi modi soprascritti, cioè di allargarsi o
di stringersi con loro. Chi fa altrimenti,
e sia uomo per le qualità sue notabile,
vive in conti* novo pericolo. Nè basta
dire: io non mi curo d’ alcuna cosa,
non desidero nè onori nè utili, io mi
voglio vivere quie- tamente e senza briga; perchè
queste scuse sono udite e non accettate : nè possono
gii uomini che hanno qualità eleggere lo
starsi, quando bene lo eleg- gessino
veramente e senza alcuna am- bizione, perchè non
è loro creduto ; tal chè se si vogliono
star loro, non sono lasciati stare da
altri. Conviene adun- que fare il pazzo,
come Bruto ; ed assai si fa il matto,
laudando, parlando, veg- gendo, faccendo cose
eontra all* animo tuo, per compiacere al
principe. E poi- ché noi abbiamo parlato della
prudenza di questo uomo per ricuperare la
li- bertà di Roma, parleremo ora della sua severità
in mantenerla. Cap. HI. — Come egli è
necessariOj a voler mantenere una libertà
acquistata di nuovo 9 ammazzare i figliuoli di Bruto. Non
fu meno necessaria che utile la severità
di Bruto nel mantenere in Roma quella
libertà che egli vi aveva acqui-stala ; la
quale è di un essempio raro in tutte
le memorie delle cose: vedere il padre sedere
prò tribunali, e non solamente condennare i suoi
figliuoli a morte, ma esser presente alla
morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro
che le cose antiche leggeranno: come dopo
una mutazione di Stato, o da repubblica
in tirannide o da tiran- nide in repubblica, è
necessaria una esecuzione memorabile contra a’
nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una
tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa
uno Stato libero e non ammazza i figliuoli
di Bruto, si mantiene poco tempo. E perchè
di sopra è discorso questo luogo largamente,
mi rimetto a quello che allora se ne
disse: solo ci addurrò uno essempio stato
ne’ dì no- stri, e nella nostra patria
memorabile. E questo è Piero Soderini, il quale
si credeva con la pazienza e bontà sua superare
quello appetito che era ne’ fi- gliuoli di
Bruto di ritornare sotto un altro governo,
e se ne ingannò. E ben- ché quello, per la
sua prudenza, cono- scesse questa necessità J e
che la sorte e la ambizione di quelli
che lo urtava- no, gli desse occasione a
spegnerli ; non-dimeno non volse mai Y
animo a farlo. Perchè, oltre al credere di
potere con la pazienza e con la bontà
estinguere i mali umori, e con i premi
verso qual- cuno consumare qualche sua inimicizia; giudicava
(e molte volle ne fece con gli amici
fede) che a volere gagliardamente urtare le
sue opposizioni, e battere i suoi avversari,
gli bisognava pigliare straordinaria autorità, e
rompere con le leggi la civile equalità :
la qualcosa, ancora che dipoi non fusse
da lui usata tirannicamente, arebbe tanto
sbigottito I’ universale, che non sarebbe
mai poi concorso dopo la morte di
quello a ri-fare un gonfaloniere a vita; il quale
ordine egli giudicava fusse bene
uugu-mentarc c mantenere. Il quale rispetto era
savio e buono : nondimeno, e’ non si debbe
mai lasciare scorrere un male rispetto ad
un bene, quando quel bene facilmente possa
essere da quel male oppressalo. E doveva
credere che, aven- dosi a giudicare* Y opere sue
c la intenzione sua dal One, quando
la fortuna e la vita lo avesse
accompagnato, che poteva certificare ciascuno,
come quello aveva fatto, era per salute
della patria, e non per ambizione sua ; e
poteva re- golare le cose in mòdo, che
un suo suc- cessore non potesse fare per
male quello che egli avesse fatto per
bene. Ma lo ingannò la prima oppinione,
non cono- scendo che la malignità non è
doma da tempo, nè placata da alcun
dono. Tanto che, per non sapere somigliare
Bruto, ei perde, insieme con la patria
sua, lo Stato e la riputazione. E come egli
è cosa difficile salvare uno Stato libero, cosi
è difficile salvarne un regio; come nel
seguente capitolo si mostrerà. Cap. IV. - —
Non vive sicuro un prin-cipe in un
principato, mentre vivono coloro che ne
sono stati spogliali. La morte di Tarquinio
Prisco causata
dai figliuoli di Anco, e la morte di
Ser-vio Tulio causata da Tarquinio Super-bo,
mostra quanto difficile sia e peri-coloso
spogliar uno del regno, e quello lasciar
vivo, ancora che cercasse con meriti
guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu
ingannato da pa-rergli possedere quel regno
giuridica-mente, essendogli stato dato dal Popolo, e
confermato dal Senato: nè credette che nei
figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno,
che non avessino a conten- tarsi di quello
che si contentava tutta Roma. E Servio
Tulio s’ ingannò, cre- dendo potere con nuovi
meriti guada-gnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodo- ché,
quanto al primo, si può avvertire ogni
principe, che non viva mai sicuro del
suo principato, finché vivono coloro che ne
sono stati spogliati. Quanto al secondo, si
può ricordare ad ogni po- tente, che mai
le ingiurie vecchie non furono cancellate da’
benefizi nuovi; e tanto meno, quanto il
benefizio nuovo è minore che non è stata
l’ingiuria. E
senza dubbio, Servio Tulio fu poco
pru-dente a credere che i figliuoli di Tar quinio
fussino pazienti ad esser generi di colui
di chi e’ giudicavano dovere es-sere re. E
questo appetito del regnare è tanto grande,
che non solamente en-tra nei petti di
coloro a chi s’ aspetta il regno, ma
di quelli a chi non s’ aspet- ta: come
fu nella moglie di Tarquinio giovine,
figliuola di Servio; la quale, mossa da
questa rabbia, coutra ogni pietà paterna,
mosse il marito contro al padre a torgli
la vita ed il regno: tanto stimava
più essere regina, che figliuola di re !
Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio
Tulio perdettono il regno per non si
sapere assicurare di coloro a chi ei l avevano
usurpato, Tarquinio Superbo lo perdè per
non osservare gli ordini degli antichi re;
come nel se- guente capitolo si mostrerà.
V. — Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia ereditario di quello. Avendo
Tarquinio Superbo morto Ser-vio Tulio, e di
lui non rimanendo eredi, veniva a possedere
il regno sicuramen-te, non avendo a temere
di quelle cose che avevano offeso i suoi
antecessori. E benché il modo dell’
occupare il regno fusse stato istraordinario
ed odioso;nondimeno, quando egli avesse osservato
gli antichi ordini degli altri re,
sarebbestato comportato, nè si sarebbe conci-tato
il Senato e la Plebe contra di lui
per torgli lo Stato. Non fu, adunque, costui
cacciato per aver Sesto suo figliuo-lo
stuprata Lucrezia, ma per aver rotte le leggi
del regno, e governatolo tiran-nicamente; avendo
tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a
sé proprio; e quelle faccende che nei
luoghi pubblici con satisfazione del Senato
romano si facevano, le ridusse a fare nel
palazzo suo con carico ed invidia suo ;
talché in breve tempo egli spogliò Roma di tutta
quella libertà cl»’ ella aveva sotto gli
altri Re mantenuta. Nò gli bastò farsi
nimici i Padri, che si concitò an- cora
contra la Plebe, affaticandola in cose
meccaniche, e tutte aliene da quelloa che P
avevano adoperata i suoi ante-cessori: talché,
avendo ripiena Roma di
essempi crudeli e superbi, aveva dispo-sti già
gli animi di tutti i Romani allaribellione,
qualunque volta ne avessino occasione. E se
lo accidente di Lucrezianon fusse venuto,
come prima ne fussc nato un altro,
arebbe partorito il me-desimo effetto. Perchè,
se Tarquinio fusse vissuto come gli altri
Re, e Sestosuo figliuolo avesse fatto
quello errore, sarebbero Bruto e Collatino
ricorsi aTarquinio per la vendetta contru a
Se-sto, e non al Popolo romano. Soppino
adunque i principi, come a quella ora e*
cominciano a perdere lo Stato, eh’ eicominciano
a rompere le leggi, e quelli modi e quelle
consuetudini che sonoantiche, e sotto le
quali gli uomini lungo tempo sono vivuti. E
se privati di’ eisono dello Stato, e'
diventassino mai tanto prudenti, che conoscessino
conquanta facilità i principati si tenghino da
coloro che saviamente si consiglia-no; dorrebbe
molto più loro tal perdi-ta, ed a maggiore
pena si condanne-rebbono, che da altri
fussino condan-nati. Perchè egli è molto più
facile es-sere amato da’ buoni che dai
cattivi, ed ubbidire alle leggi che volere
comandareloro. E volendo intendere il modo
aves-sino a tenere a fare questo, non hannoa
durare altra fatica che pigliare per loro
specchio la vita dei principi buo-ni; come
sarebbe Tiinoleone Corintio, Arato Sicioneo, e
simili: nella vitade’ quali ei troveranno
tanta sicurtà e tanta «atisfazione di chi
regge e di chiè retto, che doverrebbe
venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente,
per leragioni dette, farlo. Perchè gli
uomini, quando sono governati bene, non
cer-cano uè vogliono altra libertà : come intervenne
ai popoli governati dai duoiprenominati ;
che gli costrinsono ad es-sere principi
mentre che vissono, ancorache da quelli
più volte fusse tentato di ridursi in
vita privata. E perchè in que-sto, e ne'
duoi antecedenti capitoli, si è ragionato
degli umori concitati contraa' principi, e
delle congiure fatte dai figliuoli di Bruto
contra alla patria, edi quelle fatte
contra a Tarquinio Pri-sco ed a Servio Tulio;
non mi parecosa fuori di proposito,
nel seguente capitolo, parlarne diffusamente,
sendomateria degna di essere notata dai
prin-cipi e dai privati. Cap. VI. — Delle
congiure.E' non mi è parso da lasciare
indie-tro il ragionare delle congiure,
essendocosa tanto pericolosa ai principi ed
ai privali ; perché si vede per quelle
mollipiù principi aver perduta la vita e lo
Stato, die per guerra aperta. Perchè
ilpoter fare aperta guerra con un
prin-cipe, è conceduto a pochi ; il poterglicongiurar
contra, è conceduto a ciascuno' DalP altra parte,
gli uomini privati nonentrano in impresa
più pericolosa nè più temeraria di questa;
perchè la èdifficile e pericolosissima in
ogni sua parte. Donde ne nasce, che
molte se netentano, e pochissime hanno il
line de-siderato. Acciocché, adunque, i principi imparino
a guardarsi da questi pericoli, e che i privati
più timidamente vi siniellino; anzi
imparino ad esser contenti a vivere sotto
quello imperio che dallasorte è stato loro
preposto; io ne par- lerò diffusamente, non
lasciando indietroalcun caso notabile in
documento del-1’ uno e dell’ altro. E
veramente, quellasentenza di Cornelio Tacito è
aurea, che dice: che gli uomini hanno
ad ono-rare le cose passate, ed ubbidire
alle presenti ; e debbono desiderare i
buoniprincipi, e comunque si siano fatti
tol-lerargli. E veramente chi fa altrimenti,il
più delle volte rovina sè e la sua patria.
Dobbiamo, adunque, entrandonella materia,
considerare prima contra a chi si fanno le
congiure; e troveremofarsi o contra alla patria,
o contra ad uno principe; delle quali due
voglioche al presente ragioniamo; perchè di quelle
che si fanno per dare una terraai
nimici che la assediano, o che abbino per
qualunque cagione similitudine conquesta, se,
n’ è parlato di sopra a suf- ficienza. E
tratteremo in questa primaparte di quelle
contra al principe, e pri-ma esamineremo le
cagioni di esse: lequali sono molte;
ma una ne è impor-tantissima più che tutte
V altre. E que-sta è l’essere odiato dall’universale; perchè
quel principe che si è concitatoquesto
universale odio, è ragionevole che abbi de’
particolari i quali da luisiano stati più
offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo
desiderio è accresciutoloro da quella mala
disposizione univer- sale, che veggono essergli
concitata con-tra. Debbe, adunque, un
principe fug-gire questi carichi pubblici : e
come egliabbia a fare a fuggirli, avendone
altrove trattato, non ne voglio parlare
qui; per-chè guardandosi da questo, le semplici offese
particolari gli faranno meno guer-ra. L’ una,
perchè si riscontra rade volte in uomini
che stimino tanto una ingiu-rio, che si
menino a tanto pericolo per vendicarla; l’altra,
che quando pur eilussino d’animo e di
potenza da farlo, sono ritenuti da quella
benivolenza uni-versale, che veggono avere ad
uno prin-cipe. Le ingiurie, conviene che
sianonella roba, nel sangue, o nell’onore. Di quelle
del sangue sono più pericolose leminacce
che la esecuzione; anzi, le mi-nacce sono
pericolosissime, e nella ese-cuzione non vi è
pericolo alcuno: perchè chi è morto, non
può pensare alla ven-detta; quelli che
rimangono vivi, il più delle volte ne
lasciano il pensiero almorto. Ma colui
che è minacciato, e che si vede constretto
da una necessità o difare o di patire,
diventa un uomo pe-ricolosissimo per il
principe: come nelsuo luogo particolarmente
diremo. Fuora di queste necessità, la roba
e l’onoresono quelle due cose che offendono
più gii uomiui che alcun’ altra offesa, e
dallequali il principe si debbe guardare :
per-chè e’ non può mai spogliare uno
tanto,che non gli resti un coltello
da vendi-carsi: non può mai tanto
disonorareuno, che non gli resti un animo
ostinato alla vendetta. E degli onori che
si tol-gono agli uomini, quello delle donne importa
più: dopo questo, il vilipendiodella sua
persona. Questo armò Pausa-sania contro a
Filippo di Macedonia;questo ha armato molti
altri contra a molti altri principi: e nei
nostri tempiIulio Belanti non si mosse a
congiurare contra Pandolfo tiranno di Siena,
se nonper avergli quello data, e poi
tolta per moglie una sua figliuola ; come
nel suoluogo diremo. La maggior cagione che
fece che i Pazzi congiurarono conteaa’
Medici, fu l’eredità di Giovanni Bon- romei,
la quale fu loro tolta per ordinedi
quelli. Un’altra cagione ci è, e gran-dissima,
che fu gli uomini congiurarecontro al
principe; la quale è il, disi-derio di
liberare la patria stata daquello occupata.
Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro a
Cesare; questaha mosso molti altri contro
ai Palali, Dionisi, ed altri oceupatori
della patrialoro. Nè può da questo
umore alcuno tiranno guardarsi, se non con
diporrela tirannide. E perchè non si truovu alcuno
che faccia questo, si truovauo pochi che
non capitino male; donde nacque quel verso
di Iuvenale:« Adgcnerum Cereria sineccedeet
vulnere parici Descendunt reges, et sicca
morte tiranni. »1 pericoli che si portano,
come io dissi di sopra, nelle congiure,
sono grandi, portandosi per lutti i tempi;
perchè in tali casi si coire pericolo
nel maneg-giarli, nello eseguirli, ed eseguiti
che sono. Quelli che congiurano, o e’sonouno, o
e’ sono più. Uno non si può dire che
sia congiura, ma è una ferma dispo-sizione
nata in un uomo d’ ammazzare il
principe. Questo solo dei tre pericoliche
si corrono nelle congiure, manca del primo;
perchè innanzi alla esecu-zione non porta
alcun pericolo, non avendo altri il suo
segreto, nè portandopericolo che torni il
disegno suo all* orec-chie del principe.
Questa diliberazionecosi fatta può cadere
in qualunque uomo, di qualunque sorte,
piccolo, grande, no-bile, ignobile, famigliare e
non famiglia-re al principe; perchè ad
ognuno è le-cito qualche volta parlargli; ed a
chi è lecito parlare, è lecito sfogare T
animosuo. Pausanio, del quale altre volte
si è parlato, ammazzò Filippo di
Macedoniache andava al tempio, con mille
armati d* intorno, ed in mezzo intra
il figliuoloed il genero: ma costui
fu nobile e co- gnito al principe. Uno
Spagnuolo poveroed abietto, dette una
coltellata in su M collo al re
Ferrante, re di Spagna : nonfu la
ferita mortale, ma per questo si vidde
che colui ebbe animo e comoditàa farlo. Uno
dervis, sacerdote turchesco, trasse d’ una
scimitarra a Baisit, padredel presente Turco:
non lo ferì, ma ebbe pur animo e
comodità a volerlo fare.Di questi animi
«fatti cosi, se ne truo- vano, credo,
assai che lo vorrebbonofare, perchè nel
volere non è pena uè pericolo alcuno ; ma
pochi che lo facci-no. Ma di quelli
che lo fanno, pochis- simi o nessuno che
non siano ammaz-zati in sul fatto: però
non si truova chi voglia andare ad
una certa morte. Malasciamo andare queste
uniche volontà, e veniamo alle congiure intra i
più.Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le
con-giure esser fatte da uomini grandi,
ofamigliarissimi de! principe: perchè gli altri,
se non sono matti affatto, non pos-sono
congiurare ; perchè gli uomini de-boli, e
non famiglial i al principe, man-cano di
tutte quelle speranze e di tutte quelle
comodità che si richiede alla ese-cuzione
d’ una congiura. Prima, gli uo-mini deboli
non possono trovare riscon-tro di chi tenga
lor fede; perchè uno non può consentire
alla volontà loro,sotto alcuna di quelle
speranze che fa entrare gli uomini ne’
pericoli grandi;in modo che, come e’
si sono allargati in due o in tre
persone, e’ trovano loaccusatore c rovinano:
ma quando pure ei fussino tanto felici
che mancassinodi questo accusatore, sono
nella esecu-zione intorniati da tale difficultà,
pernon aver V entrata facile al principe, che
gli è impossibile che in essa ese-cuzione
ei non rovinino. Perchè, se gli uomini
grandi, e che hanno Y entratafacile, sono
oppressi da quelle difficultà. che di sotto
si diranno, conviene che incostoro quelle
difficultà senza fine crc-schino. Pertanto
gli uomini (perchè dovene va la vita
e la roba non sono al tutto insani),
quando si veggono deboli, se neguardano; e
quando egli hanno a noia un principe,
attendono a biastemmarlo,cd aspettano che quelli
che hanno mag-giore qualità di loro, gli
vendichino. Ese pure si trovasse che
alcuno di que-sti simili avesse tentato
qualche cosa, sidebbe laudare in loro
la intenzione, e non la prudenza. Vedesi,
pertanto, quelliche hanno congiurato, essere
stali tutti uomini grandi, o famiglial i del
princi-pe; de’ quali molti hanno congiuralo, mossi
cosi da troppi benefìzi, comedalle troppe
ingiurie: come fu Peren-nio contra a
Commodo, Plauziano con-tro a Severo, Sciano
contra a Tiberio. Costoro tutti furono dai
loro imperadoricon stituiti in tanta ricchezza,
onore e grado, che non pareva che
mancasseloro alla perfezione della potenza altro che
l’ imperio; e di questo non volendomancare,
si missono a congiurare con- ila al principe:
ed ebbono le loro con-giure tutte quel
fine che meritava la loro ingratitudine;
ancora che di que-ste simili ne’ tempi
più freschi ne avesse buon fine quella
di Iacopo d’Appianocontra a messer Piero
Gambacorti, prin-cipe di Pisa : il quale Iacopo,
allevato enutrito e fatto riputato da lui,
gli tolse poi lo Stato. Fu di queste
quella delCoppola, ne’ nostri tempi, contra
al re Ferrando d' Aragona ; il quale
Coppolavenuto a tanta grandezza che non gli pareva
gli mancasse se non il regno,per
volere ancora quello, perde la vita. E
veramente, se alcuna congiura contraa’ principi
fatta da uomini grandi do-vesse avere buon
fine, doverrebbé es-sere questa; essendo fatta
da un altro re, si può dire, e da
chi ha tanta co-modità di adempire il
suo desiderio: ma quella cupidità del
dominare chegli accieca, gli accieca ancora
nel ma-neggiare questa impresa ; perchè,
sesapessino fare questa cattività con pru-denza,
sarebbe impossibile non riuscisseloro. Debbe,
adunque, un principe che si vuole guardare
dalie congiure, temerepiù coloro a chi egli
ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi
gli avesse fattetroppe ingiurie. Perchè
questi mancano di comodità, quelli ne
abbondano; e lavoglia è simile, perchè gli è
così grande o maggiore il desiderio del
dominare,che non è quello della vendetta.
Deb-bono, pertanto, dare tanta autorità agliloro
amici, che da quella al principato sia
qualche intervallo, e che vi sia inmezzo
qualche cosa da disiderare: al-trimenti, sarà
coso rara se non inter-verrà loro come
ai principi soprascritti. .Ma torniamo all’
ordine nostro. Dico,che avendo ad esser
quelli che congiu-rano uomini grandi, e che
abbino l’aditofacile al principe, si ha a
discorrere i successi di queste loro
imprese qualisiano stati, e vedere la
cagione che gli «ha fatti essere
felici ed infelici. E comeio dissi di
sopra, ci si trovano dentro in tre
tempi, pericoli: prima, in su ’lfatto, e
poi. Però se ne trovano poche che
abbiano buono esito, perchè gli
èimpossibile quasi passargli tutti felice-mente. E
cominciando a discorrere ipericoli di prima,
che sono i più impor-tanti; dico, come e’
bisogna essere moltoprudente, ed avere una
gran sorte, che nel maneggiare una congiura
la non siscuopra. E si scuoprono o per
relazio-ne, o per coniettura. La relazione
nasceda trovare poca fede, o poca prudenza, negli
uomini con chi tu la comunichi.La
poca fede si truova facilmente, per-chè tu
non puoi comunicarla se noncon tuoi
fidati, che per tuo amore si mettino
alla morte, o con uomini chesiano
malcontenti del principe. De’ fidati se ne
potrebbe trovare uno o due; macome tu
Li distendi in molti, è impos-sibile gli
truovi: dipoi, c’bisogna beneche la
benevolenza che ti portano sia grande, a
volere che non paia loro mag-giore il
pericolo e la paura della pena. Dipoi gli
uomini s' ingannano il piùdelle volte dello
amore che tu giudichi che un uomo ti
porti, nè le ne puoimai assicurare,
se tu non ne fai espe- rienza: e farne esperienza
in questo èpericolosissimo: e sebbene he
avessi fatto esperienza in qualche altra
cosa perico-losa dove e’ ti fussono stali
fedeli, non puoi da quella fede misurare
questa,passando questa di gran lunga ogni
al-tra qualità di pericolo. Se misuri la
fededalla mala contentezza che uno abbia del
principe, in questo tu ti puoi facil-mente
ingannare: perchè subito che tu hai
manifestato a quel malcontento l’ani-mo tuo,
tu gli dai materia di conten- tarsi, e
convien bene o che 1’ odio siagrande, o
che 1’ autorità tua sia gran-dissima a
mantenerlo in fede. Di quinasce che
assai ne sono rivelate ed oppresse ne’
primi principii loro; e chequando una è
stata infra molti uomini segreta lungo
tempo, è tenuta cosa mi-racolosa: come fu
quella di Pisone con-tea a Nerone, e ne' nostri
tempi quellade’ Pazzi conira a Lorenzo e Giuliano
de' Medici; delle quali erano
consapevolipiù clic cinquanta uomini, c condus- sonsi
alla esecuzione a scoprirsi. Quantoa scoprirsi
per poca prudenza, nasce quando uno
congiurato ne parla pococauto, in modo
che un servo o altra terza persona intenda;
come intervenneai figliuoli di Bruto, che
nel maneggiare la cosa con i legali di
Tarquinio, fu-rono intesi da un servo, che
gli accusò: ovvero quando per leggerezza ti
vienecomunicala a donna o a fanciullo che tu ami,
o a simile leggieri persona ;come fece
Dinno, uno de* congiurati con Filota centra
ad Alessandro Magno, ilquale comunicò la
congiura a Nicomaco fanciullo amato da lui,
il quale subito lo disse a Ciballino suo
fratello, e Ci-bullino al re. Quanto a
scoprirsi perconieltura, ce tf è in
essempio la con-giura Pisoniana conira a Nerone;
nellaquale Scevino, uno de’ congiurati, il
dì dinanzi eh’ egli aveva ad
ammazzareNerone, fece testamento, ordinò che
Me-lichio suo liberto facesse arrotare
unsuo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i
suoi servi e dette loro danarifece ordinare
fasciature da legare ferite: per le quali
conietture accertatosi .Meli-chio della cosa,
lo accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con
lui Natale, un altrocongiurato, i quali
erano stati veduti parlare a lungo e di
segreto insieme ildi davanti; e non si
accordando del ragionamento avuto, furono forzati
aconfessare il vero; talché la congiura fu
scoperta, con rovina di tutti i con-giurati.
Da queste cagioni dello scoprire le
congiure è impossibile guardarsi, cheper malizia,
per imprudenza o per leg- gerezza, la non
si scuopra, qualunquevolta i conscii d’essa
passano il numero di tre o di quattro. E come
e’ ne è presopiù che uno, è impossibile
non riscon- trarla, perchè due non possono
esserconvenuti insieme di tutti i ragiona- menti
loro. Quando e’ sia preso solouno che
sia uomo forte, può egli con la fortezza
dello animo tacere i congiurati;ina conviene
che i congiurati non ab-bino meno animo di
lui a star saldi,e non si scoprire con
la fuga : perchè da una parte che P
animo manca, o dachi è sostenuto o da chi è
libero, la congiura è scoperta. Ed è raro
lo es-sempio addotto da Tito Livio
nella con-giura fatta contra a Girolamo re
diSiracusa ; dove, sendo Teodoro uno de’congiurati
preso, celò con una virtùgrande tutti i
congiurati, ed accusò gli amici del re; e
dall’altra parte, tulli icongiurati confidarono
tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno
si parti diSiracusa, o fece alcuno segno
di timore. Passasi, adunque, per tutti
questi peri-coli nel maneggiare una congiura
in-nanzi che si venga alla esecuzioned'essa: i
quali volendo fuggire, ci sono questi
rimedi. Il primo ed il più vero,anzi
a dir meglio, unico, è non dare tempo ai
congiurati di accusarti; eperciò comunicare
loro la cosa quando tu ia vuoi fare,
e non prima: quelliche hanno fatto cosi,
fuggono al certo i pericoli che sono
nel praticarla, e il piùdelle volte gli
altri ; anzi hanno tutte avuto felice fine:
e qualunque prudentearebbe comodità di governarsi
in que-sto modo, lo voglio che mi
basti ad-durre due essempi. Nelemato, non
po-tendo sopportare la tirannide di Ari-slotimo
tiranno di Epiro, ragunò in casa sua
molti parenti ed amici, e conforta-togli a
liberare la patria, alcuni di loro chiesono
tempo a deliberarsi ed ordi-narsi; donde Nelemato
fece a’ suoi servi serrare la casa,
ed a quelli che essoaveva chiamati, disse:
0 voi giurerete di andare ora a fare questa
esecuzione,o io vi darò tutti prigioni ad
Aristoti-mo. Dalle quali parole mossi
coloro,giurarono; ed andati senza intermissio-ne
di tempo, felicemente l’ ordine diNelemato
eseguirono. Avendo un Mago, per inganno,
occupato il regno de’Persi,ed avendo
Orlano, uno de’grandi uomini del regno,
intesa e scoperta la fraude,lo conferì con
sei altri principi di quello Stato, dicendo
come egli era da vendi-care il regno
dalla tirannide di quel Mago; e domandando
alcuno di lorotempo, si levò Dario,
uno de’ sei chia- mati da Orlano, e disse:
0 noi andre-mo ora a far questa esecuzione, o
io vi andrò ad accusar tutti. E così
d’ac-cordo levatisi, senza dar tempo ad al- cuno
di pentirsi, eseguirono felicementei disegni
loro. Simile a questi duoi essempi ancora è
il modo che gli Etolitennero ad
ammazzare Nabide, tiranno spartano ; i quali
mandarono Alessame-no loro cittadino, con
trenta cavalli e dugento fanti, a Nabide,
sotto colore dimandargli aiuto; ed il
segreto solamente comunicarono ad Alessameno; ed
agli altri imposono che lo ubbidissino in ogni
e qualunque cosa, sotto pena diesilio. Andò
costui in Sparta, e non co-municò mai la
commissione sua se nonquando ei la
voile eseguire: donde gli riusci d’
ammazzarlo. Costoro, adunque,per questi modi
hanno fuggiti quelli pericoli che si
portano ne! maneggiarele congiure ; e chi
imiterà loro, sempre gli fuggirà. E che
ciascuno possa farecome loro, io ne
voglio dare lo essein- pio di Pisone,
preallegato di sopra. EraPisone grandissimo e
riputatissimo uomo, e famigliare di Nerone, e in
chiegli confidava assai. Andava Nerone ne’
suoi orli spesso a mangiare seco.Poteva,
adunque, Pisone farsi amici uomini d’animo,
di cuore, e di dispo-sizione atti ad una
tale esecuzione (il che ad uno uomo
grande è facilissimo);e quando Nerone fusse stato
ne* suoi orti, comunicare loro la cosa, e
conparole convenienti inanimirli a far quello che
loro non avevano tempo a ricusa-re, e che
era impossibile che non riu- scisse. E cosi,
se si esamineranno tutte1’ altre, si
troverà poche non esser po- tute condursi
nel medesimo modo: magli uomini per
lo ordinario poco inten-denti delie azioni
del mondo, spessofanno errori grandissimi, e
tanto mag-giori in quelle che hanno più
dello istraordinario, come è questa. Debbesi, adunque,
non comunicare mai la cosase non
necessitato ed in sul fatto; e se
pure la vuoi comunicare, comunicalaad un
solo, del quale abbi fatto lun-ghissima
isperienza, o che sia mossodalle medesime
cagioni che tu. Tro-varne uno così fatto è
molto più facileche trovarne più, e per
questo vi è meno pericolo; dipoi, quando
pure eiti ingannasse, vi è qualche rimedio
a difendersi, che non è dove siano con-giurati
assai: perchè da alcuno prudente ho sentito
dire che con uno si può par-lare ogni
cosa, perchè tanto vale, se tu non ti
lasci condurre a scrivere di tuamano, il
sì dell* uno quanto il no del- l’altro; e
dallo scrivere ciascuno debbeguardarsi come
da uno scoglio, perchè non è cosa che
più facilmente ti con-vinca, che lo scritto
di tua mano. Plau- ziano volendo fare
ammazzare Severoimperadore ed Antonino suo
figliuolo, commise la cosa a Saturnino tribuno;il
quale volendo accusarlo e non ubbi- dirlo, e
dubitando che venendo alla ac-cusa non
fusse più creduto a Plauziano che a lui,
gli chiese una cedola di suamano, che
facesse fede di questa cora-missione ; la
quale Plauziano , acce-cato dalla ambizione, gli fece:
donde seguì che fu dal tribuno accusato
econvinto ; e senza quella cedola, e certi
altri contrassegni, sarebbe statoPlauziano
superiore : tanto audacemente negava. Truovasi,
adunque, nella accusad’uno qualche rimedio,
quando tu non puoi esser da una
scrittura, o altricontrassegni, convinto: da che
uno si debbe guardare. Era nella congiura
Pi-soniana una femmina chiamata Epicari, 9tata
per lo addietro amica di Nerone;la
quale giudicando che fusse a propo-sito mettere
tra i congiurati uno capi-tano di alcune
triremi che Nerone teneva per sua guardia,
gli coipunicò la con-giura, ma non i
congiurati. Donde, rom-pendogli quel capitano la
fede ed accu-sandola a Nerone, fu tanta l’ audacia
di Epicari nel negarlo, che Nerone,
rimasoconfuso, non la condennò. Sono, adun-que,
nel comunicare la cosa ad un solodue
pericoli : l’ uno, che non ti accusi in pruova;
l’altro, che non ti accusi con-vinto e
constretto dalla pena, sendo egli preso per
qualche sospetto o per qual-che indizio avuto
di lui. Ma nell’ uno e nell’altro di
questi duoi pericoli è qual-che rimedio,
potendosi uegare l’uno al- legandone l’odio che
colui avesse teco,e negare l’altro allegandone
la forza che lo costringesse a dire le
bugie. E,adunque, prudenza non comunicare la cosa
a nessuno, ma fare secondo quelliessenipi
soprascritti; o quando pure la comunichi, non
passare uno, dove se èqualche più
pericolo, ve n’è meno assai che comunicarla
con molti. Propinquo a questo modo è quando
una necessità ti constringa a fare quello
al principeche tu vedi che '1
principe vorrebbe fare a te, la quale sia
tanto grande chenon ti dia tempo se
non a pensare d’as* sicurarti. Questa necessità
conduce quasisempre la cosa al (ine
disiderato: ed a provarlo voglio bastino
duoi essempi.Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto,
capi de’ soldati pretoriani, intrai primi amici e
famigliaci suoi, ed aveva Marzia intra le
sue prime concubine edamiche; e perchè egli
era da costoro qualche volta ripreso de'
modi con iquali maculava la persona
sua e lo im-perio, deliberò di fargli
morire, e scrissein su una lista: Marzia,
Leto ed Eletto, ed alcuni altri che
voleva la notte se-guente far morire; e
questa lista messe sotto il capezzale del
suo letto. Ed essen-do ito a lavarsi, un
fanciullo favorito di lui scherzando per camera
e su pelletto, gli venne trovata questa
lista, ed uscendo fuora con essa in
mano, ri-scontrò Marzia; la quale gliene tolse, e
lettola, e veduto il contenuto d’essa,subito
mandò per Leto ed Eletto; e co-nosciuto
tutti tre il pericolo in qualeerano,
diliberarono prevenire; e, senza metter tempo
in mezzo, la notte seguenteammazzarono
Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con
gli esercitisuoi in Mesopotamia, ed aveva
per suo prefetto Macrino, uomo più civile
chearmigero; e, come avviene che. i prin- cipi
non buoni temono sempre che altrinon
operi contra di loro quello che par loro
meritare, scrisse Antonino a Ma-terniano suo
amico a Roma, che inten-desse dagli astrologi,
se gli era alcunoche aspirasse allo
imperio, e gliene av-visasse. Donde Materniano
gli riscrisse,come Macrino era quello che
vi aspira-• va; e pervenuta la lettera,
prima allemani di Macrino che dello
imperadore,e per quella conosciuta la necessità
od’ammazzare lui prima che nuova let-tera
venisse da Roma, o di morire,commise a
Marziale centurione, suo fida-lo, ed a chi
Antonino aveva morto pochigiorni innanzi un
fratello, che lo am-mazzasse: il che fu
eseguito da lui fe-licemente. Vedesi, adunque, che
questa necessità che non dà tempo, fa
quasiquel medesimo effetto che ’l modo da me
sopraddetto che tenne Nelemato diEpiro.
Vedesi ancora quello che io dissi quasi nel
principio di questo discorso,come le
minacce offendono più gii prin- cipi, e sono
cagione di più efficaci con-giure che le
offese : da che un principe si debbe
guardare; perchè gli uomini si hanno o a
carezzare, o assicurarsi di loro, e non gli
ridurre mai in termineche gli abbino a
pensare che bisogni loro o morire, o far
morire altrui.Quanto ai pericoli che si
corrono in su la esecuzione, nascono questi
o da va-riare l’ordine, o da mancare V animo a
colui che eseguisce, o da errore chelo
esecutore faccia per poca prudenza, o per
non dar perfezione alla cosa, ri-manendo
vivi parte di quelli che si di- segnavano
ammazzare. Dico, adunque,come e' non è cosa
alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a
tutte leazioni degli uomini, quanto è in
uno instante, senza aver tempo, avere a va-riare
un ordine, e pervertirlo da quello che si
era ordinato prima. E se questavariazione
fa disordine in cosa alcuna, lo fa
nelle cose della guerra, ed in
cosesimili a quelle di che noi parliamo;
per-chè in tali azioni non è cosa tanto
ne-cessaria a fare, quanto che gli uomini fermino
gli animi loro ad eseguire quellaparte
che tocca loro; e se gli uomini hanno
volto la fantasia per più giorniad un
modo e ad uno ordine, e quello subito
varii, è impossibile che non siperturbino
tutti, e non rovini ogni co-sa; in modo
ch'egli è meglio assai ese-guire una cosa
secondo l' ordine dato, ancora che vi si
vegga qualche incon-veniente, che non è,
per voler cancellare quello, entrare in
mille inconvenienti.Questo interviene quando e’
non si ha tempo a riordinarsi; perchè quando
siha tempo, si può 1’ uomo governare
a suo modo. La congiura de’ Pazzi contraa
Lorenzo e Giuliano de’ Medici, è nota. L’ ordine
dato era, che dessino desinareal cardinale
di San Giorgio, ed a quel desinare
ammazzargli: dove si era di-stribuito chi
aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il
palazzo, e chi correrela città e chiamare
il popolo alla libertà. Accadde che essendo
nella chiesa catte-drale in Firenze i Pazzi, i
Medici ed il Cardinale ad uno offizio
solenne, s’in-tese come Giuliano la mattina
non vi desinava : il che fece che i
congiuratis’adunarono insieme,^ quello che gli avevano
a far in casa i Medici, dilibe-rarono di
farlo in chiesa. Il che venne a perturbare
tutto l’ordine; perchè Gio-vambatista da
Montesecco non volle con-correre all’ omicidio,
dicendo non lo co-lere fare in chiesa:
talché gli ebbono a“mutare nuovi ministri
in ogni azione; iquali, non avendo
tempo a fermare l’ani-mo, feci ono tali
errori, che in essa ese-cuzione furono
oppressi. Manca l’animo a chi eseguisce, o per
riverenza, o perpropria viltà dello esecutore,
lì) tanta la maestà e la riverenza che
si tira dietrola presenza d’uno principe,
eh’ egli è fa-cil cosa o che mitighi o
ch’egli sbigot-tisca uno esecutore. A Mario, essendo preso
da’ Minturnesi, fu mandato uno ser-vo che
lo ammazzasse ; il quale spaventato dalla
presenza di quello uomo e dalla me-moria
del nome suo divenuto vile, per-de ogni
forza ad ucciderlo. E se que-sta potenza è
in uno uomo legato e prigione, ed
affogato in la mala fortuna,quanto si
può temere che la sia mag-giore in un
principe sciolto, con lamaestà degli ornamenti,
della pompa c della comitiva sua? talché
ti può questapompa spaventare, o vero con
qualche grata accoglienza raumiliare. Congiura-rono
alcuni contro a Sitalce re di Tra- cia;
deputarono il dì della esecuzione;convennono
al luogo deputato, dov’ era il principe;
nessuno di loro si mosseper offenderlo:
Unto che si partirono senza aver tentato
alcuna cosa e senzasapere quello che se
gli avesse impediti; ed incolpavano 1’ uno
1’ altro. Caddonoin tale errore più
volte ; tanto che sco-pertasi la congiura,
portarono pena diquel male che poterono e
non volleno fare. Congiurarono contra Alfonso
ducadi Ferrara due suoi fratelli, ed
usarono mezzano Giennes prete e cantore delduca;
il quale più volte a loro richiesta, condusse
il duca fra loro, talché gliavevano
arbitrio di ammazzarlo. Nondi-meno, mai nessuno
di loro non ardì difarlo; tanto che
scoperti, portarono la pena della cattività e
poca prudenzaloro. Questa negligenza non
potette na-scere da altro, se non che
convenne oche la presenza gli sbigottisse o
che qualche umanità del principe gli umi-liasse.
Nasce in tali esecuzioni inconve-niente o errore
per poca prudenza, oper poco animo;
perchè V una e 1’ altra di queste due
cose ti ’nvasa, e, portatoda quella
confusione di cervello, ti fa dire e fare
quello che tu non debbi. Eche gli
uomini invasino e si confondino, non lo può
meglio dimostrare Tito Livioquando descrive
d’ Alessameno elolo, quando ei volse
ammazzare Nabide spar-tano^ di che abbiamo
di sopra parlato; che, venuto il tempo
della esecuzione,scoperto che egli ebbe a’
suoi quello che af aveva a fare," dice
Tito Livioqueste parole: Collegi! et i psc
animunij confusimi tanice cogilatione rei.
Perchègli è impossibile eh* alcuno, àncora che di
animo fermo, ed uso alla morte de-gli
uomini e ad operare il ferro, non si
confonda. Però si debbe eleggere uo-mini
sperimentati in tali maneggi, ed a nessun
altro credere, ancora che tenutoanimosissimo.
Perchè, dello animo nelle cose grandi,
senza avere fatto isperien-za, non sia
alcuno che se ne prometta cosa certa.
Può, adunque, questa con-fusione o farti cascare
Panni di mano, o farti dire cose che
faccino il medesi-mo effetto. Lucilla, sorella
di Commodo, ordinò che Quinziano lo
ammazzasse.Costui aspettò Commodo nella entrata dello
anfiteatro, c con un pugnale ignudoaccosta
ndosegli, gridò: Questo ti manda il Senato:
le quali parole fecero che fuprima
preso eh’ egli avesse calato il braccio
per ferire. Messer Antonio daVolterra,
diputato, come di sopra si disse, ad
ammazzare Lorenzo de* Medici,nello accostategli,
disse: Ah traditore! la qual voce fu
la salute di Lorenzo, ela rovina di
quella congiura. Può non si dare perfezione
alla cosa, quando sicongiura contro ad
un capo, per le ca-gioni delle: ma
facilmente non se le dàperfezione quando
si congiura contro a due capi; anzi è
tanto difficile, che gliè quasi impossibile
eli» la riesca. Per-chè fare una simile
azione in un mede-simo tempo in diversi
luoghi, è quasi impossibile; perchè in diversi
tempinon si può fare, non volendo che
l’una guasti 1’ altra. In modo clic,
se il con-giurare contro ad uu principe è
cosa dubbia, pericolosa e poco prudente
;congiurare contro a due, è al tutto vana e
leggieri. E se non fusse la riverenzadello
istorieo, io non crederei mai che fusse
possibile quello che Erodiano dicedi
Plauziano, quando ei commise a Sa-turnino
centurione, che egli solo am-mazzasse Severo
ed Antonino, abitanti in diversi luoghi:
perchè la è cosa tantodiscosto dal
ragionevole, che altro che questa autorità
non me lo farebbe cre-dere. Congiurarono
certi giovani ateniesi contra a Diocle ed
Ippia, tiranni diAlene. Ammazzarono Diocle;
ed Ippia che rimase, Io vendicò. Chione e
Leo-nide, eradensi e discepoli di Platone, congiurarono
contro a Clearco e Satiro,tiranni: ammazzarono
Clearco; e Satiro che restò vivo, lo
vendicò. Ai Pazzi, piuvolte da noi
allegati, non successe di ammazzare se non
Giuliano. In modoche, di simili congiure
contro a più capi se ne dcbbe astenere
ciascuno, perchènon si fa bene nè a
sè nè olla patria nè ad alcuno: anzi
quelli che riman-gono , diventano più
insopportabili c più acerbi; come sa
Firenze, Ateneed Eraclea, state da ine
preallegate. È vero che la congiura clic
Pelopidafece per liberare Tebe sua patria , ebbe
tutte le diffìcultù; nondimenoebbe felicissimo
fine: perchè Pelopida non solamente congiurò
contra a duetiranni, ma contra a dieci; non
sola-mente non era confidente e non gli
erafacile 1’ entrata ai tiranni, ma
era ri-bello: nondimeno ei potè venire iti
Te-be, ammazzare i tiranni, e liberare la patria.
Pur nondimeno fece lutto, conI’ aiuto
d’ uno Carione, consigliere de’ ti-ranni, dal
quale ebbe 1’ entrata fucilealla esecuzione
sua. Non sia alcuno, non-dimeno, che pigli
lo essempio da co-stui : perchè come la
fu impresa impos-sibile, e cosa maravigliosa a
riuscire,cosi fu ed è tenuta dagli
scrittori i quali la celebrano come cosa
rara, equasi senza essempio. Può essere
inter-rotta tale esecuzione da una falsa
im-maginazione, o da uno accidente im-provviso che
nasca in su M fatto. Lamattina che
Bruto e gli altri congiurati volevano ammazzare
Cesare, accadde, chequello parlò a lungo con
Gneo Popiiio Cenate, uno de’ congiurati ; e
vedendogli altri questo lungo parlamento,
du-bitarono che detto Popiiio non rivelassea
Cesare la congiura. Furono per ten-tare d*
ammazzare Cesare quivi, e nonaspettare che
fusse in Senato; ed areb-bonlo fatto,
se non che il ragionamentofini, e visto
non fare a Cesare moto alcuno straordinario,
si rassicurarono.Sono queste false immaginazioni
da con-siderarle, ed avervi con prudenza
ri-spetto ; e tanto più, quanto egli è facile ad
averle. Perchè chi ha la sua
con-scienza macchiata, facilmente crede che si
parli di lui: puossi sentire una pa-rola
detta ad un altro fine, che ti
fac-eia perturbare t’ animo, e credere
cheia sia detta sopra il caso tuo; e
farti o con la fuga scoprire la congiura
date, o confondere I' azione con accelerarla fuora
di tempo. E questo tanto più fa-cilmente
nasce, quanto ei sono molti ad esser
consci della congiura. Quanto agliaccidenti,
perchè sono insperati, non si può se
non con gli essempi mostrargli,e fare gli
uomini cauti secondo quelli, lulio Belanti
da Siena, del quale di so-pra abbiamo
futto menzione, per lo sdegno aveva contra
a Pandolfo, che gliaveva tolta la figliuola
che prima gli aveva data per moglie,
deliberò d’ am-mazzarlo, ed elesse questo
tempo. An-dava Pandolfo quasi ogni giorno a
vi-sitare un suo parente infermo, e nello andarvi
passava dalle case di lulio. Co-stui
adunque, veduto questo, ordinò d* avere i
suoi congiurali in casa ad ordine per
ammazzare Pandolfo nel pas-sare ; e messisi
dentro alP uscio armati,teneva uno alla
fenestra, che, passando Pandolfo, quando ci
fosse slato pressoall’ uscio, facesse un
cenno. Accadde che venendo Pandolfo, ed
avendo fallo coluiil cenno, riscontrò uno
amico che Io fermò; ed alcuni di
quelli che erano conlui, vennero a
trascorrere innanti, e veduto e sentito il
rornore d’arme, sco-persono l’agguato; in
modo che Pan- dolfo si salvò, e tulio coi
compagni s’ eh*bono a fuggire di Siena.
Impedì quello accidente di quello scontro
quella azione,e fece a Iulio rovinare la
sua impresa. Ai quali accidenti, perchè ei
sono rari,non si può fare alcuno
rimedio. È ben necessario esaminare tutti quelli
chepossono nascere, e rimediarvi. Restaci, al
presente, solo a disputare de’ pericoliche
si corrono dopo la esecuzione : i quali
sono solamente uno; e questo è,quando e’
rimane alcuno che vendichi il principe
morto. Possono rimanere,adunque, suoi fratelli, o
suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi s’
aspetti il prin-cipato; e possono rimanere o per
tua. negligenza, o per le cagioni dette di
so-pra, che faccino questa vendetta: come intervenne
a Giovannandrea da Lampo-gnano, il quale,
insieme con i suoi con-giurati, avendo morto
il duca di Mi-lano, ed essendo rimaso
uno suo figliuolo c due suoi fratelli,
furono a tempo avendicare il morto. E
veramente, in questi casi i congiurati sono
scusati,perchè non ci hanno rimedio; ma
quando ei ne ripiene vivo alcuno per
poca pru-denza, o per loro negligenza, allora è che
non meritano scusa. Ammazzaronoalcuni congiurati
Forlivesi il conte Gi-rolamo loro signore,
presono la moglie,cd i suoi figliuoli, che
erano piccoli ; e non parendo loro poter
vivere sicuri senon si insignorivano della
fortezza, e non volendo il castellano darla
loro,Madonna Caterina (che così si chiamava la
contessa) promise a’ congiurati, se
lalasciavano entrare in quella, di farla consegnare
loro, e che ritenessino ap-presso di loro i
suoi figliuoli per ista- ticiii. Costoro
sotto questa fede ve la la-sciarono entrare
; la quale come fu den-tro dalie mura
rimproverò loro la mortedel marito, e minacciógli
d’ ogni qua-lità di vendetta. B per mostrare
chede’ suoi figliuoli non si curava, mostrò loro
le membra genitali, dicendo cheaveva ancora
il modo a rifarne. Cosi costoro, scarsi di
consiglio e tardi av-vedutisi del loro errore,
con uno per-petuo esilio patirono pene
della pocaprudenza loro. Ma di tutti i
pericoli che possono dopo la esecuzione
avvenire,non ci è il più certo, nè
quello che sia più da temere, che
quando il popolo èamico del principe
che tu hai morto: perchè a questo i
congiurati non hannorimedio alcuno, perchè
e’ non se ne pos- sono mai assicurare.
In essempio ci èCesare, il quale per
avere il popolo di Roma amico, fu
vendicato da lui; per-chè avendo cacciati i
congiurati di Ro-ma, fu cagione che furono
tutti in varitempi e in vari luoghi
ammazzati. Le congiure che si fanno contro
alla patriasono meno pericolose per coloro
che le fanno, che non sono quelle che
si fannocontro ai principi: perchè nel
maneg-giarle vi sono meno pericoli che
inquelle; nello eseguirle vi sono quelli medesimi;
dopo la esecuzione, non veli* è alcuno.
Nel maneggiarle non vi è pericoli molti:
perchè un cittadino puòordinarsi alia
potenza senza manifestare l’animo e disegno suo
ad alcuno; e sequelli suoi ordini non gli
sono inter- rotti; seguire felicemente I* impresa
sua;se gli sono interrotti con qualche
legge, aspettar tempo, ed entrare per altra
via.Questo s’ intende in una repubblica dove è
qualche parte di corruzione; perchèiu una
non corrotta, non vi avendo luogo nessuno
principio cattivo, nonpossono cadere in un
suo cittadino que- sti pensieri. Possono,
adunque, i cittadiniper molti mezzi e molte
vie aspirare al principato, dove ei non
portano peri-colo d’ essere oppressi: si
perchè le re-pubbliche sono più tarde
che uno prin-cipe, dubitano meno, e per
questo sono manco caute; sì perchè hanno
più ri-spetto ai loro cittadini grandi, e
per questo quelli sono più audaci e più animosi
a far loro contro. Ciascuno ha letto la
congiura di Catilina scritta daSalustio, e
sa come poi che la congiura fu
scoperta, Catilina non solamente stettein
Roma, ma venne in Senato, e disse villania
al Senato ed al Consolo: tantoera il
rispetto che quella città aveva ai suoi
cittadini. E partito che fu di Roma,e eh’
egli era di già in su gli eserciti, non
si sarebbe preso Lentolo e quellialtri, se
non si fussero avute lettere di lor
mano che gli accusavano manifesta-mente. Annone,
grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando
alla tirannide,aveva ordinato nelle nozze d’
una sua figliuola di avvelenare tutto il
Senato,e dipoi farsi principe. Questa cosa in- tesasi,
non vi fece il Senato altra prov-visione
che d’ una legge, la quale po- neva
termine alle spese de’ conviti edelle
nozze: tanto fu il rispetto die gli ebbero
alle qualità sue. È ben vero, chenello
eseguire una congiura contra alla patria,
Vi è più difficoltà e maggioripericoli; perchè1
rade volte è che ba- stino le tue forze
proprie conspirandocontra u tanti; e ciascuno non
è prin-cipe d’ uno esercito, come era
Cesare oAgatocle o Cleomene e simili, che hanno ad
un tratto e con la forza occupata
lapatria. Perchè a simili è la via assai facile,
ed assai sicura; ma gli altri chenon
hanno tante aggiunte di forze, con-viene
che faccino la cosa o con ingannoed
arte, o con forze forestiere. Quanto allo
inganno ed all’arte, avendo Pisi-strato
ateniese vinti i Megarensi, e per questo
acquistata grazia nel popolo, uscìuna
mattina fuori ferito, dicendo che la
nobiltà per invklia P aveva ingiuria-to, e
domandò di poter menare armati seco per
guardia sua. Da questa auto-rità facilmente
salse a tanta grandezza, che diventò tiranno d’
Alene. PandolfoPetrucci tornò con altri
fuorusciti in Siena, e gli fu data la
guardia dellapiazza in governo, come cosa
meccanica, e che gli altri rifiutarono;
nondiinaneoquelli armati, con il tempo, gli
dierono tanta riputazione, che in poco
tempone diventò principe. Molti altri hanno tenute
altre industrie ed altri modi, econ
ispazio di tempo e senza pericolo vi si
sono condotti. Quelli che con forzaloro, o
con eserciti esterni, hanno con-giurato per
occupare la patria, hannoavuti vari eventi,
secondo la fortuna. Catilina preallegato vi
rovinò sotto. An-none, di chi di sopra
facemmo men- zione, non essendo riuscito il
veleno,armò di suoi partigiani molte migliaia di
persone, e loro ed eglino furono mor-ti.
Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi
tiranni chiamarono in aiuto unoesercito
spartano, e presono la tirannide di quella
città. Tanto che, esaminatetutte le
congiure fatte contro alla pa-Iria, non
ne troverai alcuna, o poche,che nel
maneggiarle siano oppresse; ma tutte q sono
riuscite, o sono rovi-nate nella esecuzione.
Eseguite che le sono, ancora non portano
altri pericoli,che si porti la natura
del principato in sé: perchè divenuto che
uno è tiranno,ha i suoi naturali ed
ordinari pericoli che gli arreca la
tirannide, alli qualinon ha altri rimedi
che di sopra si siano discorsi. Questo è
quanto mi èoccorso scrivere delle congiure;
e se io ho ragionato di quelle che si
fanno conil ferro, e non col veleno,
nasce che P hanno tutte un medesimo ordine.
Veroè che quelle del veleno sono più
pe-ricolose, per esser più incerte: per-chè non
si ha comodità per ognuno; e bisogna
conferirlo con chi la ha ; equesta
necessità del conferire ti fa pe-ricolo.
Dipoi, per molte cagioni, un be-veraggio di
veleno non può esser mor-tale: come
intervenne a quelli che am-mazzarono Commodo,
che, avendo quello ributtato il veleno che
gli avevano dato,furono forzati a strangolarlo,
se volleno che morisse. Non hanno,
pertanto, iprincipi il maggiore nimico che
la con* giura ; perchè fatta che è una
congiuraloro conira, o la gli ammazza, o la
gli infama. Perchè, se la riesce, e’
muoio-no; se la si scopre, e loro ammazzino i
congiurati, si crede sempre che lusia
stata invenzione di quel principe, per
isfogarc 1* avarizia e la crudeltà
suaconira al sangue ed alla roba di
quelli eh’ egli ha morti. Non voglio
però man-care di avvertire quel principe o quella
repubblica contra a chi fusse congiu-rato, che
abbino avvertenza, quando una congiura si
manifesta loro, innanziche faccino impresa
di vendicarla, di cercare ed intendere
molto bene la qua-lità di essa, e misurino
bene le condi- zioni de’ congiurati e le loro ; c
quandola truovino grossa e potente, non la scuoprino
mai, infimo a tanto che sisiano preparati
con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti
facendo, scopri-rebbono la loro rovina.
Però debbono con ogni industria dissimularla,
perchèi congiurati veggendosi scoperti, cac-ciati da
necessità, operano sema ris-petto. In esseinpio
ci sono i Romani; i quali aveudo lasciate
due legioni disoldati a guardia de’
Capovani contra ai Sanniti, come altrove
dicemmo, con-giurarono quelli capi delle legioni
in-sieme di opprimere i Capovani: la qualcosa
intesasi a Roma, commessono a Rutilio nuovo
consolo che vi provve-desse: il quale, per
addormentare i con-giurali, pubblicò come il
Senato avevaraffermo le stanze alle legioni
capovane. Il che credendosi quelli soldati, e
pa-rendo loro aver tempo ad eseguire il disegno
loro, non cercarono di accele-rare la cosa
; e così stettono infino che cominciarono a
vedere che il Consologli separava 1’
uno dull’ altro ; la qual cosa generato
in loro sospetto, fece chesi scopersono, e
mandarono ad esecu-zionc la voglia loro.
Nè può esserequesto maggiore essempio nell’
una e nel-Y altra parte: perchè per questo
si vede,quanto gli uomini sono lenti
nelle cose dove ei credono avere tempo; e
quantoei sono presti dove la necessità
gli cac-cia. Nè può uno principe o una
repub-blica, che vuole differire lo scoprire una congiura
a suo vantaggio, usare ter-mine migliore che
offerire di prossimo occasione con arte ai
congiurati, accioc-ché aspettando quella, o parendo
loro aver tempo, diano tempo a quello o
aquella a castigargli. Chi ha fatto altri-menti,
ha accelerato la sua rovina:come fece
il duca di Atene e Guglielmo de* Pazzi.
Il duca, diventato tiranno diFirenze, ed
intendendo essergli congiu-rato contro, fece,
senza esaminare altri-menti la cosa, pigliare
uno de’ congiu-rali: il che fece subito
pigliare V anniagli altri e torgli lo
Stato. Guglielmo, sendo commessario in Val
di Chiananel 1501, ed avendo inteso
come in Arezzo erti congiura in favore
de* Vi-telli per tórre quella terra ai
Fiorentini, subito se uè andò in quella
città, esenza pensare alle forze de’ congiurati o
alle sue, e senza prepararsi di
alcunaforza, con il consiglio del Vescovo
suo figliuolo, fece pigliare uno de’ congiu-rati:
dopo la qual presura, gli altri subito
presono 1’ armi e tolseno In ter-ra ai
Fiorentini; e Guglielmo, di com-tnessario,
diventò prigione. Ma quandole congiure sono
deboli, si possono e debbono senza rispetto
opprimere. Nonè ancora da imitare in alcun
modo duoi termini usati, quasi contrari 1’
uno al-I’ altro ; 1’ uno dal
prenominato duca d’ Atene, il quale, per
mostrare di cre-dere d’ avere la
benivolenza de’ cittadini fiorentini, fece morire
uno che gli ma-nifestò una congiura:
l’altro da Dione siracusano, il quale, per
tentare 1’ animodi alcuno ch’egli aveva a
sospetto, con-sentì a Callippo, nel quale ei
confidava,che mostrasse di fargli una congiura contra.
E tutti due questi capitaronomale: perchè
l’uno tolse l’animo agli accusatori, e dettelo a
chi volse congiu-rare: l’altro dette la via
fucile alta morte sua, anzi fu egli
proprio capodella sua congiura; come per
isperienza gli intervenne, perchè Callippo
potendosenza rispetto praticare contra a Dione, praticò
tanto, che gli tolse lo Stato ela
vita. Donde nasce che le muta-zioni dalla
libertà alla servitù , e dallaservitù alla
libertàj alcuna n' è senza sangue , alcuna n* è
piena.Dubiterà forse alcuno donde nasca che
molte mutazioni che si fanno dallavita
libera alla tirannica e per contra-rio, alcuna
se ne faccia con sangue, al-cuna senza ;
perchè, come per le istorie si comprende,
in simili variazioni alcunavolta sono stali
morti infiniti uomini, alcuna volta non è
stato ingiurialo al-cimo: come intervenne
nella mutazione clic fece Roma dai Re
ai Consoli, dovenon furono cacciati altri
die i Tarquini, fuora delia offensione di
qualunque altro.Il che dipende da questo:
perchè quello stato che si muta, nacque
con violenza,o non ; e perchè quando e’
nasce con violenza, conviene nasca con
ingiuria dimolti, è necessario poi, nella
rovina sua, che gl’ ingiuriati si vogliono
vendicare;e da questo disiderio di vendetta nasce
il sangue e la morte degli uomini.
Maquando quello stato è causato da uno comune
consenso di una universalitàche lo lia
fatto grande, non ha cagione poi, quando
rovina detta universalità,di offendere altri
che il capo. E di que-sta sorte fu lo
stato di Roma e la cac-ciata de* Tarquini;
come fu ancora in Firenze lo stato de*
Medici, che poi nellerovine loro nel
1494, non furono offesi altri che loro. E
così tali mutazioni nonvengono ad esser molto
pericolose : ma son bene pericolosissime quelle
che sonofatte da quelli che si hanno
a vendica-re; le quali furono sempre mai di
sorte,da fare, non che altro, sbigottire
chi le legge. E perchè di questi essempi
ne-son piene l’ istorie, io le voglio
lasciare indietro.Cap. Vili. — Chi vuole alterare
una re-pubblicaj debbo considerare il sogget-to
di quella. E’ si è di sopra discorso,
come un tri-sto cittadino non può male
operare in una repubblica clic non sia
corrotta : laquale conclusione si fortifica,
oltre alle ragioni che allora si dissono,
con l’es*sempio di Spurio Cassio e di
Manlio Capitolino. 11 quale Spurio sendo
uomoambizioso, e volendo pigliare autorità istraordinaria
in Roma, e guadagnarsila Plebe con il
fargli molti benefizi, come era di
vendergli quelli campi che i Ro-mani avevano
tolti alt i Ernici; fu sco-perta dai Padri
questa sua ambizione,ed in tanto recata a
sospetto, r:lie par-lando egli al Popolo,
ed offerendo dìdargli quelli danari che
s’ erano ritratti de’ grani che il
pubblico aveva fatti ve-nire di Sicilia, al
tutto gli recusò, pa-rendo a quello che
Spurio volesse dareloro il pregio della
loro libertà. Ma se tal Popolo fusse
stato corrotto, non areb-be recusato detto
prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide
quella via che glichiuse. Fa molto
maggiore essempio di questo, Manlio Capitolino ;
perchè me-diante costui si vede quanta
virtù d’ani- mo e di corpo, quante buone
opere fattein favore della patria, cancella
dipoi una brutta cupidità di regnare: la
quale,come si vede, nacque in costui
per la invidia che lui aveva degli
onori eranofatti a Cammillo; e venne in
tanta cecità di niente, che nou pensando
al mododel vivere della città, non
esaminando il soggetto quale esso aveva,
non attoa ricevere ancora trista forma, si
mise a fare tumulti in Roma contra al
Se-nato e con tra alle leggi patrie. Dove si
conosce la perfezione di quella città,e la
bontà della materia sua : perchè nel caso
suo nessuno della Nobiltà, an-cora che
fussino acerrimi difensori l’uno deli’ altro,
si mosse a favorirlo ; nessunode’ parenti fece
impresa in suo favore: e con gli altri
accusati solevano com-parire sordidati, vestiti
di nero, tutti mesti, per cattare
misericordia in fa-vore dello accusato; e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni
della plebe,che solevano sempre favorire le
cose che pareva venissino in benefizio
delPopolo ; e quanto erano più contra ai Nobili,
tanto piu le tiravano innanzi; inquesto
caso si unirono coi Nobili, per opprimere
una comune peste. Il Popolodi Roma,
disiderosissimo dello utile pro-prio, ed amatore
delle cose che veniva-no contra alla
Nobiltà, avvenga clic facesse a Manlio assai
favori; nondi-meno, come i Tribuni lo citarono, e
che rimessono la causa sua al giudizio
delPopolo, quel Popolo, diventalo di
difen*sore giudice, sema rispetto alcuno
locondennò a morte. Pertanto io non credo che
sia essempio in questa istoria piùatto a
mostrare la bontà di tutti gli ordini
di quella Repubblica, quanto èquesto ;
veggendo che nessuno di quella città si
mosse a difendere un cittadinopieno d’ ogni
virtù, e che pubblicamente e privatamente aveva
fatte moltissimeopere laudabili. Perchè in
tutti loro potè più T amore della patria,
che nessuno-altro rispetto; e considerarono molto più
ai pericoli presenti che da lui
di-pendevano, che ai meriti passati: tanto che
con la morte sua e’ si liberarono..E
Tito Livio dice: Hunc ex itimi habuìt vii',
nisi in libera civilate natus esset,memorabili
Dove sono da considerare due cose: P una,
che per altri modis’ ha a cercare
gloria in una città cor-rotta, che in
una che ancora viva poli-ticamente; V altra (che
è quasi quel me-desimo che la prima) , che
gli uomini nel proceder loro, e tanto più
nelle azioni grandi, debbono considerare itempi,
ed accomodarsi a quelli. E coloro cbe, per
cattiva elezione o per naturaleinclinazione, si
discordano dai tempi, vivono il più delle
volte infelici, ed hannocattivo esito
razioni loro; al contrario Y hanno quelli
cbe si concordano coltempo. E senza dubbio,
per le parole preallegate dello istorico si
può con-chiudere, che se Manlio fusse nato
ne’ tempi di Mario e di Siila, dove
già lamateria era corrotta e dove esso
arebbe potuto imprimere la forma dell’ ambi-zione
sua, arebbe avuti quelli medesimi seguiti e
successi cbe Mario e Siila, egli altri
poi, che dopo loro alla tiran-nide
aspirarono. Così medesimamente,se Siila e Mario
fussino stati ne’ tempi di Manlio,
sarebbero stati intra le primeloro imprese
oppressi. Perchè un uomo può bene
cominciare con suoi modi econ suoi
tristi termini a corrompere un popolo di
uno città, ma gli è impossi-bile che
la vita d* uno basti a corrom- perla in
modo che egli medesimo nepossa trai*
frutto; e quando bene e’fusse - possibile
con lunghezza di tempo che lofacesse,
sarebbe impossibile quanto al modo del
procedere degli uomini, chesono impazienti, e
non possono lunga- mente differire una loro
passione. Ap-presso, s’ ingannano nelle còse
loro, ecl in quelle, massime, che
disiderano assai:talché, o per poca pazienza o
per in-gannarsene, entrerebbero in impresacontea a
tempo, e capiterebbero male.Però è bisogno, a
voler pigliare auto-rità in una repubblica e mettervi
trista forma, trovare la materia disordinatadal
tempo, e che a poco a poco, e di generazione
in generazione, si sia con-dotta al
disordine: la quale vi si con-duce di
necessità, quando la non sia,come di
sopra si discorse, spesso rin-frescata di
buoni essempi, o con nuoveleggi ritirata
verso i principii suoi. Sa- rebbe, adunque, stato
Manlio un uomoraro e memorabile, se lusso
nato in una città corrotta. E però debbono
i citta-dini che nelle repubbliche fanno alcuna impresa
o in favore della libertà o infavore della
tirannide, considerare il soggetto che eglino
hanno, e giudicareda quello la dilficultà
delle imprese loro. Perchè tanto è diffìcile e
pericoloso volerfare libero un popolo che
voglia viver servo, quanto è voler fare
servo un po-polo che voglia viver libero. E
perchè di sopra si dice, che gli
uomini nellooperare debbono considerare la
qualità de’ tempi e procedere secondo quelli,
neparleremo a lungo nel seguente capi- tolo. Come
conviene variare coitempi , volendo sempre aver
buona fortuna.Io ho considerato più volte
come la cagione della trista e della buona
for-tuna degli uomini è riscontrare il modo del
procedere suo coi tempi: perché e’ sivede
che gli uomini nell’ opere loro pro-cedono
alcuni con impeto, alcuni conrispetto e con
cauzione. E perchè nel-l’uno e nell’ altro di
questi modi si pas-sano i termini convenienti,
non si po-tendo osservare la vera via,
nell’uno enell’ altro si erra. Ma
quello viene ad errar meno, ed avere
la fortuna pro-spera, che riscontra, come
io ho detto, con il suo modo il
tempo, e sempre maisi procede, secondo ti
sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio
Massimo proce-deva con lo esercito suo
rispettivamente c cautamente, discosto da ogni impetoe
da ogni audacia romana; e la buona fortuna
fece, che questo suo modo ris-contrò bene
coi tempi. Perchè, sendo venuto Annibaie in
Italia, giovine e conuna fortuna fresca; ed
avendo già rotto il popolo romano due
volte; ed essendoquella repubblica priva
quasi della sua buona milizia, e sbigottita ;
non potettesortire miglior fortuna, che
avere un capitano il quale, con la
sua tardità ecauzione, tenesse a bada il
nimico. Nè ancora Fabio potette riscontrare
tempipiù convenienti ai modi suoi: di che nacque
che fu glorioso. E che Fabiofacesse questo
per natura e non per elezione, si vede,
che volendo Scipionepassare in Affrica con
quelli eserciti per ultimare la guerra,
Fabio la con-tradisse assai, come quello
che non si poteva spiccare dai suoi
modi e dallaconsuetudine sua; talché, se
fosse stato, a lui, Annibaie sarebbe ancora
in Italia,come quello che non si
avvedeva che gli erano mutati i tempi, e
che bisogna-va mutar modo di guerra. E se
Fabio fusse stato re di Roma, poteva
facil-mente perdere quella guerra : perchè non
arebbe saputo variare col proce-dere suo,
secondo che variavano i tempi : ma sendo
nato in una repubblica doveerano diversi
cittadini e diversi umori, come la ebbe
Fabio, che fu ottimo ne’tempi debiti a
sostenere la guerra, cosi ebbe poi Scipione
ne’ tempi atti a vin-cerla. Di qui nasce,
che una repubblica ha maggior vita, ed
ha più lungamentebuona fortuna che un
principato; per-chè la può meglio accomodarsi
alla di-versità de’ temporali, per la diversità de’
cittadini che sono in quella, che
nonpuò un principe. Perchè un uomo che sia
consueto a procedere in un modo,non si
muta mai, come è detto; e con-viene di necessità,
quando si mutano itempi disformi a quel
suo modo, che rovini. Piero Soderini, altre
volte preal-legato, procedeva in tutte le
cose sue con umanità e pazienza. Prosperò eglie
la sua patria mentre che i tempi fu-rono
conformi al modo del procedersuo: ma
come vennero dipoiìempi dove bisognava rompere
la pazienza e 1’ umi-lila, non lo seppe
fare; talché insieme con la sua patria
rovinò. Papa lulio 11procedette in tutto
il tempo del suo pon- tificato con impeto e
con furia ; e per-chè i tempi l’accompagnarono
bene, gli riuscirono le sue imprese tulle.
Ma sefossero venuti altri tempi che
avessero ricerco altro consiglio, di necessità
ro-vinava; perchè non arebbe mutato nè modo
nè ordine nel maneggiarsi. E clicnoi non
ci possiamo mutare, ne sono cagione due
cose: V una, che noi non cipossiamo
opporre a quello a che c’ in-clina la
natura ; 1* altra, che avendo unocon
un modo di procedere prosperato assai, non
è possibile persuadergli chepossa far bene a
procedere altrimenti: donde ne nasce che in
uno uomo la for-tuna varia, perchè ella
varia i tempi, ed egli non varia i modi.
Nascene an-cora la rovina della città, per
non si variare gli ordini delle
repubblicheco’ tempi ; come lungamente di
sopra dis-corremmo : ma sono più tarde,
perchèle penano più a variare, perchè biso-gna
che venghino tempi che commovinotutta la
repubblica; a che un solo col variare il
modo del procedere non ba-sta. E perchè noi
abbiamo fatto inenzione di Fabio Massimo
che tenne a badaAnnibale, mi pare da discorrere
nel ca-pitolo seguente, se un capitano,
volendofar la giornata in ogni modo
col nimico, può essere impedito da quello,
che nonla faccia. Che un capitano non
puòfuggire la giornata , quando V av-versario la
vuol fare in ogni moda.Cncus Sulpitius
Diclator advcrsus Gal-lo s bcllum trahcbal,
nolens se fot tuncecoturni Nere ad
versus hostentj qucm lem-pus dcteriorcm in
dieSj et locus alte-rnisi faccrct. Quando e’
seguita uno er-rore dove lutti gli uomini o
la maggiorparte s' ingannino, io non credo
che sia male molte volle riprovarlo.
Pertanto,ancora che io abbia di sopra
più volte mostro, quanto le azioni circa
le cosegrandi siano disformi a quelle degli antichi
tempi, nondimeno non mi parsuperfluo al
presente replicarlo. Perchè, se in alcuna
parte si devia dagli anti-chi ordini, si
devia massime nelle azioni militari, dove
al presente non è osser-vata alcuna di
quelle cose che dagli an-tichi erano
stimate assai. Ed è natoquesto inconveniente,
perchè, le repub-bliche ed i principi hanno
imposta que-sta cura ad altrui; e per
fuggire i pe-ricoli, si sono discostati da
questo eser-cizio: e se pure si vede
qualche volta un re de’ tempi nostri
andare in per -sona, non si crede
però che da lui na- scano altri modi
clic meritino più laude.Perchè quello
esercizio, quando pure Io fanno, lo fanno a
* pompa, e non peralcuna altra laudabile
cagione. Pure, questi fatino minori errori
rivedendo iloro eserciti qualche volta in
viso, te-nendo appresso di loro il titolo
del-V imperio, che non fanno le repubbli-che, e
massime le italiane; le quali, *fidandosi
d’ altrui, nè s’ intendendo in alcuna cosa
di quello che appartengaalla guerra; e
dall’ altro canto, volendo, per parere d*
essere loro il principe,diliberarne, fanno
in tale diliberazione mille errori. E benché
d’ alcuno ne abbidiscorso altrove, voglio
al presente non ne tacere uno
importantissimo. Quandoquesti principi ociosi, o
repubbliche ef-feminate, mandano fuori un loro
capi-tano, la più savia commissione che
paia loro darli, è quando gl* impongono
cheper alcun modo non venga a giornata, anzi
sopra ogni cosa si guardi dallazuffa ; e
parendo loro in questo imitare la prudenza
di Fabio Massimo, clic dif-ferendo il
combattere salvò lo Stato a’ Romani, non
intendono che la mag-giore parte delle
volte questa commis-sione è nulla o è dannosa.
Perchè sidebbe pigliare questa conclusione: che un
capitano che voglia stare alla cam-pagna,
non può fuggire la giornata qualunche volta
il nimico la vuole farein ogni modo.
E non è altro questa commissione che dire :
fa* la giornata aposta del nimico, e
non a tua. Perchè a volere stare in
campagna, e non farla giornata, non ci è
altro rimedio si-curo che porsi cinquanta
miglia almenodiscosto al nimico; e dipoi
tenere buonespie, che venendo quello verso
di te,tu abbi tempo a discostarti. Uno
altropartito ci è; rinchiudersi in una
città:e P uno e P altro di questi due partitè
dannosissimo. Nel primo si lascia inpreda
il paese suo al nimico ; ed
unoprincipe valente vorrà più tosto
tentarela fortuna della zuffa, che allungare
la- guerra con tanto danno de’ sudditi.
Nelsecondo partito è la perdita manifesta;perchè
conviene che, riducendoti conuno esercito
in una città, tu venga adessere
assediato, ed in poco tempo pa-tir fame, e
venire a dedizione. Talchéfuggire la giornata
per queste due vie,è dannosissimo.
Il modo che tenne Fabio Massimo di stare
ne’ luoghi forti, èbuono quando tu
hai si virtuoso eser-cito, che il nimico
non abbia ardire divenirti a trovare dentro
a’ tuoi vantag-gi. Nè si può dire
che Fabio Ila giornata, ma più tosto
che lafare a suo vantaggio. Perchè sbuie
fusse ilo a trovarlo, Fabio 1aspettato, e
fatto giornata seAnnibale non ardi mai
di concon lui a modo di quello.
Tantigiornata fu fuggita cosi da Acome
da Fabio: ma se unol’ avesse voluta
fare in ogni moIrò non vi aveva
se non unorimedi; cioè i due
sopraddettigirsi. Clic questo eh’ io dico
sisi vede manifestamente con nsempi, e
massime nella guerraRomani feciono con
Filippo dinia, padre di Perse: perchèseudo
assaltato dai Romani,non venire alla zuffa;
e per ncnire, volle fare prima come
aveFabio Massimo in Italia; e si ;suo
esercito sopra la sommilmonte, dove si
afforzò assai, giuche i Romani non avessero
ardiiilare a trovarlo. Ma andativi c combat-tutolo,
lo cacciarono di quel monte; edegli
non potendo resistere, si fuggì conla
maggior parte delle genti. E quelche lo salvò,
che non fu consumato intutto, fu la
iniquità del paese, qual feceche i Romani
non poterono seguirlo.Filippo, adunque, non
volendo azzuf-farsi, ed essendosi posto con
il campopresso ai Romani, si ebbe a
fuggire;ed avendo conosciuto per questa
espe-rienza, come non volendo combattere,non gli
bastava stare sopra i monti, enelle terre
non volendo rinchiudersi,diliberò pigliare
l’altro modo, di starediscosto molte miglia
al campo romano.Donde, se i Romani erano
in una pro-vincia, ei se ne andava
nell’altra; ecosì sempre donde i Romani,
partivano,esso entrava. E veggendo, al fine,
comenello allungare la guerra per questavia,
le sue condizioni peggioravano, eche i suoi
soggetti ora da lui ora daiminici
erano oppressi, diliberò di ten- lare
la fortuna della zu(¥coi Romani ad
una gioriutile, adunque, non comigli
eserciti hanno questeaveva 1’ esercito di
Fabicquello di Caio Sulpizio:esercito sì
buono, che ildisca venirti a trovare
<tezze tue ; e che il nimhtua senza
avere preso irei patisca necessità
delquesto caso il partito utgioni che
dice Tito Li'far lance commi lieve adìquem
lempus deterioraticus alicnuSj faccret. Matermine
non si può fuggse non con tuo
disonoreche fuggirsi, come feceessere rotto; e
con più vimeno s’ è fatto prova dese
a lui riuscì salvarsi, iad un altro
che non fuspaese come egli. Che
Annmaestro di guerra, nessuno mai non
iodirà ; ed essendo allo ’neontro di
Sèi- pione in Affrica, s’egli avesse
vedutovantaggio in allungare la guerra,
eiFarebbe fatto; e per avventura, sendolui buon
capitano, ed avendo buonoesercito, lo
arebbe potuto fare, comefece Fabio in
Italia: ma non l’avendofatto, si debbe
credere che qualche ca-gione importante lo
movesse. Perchè unprincipe che abbi uno
esercito messoinsieme, e vegga che per
difetto di da- !> nari o di amici
ei non può tenere lun-gamente tale
esercito, è matto al tuttose non tenta
la fortuna innanzi che taleesercito si
abbia a risolvere: perchèaspettando, ei perde
al certo; tentando,potrebbe vincere. Un’altra
cosa ci èancora da stimare assai : la
quale è,che si debbe, eziandio perdendo,
volereacquistar gloria; e più gloria si ha
adesser vinto per forza, che per
altro in-conveniente che t’abbia fatto perdere.Sì
che Annibaie doveva essere constretto«la queste
necessità. E dìScipione, quando Anuibaferita la
giornata, e nonstalo l’animo andarlo a tghi
forti, non pativa, pevinto Siface, e
acquistateAffrica, che vi poteva stacomodità
come in Italia,terveniva ad Annibaie, qV
incontro di Fabio ; nèciosi, che erano
all’ inctzio. Tanto meno ancoragiornata
colui che con l’il paese altrui ;
perchè,trare nel paese del niiviene quando
il nimico scontro, azzuffarsi seco;
<campo ad una terra, si più alla
zuffa: come ne’ ttervenne al duca
Carlo di sendo a campo a Moratto,zeri, fu
da’ Svizzeri assa come intervenne all’
eseeia, che campeggiando P desimamentc da’
Svizzeri. Che chi ha a fare con assaij ancora
che sia inferiore, purché possasostenere i
primi impeli, vince. La potenza de’ Tribuni
della plebe nellacittà di Roma fu
grande, e fu necessaria, come molte volte
da noi è stato discorso;perchè altrimenti
non si sarebbe potuto por freno
all’ambizione della Nobiltà, la({«ale arebbe
molto tempo innanzi corrot-ta quella Repubblica,
che la non si cor-ruppe. Nondimeno, perchè
in ogni cosa, come altre volte si è
detto, è nascosoqualche proprio male, che fa
surgere nuo-vi accidenti, è necessario a questi
connuovi ordini provvedere. Essendo, per-tanto,
divenuta l’autorità tribunizia in-solente e formidabile
alla Nobiltà ed a tutta Roma, e’ ne
sarebbe nato qualcheinconveniente dannoso alla
libertà ro-mana, se da Appio Claudio non
fossestato mostro il modo con il
quale si avevano a difendere contro all’ ambizionede’
Tribuni: il quale fu sempre infra loro
qualci pauroso, o corruttibile, comun bene ;
talmenteebèad opporsi alla volontà che volessino
tirare inn liberazione contro alla i nato.
Il quale rimediotemperamento a tanta f molti
tempi giovò a Ron ha fatto considerare,volta e’
sono molli poter ad un altro potente, an insieme
siano molto più nondimanco si debbpiù in
quello solo ■, che in quelli
assai,gliardissimi. Perchè,» 1 ulte quelle cose
delle q più die molti previ infinite),
sempre occorripotrà, usando un poco sunire gli
assai, e quel gagliardo, far debole. liquesto
addurre antichi essempi, che ce ne
sarebbono assai j ma voglio mi ba-stino i
moderni, seguiti ne’ tempi no-stri. Congiurò
net 1484 tutta Italia con- .tra a’
Vinizianij e poiché loro al tutto erano
persi, e non potevano stare piùcon 1’
esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Mi*lano; e per tale
corruzione feciono uno accordo, ne! quale
non solamente deb-bono le terre perse, ma
usurparono parte dello Stato di Ferrara. E
cosi co-loro che perdevano nella guerra,
resta-rono superiori nella pace. Pochi annisono
congiurò contea a Francia tutto il mondo:
nondimeno, avanti che si ve-desse il
fine della guerra, Spagna si ribellò da’
confederati, e fece accordoseeo; in modo
che gli altri confederati furono constretti
poco dipoi ad accor-darsi ancora essi.
Talché, senza dubbio, si debbe sempre mai
fare giudizio,quando e’ si vede una
guerra mossa da molti contea ad uno,
che quello unoabbia a restar superio»di
tale virtù, che possa se impeti, e col
temporeggtempo. Perchè quando e’ porterebbe mille
perieoi venne ai Viniziani nclPavessero potuto
tempori esercito francioso, ed i guadagnarsi
alcuni dierano collegati contra, ai quella
rovina; ma non i armi da potere temporegc
per questo non aventi a separarne alcuno, rovi si
vidde che il papa, 1ebbe le cose
sue, si fece così Spagna : e molto v e V
altro di questi duebono salvato loro
lo Stai contea a Francia, per i grande in
Italia, se gli ;Potevano, adunque, i parte
per salvare il resti avessino fatto in
tempola non fusse stata necessità, ed innanzi
ai moti della guerra, era savissimo
par-tito; ma in su’ moti era vituperoso, e per
avventura di poco profitto. Ma in-uanzi a
tali moti, pochi in Yinegia de’ cittadini
potevano vedere il pericolo,pochissimi vedere
il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per
tornare al princi-pio di questo discorso,
conchiudo: che così
come il Senato romano ebbe rime-dio per
la salute della patria contra al-1'
ambizione de’ Tribuni, per essere mol-ti;
così arà rimedio qualunque principe che sia
assaltato da molti, qualunquevolta ei
sappia con prudenza usare ter- mini convenienti a
disunirgli. Come un capitano prudente debbo
imporre ogni necessità di com-battere ai
suoi soldati, e a quelli delti ninnici
torta.Altre volte abbiamo discorso quanto sia
utile alle umane azioni la necessità,ed a
qual gloria siano sul da quella; c come
da alcunisofi è slato scritto, le mani degli
uomini, due nobilissimi ia nobilitarlo, non
arcbbero o fellamente, nè condotte l’opa quella
altezza si veggono < dalla necessità non
fussero spconosciuto, adunque, dagli a talli
degli eserciti la virtù c sita, e quanto
per quellade’ soldati diventavano ostini battere;
facevano ogni oper soldati loro fussino
costrettiE dall’altra parte, usavano stria, perchè
gli nimiei se sino: e per questo molte
volial nimico quella via che lor vano
chiudere ; ed a’ suoi s< pri chiusono
quella che pcsciare aperta. Quello, adì disidera
o che una città si di natamente, o che
uno esercìpaglia ostinatamente comba sopra ogni
altra cosa, ingegnarsi dimettere ne’ petti
di chi ha a combat- lere, tale necessità.
Onde, un capitanopi udente, che avesse
ad andare ad una espugnazione d’ una
città, debbe misu-rai e la facilità o la
difficultà ilell’ espu- gnarla dal conoscere e
considerare qualenecessità costringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi trovi
assainecessità che gli constringa alla difesa, giudichi
la ispugnazioue difficile; altri-menti la
giudichi facile. Di qui nasce che le
terre dopo la ribellione sono piùdifficili
ad acquistare, che le non sono nel
primo acquisto: perchè nel princi-pio non
avendo cagione di temer di pena, per
non avere offeso, si arrendonofacilmente;
ma parendo loro, scndosi dipoi ribellate,
avere offeso, e per que- sto temendo la
pena, diventano difficili ad essere ispugnate.
Nasce ancora taleostinazione dai naturali
odii che hanno i principi vicini e repubbliche
vicinel’uno con l’altro: il che procede da ambizione
di dominare, e gelosia delloro Stato,
massimamente se le sono repubbliche, come
interviene in Tosca-na • la quale gara c
contenzione ha fatto e farà sempre difficile
la espugnatonep una dell’ altra. Pertanto,
chi considerila bene i vicini della città
di Firenze ed ivicini della città di
Yincgia, non si me- ra viglierà, come molti
fanno, che Firenzeabbia più speso nelle
guerre, ed acqui-stato meno di Yinegia:
perchè tuttonasce da non avere avuto i
NmUiani le terre vicine si ostinate alla
difesa, quantoha avuto Firenze, per esser
state tutte le ciltadi finitime a Yinegia
use a vi-vere sotto un principe, e non
libere; c quelli che sono consueti a
servire, sti-mano molte volle poco il
mutare pa-drone, anzi molte volte lo
desiderano.Talché Yinegia, benché abbia avuti i vicini
più potenti che Firenze, per averetrovate
le terre meno ostinate, le ha potute
piu tosto vincere, che non hafatto
quella scudo circundala da tutte città
libere. Debbe adunque un capitano,per
tornare al primo discorso, quando egli
assalta una terra, con ogni dili-genza
ingegnarsi di levare a* difensori di quella
tale necessità, e per conse-guenza tale
ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno
paura della pe-na ; c se gli avessino paura
della li- bertà, mostrare di non andare
contraal comune bene, ma contra a pochi ambiziosi
della città: la quale cosa moltevolte
ha facilitato V imprese e 1’ espu-gnazioni delle
terre. E benché simili co-lori siano facilmente
conosciuti, e mas-sime dagli uomini prudenti;
nondimenovi sono spesso ingannati i popoli, i quali,
cupidi della presente pace, chiug-gono gli
occhi a qualunque altro laccio che sotto le
larghe promesse si ten-desse. E per questa
via infinite città sono diventale serve:
come intervennea Firenze nei prossimi tempi; e
come intervenne a Crasso ed allo esercito
suo,il quale ancora che conoscesse le vane promesse
de’ Parti, le quper tor via la
necessità \del difendersi, nondimam tenerli
ostinati, accecatidella pace che erano fall nimici:
come si vnde p leggendo la vita di
queltanto, che avendo i Sano convenzione dello
accordo zionc di pochi corso e picampi de’
confederali Rom dipoi mandati ambasciati chieder
pace, offerendo dcose predate, c di dare p tori
de’ tumulti e della \ributtati dai Romani:
e rinio senza speranza d’ acc Ponzio, capitano
allora de’ Sanniti, con una suazionc
mostrò, come i Roi in ogni modo guerra; e
l)<si desiderasse la pace, lafaceva
seguire la guerra ; sic parole : Juslum
est bi necessariuitij et pia arma , quibus
ni siin armis spes est : sopra la
qual ne- cessità egli fondò con gli suoi
soldatila speranza della vittoria. E per non avere
a tornare più sopra questa ma-teria, mi
pare da addurvi quelli essempiromani che
sono più degni (E annota-zione. Era
Caio Manilio con lo esercito alP incontro
dei Vcienti; ed essendoparte dello esercito
veicolano entrato dentro agii steccati di
Manilio, corseManilio con una banda al
soccorso di quelli; e perchè i Vcienti non
potessinosalvarsi, occupò tutti gli aditi
del cam-po: donde veggendosi i Veienti rin-chiusi,
cominciarono a combattere con tanta rabbia, eh’
egli ammazzarono Ma-nilio; ed arebbero tutto
il resto dei Romani oppressi, se dalla
prudenzad* uno Tribuno non fusse stato loro
aperta la via ad andarsene. Dove si
ve-de, come mentre la necessità costrinse i
Veienti a combattere, e* combatteronoferocissiraamente;
ma quando videro aperta la via, pensarono
|elio a combattere. Erano < sci egli
Equi con gli nc* confini romani. MandiI’
incontro i Consoli. Talcl gliare la zuffa,
lo esercito del quale era capo Vettitrovò
ad un tratto rinchit steccati suoi occupali
da P altro esercito romano;eome gli bisognava o
mor via col ferro, disse ai suo ste
parole: Ile mecum ; n< valium , armati
arinatis obi pareSj qii(e ullùnum ac ma est,
necessitate super ioresquesta necessitò è chiama vio
ultimum ac maximum millo prudentissimo di
tuiromani, sendo già dentro i Yeienti con
il suo esercito, il pigliare quella e torre
iultima necessità di difende in modo che i
Yeienti udir suno offendesse quelli che
fussino disar-mati; talché, gittate Tarmi in
terra, si prese quella città quasi senza
sangue.Il quale modo fu dipoi da
molli capi- tani osservato.Gap. XIII. — Dove sia
più da confidare , o in uno buono capitano
che abbial* esercito debole, o in uno buono
esercito che abbia il capitano
debole.Essendo diventato Coriolano esule di Roma,
se ne andò ai Volsci, dove con-tratto
uno esercito per vendicarsi con-tro ai suoi
cittadini, se ne venne a Ro-ma ; donde
dipoi si parti, più per pietà della
sua madre, che per le forze
deiRomani. Sopra il quale luogo Tito Li-vio
dice, essersi per questo conosciuto,come la
Repubblica romana crebbe più per la virtù
dei Capitani, che de’ sol-dati; considerato
come i Volsci per lo addietro erano stati
vinti, e solo poiavevano vinto che
Coriolano fu loro Capitano. E benché
Liviopinionc, nondimeno si v luoghi della
sua istoria I; dati senza capitano
avergliose pruove, ed esser sta e più
feroci dopo la nr soli loro, che
innanzi clcome occorse nello esercì mani
avevano in Ispagna pioni ; il quale, morti
i <potè con la virtù sua n salvare
sè stesso, ma vin e conservare quella
provipubblica. Talché, discorre troverà molli
essempi, dov dei soldati ara vinto lamolti
altri, dove solo la pitan i ara fatto il
medesi modo che si può giudicarbisogno
dell’ altro, e V a Ecci bene da considerare sia
più da temere, o d’ uicito male
capitanato, o capitano accompagnato d cito. E
seguendo in questo 1’ oppinioucdi Cesare,
si debbe stimare poco l’uno e l’altro.
Perchè andando egli in Ispa-gna contra ad
Afranio e Petreio, che avevano un buono
esercito, disse chegli stimava poco, quia
ibat ad exercitum sino duce, mostrando la
debolezza deicapitani. Al contrario, quando
andò in Tessaglia conira Pompeo, disse:
Vadoad ducem sine exerciiu. Puossi consi-derare
un’ altra cosa : a quale è più fa-cile, o
ad uno buono capitano fare un buono
esercito, o ad uno buono eser-cito fare un
buono capitano. Sopra che dico, che tale
questione pare decisa ;perchè più
facilmente molti buoni tro-veranno o inslruiranno
uno, tanto chediventi buono, che non
farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato
contra aMitridate, era al tutto inesperto
della guerra; uondimanco quel buono eser-cito,
dove erano assai ottimi capi, lo feciono
tosto un buon capitano. Arma-rono i Komani,
per difetto d’ uomini, assai servi, o gli
dieronon Sempronio Gracco, il qi tempo fece
un buono eseri ed Epaminonda, come alt
r<poich’egli ebbero tratta T trio della
servitù degli Spa: tempo feciono de’conladindati
ottimi, che poterono n sostenere la milizia
spartii cerla. Sì clic la cosa èV uno
buono' può trovare dimeno, un esercito buoni buono
suole diventare insricoloso; come diventò l’e cedonia
dopo la morte di come erano i soldati
velerancivili. Tanto che io credo da
confidare assai in uno abbi tempo a
instruire utdità di armargli, che in insolente,
con uno capo fatto da lui. Però è da
diiria e la laude a quelli caj solamente
hanno avuto a mieo, ma prima che
venghino alle manicon quello, è convenuto
loro instruire l’esercito loro e farlo buono:
perchèin questi si mostra doppia virtù, e tanto
rara, che se tale fatica fusse
statadata a molti, ne sarebbero stimati e ri- putati
meno ussai che non sono. Le invenzioni
nuove che appariscono nel mezzo della
zuffa, ele voci nuove che si odono,
quali ef-fetti faccino.Di quanto momento sia
ne* conflitti e nelle zuffe un nuovo
occidente che na-sca per cosa che di
nuovo si vegga o oda, si dimostra in
assai luoghi, e mas-sime per questo essempio
che occorse nella zuffa che i Romani fecero
coi Vol-sci ; dove Quinzio veggendo inclinare uno
de’ corni del suo esercito, cominciòa
gridare forte, che gli stessino saldi, perchè
1’ altro corno dello esercito era vittorioso:
con la qual parola, avendo dato animo
a’ suoi e sinimici, vinse. E se tali ve cito
bene ordinato fanno in uno tumultuario e
ni;fanno grandissimi, pere mosso da siinil
vento. Io durre uno cssenipio ncne’ nostri
tempi. Era la ( pochi anni sono divisa Oddi
e Buglioni Questi realtri erano esuli: i qua elianti
loro amici, ragun ridottisi iu alcuna loro
ta Perugia con il favor una notte entrarono
in senza essere scoperti, sper pigliare la
piazza. F città iu su tutti i cani catene
che la tengono sb;le genti oddesche davani una
mazza ferrata romjr di quelle, acciocché i
C£passare; e restandogli i quella che sboccava
iu pi;già levato il romore all7 armi,
ed essen- do colui che rompeva oppresso
dallaturba che gli veniva dietro, nè
potendo per questo alzare bene le braccia
perrompere per potersi maneggiare gli venne
detto: Fatevi indietro: la qualvoce andando
di grado in grado dicendo addietro,
cominciò a far fuggire gliultimi, e di mano
in mano gii altri, con tanta furia,
che per loro medesimisi ruppono; e cosi
restò vano il disegno degli Oddi, per
cagione di sì debole acci-dente. Dove è da
considerare, che non tanto gli ordini in
uno esercito sononecessari per potere
ordinatamente com- battere, quanto perchè ogni
minimoaccidente non ti disordini. Perchè, non per
altro le moltitudini popolari sonodisutili
per la guerra, se non perchè ogni
rumore, ogni voce, ogni strepitogli altera,
e fagli fuggire. E però un buon capitano
intra gli altri suoi ordinidebbe ordinare
chi sono quelli che ab- bino a pigliare la
sua voce e rimetterlaad altri, ed assuefare
i suoi soldati che non credino se non a
quelli suoi capi,che non dichino se
non quel che da lui è commesso ; perchè,
non osservata benequesta parte, si è visto
molte volte avere fatti disordini grandissimi.
Quantoal vedere cose nuove, debbe ogni
capi-tano ingegnarsi di farne apparire al-cuna,
mentre che gli eserciti sono alle mani,
che dia animo agli suoi e tolgaloagli
nimici; perchè, intra gli accidenti che ti
diano la vittoria, questo è effica-cissimo. Di
che se ne può addurre per testimone
Caio Sulpizio dittatore roma-no; il quale
venendo a giornata con i Franciosi, ormò
tutti i saccomanni egente vile del campo; e
quelli fatti sa- lire sopra i muli ed altri
somieri conarmi ed insegne da parere
gente a ca- vallo, gli mise dietro a un
colle, e co-mandò che ad un segno dato,
nel tempo che la zuffa fusse più
gagliarda, si sco-prissero e mostrassiusi a*
nimici. La qual cosa così ordinata e fatta,
dettetanto terrore ai Franciosi, che perita-rono
la giornata. E però un buon ca-pitano debbo
fare due cose: 1* una, di vedere con
alcune di queste nuove in-venzioni di
sbigottire il nimico; 1’ altra, di stare
preparato che essendo fattedal nimico
contro di lui, le possa sco- prire, c
fargliene tornar vane: comefece il re
d’india a Semiramis; la quale veggendo come
quel re aveva buon nu-mero d’elefanti, per
sbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa
n’ era co-piosa, ne formò assai con
cuoia di bu-fali e di vacche, e quelli
messi sopra icammelli, gli mandò davanti;
ma cono- sciuto dal re 1’ inganno, gli
tornò nonsolamente quel suo disegno vano,
ma dannoso. Era Mamerco dittatore conteaa’
Fidenati, i quali, per isbigott ire lo esercito
romano, ordinarono che in sul-P ardore
della zuffa uscisse fuora di Fi-ttane
numero di soldati con fuochi insulle
lance, acciocché i Romani occupati dalla novità
della cosa, rompessino in-Ira lóro gli
ordini. Sopra clic è da no-tare, che quando
tali invenzioni hannopiù del vero che del
fìnto, si può bene allora rappresentarle
agli uomini, per-chè avendo assai del
gagliardo, non si può scoprire così presto
la debolezzaloro: ma quando Y hanno pjp
del fìnto che del vero, è bene o non
le fare, o,facendole, tenerle discosto, di
qualità clic le non possino essere così
presto sco-perte; come fece Caio Sulpizio
de* mu- lattieri. Perchè quando vi è dentro
de-bolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e
ti fanno danno, e non favore;come feciono
gii elefanti a Semiramis, e a’ Fidenali i fuochi: i
quali benchénel principio turbassino un
poco l’eser- cito; nondimeno come e’ sopravvenne
ilDittatore, e cominciò a sgridargli, di- cendo che
non si vergognavano a fug-gire il fumo come
le pecchie, e che do- vessino rivoltarsi a
loro, gridando: Suisflammit deletc FidenaSj
qnas veslris bc -nefìctts placare non
potuistis ; tornòquello trovato ai Fidenati
inutile, e re-starono perditori della zuffa. Come
uno c non molti sia-no preposti ad uno
esercito , e coinèi più comandatovi offendono. Essendosi
ribellati i Fidenati, ed aven-do morto quella
colonia che i Romani avevano mandata in
Fidene, crearono iRomani, per rimediare a
questo insulto, quattro Tribuni con potestà
consolare;de’ quali lasciatone uno alla guardia
di Roma, ne mandarono tre contro ai
Fi-denati ed i Veienti: i quali per esser divisi
intra loro e disuniti, ne riporta-rono disonore,
e non danno. Perchè del disonore, ne furono
cagione loro; delnon ricevere danno, ne
fu cagione la virtù de* soldati. Donde i
Romani, veu-gendo questo disordine, ricorsono
alla creazione del Dittatore, acciocché unsolo
riordinasse quello che tre avevano disordinato.
Donde si conosce la inuti-lilà di
molti comandatoci in uno eser-cito, o in
una terra die s’abbia a di-fendere; e Tito
Livio 11011 lo può più chiaramente dire
che con le infrascritteparole! Tres Tribuni
potcsUitc consil- iari documento fucre , quam
pluriumimperium bello inutile esscl ; tendendo ad
sua quisque consilia , cutn aht ali
advidereluvj aperuerunt ad occasionem lo- cum
hosti. E beneliè questo sia assaicsscmpio a
provare il disordine che fanno nella guerra
i più comandatori,ne voglio addurre alcuno
altro, e mo-derno ed antico, per maggiore
dichia-razione. Nel 1500, dopo la ripresa che fece
il re di Trancia Luigi XII di
Mi-lano, mandò le sue genti a Pisa per restituirla
ai Fiorentini; dove furonomandali commessaci
Giovambatista Ri- dolfi e Luca iV Antonio
degli Albizi. Eperchè Giovambatista era
uomo di ri- putazione, e di più tempo, Luca
lasciavaal tutto governare ogni cosa a lui:
e se egli non dimostrava la sua
ambizionecon opporseli, la dimostrava col ta- cere,
e con lo stracurare e vilipendereogni cosa in.
modo, che non aiutava le azioni dei
campo nè coll’ opere nè colconsiglio,
come se fosse stato uomo di nessuno
momento. Ma si vidde poi tuttoil
contrario quando Giovambatista, per certo
accidente seguito, se n* ebbe a tor-nare a
Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò
quanto con V animo, con laindustria e con
il consiglio valeva : le quali tutte cose
mentre vi fu la com-pagnia erano perdute.
Voglio di nuovo addurre in confirmazione di
questo leparole di Tito Invio; il
quale referendo come essendo mandato dai
Romani con-tro agli Equi Quinzio cd Agrippa
suo collega, Agrippa volle che tutta 1*
am-ministrazione della guerra fusse ap-presso a
Quinzio, e’ dice: Suluberri -mum in
adminislralione magnarum re-rum eilj summam
imperii apud unumesse. Il che è contrario a
quello che oggi fanno queste nostre
repubbliche cprincìpi, (li mandare ne’
luoghi, per mi- nistrargli meglio, più d’
un commessa-rio e più d’ un capo: il che
fa una inestimabile confusione. E se si
cercassela cagione della rovina degli eserciti italiani
e franciosi ne’ nostri tempi, sitroverebbe
la potissima cagione essere stata questa. E
puossi conchiudere ve-ramente, come gli è meglio
mandare in una espedizione un uomo solo
di co-munale prudenza, che duoi valentissimi uomini
insieme con la medesima au- torità. Che la
vera viriti si va ne ' tempi difficili a
trovare ; e ne3 tem-pi facili non gli uomini
virtuosi , ma quelli che per ricchezze o per
paren-tado prcvaglionO; hanno più grazia. Egli fu
sempre, e sempre sarà, chegli uomini grandi
e rari in una repub-blica nei tempi
pacifichi sono negletti ;perchè per la
invidia che s’ ha tiratodietro la
riputazione che la virtù d’essi ha dato
loro, si truova in tali tempiassai
cittadini che vogliono, non che esser loro
eguali, ma esser loro supe-riori. E di
questo n’ è un luogo buono in Tucidide
istorico greco; il quale mo-stra come sendo
la repubblica ateniese rimusa superiore in
la guerra pelopon-nesiaca, ed avendo frenato l’
orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa
tuttala Grecia, satse in tanta riputazione, che
la disegnò d’ occupare la Sicilia.Venne
questa impresa in disputa in Atene.
Alcibiade e qualche altro citta-dino consigliavano
che la si facesse, come quelli che
pensando poco al benepubblico, pensavano
all’ onor loro, di-segnando esser capi di
tale impresa.Ma Micia, che era il primo
intra i ri- putati d’ Atene, la dissuadeva; e
la mag-gior ragione che nel concionare al
po-polo, perchè gli fusse prestato
fede,adducesse, fu questa: clic consigliando esso
che non si facesse questa guerra,ci
consigliava cosa che non faceva per lui;
perchè stando Atene in pace, sa-peva come
v’ erano infiniti cittadini che gli
volevano andare innanzi; ma facen-dosi guerra,
sapeva che nessuno citta-dino gli sarebbe
superiore, o eguale.Vedesi, pertanto, come nelle
repubbliche è questo disordine, di fare poca
stimade’ valentuomini ne’ tempi quieti. La qua)
cosa gli fa indeguare in due modi:I’
uno per vedersi mancar del grado loro;
l’altro per vedersi fare compagnie superiori
uomini indegni e di manco sufficienza di
loro. 11 quale disordinenelle repubbliche
ha causato di molte rovine; perchè quelli
cittadini che ini-meritamenle si veggono
sprezzare, e co- noscono clic e’ ne sono
cagione i tempifacili c non pericolosi, s’
ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre
inpregiudizio della repubblica. E pensan-do quali
potessino essere i rimedi, cene trovo due:
l’uno, mantenere i cit-tadini poveri, acciocché
con le ricchezze senza virtù non potessino
corrompere ni loro nò altri; l’altro, eli
ordinarsiin modo alla guerra, die sempre
si po-tesse far guerra, e sempre s’avesse
bi-sogno di cittadini riputati, come fe Ro-ma
ne’ suoi primi tempi. Perchè te-nendo fuori
quella città sempre eserciti, sempre v’ era
luogo alla virtù degli uo-mini ; nè si
poteva torre il grado .ad uno che lo
meritasse, e darlo ad unoaltro che non
lo meritasse. Perchè se pure lo faceva
qualche volta per er-rore, o per provare,
ne seguiva tosto tanto suo disordine e
pericolo, che laritornava subito nella vera
via. Ma le altre repubbliche che non
sono ordinatecome quella, e che fanno solo
guerra quando la necessità le constringe,
nonsi possono difendere da tale inconve- niente:
anzi sempre vi correranno den-tro; e sempre
ne nascerà disordine, quando quel cittadino
negletto e vir-tuoso, sia vendicativo, ed abbia
nella città qualche riputazione e aderenza. E se
la città (ti Roma un tempo se ne difese,
a quella ancora, poiché la ebbevinto
Cartagine cd Antioco (come al-trove si
disse), non temendo più diguerra, pareva
poter commettere gli eserciti a qualunque la
voleva ; non ri-guardando tanto alla virtù,
quanto alle altre qualità che gli dessino
grazia nelpopolo. Perchè si vede che
Paulo Emi-lio ebbe più volte la repulsa
nel con-solato, nò fu prima fatto Consolo
che surgesse la guerra macedonica ; la
qualegiudicandosi pericolosa, di consenso di tutta
la città fu commessa a lui. Sendonella
città nostra di Firenze seguite dopo il
1494 di molte guerre, ed aven-do fatto i
cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova,
si riscontrò la città, asorte, in uno
che mostrò in che ma-niera s’aveva a
comandare agli eser-citi; il quale fu
Antonio Giacomini: e mentre che si ebbe a
far guerre peri-colose, tutta P ambizione degli
altri cit-tadini cessò, e nella elezione del
Com-messa rio e capo degli eserciti non
aveva competitore alcuno ; ma come s’ ebbe
ufare una guerra dove non era dubbio alcuno,
ed assai onore e grado, ei vitrovò
tanti competitori, che avendosi ad eleggere
tre Commessa ri per campeg-giar Pisa,
fu lasciato indietro. E benché e* non si
vedesse evidentemente che male ne seguisse
al pubblico per non v’avere inandato
Antonio, nondimenose ne potette fare
facilissima coniettura; perchè non avendo più i
Pisani da di-fendersi nè da vivere, se
vi fusse stalo Antonio, sarebbero stati
tanto innanzistretti, che si sarebbero dati
a discre-zione de’ Fiorentini. Ma sendo loro as-sediati
da capi che non sapevano nè stringerli
nè sforzarli, furono tanto in-trattenuti, che
la città di Firenze gli comperò, dove
la gli poteva avere aforza. Convenne
che tale sdegno potesse assai in Antonio; e
bisognava che fussebene paziente e buono, a
non dispe- rare di vendicarsene o con la
rovinadella città, potendo, ocon i* ingiuria d’
alcuno particolare cittadino; da chesi
debbe una repubblica guardare; come nel
seguente capitolo si discorrerà. Che non si
offenda uno, e poi quel medesimo si mandi
in am-ministrazione e governo d* impor-tanza. Debbe
una repubblica assai conside-rare di non
preporre alcuno ad alcuna importantè
amministrazione, al qualesia stato fatto da
altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone,
il quale si part ìdallo esercito che
lui aveva a fronte ad Annibaie, e con parte
d’esso n’andònella Marca a trovare 1* altro
Consolo per combattere con Asdrubale avanti
chesi congiungesse con Annibaie ; s’ era trovato
per lo addietro in Ispagna afronte d’
Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con
lo esercito, che bisognavao che Asdrubale
combattesse con suo disavvantaggio, o si morisse
di fame,fu da Asdrubale astutamente tanto
in*trattenuto con certe pratiche d*
accordo,che gli usci di sotto, e totsegli
quella occasione d’ oppressarlo. La qual
cosasaputa a Roma, gli dette carico grande appresso
al Senato ed al Popolo, e dilui fu
parlato inonestamente per tutta quella città,
non senza suo grande di-sonore ed isdegno.
Ma sendo poi fatto Consolo, e inandato all*
incontro d’ An-nibale, prese il soprascritto
partito: il quale fu pericolosissimo; talmente
cheRoma stette tutta dubbia c sollevata, infino a
tanto che vennono le nuovedella rotta
d’ Asdrubale. Ed essendo do- mandato poi
Claudio per qual cagioneavesse preso si
pericoloso partito, dove senza una estrema
necessità egli avevagiocata quasi la
libertà di Roma ; ri- spose che V aveva
fatto perchè sapevache, se gli riusciva,
riacquistava quella gloria che s'aveva perduta
in Ispagua;e se non gli riuscivo, e che
questo suo partito avesse avuto contrario
fine, sa-peva come ei si vendicava contra a
(jucila città ed a quelli cittadini
clicTavevano tanto ingratamente ed indi-scretamente
offeso. E quando questepassioni di tali
offese possono tanto in un cittadino
romano, e in quelli tempiche Roma ancora
era incorrotta, si debbe pensare quanto
elle possino in uncittadino d’ una
città che non sia fatta come era
allora quella. E perchè a si-mili disordini che
nascono nelle repub- bliche non si può dare
certo rimedio,ne seguita che gli è
impossibile ordi-nare una repubblica perpetua,
perchèper mille inopinate vie si causa
la sua rovina. Nessuna cosa è più de-gna d*
un capitano che presentire «parlili del nimico. Diceva
Epaminonda tebano, nessunacosa esser più
necessaria c più utile ad un capitano, che
conoscere le ^libera-zioni e partiti del nimico.
E perchè tale cognizione è diffìcile, merita
tanto piùlaude quello che adopera in
modo che le conicttura. E non tanto è
diffìcile in-tendere gli disegni del nimico,
eh’ egli è qualche volta diffìcile intendere
leazioni sue ; e non tanto le azioni sue che
per lui si fanno discosto, quanto
lepresenti e le propinque. Perché molte volte è
accaduto, che sendo durala unazuffa infino
a notte, chi ha vinto crede aver perduto, e
chi ha perduto credeaver vinto. 11
quale errore ha fatto di- liberare cose
contrarie alla salute di co-lui che ha
diliberato: come intervenne a Bruto e Cassio, i
quali per questo er-rore perderono la
guerra; perchè, aven-do vinto Bruto dal
corno suo, credetteCassio, che aveva
perduto, che tutto 1’ esercito fusse rotto
; e disperatosi perquesto errore della salute,
ammazzò «è stesso. Nei nostri tempi, nella
giornata che fece in Lombardia a Santa Cecilia Francesco
re di Francia con i Svizzeri,sopravvenendo
la notte, credetleno quella parte dei
Svizzeri che erano rimasti in-teri aver
vinto, non sappiendo di quelli che erano
stati rotti e morti: il qualeerrore fece
che loro medesimi non si salvarono,
aspettando di ricombatterela mattina con
tanto loro disavvantag-gio ; e fecero ancora
errare, e per taleerrore presso che
rovinare, F esercito del papa e di Spagna,
il quale in sula falsa nuova della
vittoria passò il Po, e se procedeva troppo
innanzi, re-stava prigione de’ Franciosi che
erano vittoriosi. Questo simile errore occorsene’
campi romani e in quelli delli Equi. Dove,
sendo Sempronio consolo conl’esercito all’
incontro degli inimici, ed appiccandosi la
zuffa, si travagliò quellagiornata infino a
sera con varia fortuna dell’ uno e
dell’altro: e venuta la notte,sendo l’ uno e l’
altro esercito mezzo rotto, non ritornò alcuno
di loro ne’ suoialloggiamenti; anzi ciascuno
si ritrasse uc’ prossimi colli, dove
credevano esserpiù sicuri; e l’esercito romano
si di-vise in due parti : 1’ una n’
andò colConsolo, 1’ altra con un
Teinpanio cen-turione, per la virtù del
quale 1’ eser-cito romano quel giorno non
era stato rotto interamente. Venuta la
mattina,il Consolo romano senza intendere altro de’
nimici si tirò verso Roma ; il
similefece l’esercito degli Equi: perchè cia- scuno
di questi credeva che il nimicoavesse
vinto, c però ciascuno si ritrasse senza
curare di lasciare i suoi allog-giamenti in
preda. Accadde che Tempa-nio, eh’ era
col resto dello esercito ro-mano, ritirandosi
ancora esso, intese da certi feriti degli
Equi, come i capi-tani loro s’ erano partiti,
cd avevano abbandonati gli alloggiamenti:
dondeche egli, in su questa nuova, se
ne en-trò negli alloggiamenti romani, c
salvò-gli; e dipoi saccheggiò quelli degli Equi, e
se ne tornò a Roma vittorioso. Laqual
vittoria, come si vede, consistè solo in
chi prima di loro intese i disordinidel
nimico. Dove si debbe considerare, come e’
può spesso occorrere che i ducieserciti che
siano a fronte V uno del-P altro, siano nel
medesimo disordine,e patischino le medesime necessità;
e che quello resti poi vincitore che è
ilprimo a intendere le necessità dell’ al-tro.
Io voglio dare di questo un essem-pio
domestico e moderno. Nel 1498, quando i
Fiorentini avevano uno eser-cito grosso in
quel di Pisa, e stringe- vano forte quella
città; della qualeavendo presa i Viniziani
la protezione, non veggeudo altro modo a
salvarla,diliberarono di divertire quella guerra, assaltando
da un’altra banda il domi-nio di Firenze; e
fatto uno esercito po-tente, entrarono per
la Val di Lamona,ed occuparono il
borgo di Marradi, ed assediarono la ròcca
di Castiglione, cheè in sul colle di
sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono
soccorrer Mar-radi, e non diminuire le forze
avevano in quel di Pisa; e fatte nuove
fanterie,ed ordinale nuove genti a cavallo, le mandarono
a quella volta: delle qualine furono capi
Iacopo quarto d’ Appiano signore di Piombino,
ed il conte Rinuc-cio da Marciano.
Sendosi, adunque, con* dotte queste genti
in sul colle sopraMarradi, si levarono i
ninnici di ’ntorno a Castiglione, e ridussonsi
tutti nel bor-go: ed essendo stato P uno e
P altro di questi due eserciti a fronte
qualchegiorno, pativa P uno e l’altro assai di vettovaglie
e d’ogni altra cosa neces-saria : e non avendo
ardire P uno d* af-frontare P altro, nè
sappiendo i disor-dini P uno dell’altro, diliberarono
in una sera medesima P uno e P altro
dilevare gli alloggiamenti la mattina ve-gnente,
e ritirarsi in dietro; il Mili-ziano verso
Berzighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia
e il Mugello. Ve-nula adunque la mattina,
ed avendo cia-scuno de’ campi cominciato ad
avviare*i suoi impedimenti; a caso una donna si
partì dal borgo di Ùarradi, e venneverso
il campo fiorentino, secura per la vecchiezza
e per la povertà, disiderosadi vedere certi
suoi che erano in quel campo: dalla
quale intendendo i capitanidelle genti
fiorentine, come il campo vi-niziano
partiva, si fecero in su questanuova
gagliardi; e mutato consiglio, come se gli
avessino disalloggiati i ni-nnici, ne andarono
sopra di loro, e scris-sero a Firenze avergli
ributtati, e vintala guerra. La qual
vittoria non nacque da altro, che dallo
aver inteso primadei nemici, come e’ se
ne andavano: la quale notizia se fusse
prima venuta dal-r altra parte, arebbe
fatto conira ai no-stri il medesimo effetto. Se
a reggere una molti-tudine è più necessario lo
ossequioche la pena. Era la Repubblica
romana sollevata per le inimicizie de’ Nobili e
de’ Plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono
fuori con gli eserciti Quin-zio ed Appio
Claudio. Appio, per essere crudele e rozzo
nel comandare, fu maleubbidito da’ suoi;
tanto che quasi rotto si fuggì della
sua provincia. Quinzio,per esser benigno e
di umano ingegno, ebbe i suoi soldati
ubbidienti, e ripor-to mie la vittoria. Donde
e’ pare elle sia meglio, a governare una
moltitudine,essere umano che superbo, pietoso che
crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, alquale
molti altri scrittori acconsentono, in una
sua sentenza couchiude il con-trario, quando
dice : In molliludine regenda plus pana,
quam obsequiumvaici. E considerando come si possa
sal- vare I’ una e l’altra di queste oppinio-ni,
dico: o clic tu bai a reggere uomini che
ti sono per l’ordinario compagni,o uomini
che ti sono sempre soggetti. Quando ti
sono compagni, non si puòinteramente usare
la pena, nè quella se- verità di che
ragiona Cornelio: e perchèla Plebe romana
aveva in Roma eguale imperio con la
Nobiltà, non poteva unoche ne diventava
principe a tempo, con crudeltà e rozzezza
maneggiarla. £ moltevolle si vide che
miglior frutto feciono i Capitani romani che
si facevano amaredagli eserciti, e che con
ossequio gli maneggiavano, che quelli che
si face-vano straordinariamente temere; se già e’
non erano accompagnati da una ec-cessiva
virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi
comanda ai sudditi, de’ qualiragiona
Cornelio, acciocché non diven- tino insolenti, e
che per troppa tua fa-cilità non ti
calpestino, debbe volgersi più tosto alla
pena che allo ossequio.Ma questa ancora
debbe esser iu modo moderata, che si
fugga l’odio; perchèfarsi odiare non torna
mai bene ad al- cuno principe. Il modo
del fuggirlo èlasciar stare la roba de’
sudditi: perchè del sangue, quando non vi
sia sottoascosa la rapina, nessuno principe
ne è disideroso se non necessitato, c que-sta
necessità viene rare volte; ma seti» dovi
mescolata la rapina, viene sempre,nè
mancano mai le cagioni ed il disi* derio
di spargerlo: come in altro trat-tato sopra
questa materia s’ è larga- mente discorso. Meritò,
adunque, piùlaude Quinzio che Appio ; e la
sentenza di Cornelio dentro ai termini
suoi, cnon ne* casi osservati da
Appio, merita d* essere approvata. E perchè
noi ab-biamo parlato della pena e dello osse- quio,
non mi pare superfluo mostrare,come uno
essempio d’ umanità potè ap- presso ai
Falisci più che V armi. Uno essempio df
umanità appresso ai Falisci potette più d*
ogniforza romana.Essendo Cammillo con V esercito
in-torno alla città de* Falisci, e quella
as-sediando,un maestro di scuola de’ più nobili
fanciulli di quella città, pensandodi
gratificarsi Cammillo ed il Popolo romano,
sotto colore di esercizio usciendocon
quelli fuora della città gli con-dusse
lutti nel campo innanzi a Cani-inilio, e,
presentatigli, disse, come me-diami loro quella
terra si darebbe nellesue mani. Il
quale preseute non sola-mente non fu accettato
da Cammillo,ma fatto spogliare quel
maestro, c lega-togli le mani di dietro, e
dato a cia-scuno di quelli fanciulli una
verga in inano, lo fece da quelli con
di molte bat-titure accompagnare nella terra.
La qual cosa intesa da quelli cittadini,
piacquetanto loro l’ umanità ed integrità di Cammillo,
che senza voler più difendersi,diliberarono
di dargli la terra. Dove è da
considerare, con questo vero essem-pio,
quanto qualche volta possa più nelli animi
degli uomini un atto umanoe pieno di
carità, che un atto feroce e violento; e
come molte volte quelle pro-vincie e quelle
città che le armi, gl’ instru- menti
bellici ed ogni altra umana forzanon
ha potuto aprire, uno essempio ti* umanità
c di pietà, di castità o diliberalità, ha
aperte. Di che ne sono nelle istorie,
oltre a questo, molti altriessempi. E vedesi
come 1* armi romane non potevano cacciare
Pirro d’ Italia, ene lo cacciò la liberalità
di Fabrizio, quando li manifestò Y offerta
die avevafatta ai Romani quel suo
famigliare, d’avvelenarlo. Vedesi ancora, come a
Sci-pione Afifricano non dette tanta riputa-zione
in Ispagna la espugnazione diCartagine
nuova, quanto gli dette quello essempio di
castità, d’ aver fenduta lamoglie giovine,
bella ed intatta al suo marito; la
fuma della quale azione glifece amica
tutta l’Ispagna. Vedesi ancora questa parte
quanto la sia disideratadai popoli negli
uomini grandi, c quanto sia laudata dagli
scrittori ; e da quelliche descrivono la
vita dei principi, e da quelli che
ordinano come debbonovivere. Intra i quali
Senofonte s' affatica assai in dimostrare
quanti onori, quantevittorie, quanta buona
fama arrecasse a Ciro l’essere umano ed
affabile; c nondare alcuno essempio di sè
nè di su-perbo, nè di crudele, nè di
lussurioso,nè di nessuno altro vizio che
macelli la vita degli uomini. Pur
nondimeno,veggendo Annibaie con modi contrari a
questi avere conseguito gran fama egrandi
vittorie, mi. pare da discorre* re nel
seguente capitolo, donde questonacque. Donde
nacque che Annibaie con diverso modo dì
procedere daScipionCj fece quelli medesimi
effetti in Italia che quello in I spugna.Io
stimo che alcuni si potrebbono meravigliare
veggendo qualche capitano,nonostante eh’ egli
abbia tenuta contra-ria via, aver nondimeno
fatti simili ef-fetti a coloro che sono
vissuti nel modo soprascritto : talché pare
che la cagionedelle vittorie non dipenda
dalle predette cause; anzi pare che quelli
modi nonfi rechino nè più forza nè
più fortuna, potendosi per contrari modi
acquistaregloria e riputazione. E per non mi
par-tire dagli uomini soprascritti, e perchiarir
meglio quello che io ho voluto dire;
dico come e’ si vede Scipioneentrare
in Ispagna, c con quella sua umanità e
pietà subito farsi amica quellaprovincia, e
adorare ed ammirare dai popoli. Vedesi,
all* incontro, entrare An-nibaie in balia, e
con modi tutti con-trari, cioè con violenza
e crudeltà erapina ed ogni ragione d’ infedeltà,
fa-re il medesimo effetto che aveva
fattoScipione in Ispagna; perchè ad Annibaie si
ribellarono tutte le città d’ Italia, tuttii
popoli lo seguirono. E pensando donde questa
cosa possa nascere, ci si veggonodentro
più ragioni. La prima è, che gli uomini
sono disiderosi di cose nuove;in tanto
che cosi desiderano il più delle volte
novità quelli che stanno bene, comequelli
che stanno male : perchè come altra volta
si disse, ed è il vero, gli uomini
sistuccano nel bene, e nel male s’
afflig-gono. Fu, adunque, questo disiderio apri-re
le porle a ciascuno che in una pro-vincia
si fa capo d’ una innovazione; es’
egli è forestiero, gli corrono dietro; s’
egli è provinciale, gli sono intorno,angumentanlo
e favoriscono: lalmente- cliè, in qualunque modo
che egli pro-ceda, gli riesce il fare
progressi grandi in quelli luoghi. Oltre a
questo, gliuomini sono spinti da due
cose princi-pali ; o dallo amore, o dal timore:
tal-ché cosi gli comanda chi si fa amare, come
colui che si fa temere; anzi, ilpiù
delle volte è seguito ed ubbidito più chi
si fa temere, che chi si fa
amare.Imporla, pertanto, poco ad un capitano, per
quaiunehe di queste vie ei si cam-mini,
purché sia uomo virtuoso, e che quella
virtù lo faccia riputato intra gliuomini.
Perchè, quando la è grande, come la fu
in Annibaie ed in Scipione,ella cancella
tutti quelli errori che si fanno per farsi
troppo amare, o perfarsi troppo temere.
Perchè dell’ uno c delP altro di
questi duoi modi possono nascere inconvenienti
grandi, ed atti a far rovinare un principe
: perchè co-lui che troppo disidera esser amato, ogni
poco che si parte dalla vera
via,diventa disprezzabile: quell’ altro che disidera
troppo d’ esser temuto, ognipoco ch’egli
eccede il modo, diventa odioso. E tenere la
via del mezzo, nonsi può appunto,
perchè la nostra natura non ce io
consente: ma è necessarioqueste cose che
eccedono mitigare con una eccessiva virtù,
come faceva Anni-baie e Scipione. Nondimeno
si vede co-me l’ uno e l’ altro furono
offesi da questiloro modi di vivere, e
così furono es-saltati. La essudazione di
tutti due s’èdetta. La offesa quanto a
Scipione fu, che gl» suoi soldati in
Ispagna se gliribellarono insieme con
pai*te degli suoi amici: la qual cosa
non nacque da altroche da non lo
temere; perchè gli uomini sono tanto
inquieti, che ogni poco diporta clic
si apra loro all’ambizione, dimenticano subito
ogni amore ch’egliavessero posto al
principe per la umanità sua; come fecero i
soldati ed amicipredetti: tanto che Scipione,
per rime- diare a questo inconveniente, fu con-stretto
usare parte di quella crudeltà che egli
aveva fuggita. Quanto ad Au-nihaie, non
ci è essempio alcuno parti- colare, dove quella
sua crudeltà e pocafede gli nocesse: ma
si può bene pre- supporre che Napoli e
molte altre terre,che stettero in fede
del Popolo romano, stessero per paura di
quella. Vedcsibene questo, che quel suo
modo di vi- vere impio, lo fece più
odioso al Popoloromano, che alcuno altro
nimico che avesse mai quella Repubblica: in
modoche dove a Pirro, mentre che egli era con
lo esercito in Italia, manifestaronoquello
che lo voleva avvelenare, ad An- nibaie
mai, ancora che disarmalo edisperso,
perdonarono, tanto che lo fe- ciono morire.
Nacquero, dunque, adAnnibaie, per essere
tenuto impio e rom-pitore di fede e
crudele, queste incomo-dità; ma gliene risultò
all’ incontro una comodità grandissima, la quale
è am-mirata da tutti gli scrittori: clic nel suo
esercito, ancoraché composto divarie generazioni
d’ uomini, non nacque mai alcuna dissensione,
nè infra loromedesimi, nè contra di
lui. Il che non potette derivare da
altro, che dal ter-rore che nasceva dalla
persona sua: il quale era tanto grande,
mescolato conla riputazione che gli dava
la sua vir-tù, che teneva gli suoi
soldati quieti eduniti. Conchiudo, adunque,
come e’ non importa molto in qual
modo un capi-tano si proceda, purché in
esso sia virtù grande, che condisca bene
l’uno e l’al-tro modo di vivere: perchè,
come è detto, nell’uno e nell’ altro è difetto
epericolo, quando da una virtù istraor- dinaria
non sia corretto. C se Annibaiee Scipione,
l’uno con cose laudabili, l’altro con
detestabili, feciono il mede-simo effetto;
non mi pare ila lasciar indietro il
discorrere ancora di duoicittadini romani,
che conseguirono con diversi modi, ma tutti
duoi laudabili,una medesima gloria. Cap. XXII. —
Come la durezza di Man-lio Torquato e T
umanità di Valerio' Corvino acquistò a ciascuno
la mede-sima gloria. E* furono in Roma in
un medesimotempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato
e Valerio Corvino: i quali dipari virtù, di
pari trionfi e gloria, vis-sono in Roma; e
ciascuno di loro, inquanto s’ apparteneva
al nimico, con pari virtù l’acquistarono;
ma quantos’apparteneva agli eserciti ed agl’
in-trattenimenti de’ soldati, diversissima-mente procederono:
perchè Manlio con ogni generazione di
severità, senza in-termettere ai suoi soldati o
fatica, o pe-na, gli comandava: Valerio, dall’
altraparte, con ogni modo e termine umano, e
pieno d’ una famigliare dimestichezzagl’ intratteneva.
Perchè si vede, che per aver 1’
ubbidienza dei soldati, 1’ uno ani'mazzo
il figliuolo, e 1’ altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diver-sità di
procedere, ciascuno fece il me-desimo frutto, e
contro a’ nimici, ed infavore della
Repubblica e suo. Perchè nessuno soldato non
mai o detratto lazuffa, o si ribellò da
loro, o fu in alcuna parte discrepante
dalla voglia di quel! i ;quantunque gl’
imperii di Manlio fussino si aspri, che
tutti gii altri imperii cheeccedevano il
modo, erano chiamati man liana imperia.
Dove è da considerareprima donde nacque che
Manlio fu co- stretto procedere sì rigidamente;
l’al-tro, donde avvenne che Valerio potette procedere
si umanamente; l’altro, qualcagione fe che
questi diversi modi faces-sero il medesimo
effetto; ed in ultimo,quale sia di
loro meglio e più utile imita-re. Se alcuno
considera bene la natura diManlio dall’ora
che Tilo Livio nc comin-cia a far menzione,
lo vedrà uomo fortissi-mo, pietoso verso il
padre e verso la pa-tria, e reverentissimo a’
suoi maggiori.Queste cose si conoscono
dalla morte di quel Francioso; dalla difesa
del padrecontea al Tribuno; e come avanti ch'egli
andasse alla zuffa del Francioso, ein’andò
al Consolo con queste parole: Injussu tuo
adversus hoslem nunquampugnalo, non si
ccrtam victoriam vi- dcam. Venendo, adunque,
un uomo cosìfatto a grado che comandi,
desidera di trovare tutti gli uomini simili
a sè; e l’animo suo forte gli fa
comandare cose forti; e quel medesimo, comandate
chele sono, vuole si osservino. Ed è una regola
verissima, che quando si coman-da cose
aspre, conviene con asprezza farle osservare:
altrimenti, te ne tro-veresti ingannato. Dove è
da notare, clic a voler essere ubbidito, è
necessariosaper comandare : e coloro sanno co- mandare,
che fanno comparazione dellaqualità loro a
quelle ili dii ha a ubbi- dire; e quando vi
veggnino proporzio-ne, allora comandino; quando
spropor-zione, se ne astenghino. E però dicevaun
uomo prudente, che a tenere una repubblica
con violenza, conveniva fusseproporzione da
chi sforzava a quel ch’ero sforzato. E qualunque
volta questa pro-porzione v’ era, si poteva
credere che quella violenza fusse durabile:
ma quan-do il violentato era più forte
del violen-tante, si poteva dubitare che
ogni giornoquella violenza cessasse. Ma
tornando al discorso nostro, dico che a
comandarele cose forti, conviene esser
forte; e quello che è df questa fortezza e
che lecomanda, non può poi con
dolcezza farle osservare. Ma chi non è di
questa for-tezza d’animo, si debbe guardare
da-gl’imperii istraordinari, e negli ordi-nari può
usare la sua umanità: perchè le punizioni
ordinarie non sono impu-tate al principe,
ma alle leggi ed agli ordini. Debbesi,
adunque, credere che Manlio fosse costretto
procedere si ri-gidamente dagli istraordinari
suoi im-perii, ai fjuali lo inclinava la
sua natu-ra: i quali sono utili in una
repubblica,perchè e’ riducono gli ordini di
quella verso il principio loro, e nella sua
an-tica virtù. E se una repubblica fussc si felice,
eh* ella avesse spesso, come disopra
dicemmo, citi con io esseinpio suo le
rinnovasse le leggi; e non solo la
ri-tenesse che la non corresse alla rovi-na,
ma la ritirasse indietro; la
sarebbeperpetua. Si che Manlio fu uno di
quelli che con l’asprezza de’ suoi i inperii ri--
tenne la disciplina mUitarc in Roma, constretto
prima dalla natura sua, dipoidal desiderio
che aveva s’ osservasse quello che il suo
naturale appetito giiaveva fatto ordinare.
Dall’ altro canto, Valerio potette procedere
umanamente,come colui a cui bastava s’ osservassino
le cose consuete osservarsi negli
esercitiromani. La qual consuetudine, perchè era
buona, bastava ad onorarlo, c nonera
faticosa ad osservarla, e non neces-sitava
Valerio a punire i transgressori;si perchè e’ non
ve n’ erano; sì perchè quando e* ve
ne Tassino stati, imputa-vano, come è detto,
la punizione loro agli ordini, c non alla
crudeltà del prin-cipe. In modo che,
Valerio poteva far nascere da lui ogni
umanità, dalla qualeei potesse acquistare
grado con i solda-ti, e la contentezza loro.
Donde nacque,che avendo l’uno e l’altro la
medesima ubbidienza, poterono, diversamente ope-rando,
fare il medesimo effetto. Possono quelli
che volessero imitar costoro, ca-dere in
quelli vizi di dispregio e d* odio che
io dico di sopra d’ Annibaie e diScipione:
il che* si fugge con una virtù eccessiva
che sia in te, e non altrimenti.Resta
ora considerare quale di questi modi di
procedere sia più laudabile. Ilche credo
sia disputabile, perchè gli scrittori lodano l’
un modo e l’ altro.Nondimeno, quelli che
scrivono come un principe s’ abbia a governare,
siaccostano piu a Valerio che a Manlio ; c
Senofonte, preallegato da me, dandodi molti
essempi della umanità di Ciro, si conforma
assai con quello che dicedi Valerio
Tito L. Perchè, sendo fatto Consolo contro
i Sanniti, e venendo ildì che doveva
combattere, parlò ai suoi soldati con
quella umanità con la qualeei si
governava ; e dopo tal parlare, Tito Livio
dice queste parole: Nonalias militi
familiarior dux fuit , inter infimos militimi
omnia hauti gravatemunia obcuntlo. In ludo
praterea mili-tari, cum velocitatis viriumquc in
ter secequales cer lamina ineuntj comiler
faci-lis vincere ac vinci, nulla eodcm ;
necqucmquam aspcrnari parem qui se
offer-ret ; factis benignus prò re; clic
ti shauti minus libertalis aliena , quam
sua dignilatis memor ; et (quo nihil
popu-lariit8 est) quibus artibus pelierat
magi-strati^, iisdem gerebat. Parla medesi-mamente di
Manlio Tito Livio onorévol-mente, mostrando che
la sua severitànella mol te del
figliuolo fece tanto ub-bidiente l' esercito al
Consolo, che fucagione delia vittoria che
il Popolo ro-mano ebbe contro ai Latini ;
ed in tantoprocede in laudarlo, che
dopo tal vit-toria, descritto eh’ egli ha
tutto 1’ ordinedi quella zuffa, e mostri
tutti i pericoli che ’1 Popolo romano vi
corse, e le dif-ficoltà che vTTurono a vincere,
fa questa conclusione: che solo la virtù
di Manliodette quella vittoria ai Romani. E
facen-do comparazione delle forze dell’ uno
.edell’ altro esercito, afferma come quella parte
arebbe vinto che avesse avuto perConsolo
Manlio: talché, considerato tutto quello che
gli scrittori ne parlano, sa-rebbe difficile
giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa
parte indecisa,dico, come in un cittadino
che viva sotto le leggi d’ una
repubblica, credosia piu laudabile c meno
pericoloso il procedere di Manlio; perchè
questo modotutto è in favore del pubblico,
e non risguarda in alcuna parte all’
ambizioneprivata; perchè per tale modo non
si può acquistare partigiani, mostrandosisempre
aspro a ciascuno, ed amando solo il ben
comune; perchè chi fa que-sto, non s’
acquista particolari amici, quali noi chiamiamo,
come di soprasi disse, partigiani.
Talmentechè, simil modo di procedere non
può esser piùutile nè più desiderabile
in una repubblica; non mancando in quello
l’ utilitàpubblica, e non vi potendo essere alcun
sospetto della potenza privata. Ma nelmodo
di procedere di Valerio è il con-trario:
perchè se bene in quanto alpubblico
si fanno i medesimi effetti, nondimeno vi
surgono molte dubitazioni,per la particolar
benivolenza che colui s’ acquista con i
soldati, da fare in unlungo imperio
cattivi effetti contra alla libertà. E se
in Publicola questi cattivieffetti non
nacquero, ne fu cagione non essere ancora
gli animi dei Romani cor-rottile quello non
esser stato lun-gamente e continovamente al
governoloro. Ma se noi abbiamo a considerare un
principe, come considera Senofonte,noi ci
accosteremo al tutto a Valerio, e lasceremo
Manlio; perchè un principedebbe cercare nei
soldati e nei sudditi 1* ubbidienza e 1’
amore. 1/ ubbidienzagli dà lo essere
osservatore degli ordini, Tesser tenuto virtuoso:
lo amore glidà P affabilità, P umanità, la
pietà e quell' altre parli che erano
in Valerio,e che Senofonte scrive essere
state in Ciro. Perchè lo essere un
principe ben^voluto particolarmente, ed avere
lo eser-cito suo partigiano, si conforma
contutte P altre parti dello Stato suo: ma in
un cittadino che abbia P esercito
suopartigiano, non si conforma già questa parte
con P altre sue parti, che P hannoa far
vivere sotto le leggi, ed ubbidire ai
magistrali. Leggesi intra le cose an-tiche
della Repubblica viniziana, come essendo le
galee viniziane tornate inVinegia, e venendo
certa differenza intra quelli delle galee
ed il popolo, dondesi venne al
tumulto ed all’ armi; nè si potendo la
cosa quietare nè per forzadi ministri,
nè per reverenza de’ citta-dini, nè timore
di magistrati; subitoche a quelli marinari
apparve innanzi un gentiluomo che era 1’
anno davantistato capitano loro, per amore
di quello si partirono e lasciarono la
zuffa. Laqual ubbidienza generò tanta sospizioue al
Senato, che poco tempo dipoi i Vini-ziani,
o per prigione o per morte, se ne
assicurarono. Conchiudo pertanto, ilprocedere di
Valerio essere utile in uno principe, e
pernizioso in un cittadino;non solamente
alia patria, ma a sè: a lei, perchè
quelli modi preparano la viaalla tirannide;
a sè, perchè in sospet-tando la sua città
del modo del proce-dere suo è costretta
assicurarsene con suo danno. E così, per il
contrario, af-fermo il procedere di Manlio
in un prin-cipe esser dannoso, ed in
uno cittadinoutile, e massime alla patria:
ed aneora rare volte offende; se già
questo odioclic ti tira dietro la tua
severità non è accresciuto da sospetto che
1’ altre tuevirtù per la gran
riputazione ti arrecas-sino: come di sotto
di Cammillo si di-scorrerà. Per quale
cagione Cammillo fosse cacciato di Roma.Noi
abbiamo conchiuso di sopra, come procedendo
come Valerio, si nuoce allapatria ed a
sè; c procedendo come Manlio, si giova alia
patria, e nuocesiqualche volta a sè. Il che
si pruova assai bene per lo essempio
di Cammillo,il quale nel procedere suo
simigliava più. tosto Manlio che Valerio.
DondeTito Livio, parlando di lui, dice,
come ejus virlutem mililes odorante et
mira-banlur . Quello che lo faceva tenere
me-raviglioso, era la sollicitudine, la pru-denza,
la grandezza dell’ animo, il buono ordine
che lui servava nello adoperarsie nel
comandare agli eserciti: quello che lo
faceva odiare, era essere piu se-vero nel
gastigargli, che liberale nel ri-munerargli. G
Tito Livio ne adduce diquesto odio
queste cagioni: la prima, che i danari che
si trassero de* benidei Veienti che
si venderono, esso gli applicò al pubblico,
e non gli divise conla preda : V altra,
che nel trionfo ei fece tirare il suo
carro trionfale da quattrocavagli bianchi,
dove essi dissero che per superbia ei
s’ era voluto agguagliareal sole : la
terza, che fece voto di dare ad
Apolline la decima parte della predadei
Veienti, la quale, volendo satisfare al
voto, s’ aveva a trarre dalle mani
deisoldati che l’ avevano di già occupata. Dove
si notano bene e facilmente quellecose che
fanno un principe odioso appresso il
popolo; delle quali la princi-pale è privarlo
d’ uno utile. La qual co-sa è di
importanza assai; perchè le coseche hanno
in sè utilità, quando I’ uomo n* è
privo, non le dimentica mai, edogni
minima necessità te ne fa ricorda-re; e
perchè le necessità vengono ognigiorno, tu
te ne ricordi ogni giorno. L’altra cosa è
lo apparire superbo edenfiato; il che
non può essere più odioso ai popoli, e massime
ai liberi. E ben-ché da quella superbia e
da quel fasto non ne nascesse loro
alcuna incomodi-tà, nondimeno hanno in odio
chi l’usa: da che un principe si
debbe guardarecome da uno scoglio; perchè
tirarsi odio addosso senza suo profitto, è
altutto partito temerario e poco pru-dente. La prolungazionedegl* imperi
fece serva Roma. Se si considera bene
il procederedella Repubblica romana, si
vedrà due cose essere state cagione della
resolu-zione di quella Repubblica: l’una fu-rono
le contenzioni che nacquero dallalegge
agraria; l’altra la prolungazione degli imperi:
le quali cose se fussinostale conosciute
bene da principio, e fattivi debiti rimedi,
sarebbe stato il vi-ver libero più lungo, e
per avventura più quieto. C benché, quanto
alia pro-lungazione dello imperio, non si vegga che
in Roma nascesse mai alcuno tu-multo;
nondimeno si vedde in fatto, quanto noce
alla città quella autoritàche i cittadini
per tali diliberazioni pre-sono. E se gli
altri cittadini a chi eraprorogato il
magistrato, fussino stali savi e buoni come
fu Lucio Quinzio,non si sarebbe incorso
in questo incon-veniente. La bontà del
quale è d’ unoessempio notabile; perchè, sendosi
fatto intra la Plebe ed il Senato
convenzioned’ accordo, ed avendo la Plebe
prolun-gato in uno anno V imperio ai
Tribuni,giudicandogli atti a poter resistere
al-l’ambizione dei Nobili, volle il Senato,per
gara della Plebe e per non parere da
meno di lei, prolungare il consolatoa Lucio
Quinzio: il quale al tutto negò questa
diliberazionc, dicendo che i cat-livi essempi
si volevano cereare ili spe-gnergli, non di
accrescergli con uno al-tro più cattivo
essempio; e volle si fa-cessino nuovi
Consoli. La qual bontà eprudenza se
fusse stata in tutti i citta-dini romani,
non arebbe lasciata intro-durre quella
consuetudine di prolungare i magistrati, e da
quella non si sarebbevenuto alla
prolungazione delti imperi: la qua! cosa,
col tempo, rovinò quellaRepubblica. Il
primo a eli i fu proro-gato l’imperio, fu Publio
Pilone; ilquale essendo a campo alla città
di Pa-lepoli, e venendo la line del
suo conso-lato, e parendo al Senato ch’egli
avesse in mano quella vittoria, non gli
manda-rono il successore, ma lo fecero
Procon-solo; talché fu il primo Proconsolo.
Laqual cosa, ancora che mossa dal Senato per
utilità pubblica, fu quella che conil
tempo fece serva Roma. Perchè, quanto più i
Romani si discostaron con le ar-mi, tanto
più pareva loro tale proroga-zione necessaria, e
più P usarono. Laqual cosa fece due
inconvenienti: l’uno che meno numero di
uomini si eserci-tarono negl’imperi; e si venne
per questo a ristringere la reputazione inpochi:
l’altro, che stando un cittadino assai
tempo comandatole d’ uno eserci-to, se lo
guadagnava, e facevaselo par-tigiano; perchè quello
esercito col tem-po dimenticava il Senato, e
riconosceva quello capo. Per questo Siila e
Mario po-terono trovare soldati che contea
al bene pubblico gli seguitassino : per
questo Ce-sare potette occupare la patria.
Che se mai i Romani non avessiuo prolungati
imagistrati e gli imperi, se non venivano si
tosto a tanta potenza, e se fussinostati
più tardi gli acquisti loro, sarebbe-ro
ancora venuti più tardi nella servitù. Della
povertà di Cincinnato , e di molti cittadini
romani.; Noi abbiamo ragionato altrove, come la
più ulil cosa che si ordini in
un vi-ver libero è che si mantenghino i
citta-dini poveri. E benché iti Roma non
ap-parisca quale ordine fusse quello che facesse
questo effetto, avendo, massime,la legge
agraria avuta tanta oppugna-zione; nondimeno per
esperienza si vid-de, ' che dopo
quattrocento anni che Roma era stata
edificata, v’era una gran-dissima povertà ;**nè
si può credere che altro ordine maggiore
facesse questo ef-fetto, che vedere come
per la povertà non t’ era impedita la
via a qualunquegrado ed a qualunque onore, e come
s’ andava a trovare la virtù in qualun-que
casa l'abitasse. 11 qual modo di vivere
faceva manco disperabili le ric-chezze. Questo
si vede manifesto; per-chè essendo Minuzio
consolo assediatocon lo esercito suo dagli
Equi, si empiè di paura Roma, che
quello esercito nonsi perdesse; tanto che
ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio
nelle lorocose afflitte. E crearono Lucio Quinzio
Cincinnato, il quale allora si trovava«ella
sua piccola villa, la quale lavora-va di
sua mano. La qual cosa con pa-role
auree è celebrala da Tito L., di-cendo:
Opera precium est audire, quiomnia prue
divifiis Humana spera uni,ncque honori
magno locum, neque tir-tuli putanl esse,
nisi effuse affluant opes. Arava Cincinnato
la sua piccolavilla, la quale non
trapassava il termi-ne di quattro iugeri,
quando da Romavennero i Legati del Senato a
signifi*Carli la elezione della sua
dittatura, eda mostrarli in quale pericolo
si trovava la romana Repubblica. Egli,
presa la suatoga, venuto in Roma e
ragunato uno esercito, n’andò a liberar Minuzio;
edavendo rotti e spogliati i nimici, e libe-rato
quello, non volle che 1’ esercito
as-sediato fusse partecipe della preda, di-cendogli
queste parole: Io non voglioche tu
participi della preda di coloro de’ quali
tu sei stato per essere preda;— e privò
Minuzio del consolato, e fe-eclo Legato,
dicendogli: Starai tanto inquesto grado,
che tu impari a sapere essere Consolo. —
Aveva fatto suo Maestrode’ cavalli Lucio
Tarquiuio, il quale per la povertà militava
a piede. Notasi, co-me è detto, T onore che
si faceva in Roma alla povertà; e come
ad uno uo-mo buono e valente, quale era
Cincin-nato, quattro iugeri di terra bastavanoa
nutrirlo. La quale povertà si vede co-me
era ancora nei tempi di Marco Re-golo;
perchè sendo in Affrica con gli eserciti,
domandò licenzia al Senato perpoter tornare
a custodire la sua villa, la quale gli
era guasta da’ suoi lavora-tori. Dove si
vede due cose notabilissi-me : 1* una la
povertà, e come vi sta-vano dentro contenti, e
come bastava a quelli cittadini trarre
della guerra ono-re, e l’ utile tutto lasciavano
al pub-blico. Perchè, s’ egli avessero
pensatod’arricchire della guerra, gli sarebbe dato
poca briga, che i suoi campi fus-sino
stati guasti. L’ altra è, considerare la
generosità dell’ animo di quelli citta-dini, i
quali preposti ad uno esercito, saliva la
grandezza dell’animo loro so-pra ogni principe;
non stimavano i re, non le repubbliche ;
non gli sbigottivanè spaventava cosa
alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano
parchi, umili,curatori delle piccole facultà
loro, ubbi-dienti ai magistrati, reverenti alti
loromaggiori: talché pure impossibile che uno
medesimo animo patisca tanta mu-tazione. Durò
questa povertà ancora to-sino ai tempi di
Paulo Emilio, che fu-rono quasi gli ultimi
felici tempi di quella Repubblica, dove un
cittadino checol trionfo suo arricchì Roma,
nondi-meno mantenne povero sè. E cotanto
sistimava ancora la povertà, che Paulo nell’
onorare chi s’ era portato benenella
guerra, donò a un suo genero una tazza d’
oriento, il quale fu il primooriento
che fusse nella sua casa. E potrebbesi
con un lungo parlare mostrarequanti
migliori frutti produca la po-vertà che la
ricchezza, e come V una haonorato le città,
le provincia, le sètte; c l’altra V ha
rovinate; se questa ma-teria nou fusse
stata molte volte da al-tri uomini celebrata. Come
per cagione di femmine si rovina uno
Slato.Nacque nella città d’ Ardea intra i
pa-trizi e i plebei una sedizione per ca-gione d’
un parentado, dove avendosi a maritare una.
femmina erede, la doman-darono parimente un
plebeo ed un nobile; e non avendo quella
padre, i tu-tori la volevano congiugnere al
plebeo, la madre al nobile: di che nacque.
tantotumulto, che si venne all’ armi ; dove
tutta la Nobiltà s’ armò in favore
delnobile, e tutta la Plebe in favore del plebeo.
Talché essendo superata la Ple-be, s’ uscì
d’ Ardea, e mandò ai Yolsci per aiuto: i
nobili mandarono a Roma.Furono prima i Volsci,
e, giunti intorno ad Ardea, s’accamparono.
Sopravvenne-ro i Romani, e rinchiusone i Volsci in- fra
ia terra e loro; tanto che gli
co;slrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi
a discrezione. Ed entrati i Romaniin Ardea, e
morti lutti i capi della se-dizione, composono
le cose di quellacittà. Sono in
questo testo più cose da notare. Prima
si vede, come le donnesono state
cagioni di molte rovine, ed hanno fatti
gran danni a quelli che go-vernano una
città, ed hanno causato di molte divisioni
in quella : e, come si èveduto in
questa nostra istoria, V eccesso fatto contra a
Lucrezia tolse lostato ai Tarquini; quell’
altro fatto contra a Virginia privò i Dieci
dell’ auto-rità loro. Ed Aristotele intra
le prime cose che mette della rovina
dei tiranni,è V avere ingiuriato altrui per
conto di donne, o con stuprarle, o con violarle,o
corrompere i matrimoni ; come di questa parte,
nel capitolo dove noi trat-tammo delle
congiure, largamente si parlò. Dico, adunque,
come i principiassoluti ed i governatot i delle
repubbliche non hanno a tenere poco contodi
questa parte ; ma debbono considerare i disordini
clic per tuie accidentepossono nascere, e
rimediarvi in tempo che il rimedio non
sia con danno e vi-tuperio delio Stato loro
o della loro re? pubblica: come intervenne
agli Ardenti,i quali per avere lasciato
crescere quella gara intra i loro cittadini,
si condusso-tio a dividersi infra loro; e
volendo riunirsi, ebbono a mandare per
soccorsiesterni : il che è un gran principio
d’una propinqua servitù. Ma vegniamo all’ al-tro
notabile del modo del riunire le città, del
quale nel futuro capitolo parleremo. Come
e* si ha a unire una città divisa ; c
come quella oppi-nionc non è vera , che a
tenere le città bisogna tenerle disunite.Per
lo essempio dei Consoli romani che
riconciliarono insieme gli Ardeati,si nota
il modo come si debbe comporre una
citta divisa: il quale non è altro,nè
altrimenti si debbe medicare, clic ammazzare i
capi de’ tumulti. Perchégli è necessario
pigliare uno de’ tre modi : o ammazzargli,
come fecero co-storo ; o rimuovergli della città;
o far loro far pace insieme, sotto obblighi
dinon si offendere. Di questi tre modi, questo
ultimo è più dannoso, men cer-to e più
inutile. Perchè gli è impossibile, dove sia
corso assai sangue, o al-tre simili ingiurie,
che una pace fatta per forza duri,
riveggendosi ogni di in-sieme in viso; ed è
difficile che si asten-gano dallo ingiuriare V
uno V altro, po-tendo nascere infra loro
ogni dì, per la conversazione, nuove
cagioni di querele.Sopra che non si
può dare il migliore essempio che la
città di Pistoia. Era di-visa quella città,
come è ancora, quin-dici anni sono, in
Panciatichi e Cancel-lieri ; ma allora era in
sull’ orme, ed oggi V ha posate. E dopo
molte disputeinfra loro, vennero al sangue,
alla rovina delle case, al predarsi la
roba, ead ogni altro termine di
nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre,sempre vi usarono quel terzo modo;
e sempre ne nacquero maggiori tumultic maggiori
scandali: tanto che, strac-chi, si venne al
secondo modo, di ri-muovere i capi delle
parli; de’ quali al-cuni messono in prigione,
alcuni altriconfinarono in vari luoghi:
tanto che 1’ accordo fatto potette stare,
ed è statoinfino a oggi. Ma senza dubbio
più si-curo saria stato il primo. Ma
perchèsimili esecuzioni hanno il grande ed
il generoso, una repubblica debole non lesa
fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica
la si conduce al rimedio secondo.E questi
sono di quelli errori che io dissi
nel principio, che fanno i principidei
nostri tempi, che hanno a giudicare le cose
grandi; perchè doverebbouo vo-ler vedere, come
si sono governati co-loro che hanno avuto a
giudicare auti-canìcole simili casi. Ma la
debolezza de’ presenti uomini, causala dalla
deboleeducazione loro e dalla poca notizia delle
cose, fa che si giudichino i giudiziantichi
parte inumani, parte impossibili. Ed hanno
certe loro moderne oppinionidiscoste al
tutto dal vero; corn’è quella che dicevano
i savi della nostra città,un tempo è:
che bisognava tener Pistoia con le parti j e
Pisa con le fortezze ; e non s’avveggono,
quanto runa e l’ altra di queste due cose è
inutile. Io voglio lasciare le fortezze,
perchè di sopra ne parlammo a lungo; e
vogliodiscorrere la inutilità che si trae
dai tenere le terre, che tu hai iu
governo,divise. In prima, c impossibile che
tu ti mantenga tutte due quelle parti
amicheo principe o repubblica che le governi. Perchè
dalla natura è dato agli uominipigliar
parte in qualunque cosa divisa, e piacergli
più questa che quella. Tal-ché, avendo una
parte di quella terra malcontenta, fa che
lu prima guerra cheviene, tu la perdi
; perchè gli è impos-sibile guardare una città
che abbia ini mici fuori e dentro. Se
la è una re-pubblica che la governi, non
ci è il piùbel modo a far cattivi i
tuoi cittadini cd a far dividere la tua
città, clic averein governo una città
divisa; perchè cia-scuna parte cerca d’aver
favori, ciascu-na si fa amici con varie
corruttele : tal-ché ne nasce due grandissimi
inconve-nienti; l’uno, che tu non to gli
fai mai amici, per non gli poter
governar bene,variando il governo spesso,
ora con l’uno, ora con l’altro umore;
l’altro,clic tale studio di parte divide
di neces-sità la tua repubblica. Ed il
Biondo,parlando dei Fiorentini c de’ Pistoiesi, ne
fa fede, dicendo: Mentre che i Fio-ventini
disegnavano di riunir PistoiaJ divisano se
medesimi. Pertanto, si puòfacilmente considerare
il male che da questa divisione nasca.
Nel 1501, quan-do si perdè Arezzo, c tutto
Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci
daiVitelli e dal duca Valentino, venne un monsignor
di Lant, mandato dal re diFrancia a
fare restituire ai Fiorentini tutte quelle
terre perdute; e trovandoLant in ogni
castello uomini die, nel visitarlo, dicevano
che erano della partedi Marzocco, biasimò
assai questa divi-sione: dicendo, che se in
Francia uuodi quelli sudditi del re
dicesse d’essere della parte del re,
sarebbe gastigato,perchè tal voce non
significherebbe al-tro, se non che in
quella terra fussegente nimica del re ; e
quel re vuole che le terre tutte
siano sue amiche, uni-te, e senza parti. Ma
tutti questi modi e queste oppinioni diverse
dalla veritànascono dalla debolezza di chi
sono si-gnori; i quali, veggendo di non
potertenere gli Stati con forza e con
virtà, si voltano a simili industrie: le
quali qual-che volta nei tempi quieti
giovano qual-che cosa; ma come e’ vengono
l’avver-sità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia
loro. Gap. XXVIII. — Che si debbe por
mentealle opere de* cittadini , perchè molte volte
sotto un'opera pia si nascondeun principio
di tirannide. Essendo la città di Roma
aggravata dalla fame, e non bastando le provvi-sioni
pubbliche a cessarla, prese animo uno Spurio
Melio, essendo assai riccosecondo quelli
tempi, di far provvisione di frumento
privatamente, e pascernecon suo grado la
Plebe. Per la qual cosa egli ebbe
tanto concorso di popolo insuo favore,
che ’l Senato pensando al-P inconveniente
che di quella sua libe-ralità poteva
nascere, per opprimerla avanti che la
pigliasse più forze, glicreò un Dittatore
addosso, e fecelo morire. Qui è da notare,
come molle volteP opere che paiono pie c
da non le potere ragionevolmente dannare,
diventanocrudeli, e per una repubblica sono
pericolosissime, quando non siano a buo-n* oi a
corrette. E per discorrere questa cosa più
particolarmente, dico che unarepubblica senza
cittadini riputati non può stare, nè può
governarsi in alcunmodo bene. Dall’ altro
canto, la ripu-tazione de’ cittadini è cagione
della ti-rannide delle repubbliche. E volendo re-golare
questa cosa, bisogna talmenteordinarsi, che i
cittadini sieno riputati di riputazione che
giovi, c non nuoca,alla città ed alla
libertà di quella. E però si debbe
esaminare i modi con iquali ei pigliano
riputazione j che sono in effetto due: o
pubblici o privati. Imodi pubblici sono,
quando uno consi-gliando bene, e operando meglio
in be-nefìzio comune, acquista riputazione. A questo
onore si debbe aprire la via
aicittadini, e proporre prèmi ed ai con- sigli
ed all’ opere, talché se n’abbinoad onorare
e satisfare. E quando queste riputazioni prese
per queste vie, sianoschiette e semplici,
non saranno mai pericolose: ina quando le
sono preseper vie private, che è l’altro
modo preal-legato, sono pericolosissime ed in
tuttonocive. Le vie private sono, facendo
be-nefizio a questo ed a quell’ altro privato,con
prestargli danari, maritargli le fi-gliuole,
difendendolo dai magistrali, efacendogli simili
privati favori, i quali si fanno gli uomini
partigiani, e dannoanimo a chi è cosi favorito
di poter corrompere il pubblieoe sforzar le
leggi.Debbe, pertanto, una repubblica bene ordinata
aprire le vie, come è detto, achi
cerca favori per vie pubbliche, e chiuderle
a chi li cerca per vie private;come
si vede che fece Roma: perchè in premio
di chi operava bene per il pubbli-co,
ordinò i trionfi c tutti gli altri onori che
la dava ai suoi cittadini ; ed in
dannodi chi sotto vari colori per vie
private cercava di farsi grande, ordinò
l’accuse;e quando queste non bastassero, per èssere
accecato il popolo da una speziedi
falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con
il braccio regio facesse tornare den-tro
al seguo chi ne fusse uscito, come la
fece pei* punir Spurio Melio. Ed
unache di queste cose si lasci
impunita, è atta a rovinare una repubblica;
perchèdifficilmente con quello essempio si
ri-duce dipoi in la vera via. Che gli
peccali dei popoli nascono dai principi.Non
si dolghino i principi d’ alcuno peccato che
faccino i popoli €11’ egli ab-biano in
governo ; perchè tali peccali conviene che
naschino o per sua negli-genza, o per esser
lui macchialo di simili errori. E chi
discorrerà i popoliche nei nostri tempi
sono stati tenuti pieni di ruberie e di
simili peccati, ve-drà che sarà al tutto
nato da quelli che gli governavano, che
erano di similenatura. La Romagna, innanzi
che in quella fossero spenti da papa
Alessan-dro \ 1 quelli signori che la comanda-vano,
era uno essempio d’ ogni seclle-ratissima
vita, perchè quivi si vedeva per ogni
leggiere cagione seguire occi-sioni e rapine
grandissime. Il che na-sceva dalla tristizia
di quei principi $non dalla natura
trista degli uomini, come loro dicevano.
Perchè sendo quelliprincipi poveri, e volendo
vivere da ric-chi, erano forzati volgersi a
molte ra-pine, e quelle per vari modi
usare. Ed intra Poltre disoneste vie che e’
tene-vano, facevano leggi, e proibivano alcuna azione;
dipoi erano i
primi che davanocagione della inosservanza d’esse, nè
inai punivano gli inosservanti, se nonpoi
quando vedevano esser incorsi assai in
simile pregiudizio; ed allora si vol-tavano
alla punizione, non per zelo della legge
fatta, ma per cupidità di riscuo-ter la
pena. Donde nascevano molti inconvenienti, e
sopra tutto questo: che ipopoli si
impoverivano, e non si cor-reggevano; e quelli
che erano impove-riti, s’ ingegnavano contra ai
meno po-tenti di loro prevalersi. Donde
surgevanotutti questi mali che di sopra
si dicono, de’ quali era cagione il
principe. E chequesto sia vero, lo mostra
Tito Livio quando ei narro, che portando i
Legatiromani il dono della preda dei
Veienti ad Apolline, furono presi dai
corsari di Lipari in Sicilia, e condotti in
quella terra : ed inteso Timasiteo loro principe che
dono era questo, dove egli andavae chi
lo mandava, si portò, quantunque nato a
Lipari, come uomo romano, emostrò al
popolo quanto era impio oc-cupare simil
dono; tanto che, con il con-senso dell*
universale, ne lasciò andare i Legati con
tutte le cose loro. E le pa-role dello
istorieo sono queste: Tima-sitheus muhitudinem
religione impleviljguoe seniper regenti est similis.
E Lorenzo dei Medici, a con Orinazione di
questasentenza, dice :u E quel che fa il
signor, fanno poi molti ; Chè nel
signor son tutti gli occhi volti.
„Cap. XXX. — Ad uno cittadino che t co-glia
nella sua repubblica far di suaautorità
alcuna opera buona , è neces-sario prima spegnere
/* invidia: c co-me, venendo il nimico j s'
ha a ordi-nare la difesa dJ una città. Intendendo
il Senato romano come laToscana tutta
aveva fatto nuovo deletto per venire a'
danni di Roma; e corne iLatini e gli
Ernici, stati per lo addietro amici del
Popolo romano, s’ erano acco-stati coi
Volaci, perpetui nimici di Roma ; giudicò
questa guerra dovere esserpericolosa. E
trovandosi Cnnimilio tribuno di potestà
consolare, pensò che sipotesse fare senza
creare il Dittatore, quando gli altri
Tribuni suoi collegllivolessino cedergli la
somma dello imperio. Il che detti Tribuni
fecero volonta-riamente: nec quicquam (dice Tito
Livio) de majestate sua delractum crcdcbant,rjund
ma j està li ejus concessissent. Onde Cammillo,
presa a parole questa ubbi-dienza, comandò che
si scrivessino tre eserciti. Del primo
volse esser capo lui,per ire eontra i
Toscani. Del secondo fece capo Quinto
Servilio, il quale vollestesse propinquo a
Roma, per ostare ai Latini ed agli
Ernici, se si movessino.Al terzo esercito
prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per
tenere guardata lacittà, e difese le porte
e la curia, in ogni caso che nascesse.
Oltre a questoordinò che Orazio, uno de’
suoi colleglli, provvedesse 1* arme, ed il
frumento, el’ altre cose che richieggono i tempi della
guerra. Prepose Cornelio, ancorasuo collega,
al Senato ed al pubblico consiglio,
acciocché potesse consigliarele azioni che
giornalmente s’ avevano a fare ed eseguire.
Iu questo modo furo-no quelli Tribuni, in
quelli tempi, per la salute della patria
disposti a coman-dare e ad ubbidire. Notasi per
questo testo, quello che faccia uno uomo
buonoe savio, e di quanto bene sia cagione, c
quanto utile ei possi fare alla sua
pa-tria, quando, mediante la sua bontà e virtù,
egli ba spenta l’ invidia ; la qualeè molte
volte cagione che gli uomini rton possono
operar bene, non permet-tendo detta invidia
che gli abbino quella autorità la quale è
necessaria averenelle cose d’ importanza.
Spegnesi questa invidia in duoi modi: o per
qualcheaccidente forte e difficile, dove ciascuno veggendosi
perire, posposta ogni ambi-zione, corre
volontariamente ad ubbidire a colui che crede
che con la suavirtù lo possa
liberare: come intervenne a Cammillo; il quale
avendo dato disè tanti saggi d’ uomo
eccellentissimo, ed essendo stato tre volte
Dittatore, edavendo amministrato sempre quel
grado ad utile pubblico, e non a propria
uti-lità, aveva fatto che gli uomini non
te-mevano della grandezza sua ; e per essertanto
grande e tanto ripututo, non sti-mavano cosa
vergognosa essere inferio-re a lui. E però dice
Tito Livio saviamente quelle parole: JSep
quicquam eie.In un altro modo si
spegne l’invidia, quando o per violenza o per
ordine na-turale muoiono coloro che sono stati tuoi
concorrenti nel venire a qualcheriputazione ed a
qualche grandezza ; i quali veggendoti riputato
più di loro, èimpossibile che mai
acquieschino, e stiano pazienti. E quando sono
uomini eh»siano usi a vivere in una
citta corrotta, dove la educazione non
abbia fattoin loro alcuna bontà, è
impossibile che per accidente alcuno mai si
indichino;e per ottenere la voglia loro, e
satisfare alla loro perversità d’animo,
sarebberocontenti vedere la rovina della
loro patria. A vincer questa invidia non ci
èaltro rimedio che la morte di coloro che
l’hanno; e quando la fortuna ètanto
propizia a quell’ uomo virtuoso, che si
muoiano ordinariamente, diventasenza scandalo
glorioso, quando senza ostacolo e senza offesa
ei può mostrarela sua virtù: ma
quando ei non abbi questa ventura, gli
conviene pensare perogni via torsegli
dinanzi; e prima che ei facci cosa alcuna,
gli bisogna teneremodi eli* ei vinca
questa difTìcultà. E chi legge la Bibbia
sensatamente, vedràMoisè essere stato sforzato, a
volere che le sue leggi e gli suoi
ordini andasseroinnanzi, ad ammazzare infiniti
uomini, ì quali, non mossi da altro che
da in-vidia, si opponevano a* disegni suoi. Questa
necessità conosceva benissimofrate Girolamo
Savonarola; conoscevala ancora Pietro Soderini,
gonfaloniere diFirenze. V uno non potette
vincerla, per non avere autorità a poterlo
fare (chefu il frate), e per non
essere inteso be-ne da coloro che lo
seguitavano, che nearebbono avuto autorità.
Nondimeno per lui non rimase, e le sue
prediche sonopiene d’ accuse dei savi
del mondo, e di invettive contro a loro;
perchè chiama-va così questi invidi, e quelli
che si opponevano agli ordini suoi. Quell’
altrocredeva col tempo, con la bontà,
con la fortuna sua, con beneficarne alcuno,
spe-gner questa invidia ; vedendosi d* assai fresca
età, e con tanti nuovi favori chegli
arrecava il modo del suo procedere, che
credeva poter superare quelli tantiche per
invidia se gli opponevano, senza alcuno scandalo,
violenza e tumulto : enon sapeva che M
tempo non si può aspettare, la bontà
non basta, la fortu-na varia, e la
malignità non trova dono che la plachi.
Tanto che V uno e l’altrodi questi due
rovinarono, e la rovina loro fu causata da
non aver saputo opotuto vincere questa
invidia. 1/ altro notabile è 1’ ordine che
Cammillo dettedentro e fuori per la salute
di Roma. E veramente, non senza cagione,
gli isto-rici buoni, com’ è questo nostro, metto-no
particolarmente e distintamente certicasi, acciocché i
posteri imparino come gli abbino in simili
accidenti a difen-dersi. E debbesi in questo
testo notare, che non è la più pericolosa
nè la piùinutile difesa, che quella
che si fa tu-multuariamente e senza ordine.
E que-sto si mostra per quello terzo esercito che
Carminilo fece scrivere per lasciarloin
Roma a guardia della città : perchè molti
arebbero giudicato e giudichereb-bono questa
parte superflua, scudo quel popolo per 1’
ordinario armato e belli-coso; e per questo, che
non gli biso-gnasse di scriverlo altrimente,
ma ba-stasse farlo armare quando il bisogno venisse.
Ma Cammillo, e qualunche fussesavio come
era esso, la giudica altri-mente; perchè
non permette mai cheuna moltitudine pigli
1’ arme, se non cou certo ordine e
certo modo. E però, iusu questo essempio,
uno che sia preposto a guardia d’ una
città, debbe fug-gire come uno scoglio il
fare armare gli uomini tumultuosamente; ma
dcbbcprima avere scritti e scelti quelli che voglia
s’ armino, chi gli abbino a ubbi-dire, dove
a convenire, dove andare; ed a quelli che
non sono scritti, comanda-re che stiano
ciascuno alle case sue a guardia di
quelle. Coloro che terrannoquesto ordine in
uiia città assaltata, fa-cilmente si potranno
difendere: chi faràaltrimenti, non imiterà Cammillo,
e non si difenderà. Le repubbliche forti e gli uomini
eccellenti ritengono in ognifortuna il
medesimo animo e la loro medesima dignità.Intra
1* altre magnifiche cose che il nostro
istorico fa dire e fare a Cammil-lo, per
mostrare come debbo esser fatto un uomo
eccellente, gii mette in boccaqueste
parole: iSec mi hi diclattira ani mo8
fecilj nec exilium ademil. Per lequali
parole si Yede, come gli uomini grandi
sono sempre io ogni fortunaquelli medesimi
; e se la varia, ora con esaltargli ora
con opprimergli, quellinon variano, ma
tengono sempre P ani- mo fermo, ed in tal
modo congiuntocon il modo del vivere
loro, che fncil-mente si conosce per
ciascuno, la for-tuna non aver potenza
sopra di loro. Altrimenti si governano gli
uomini de-boli; perchè invaniscono ed inebriano nella
buona fortuna, attribuendo tuttoil bene che
gli hanno a quelle virtù che' non conobbero
mai. D’onde nasce chediventano insopportabili ed
odiosi a tutti coloro che gli hanno
intorno. Da chepoi dipende la subita
variazione della sorte; la quale come
veggono in viso,caggiono subito nell’ altro
difetto, e diventano vili ed abietti. Di
qui nasce chei principi così fatti pensano
nella avversità più a fuggirsi che a
difendersi,come quelli che per aver male
usata la buona fortuna, sono ad ogni
difesa im-preparati. Questa virtù e questo vizio, eh’
io dico trovarsi in uno uomo solo,
sitrova ancora in una repubblica: ed in fessempio
ci sono i Romani ed i Vini-ziani. Quelli
primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai
divenire abietti, nè nessu-na buona fortuna
gli fece mai essere in-solenti; come
si vidde manifestamentedopo la rotta eli’
egli ebbouo a Canile, e dopo la vittoria
eli’ egli ebbono con-tea ad Antioco; perchè
per quella rot-ta, ancora che gravissima
per esserstata la terza, non invilirono
mai; e mandarono fuori eserciti; non
vollenoriscattare i loro prigioni contra agli
or-dini loro; non mandarono ad Annibaieo a
Cartagine a chiedere pace : ma, la-sciate stare
tutte queste cose abiette in-dietro, pensarono
sempre alla guerra ; armando, per carestia
d’ uomini, i vec-chi ed i servi loro. La
qual cosa conosciuta da Annoile cartaginese,
come disopra si disse, mostrò a quel Senato
quanto poco conto s’ aveva a teneredella
rotta di Canne. E così si vidde come i
tempi difficili non gli sbigottiro-no, nè
gli renderono umili. Dall’ altra parte, i
tempi prosperi non gli feceroinsolenti;
perchè mandando Antioco oratori a Scipione a
chiedere accordo,avanti che fussino venuti
alla giornata, e eh'
egli avesse perduto, Scipione glidelle certe condizioni della pace; quali
erano che si ritirasse dentro alla
Siria,ed il resto lasciasse nello arbitrio
de’ Romani. Il quale accordo ricusando Antio-co, e
venendo alla giornata, e perdendola, rimandò
ambasciadori a Scipione,con
commissione che pigliassero tutte quelle condizioni
erano date loro da)vincitore: ai quali
non propose altri patti che quelli s’avesse
offerti innanziche vincesse; soggiungendo queste
parole: quod Romani j si vincunluVj nonminuunlur animi
s ; ncc si vincimi insolescere solent. Al
contrario appunto diquesto s’è veduto fare
ai Yiniziani: i quali nella buona fortuna,
parendo loroaversela guadagnata con quella
virtù che non avevano, erano venuti a tanta
inso-lenza, che chiamavano il re di Francia figliuolo
di San Marco; non stimavanola Chiesa ;
non capivano in modo alcuno in Italia; e
avevansi presupposto nel-1’ animo d’ aver a
fare una monarchia simile alla romana. Dipoi,
come la buo-na sorte gli abbandonò, e
eli’ egli eb*bero una mezza rotta a
Vaila dal re diFrancia, pcrderono non
solamente tutto lo Stato loro per
ribellione, ma buonaparte ne dettero ed
al papa ed al redi Spagna per viltà
ed abiezione d’animo;ed in tanto
invilirono, che mandarono nmbasciadori allo
imperadore a farsi(libatori; e scrissono al papa
lettere piene di viltà, e di sommissione
permuoverlo a compassione. Alla quale in* felicità
pervennero in quattro giorni, edopo una
mezza rotta: perchè avendo combattuto il
loro esercito, nel ritirarsivenne a combattere
ed essere oppresso circa la metà; in
modo che, l’uno de’provveditori che si
salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati,intra piè e cavallo. Talmentechè,
se a Vinegia e negli ordini loro fusse
stataalcuna qualità di virtù, facilmente si
po-tevano rifare, e dimostrare di nuovo ilviso
alla fortuna ed essere a tempo o a vincere,
o a perdere più gloriosamente,o ad avere accordo
più onorevole. Ma la viltà dell’ animo
loro, causata dalla qualità de’ loro ordini
non buoni nelle cose della guerra, gli
fece ad un tratto per-dere lo Stato e
1’ animo. E sempre intervewà così a
qualunque si governi come loro. Perchè
questo diventare in-solente nella buona fortuna
ed abiettonella cattiva, nasce dal modo
del proceder tuo, e dalla educazione, nella
qualetu sei nudrito: la quale quando è
debole c vana, ti rende simile a sè: quan-do-è
stata altrimenti, ti rende ancora d’ un’
altra sorte; e facendoli miglioreconoscitore del
mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e
meno rattristare delmale. E quello che si dice
d’ un solo, si dice di molti che
vivono in una repubblica medesima; i quali
si fanno di quella perfezione, che ha
il modo del vivere di quella. E benché
altra volta sisia detto, come il
fondamento di tutti gli Stali è la buona
milizia ; e come dove non è questa, non
possono essere nè leggi buone, nè alcuna
altra cosa buona ; non mi pare superfluo
replicarlo : perchè ad ogni punto nel
leggere questa istoria si vede apparire
questa necessità; e si vede come la milizia
nonpuote essere buona, se la non è
«ecci-tata; e come la non si può
esercitare,se la non è composta di tuoi
sudditi. Perchè sempre non si sta in
guerra, nèsi può starvi ; però conviene poterla
cser-, citare a tempo di pace: e con altri
checon sudditi non si può fare questo
esercizio, rispetto alla spesa. Era
Cammilloandato, come di sopra dicemmo, con l’esercito
conira ai Toscani; ed avendoi suoi soldati
veduto la grandezza dello esercito dei
nimici, s’ erano tutti sbigot-titi, parendo
loro essere tanto inferio-ri da non poter
sostenere l’ impeto diquelli. E pervenendo questa
mala dispo-sizione del campo agli orecchi
di Cam-millo, si mostrò fuora, ed andando
par-lando per il campo a questi ed a
quellisoldati, trasse loro del capo quella
op-pinione; e nell’ultimo, senza ordinarealtrimenti
il campo, disse: Quod qinsque didicit, aiti
consucvilj facict. E chi con-sidererà bene questo
termine, e le pa-role disse loro, per
inanimarli a ire con-tro al nimici, considererà
come e’ non si poteva nè dire nè
far fare alcuna diquelle cose ad uno
esercito che prima non fusse stalo ordinato
ed esercitatoed in pace ed in guerra.
Perchè di quelli soldati che non hanno
imparato a farcosa alcuna, non può un
capitano fidar-si. e credere che faccino alcuna
cosa chestia bene; e se gli comandasse
un nuo-vo Annibaie, vi rovinerebbe sotto.
Per-chè, non potendo un capitano essere mentre
si fa la giornata in ogni parte,se
non ha prima in ogni parte ordinato di
potere avere uomini che abbino lospirito
suo, e bene gli ordini ed i modi del
procedere suo, conviene di necessitàche ci
rovini. Se, adunque, una città sarà armata
ed ordinata come Roma; cche ogni dì
ai suoi cittadini, ed in par*ticolare
ed in pubblico, tocchi a fareisperienza c della
virtù loro, e delia po-tenza della fortuna;
interverrà sempreche in ogni condizione di
tempo e’ siano dei medesimo animo, e
manterranno lamedesima loro degnila: ma
quaudo e’ sia-no disarmati, e che si
appoggerannosolo olii impeti della fortuna, e non
alla propria virtù, varieranno col variare
diquella, e daranno sempre di loro quello essempio
che hanno dato i Viniziani. Quali modi
hanno tentili alcuni a turbare una pace.Essendosi
ribellate dal Popolo romano Circe» e V elitre,
due sue colonie, sottosperanza d’ esser
difese dai Latini; ed essendo dipoi vinti i
Latini, e mancandodi quelle speranze;
consigliavano, assai cittadini che si dovesse
mandare a Romaoratori a raccomandarsi al Senato :
il qual partilo fu turbato da coloro
cheerano stali autori della ribellione, i quali temevano
che tutta la pena non si vol- tasse
sopra le teste loro. E per tor via ogni
ragionamento di pace, incitarono la moltitudine
ad armarsi, ed a correr sopra i confini
romani. E veramente,quando alcuno vuole o che
uno popolo o un principe levi al tutto
1’ animo dauno accordo, non ci è
altro modo più vero nè più stabile,
che fargli usarequalche grave scelleratezza
contro a co-lui con il quale tu non
vuoi che l’ac-cordo si faccia : perchè
sempre lo terrà discosto quella paura di
quella pena chea lui parrà per lo
errore commesso aver meritata. Dopo la
prima guerrache i Cartaginesi ebbono coi Romani, quelli
soldati che dai Cartaginesi eranostati
adoperati in quella guerra in Si*cilia
ed in Sardigna, fatta che fu la
pa-ce, se ne andarono in Affrica; dovè non essendo
satisfatti del loro stipendio, mos-sono
l’armi contra ai Cartaginesi; e fatti di
loro due capi, Nato e Spendio,occuparono
molte terre ai Cartaginesi, e molte ne
saccheggiarono. I Cartagine-si, per tentare prima
ogni altra via che la zuffa, mandarono a
quelli ainbascia-dore Asdrubale loro cittadino,
il quale pensavano avesse alcuna autorità
conquelli, essendo stato per lo addietro
lor capitano. Ed arrivato costui, e
volendoSpendio e .Muto obbligare tutti quelli
sol-dati a non sperare d’ aver mai più
pacecoi Cartaginesi, e per questo obbligarli alla
guerra; persuasono loro, ch’egliera meglio
ammazzare costui, con lutti i cittadini
cartaginesi, quali erano ap-presso loro prigioni.
Donde, non sola-mente gli ammazzarono, ma
con millesupplizii in prima gli straziarono
; ag-giungendo a questa scelleratezza unoeditto, che
tutti i Cartaginesi che per lo avvenire si
pigliassino, si dovessino insimil modo
oecidere. La qual dilibera-zione ed esecuzione
fece quello esercitocrudele ed ostinato
contra ai Cartagi-nesi. Egli è necessario , a vo-ler
vincere una giornalaj fare lJ eser-cito
confidente ed infra lorOj e con ilcapitano. A
volere che uno esercito vinca una giornata,
è necessario farlo confidente,in modo che
creda dovere in ogni modo vincere. Le
cose che lo fanno confi-dente sono: che
sia armato ed ordinato bene; conoschinsi
l’uno 1’ altro. Nè puònascer questa
confidenza o questo ordi-ne, se non in
quelli soldati che sononati e vissuti
insieme. Conviene che ’l capitano sia
stimato, di qualità che con-fidino nella
prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo
vegghino ordi-nato, sollecito ed animoso, e che
tenga bene e con riputazione la maestà del grado
suo: c sempre la manterrà, quan-do gli
punisca degli errori, e non gli affatichi
invano; osservi loro le promes- se; mostri
facile la via del vincere; quelle cose
che discosto potessino mo-strare i pericoli, le
nasconda, le alleggerisca. Le quali cose
osservate bene, sonocagione grande che P esercito
confida, e confidando vince. Usavano i Romani
difar pigliare agli eserciti loro questa
confidenza per via di religione: donde na-sceva,
che con gli augurii ed auspizii creavano i
Consoli, facevano il dcletto,partivano con
li eserciti, e venivano alla giornata: e senza
aver fatto alcuna diqueste cose, non
inai arebbe un buon capitano e savio
tentata alcuna fazione,giudicando d’ averla
potuta perdere facilmente, se i suoi soldati
non avesseroprima inteso gli dii essere dalla
parte loro. E quando alcuno Consolo, o altroloro
capitano, avesse combattuto contra agli auspizii,
P arebbero punito; comee* punirono Claudio
Pulero. E benché questa parte in tutte P
istorie romanesi conosca, nondimeno si
pruova più certo per le parole che L.
usa nellabocca di Appio Claudio; il
quale, dolen-dosi col popolo della
insolenza de’ Tri-buni della plebe, e mostrando
che me-diatiti quelli, gli auspizii e 1’ altre
cosepertinenti alla religione si corrompeva-no,
dice così : Etudaut nttnc licet reli
-gionem. Quid cnim interest , si pulii non pasccnlur
, si ex cavea tardine rxierint ,si
occinuerit avis ? Parva sunt hcec ; sed parva
isla non contemnendoj major e*nostri
maximam Itane Rcmpublicam fe-cerunt. Perchè
in queste cose piccole èquella forza
di tenere uniti e confidenti i soldati: la
qual cosa è prima cagioned’ ogni vittoria.
Nondi manco, conviene con queste cose sia
accompagnata lavirtù: altrimenti, le non
vogliono. I Pre- nestini, avendo contra ai
Romani fuoriil loro esercito, se n*
andarono ad al-loggiare in sul fiume d’
Allia, luogo do-ve i Romani furono vinti
da* Franciosi ; il che fecero per
metter fiducia nei lorosoldati, e sbigottire i
Romani per la fortuna del luogo. E benché
questo loropartito fusse probabile, per
quelle ra-gioni che di sopra si sono
discorse ;nientedimeno il (ine della cosa
mostrò, che la vera virtù non teme
ogni mini-mo accidente. Il che l’ istorico
benissi-mo dice con queste parole, in bocca
po-ste del Dittatore, che parla così al suo
Maestro de’ cavagli : Vides tu,
fortunaillos fvelos ad Alliam conscdisse ;
al tu, frelus armis animisque, invade
medianiacietn. Perchè una vera virtù, un
ordi-ne buono, una sicurtà presa da
tantevittorie, non si può con cose di
poco momento spegnere; nè una cosa vanafa
lor paura, nè un disordine gli offen-de:
come si vede certo, che essendo
dueManlii consoli contra ai Volsci, per aver
mandato temerariamente parte del cam-po a
predare, ne seguì che in un tem-po e
quelli che erano iti, e quelli cheerano
rimasti, si trovarono assediati; dal qual
pericolo non la prudenza deiConsoli, ma
la virtù de’ propri soldati gli liberò.
Dove Tito Livio dice questeparole:
Militimi, etiam sine reclorc , sta -bilia virtus
lutala est. Non voglio lascia-re indietro
un termine usato da Fabio, sendo entrato
di nuovo con V esercitoin Toscana, per farlo
confidente; giudi-cando quella tal fidanza esser
più ne-cessaria per averlo condotto in paese nuovo,
e contra a ninnici nuovi : che,parlando avanti
la zuffa ai soldati, e detto eli*
ebbe molte ragioni, mediantele quali e’
potevano sperare la vittoria, disse che
potrebbe ancora loro dire certecose buone,
e dove e’ vedrebbono la vit-toria certa, se
non fusse pericoloso il ma-nifestarle. Il qual
modo come fu savia-mente usato, così merita
d’essere imitato. XXXIV. — Quale fama o voce o oppiatone
fa che il popolo comincia a favorire un
cittadino: e se ei di-stribuisce i magistrati con
maggior prudenza che un principe. Altra volta
parlammo come Tito Manlio, clic fu poi detto
Torquato, salvò Lu-ciò Manlio suo padre
da una accusa clic gli aveva fatta
Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché
il modo del salvarlo fusse alquanto
violento ed istraor-dinario, nondimeno quella
Oliale pietà verso del padre fu tanto
grata all’uni-versale, che non solamente non
nc furipreso, ma avendosi a fare i Tribuni delle
legioni, fu fatto Tito Manlio nelsecondo
luogo. Per il quale successo, credo che
sia bene considerare il modoche tiene
il popolo a giudicare gli uo-mini nelle
distribuzioni sue; e che perquello noi
veggiamo, se egli è vero quanto di sopra
si conchiuse, che il popolo siamigliore
distributore che un principe. Dico, adunque,
come il popolo nel suodistribuire va
dietro a quello che si dice d’uno per
pubblica voce e fama, quandoper sue opere
note non lo conosce al-trimenti; o per
presunzione o oppinioneche s’ ha di 1 ni.
Le quali due cose sono causate o dai padri
di quelli tali, cheper esser stati
grandi uomini e valenti nelle città, si
crede che i figliuoli deb-bino esser simili a
loro, infino a tanto che per l’ opere di
quelli non s’intendeil contrario; o la è
causata dai modi che tiene quello di
chi si parla. I modimigliori che si
possono tenere, sono : avere compagnia d’uomini
gravi, di buoni co-stumi, e riputati savi
da ciascuno. E per-chè nessuno indizio si
può aver mag-giore d’uii uomo, che le compagnie
con quali egli usa; meritamente uno che
usacon compagnia onesta, acquista buon nome,
perchè è impossibile che non ab-bia qualche
similitudine con quella. 0 veramente s’
acquista questa pubblicafama per qualche
azione istraordinaria e notabile, ancora che
privata, la qualeti sia riuscita
onorevolmente. E di tutte tre queste cose
che danno nel principiobuoua riputazione ad
uno, nessuna la dà maggiore che questa
ultima : perchèquella prima de’ parenti e
de’ padri è sì fallace, che gli
uomini vi vanno arilento ; ed in poco
si consuma, quando la virtù propria di
colui che ha ad es-sere giudicato non
I’ accompagna. La seconda che ti fa
conoscere per via dellepratiche tue, è
miglior della prima, ma è mollo inferiore
alla terza ; perchè, in-fino a tanto che
non si vede qualche segno che nasca
da te, sta la riputa-zione tua fondata
in su V oppili ione, la quale è facilissima
a cancellarla. Maquella terza, essendo
principiata e fon-data in su le opere lue,
ti dà nel prin-cipio tanto nome, che
bisogna bene che tu operi poi molte
cose contrarie a questo, volendo annullarla.
Debbono, adun-que, gli uomini che nascono
in unarepubblica pigliare questo verso, ed
in- gegnarsi con qualche operazione istraor-dinaria
cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma
in gioventù feciono o conil promulgare una
legge che venisse in comune utilità ; o con
accusare qualchepytente cittadino come transgressore delle
leggi; o col fare simili cose nota-bili c
nuove, di che s’ avesse a parlare. Nè
solamente sono necessarie simili coseper
cominciare a darsi riputazione, ma sono ancora
necessarie per mantenerlaed accrescerla. Ed a
voler fare questo, bisogna rinnovarle; come
per tutto iltempo della sua vita fece
Tito Manlio: perchè, difeso eh’ egli ebbe
il padretanto virtuosamente e straordinariamen-te, e
per questa azione presa la primareputazione
sua, dopo certi anni com-battè con quel
Francioso, e morto glitrasse quella collana d’oro
che gli dette il nome di Torquato.
Non bastò questo,che dipoi, già in
età matura, ammazzò il figliuolo per aver
combattuto senzalicenza, ancora ch’egli avesse
superato il nimico. Le quali tre azioni
allora glidettono più nome e per tutti i
secoli lo fanno più celebre, che non
lo fece alcunotrionfo, alcuna vittoria, di
che egli fu or-natoquanto alcun altro
Romano. E la ca-gione è perchè in quelle
vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in
queste partico-lari azioni n’ebbe o pochissimi o
nessuno. A Scipione maggiore non arrecaronotanta
gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli
dette l'avere, ancora giovinetto, insul
Tesino difeso il padre; e l’aver, dopo la
rotta di Canne, animosamente con laspada
sguainata fatto giurare più gio-veni
romani, che ei non abbandonerei)-bono
Italia, come di già intra loro ave-vano
diliberato: le quali due azioni fu-rono
principio alla riputazione sua, e gli
fecero scala ai trionfi della Spagnae dell’
Affrica. La quale oppinione da lui fu
ancora accresciuta, quando ei ri-mandò la
figliuola al padre e la moglie al marito
in Ispagna. Questo modo delprocedere non è
necessario solamente a quelli cittadini che
vogliono acqui-star fama per ottenere gli
onori nella loro repubblica, ma è ancora
necessa-rio ai principi per mantenersi la
riputazione nel principato loro : perchè nessuna
cosa gli fa tanto stimare, quanto dare
di sè rari esempi con qualche fatto o
detto raro, conforme al bene comune, il
quale mostri il signore o magnanimo o
liberale o giusto, e che sia tale che si
riduca come in proverbio intra i suoi
soggetti. Ma, per tornare donde noi
cominciammo questo discorso, dico come il
popolo quando ei comincia a dare un grado
ad un suo cittadino, fondandosi sopra
quelle tre cagioni soprascritte, non si
fonda male; ma quando poi gli assai
essempi de’ buoni portamenti d’uno lo fanno
più noto, si fonda meglio, perchè in
tal caso non può essere che quasi mai
s’ inganni, lo parlo solamente di quelli
gradi che si danno agli uomini nel
principio, avanti che per ferma isperienza
siano conosciuti, o che passano da una
azione ad un’altra dissimile: dove, e quanto alia
falsa oppinione, e quanto alla corruzione, sempre
fanno minori errori che i principi. E perchè
e’ può essere che i popoli s’
ingannerebbono della fama, della oppinione e
delle opere d’ uno uomo stimandole maggiori
che in verità non sono; il che non
interverrebbe aduno principe, perchè gli
sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi
lo consiglias-se : perchè ancora i popoli non
manchino di questi consigli, i buoni ordi-natori
delle repubbliche hanno ordinalo che, avendosi a
creare i supremi gradinelle città, dove
fusse pericoloso mettervi uomini insufficienti, e
reggendosila voglia popolare esser diritta a
creare alcuno che fusse insuffiziente, sia
lecitoad ogni cittadino, e gli sia imputato
a gloria, di pubblicare nelle concioni i di-fetti
di quello, acciocché il popolo, non mancando
della sua conoscenza, possameglio giudicare. E
che questo si usasse a Roma, ne rende
testimonio la ora-zione di Fabio Massimo,
la quale ei fece al Popolo nella
seconda guerra punica,quando nella creazione
dei Consoli i favori si volgevano a creare
Tito Otta-cilio;e giudicandolo Fabio insuffiziente a
governare in quelli tempi il consolato, gli
parlò contro, mostrando la insuffi*ziciua
sua ; tanto che gli tolse quel grado, e
volse i favori del Popolo a chi più lo
meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli
nella elezione a’ magistrati secondo quei contrassegni
che degli uo- mini si possono aver più
veri; e quando ei possono esser consigliati
come i principi, errano meno che i principi; e
quel cittadino che voglia cominciare ad avere i
favori del popolo, debbe con qualche fatto
notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli. Quali
perìcoli si portino nel farsi capo a
consigliare una cosa ;e quanto ella ha
più dello straordinario, maggiori pericoli
vi si corrono. Quanto sia cosa pericolosa
farsi capo d’ una cosa nuova che
appartenga a molti, e quanto sia difficile
trattarla ed a condurla ; e condotta, a mantenerla, sarebbe
troppo lunga e troppo alta maleria a
discorrerla: però, riserbandola a luogo più
conveniente, parlerò solo di quelli pericoli
che portano i cittadini, o quelli che
consigliano uno principe a farsi capo d’
una diliberazione grave ed importante, in
modo che tutto il consi-glio d’ essa
sia imputato a lui. Perchè, giudicando gli uomini
le cose dal fine, tutto il male che
ne risulta, s’ imputa all’autore del consiglio; e
se ne risulta bene, ne è commendato: ma
di lunga il premio non contrappesa il
danno. Il pre-sente Sultan Sali, dello Gran
Turco, essendosi preparato (secondo che uè ri- feriscono
alcuni che vengono de’ suoi paesi) di
fare l’ impresa di Soria e di Egitto, fu
confortato da un suo Rascia, quale ei
teneva ai confini di Persia, d’an-dare
contea al Sofi: dal quale consiglio mosso,
andò con esercito grossissimo a quella
impresa; ed arrivando in paese larghissimo,
dove sono assai deserti e le fiumare
rade, e trovandovi quelle diflìculta che già
fecero rovinare molli eserciti romani, fu
in modo oppressalo da quelle, che vi
perdè per fame e per peste, ancora che
nella guerra fusse superiore, gran parte
delle sue genti : tal- ché irato contro
all’autore del consiglio, l’ammazzò. Leggesi,
assai cittadini stati confortatori d’ una
impresa, e per avere avuto quella tristo
fine, essere stati man- dati in esilio.
Fecionsi capi alcuni cittadini romani, che
si facesse in Roma il Consolo plebeo.
Occorse che il primo che uscì fuori
con gli eserciti, fu rotto ; onde a
quelli consigliatori sarebbe avvenuto qualche
danno, se non fusse stata tanto gagliarda
quella parte, in onore della quale tale
diliberazione era venuta. È cosa adunque
certissima, che quelli che consigliano una
repubblica, e quelli che consigliano un principe,
sono posti intra queste angustie, che se
non con-sigliano le cose che paiono loro
utili, o per la città o per il
principe, senza ri-spetto, ei mancano dell’
uffìzio loro; se le consigliano, egli
entrano nel pericolo della vita e dello
Stato: essendo lutti gli uomini in questo
ciechi, di giudi-care i buoni e cattivi consigli
dal fine. E pensando in che modo ei
potessino fuggire o questa infamia o questo pericolo,
non ci veggo altra via che pi- gliar
le cose moderatamente, e non ne prendere
alcuna per sua impresa, e dire V oppinione
sua senza passione, e senza passione con
modestia difenderla : in modo che, se la
città o il principe la segue, (die la
segua volontario, e non paia che vi venga
tirato dalla tua importunità. Quando tu
faccia così, non è ragione- vole che un
principe ed un popolo del tuo consiglio
ti voglia male, non essendo seguito contra
alla voglia di molti : perchè quivi si
porta pericolo dove molti han- no contradetto, i
quali poi nello infelice fine concorrono a
farti rovinare. E se in questo caso si
manca di quella gloria che si acquista
nell’ esser solo contra molti a consigliare
una cosa, quando ella sortisce buon fine,
ci sono al riucontro due beni : il
primo, di mancare del pericolo ; il
secondo, che se tu con- sigli una cosa
modestamente, e per la contradizione il tuo
consiglio non sia preso, e per il consiglio
d’altrui ne seguiti qualche rovina, ne
risulta a te grandissima gloria. E benché la
gloria che s’acquista de’ mali che abbia o la tua
città o il tuo principe, non si possa godere,
nondimeno è da tenerne qualcheconto. Altro
consiglio non credo si possa dare agli
uomini in questa parte: per-chè consigliandogli
che tacessino, e non dicessino I’ oppinione
loro, sarebbe cosainutile alla repubblica o
ai loro principi, e non fuggirebbono il
pericolo ; perchèin poco tempo diventerebbono
sospetti: e ancora potrebbe loro intervenire co-me a
quelli amici di Perse re dei Macedoni,
il quale essendo stato rotto daPaulo
Emilio, c fuggendosi con pochi amici, accadde
che nel replicar le cosepassate, uno
di loro cominciò a dire a Perse molti
errori fatti da lui, che eranostati
cagione della sua rovina; al quale Perse
rivoltosi, disse: Traditore, si chetu hai
indugiato a dirmelo ora ch’io non ho più
rimedio; e sopra queste pa-role, di sua
mano l’ammazzò. E cosi colui portò la pena
d’essere stato chetoquando ci doveva
parlare, e d’aver parlato quando ei doveva
tacere; nè fuggiil pericolo per non
avere dato il consiglio. Però credo che
sia da tenere edosservare i termini
soprascritti. La
cagione perchè « Fran-ciosi sono stali e sono
ancora giudicati nelle zuffe da principio
più cheuomini j e dipoi meno che femmine. La
ferocità di quel Francioso che pro-vocava
qualunque Romano appresso al Piume Aniene a
combatter seco, dipoila zuffa falla intra
lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di
quello che Tito Liviopiù volte dice,
che i Franciosi sono ne principio della
zuffa più che uomini, enel successo
di combattere riescono poi meno che
femmine. E pensando dondequesto nasca, si
crede per molti che sia la natura
loro così fatta: il che credosia
vero; ma non è per questo, che questa
loro natura che gli fa feroci
nelprincipio, non si potesse in modo con I*
arte ordinare, che la gli mantenesseferoci
infino nell’ ultimo. Ed a voler provare
questo, dico come e’ sono di
treragioni eserciti: V uno dove è furore ed ordine;
perchè dall’ ordine nasce il furo-re e la
virtù, come era quello dei Romani: perchè
si vede in tutte l’ istorie,clic in
quello esercito era uno ordine buono, che
v’ aveva introdotto una di-sciplina militare
per lungo tempo. Perchè in uno esercito
bene ordinato, nes-suno debbe fare alcuna opera
se non regolato: e si troverà per questo,
chenello esercito romano, dal quale, avendo egli
vinto il mondo, debbono prendereessempio
tutti gli altri eserciti, non si mangiava,
non si dormiva, non si mer-calava,
non si faceva alcuna azione o militare o
domestica senza l'ordine delconsolo. Perchè
quelli eserciti che fanno altrimenti, non
sono veri eserciti; c sefanno alcuna
pruova, la fanno per furore e per impeto,
non per virtù. Mudove è la virtù ordinata,
usa il furore suo coi modi e co’ tempi;
nè diflicultàveruna lo invilisce, nè gli
fa mancare l'animo: perchè gli ordini buoni
glirinfrescano l’ animo ed il furore, nutriti
dalla speranza del vincere; la qualemai
non manca, infìno a tanto che gli ordini
stanno saldi. Al contrario inter-viene in
quelli eserciti dove è furore c non ordine,
come erano i franciosi : iquali tuttavia
nel combattere mancavano; perchè non riuscendo
loro col primoimpeto vincere, e non essendo
sostenuto da una virtù ordinata quello loro
furorenel quale egli speravano, nè avendo
fuori di quello cosa in la quale ei
confidassi-no, come quello era raffreddo,
mancavano. Al contrario i Romani, dubitandomeno
dei pericoli per gli ordini loro buoni,
non diffidando della vittoria, fer-mi ed
ostinali combattevano col medesimo animo e con
la medesima virtùnel fine che nel
principio: anzi, agitati dall’ arme, sempre s’
accendevano. Laterza qualità d’eserciti, è,
dove non è furore naturale, nè ordine accidentale:come
sono gli eserciti nostri italiani de’
nostri tempi, i quali sono al tuttoinutili;
e se non si abbattono ad uno esercito
che per qualche accidente sifugga, mai
non vinceranno. E senza addurne altri essempi,
si vede ciascunodi come ei fanno
pruove di non avere alcuna virtù. E perchè
con il testimonio di Tito Livio ciascuno
intenda come debbe esser fatta la buona
milizia,e come è fatta la rea; io voglio
addurre le parole di Papirio Cursore,
quando eivoleva punire Fabio maestro de’ cavalli,
quando disse: Nano hominum y nanoDeorum
verecundiam hubcat ; non cdù da impcralorum^
non auspicio, obser-ventar: sine commenta , vagì
tnililcs in pacato , in hostico errcnt;
immcmoressacramenti , se ubi velini exauctorenl
/infrequentia deserant tigna ; ncque con -veniant
ad edictum, nec discernant interdiuj nodo ;
(equo, iniquo loco, jussu,injussu imperatorie
pugncnt ; et non sigila, non ordines
serventi lalroctntimodo, cieca et fortuita,
prò solcami et sacrala rnilitia sit. Puossi
per questotesto, adunque, facilmente vedere,
se la milizia de’ nostri tempi è cieca e
fortuita,o sacrata e solenne j e quanto le manca
ad esser simile a quella die si può
chiamarmilizia ; e quanto ella è discosto da. essere
furiosa ed ordinala come la roma-na, o
furiosa solo come la franciosa. Se le
piccole battaglieinnanzi alla giornata sono
necessarie, e come si debbe fare a conoscere
unnimico nuovo , volendo fuggire quelle. E’ pare
che nelle azioni degli uomini,come altre
volte abbiamo discorso, si tvuovi, oltre
all’ altre diftìcultà, nel vo-ler condurre
la cosa olla sua perfezione, che sempre
propinquo al bene siaqualche male, il quale
con quel bene sì facilmente nasce, che
pare impossibilepoter mancare dell’ uno
volendo I’ altro. E questo si vede in
tutte le cose chegli uomini operano. E
però s’ acquista il bene con diftìcultà,
se dalla fortunatu non se’ aiutato in
modo, che ella con la sua forza vinca
questo ordinario enaturale inconveniente. Di
questo mi ha fatto ricordare la zuffa
di Manlio Tor-quato e dei Fraucioso, dove
Tito Livio dice: Tanti ca dimicatio ad
universibelli eventtim momenti fuitj ut Gallorum
excrciluSj relictis trepide castri s,in Tiburlem
agrum , inox in Campaniam transierit. Perchè io
considero dall’ uncanto, che un buon
capitano debbe fuggire al tutto di operare
alcuna cosa che,essendo di poco momento,
possa fare cattivi effetti nel suo
esercito: perchècominciare una zuffa dove
non si opel ino tutte le forze e vi
si arrisichi tuttala fortuna, è cosa al
tutto temeraria; come io dissi di sopra,
quando io dan-nai il guardare de’ passi.
Dall’ altra parte io considero come
capitani savi, quandoei vengono all’
incontro d’ un nuovo nimico, e che sia
riputato, ei sono neces-sitati, prima che
venghino alia giornata, far provare con
leggieri zuffe ai lorosoldati tali nimici;
acciocché cominciandogli a conoscere c maneggiare,
perdinoquel terrore che la fama e la
riputazione aveva dato loro. E questa partein
un capitano è importantissima ; perchè ella ha
in sé quasi una necessità cheti
constringe a farla, parendoti andare ad una
manifesta perdita, senza averprima fatto
con piccole isperienze deporre ai tuoi
soldati quello terrore chela riputazione
del nimico aveva messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvinomandato dai Romani con
gli eserciti contro ai Sanniti, nuovi
nimici, e cheper lo addietro mai non
avevano provate 1* arme 1’ uno dell’ altro;
dove diceTito Livio, che Valerio fece
fare ai Romani coi Sanniti alcune leggieri
zuffe:jV© eos novum bellutn , ne novus hoslis .
lerreret. Nondimeno è pericolo grandis-simo, che
restando i tuoi soldati in quelle battaglie
vinti, la paura e la viltà noncresca
loro, e ne conseguitino contrari effetti ai
disegni tuoi; cioè che tu glisbigottisca,
avendo disegnalo d’ assicurarli: tanto che
questa è una di quellecose che ha il
male sì propinquo al bene, e tanto sono
congiunti insieme, che gliè facil cosa
prendere l’ uno credendo pigliar P altro. Sopra
che io dico, che• un buon capitano
debbo osservare con ogni diligenza, che non
surga alcunacosa che per alcuno accidente
possa torre Panimo alP esercito suo. Quello
che glipuò torre P animo è cominciare a perdere;
e però si debbe guardare dallezuffe
piccole, e non le permettere se non con
grandissimo vantaggio e concerta speranza di
vittoria ; non debbo fare impresa di
guardar passi, dovenon possa tenere tutto
l’esercito suo: non debbe guardare terre,
se non quelleche perdendole di necessità
ne seguisse la rovina sua; e quelle che
guar-da, ordinarsi in modo, e con le guardie
d’ esse e con l’esercito, clic trat-tandosi
della espugnazione di esse, ei possa
adoperare tutte le forze sue;P altre debbe
lasciare indifese. Perchè ogni volta che si
perde una cosa che siabbandoni, e P
esercito sia ancora insieme, e’ non si
perde la riputazione dellaguerra, nè la
speranza di vincerla: ma quando si perde
una cosa che tu haidisegnata difendere, e
ciascuno crede che tu la difenda, allora è
il danno e la per-dita ; ed hai quasi,
come i Franciosi, con una cosa di piccolo
momento perduta laguerra. Filippo di
Macedonia padre di Perse, uomo militare e
di gran condizione ne’ tempi suoi, essendo
assaltato dai Romani; assai de’ suoi paesi,
i qualiei giudicava non potere guardare,
abbandonò e guastò scoine quello che,
peressere prudente, giudicava più pernicioso
perdere la riputazione col non potere
difendere quello che si metteva a difendere,
che lasciandolo in preda alnimico, perderlo
come cosa negletta. I Romani, quando dopo
la rotta di Cannele cose loro erano
afflitte, negarono a molti loro raccomandati e
sudditi li aiuti,commettendo loro che si
difendessino il meglio potessino. I quali partiti
sonomigliori assai, che pigliare difese, e poi non
le difendere: perchè in questo par-tito si
perde amici e forze; in quello, amici solo.
Ma tornando alle piccole zuffe, dico che
se pure un capitano è costretto per la
novità del nimico far qualche zuffa, debbe
farla con tanto suo vantaggio, che non
vi sia alcun pericolo di perderla : o
veramente far come Mario (il che è migliore
partito), il quale andando contro ai
Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano e
predare Italia, e venendo con uno spavento
grande per la ferocità e moltitudine loro,
e per avere di già vinto un esercito
romano ; giudicò Mario esser necessario, innanzi
che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa
per la quale l’ esercito suo deponesse quel
terrore che la paura del nimico gli
aveva dato; e, come prudentissimo capitano,
più che una volta collocò l’esercito suo
in luogo donde i Cimbri con 1* esercito
loro dovessino passare. E così, dentro alle
fortezze del suo campo, volle che i suoi
soldati gli vedessino, ed assuefacessino gli
occhi alla vista di quello nimico ;
acciochè, vedendo una moltitudine inordinata, piena di
impedimenti, con arme inutili, e parte disarmati,
si rassicurussino, e diventassino disiderosi
della zuffa. 11 quale partito come fu
da Mario saviamente preso, così dagli altri
debbe essere diligentemente imitato, per non
incorrere in quelli pericoli che io di
sopra dico, e non avere a fare come i
Franciosi, qui ob rem parvi ponderis trepidi
iti Tiburietn agrum et in Campaniam
transierunt. E perchè noi abbiamo allegato in
questo discorso Valerio Corvino, voglio,
mediatiti le parole sue, nel seguente capitolo,
come debbe esser fatto un capitano, dimostrare. Come
debbe esser fatto un capitano nel quale V
esercito suo possa confidare. Era, come di
sopra dicemmo, Valerio Corvino con 1’
esercito contea ai Sanniti, *nuovi nimici
del Popolo romano: donde che, per
assicurare i suoi soldati, e per fargli conoscere
i nimici, fece fare ai suoi certe leggieri
zuffe j nè gli bastando questo, volle
avanti alla giornata parlar loro, e mostrò
con ogni efficacia quanto e' dovevano
stimare poco tali nimici, al-legando la
virtù de’ suoi soldati e la propria. Dove
si può notare, per le parole che
Livio gli fa dire, come debbe essere fatto
un capitano in chi I’ esercito abbia a
confidare j le quali parole sono queste: Tutti
ctiam intuerì cujtis ductu auspi- cioque
ineunda pugna sii: ulritm qui audtcndus
dumlaxat magnifìcus adhor- tator sit, ver
bis tantum ferox , operimi mililarium expers ; an
qui, et ipsc tela frodare, procedere ante
signa, versavi media in mole pugna sciai.
Facla mea, non dieta vos militcs sequi
volo ; nec disciplinavi modo, sed cxcmplum ctiam a
me potere , qui hac dextra tnihi tres consulalus,
summamque laudem pepcri. Le quali parole
considerate bene, insegnano a qualunque, come ei
debbe procedere a voler tenere il grado del
capitano : e quello che sarà fatto altrimenti, troverà,
con il tempo, quel grado, quando per
fortuna o per ambizione vi sia con- dotto,
torgli e non dargli riputazione; perchè non i
titoli illustrano gli uomini, ma gli uomini
i titoli. Debbesi ancora dal principio di
questo discorso consi-derare, che se i capitani
grandi hanno usato termini istraordinari a fermare gli
animi d’uno esercito veterano quando coi
nimici inconsueti debbe affrontarsi ; quanto maggiormente si abbia ad usare
l’ industria quando si comandi uno esercito
nuovo, che non abbia mai veduto il
nimico in viso. Perchè, se lo inusitato nimico
allo esercito vecchio dà terrore, tanto
maggiormente lo debbe dare ogni nimico ad
uno esercito nuovo. Pure, s’ò veduto molte
volte dai buoni capitani tutte queste
diflìcultù con somma pru- denza esser vinte:
come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda
tebano, de’quali altra volta abbiamo parlato,
che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed
esercitatissimi. I modi che tenevano, erano:
parecchi mesi esercitargli in bat-taglie fìnte;
assuefargli alla ubbidienza ed all’ ordine: e da
quelli dipoi, con massima confidenza, nella
vera zuffa gli adoperavano. Non si debbe,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non poter
fare buoni eserciti, quando non gli manchi
uomini ; perchè quel principe che abbonda
d’ uomini e manca disoldati, debbe
solamente, non della viltà degli uomini, ma
della sua pigrizia e e poca prudenza dolersi. Che
un capitano debbe esser conoscitore dei eiti. Intra
1’ altre cose che sono necessarie ad
un capitano d’ eserciti, è la cognizione dei
sili e de’ paesi; perchè senza questa cognizione
generale e particolare, un capitano d’ eserciti
non può be-ne operare alcuna cosa. E perchè
tutte le scienze- vogliono pratica a voler per- fettamente
possederle, questa è una che ricerca pratica
grandissima. Questa pratica, ovvero questa
particolare cognizione, s’ acquista più mediatiti
le cacce, che per verun altro esercizio.
Però gli antichi scrittori dicono, che
quelli ^roi che governarono nel loro tempo
il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle
cac- ce; perchè la caccia, oltre a questa
cognizione, ti insegna infìttile cose che sono
nella guerra necessarie. E Senofonte, nella
vita di Ciro, mostra che andando Ciro
od assaltare il re d’ Armenia, nel
divisare quella fazione, ricordòa quelli suoi,
che questa non era altro che una di
quelle cacce le quali mollevolte avevano
fatte seco. E ricordava a quelli che
mandava in aguato su i monti, che gli
erano simili a quelli eh’ andavano a tendere le
reti in su i gioghi; eda quelli che
scorrevano per il piano, che erano simili a
quelti che andavano a levare del suo
covile la fera, acciocché, cacciata, desse
nelle reti. Questo si dice per mostrare
come le cacce, secondo che Senofonte
appruova, sono una immagine d’ una guerra:
e per questo agli uomini grandi tale
esercizio è onorevole e necessario. Non si può
ancora imparare questa cognizione de’ paesi
in altro comodo modo che per via di
caccia; perchè la caccia fa a colui che
1’ usa sapere come sta particolarmente quel
paese dove ei 1* esercita. E fatto che
uno s’ è familiare bene una regione,
con facilità comprende poi tulli i paesi
nuovi j per-chè ogni paese ed ogni membro
di quelli hanno insieme qualche conformità, in modo
clic dalla cognizione d’ uno facilmente si
passa alla cognizione dell’ altro. Ma chi
non ne ha ancora bene pratico uno,
con difficoltà, anzi non mai se non
con un lungo tempo, può conoscer 1’
altro. E chi ha questa pratica, in
unvoltar d’ occhio sa come giace quel
piano, come surge quel monte, dove arriva quella
valle, e tutte l* altre simili cose, di
che ei ha per lo addietro fatto una ferma
scienza. E che questo sia vero, ce lo
mostra Tito Livio con lo essempio di
Publio Decio; il quale essendo Tribuno de’
soldati nello esercito che Cornelio consolo
conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi
il Consolo ridotto in una valle, dove l’
esercito dei Romani poteva dai Sanniti
esser rinchiuso, evedendosi in tanto
pericolo, disse al Consolo : Vtdes tuj Aule
Corneli, cacume»iilud supra hostcm ? arx ilici
est spei salutisquc nostra, si eam fquoniam
caarcliquerc SamnitesJ impigre capimus. Ed innanzi
a queste parole dette da Decio,Tito L.
dice: Publtus Dcctus, tribùnus militimi , unum
editum in saltu collenij immincnteni
hostium castns , adilu arduum impedito agmini,
expeditis hauddifficilcm. Donde, essendo stato
mandatosopra esso dal Consolo con tremila
soldati,ed avendo salvo l’esercito romano j e
dise-gnando, venendo la notte, di partirsi e
sal-vare ancora sè ed i suoi soldati, gii
fa direqueste parole: Ite niecum, ut
dum lucisaliquid superest, quibus locts
hostesprcesidia ponant, qua palcat hinc
exitus,exploremus. Hcec ornnta sagulo
militariamiclus, ne ducem circuire hostes
no-larentj perlustrarli. Chi considererà,adunque,
tutto questo testo, vedrà quantosia utile e
necessario ad un capitanosapere la natura
de’ paesi: perché seDecio non gli avesse
saputi e conosciuti,non arebbe potuto giudicare
qual utilefaceva pigliare quel colle allo
esercitoromano; uè arebbe potuto conoscere
didiscosto, se quel colle era accessibile
ono ; e condotto che si fu poi sopra
esso,volendosene partire per ritornare al
Con-solo, avendo i nimici intorno, non arebbedal
discosto potuto speculare le vie
delloandarsene, e li luoghi guardati dai ni-mici.
Tanto che, di necessità conveniva,che Decio
avesse tale cognizione per-fetta: la qual
fece che con il pigliarequel colle, ei
salvò l’esercito romano;dipoi seppe, scndo
assedialo, trovare lavia a salvare sè e
quelli che erano statiseco. Come, usare la
fraudenel maneggiare la guerra è cosa gloriosa.Ancoraché
usare la fraude in ogniazione sia
detestabile, nondimanco nelmaneggiar la guerra è
cosa laudabile egloriosa; e parimente è laudato
coluiche con fraude supera il nimico,
comequello che M supera con le forze. E
ve-desi questo pei* il giudizio che
ne fannocoloro che scrivono le vite
degli uominigrandi, i quali lodano Annibaie e
gli* altri che sono stati notabilissimi in
si-mili modi di procedere. Di che per
leg-gersi assai essempi, non ne replicheròalcuno.
Dirò solo questo, che io nonintendo
quella fraudo essere gloriosa,che ti fa
rompere la fede data ed i pattifatti;
perchè questa, ancora che la tiacquisti
qualche volta stalo e regno, co-me di sopra
si discorse, la non ti acqui-sterà mai
gloria. Ma parlo di quella fraudoche
si usa con quel nimico che non
sifida di te, e che consiste proprio
nelmaneggiare la guerra : come fu
quellad’Annibale, quando in sul lago di
Peru-gia simulò la fuga per rinchiudere
ilConsolo e lo esercito romano; e quando,per
uscire di mano di Pabio Massimo,accese
le corna dello armento suo. Allequali
fraudi fu simile questa che usòPonzio
capitano dei Sanniti, per rin-chiudere 1’
esercito romano dentro alleforche Caudine-.
i( quale avendo messolo esercito suo a'
ridosso dei monti, mandòpiù suoi soldati
sotto vesti di pastori conassai armento
per il piano; i quali sen--do presi dai
Romani, e domandati doveera l’esercito dei
Sanniti, convennerotutti, secondo 1’ ordine
dato da Ponzio,a dire come egli era
allo assedio di No-terà. La qual cosa
creduta dai Consoli, fece eh’ ei si
rinchiusero dentro ai balzicaudini; dove
entrati, furono subito as-sediati dai Sanniti. E
sarebbe stata que-sta vittoria, avuta per
fraude, glorio-sissima a Ponzio, se egli avesse
seguitatii consigli del padre ; il quale
voleva chei Romani o si salvassino liberamente,
osi ammazzassino tutti, e che non si
pi-gliasse la via del mezzo, qu ce neque
ami-co* parai , ncque inimicos tollil. La qualvia
fu sempre perniziosa nelle cose diStato;
come di sopra in altro luogo sidiscorse. Che
la patria si debbo di-fendere o con
ignominia o con glo-ria; ed in qualunque
modo è ben di-fesa.Era, come di sopra
s’è dello, il Con-solo e l’esercito romano
assedialo daiSanniti: i quali avendo proposto
ai Ro-mani condizioni ignominiosissime; comeera,
volergli mettere sotto il giogo, edisarmati
mandargli a Roma: e per que-sto stando i Consoli
come attoniti, e tuttol’esercito disperato; Lucio
Lentolo le-gato romano disse, che non gli
parevache fusse da fuggire qualunque
partitoper salvare la patria: perchè,
consisten-do la vita di Roma nella vita
di quelloesercito, gli pareva da salvarlo
in ognimodo; e che la patria è ben
difesa inqualunque modo la si difende, o
conignominia, o con gloria : perchè salvandosi quello
esercito, Roma era a tempo a cancel-lare
l’ignominia: non si salvando, ancorache
gloriosamente morisse, era perdutaKoma e la
libertà sua. E così fu seguitato il suo
consiglio. La qual cosa me-rita d’ esser
notata ed osservata da qua-lunque cittadino
si truova a consigliarela patria sua:
perchè dove si diliberaal tutto della
salute della patria, nonvi debbe cadere
alcuna considerazionenè di giusto nè di
ingiusto, nè di pie-toso, nè di crudele,
nè di laudabile, nèdi ignominioso; anzi,
posposto ogni al-tro rispetto, seguire al
tutto quel par-tito che li salvi la
vita, e mantenghile lalibertà. La qualcosa è
imitata con i detti econ i fatti dai
Franciosi, per difendere lamaestà del loro
re e la potenza del lororegno; perchè
nessuna voce odono piùimpazientemente che
quella che dicesse:il tal partito è
ignominioso per il re;perchè dicono che
il loro re non puòpatire vergogna in
qualunque sua dili-berazione, o in buona o in
avversa for-tuna: perchè se perde o se
vince, tuttodicono esser cosa da re.Cap.
XLII. — Che le promesse fatteper forza
non si debbono osservare.♦ »Tornati i Consoli
con 1’ esercito di-sarmato e con la
ricevuta ignominia aRoma, il primo che
in Senato disseche la pace fatta a
Cuudo non si do-veva osservare, fu il
consolo Spurio Po-stumio; dicendo, come il
Popolo romanonon era obbligato, ma eh’
egli era beneobbligato esso, e gli altri
che avevanopromesso la pace : e però il
Popolo vo-lendosi liberare da ogni obbligo,
avevaa dar prigione nelle mani dei
Sannitilui e tutti gli altri che V avevano
pro-messa. E con tanta ostinazione tenne questa
conclusione, che il Senato ne fu contento;
e mandando prigioni lui e gli altri in
Sannio, protestarono ai Sanniti,la pace non
valere. E tanto fu in questo caso a
Postumio favorevole la fortuna, che i Sanniti
non lo ritennero; e ritornato in Roma,
fu Postumio appresso.ai Romani più glorioso
per avere perduto, che non fu l’onzio
appresso ai Sanniti per aver vinto. Dove
sono da no-tare due cose ; 1* una,
che in qualunque azione si può acquistar
gloria, perchènella vittoria s’ acquista
ordinariamente; nella perdita s’ acquista o col
mostrare tal perdita, non esser venuta per
tua colpa, o per far subito qualche azione virtuosa
che la cancelli : 1’ altra è, che non
è vergognoso non osservare quelle promesse che
ti sono state fatte promettere per forza ;
e sempre le promesseforzate che riguardano
il pubblico, quando e’ manchi la forza, si
romperanno, e fia senza vergogna di chi le
rompe. Di che si leggono in tutte l’
istorie variessempi, e ciascuno dì ne’
presenti tempi se ne veggono. E non
solamente non siosservano intra i principi
le promesse forzate, quando e* manca la
forza ; ma non si osservano ancora tutte
\* altre promesse, quando e’ mancano le
cagioni che le fanno promettere. Il che
se è cosa laudabile o no, o se da un
principe si debbono osservare simili modi o no, largamente
è disputato da noi nel nostro trattato del
Principe; però al presente lo taceremo. Che
gli uomini che nascono in una provincia ,
osservano per lutti i tempi quasi quella medesima
natura.Sogliono dire gli uomini prudenti, e non
a caso nè immeritamente, che cbi vuol veder
quello che ha ad essere, consideri quello
che è stato; perchè tutte le cose del
mondo, in ogni tempo, hanno il proprio
riscontro con gli antichi tempi.
Il che nasce perchè essendo quelle operate
dagli uomini che hanno ed ebbero sempre
le medesime passioni, conviene di necessità
che le sortischino il medesimo effetto.
Vero è, che le sono P opere loro ora
in questa provincia più virtuose che in
quella, ed in quella più che in
questa, secondo la forma delia educazione
nella quale quelli popoli hanno preso il
modo del viver loro. Fa ancorafacilità
il conoscere le cose future per le
passate; vedere una nazione lungo tempo
tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente
avara, o continovamente fraudolenta, o avere alcun
altro si* mile vizio o virtù. E chi leggerà
le cose passale della nostra città di
Firenze, e considererà ancora quelle che
sono ne*prossimi tempi occorse, troverà i popoli tedeschi
e franciosi pieni d’ avarizia, disuperbia, di
ferocia e di infcdelità; perchè tutte queste
quattro cose in diversi tempi hanno offeso
molto la nostra città. E quanto alla poca
fede, ognuno sa quante volte si dette
danari al re Carlo Vili, ed egli
prometteva rendere le fortezze di Pisa, c
non mai le rendè. In che quel re
mostrò la poca fede, e la assai avarizia
sua. Ma lasciamo andare queste cose
fresche. Ciascuno può avere inteso quello
che segui nella guerra che feceil
popolo fiorentino contea ai Visconti duchi
di Milano; che essendo Firenze privo degli
altri espedienti, pensò dicondurre T iroperadore
in Italia, il quale con la riputazione e
forze sue assaltassela Lombardia. Promise l’
imperadore venire con assai gente, e far
quella guerra contra ai Visconti, e difendere
Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli
dessino centomila ducati per levarsi, e centomila
poi che fusse in Italia. Ai quali
patti consentirono i Fiorentini; e pagatogli i
primi danari, e dipoi i secondi, giunto che
fu a Verona, se ne tornò indietro senza
operare alcuna cosa, causando esser restato
da quelli che non avevano osservato le
convenzioni erano fra loro. In modo che,
se Firenze non fusse stata o constretla
dalla necessitào vinta dalla passione, ed
avesse letti e conosciuti gli antichi
costumi de’borbari,non sarebbe stata nè
questa nè molte altre volte ingannata da
loro; essendoloro stati sempre a un modo,
ed avendo in ogni parte e con ognuno
usati i me-desimi termini. Come e' si vede eh’ e’
fecero anticamente ai Toscani ; i qualiessendo
oppressi dui Romani, per essere stati da
loro più volte messi in fuga erotti;
e veggendo mediami le loì* forze non poter
resistere aìr impeto di quelli;convennero
con i Franciosi che di qua dall' Alpi
abitavano in Italia, di dar lorosomma
di danari, e che fussino obbligati congiugnere
gli eserciti con loro,ed andare contea
ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi,
presi i danari,non volleno dipoi pigliare l’
arme per loro, dicendo averli avuti non
per farguerra coi loro nimici, ma
perchè s’astenessino di predare il paese
toscano. E così i popoli toscani, per l’
avarizia e poca fede dei Franciosi,
rimasono ad untratto privi de' loro
danari, e degli aiuti che gli speravano da
quelli. Talché sivede per questo essempio
dei Toscani antichi, e per quello de’
Fiorentini, iFranciosi avere usati i medesimi
termini; e per questo facilmente si può
con-ielturare, quanto i principi si possono fidare
di loro. E' si ottiene con V impetoc con
lJ audacia molte volte quello che con
modi ordinari non si otterrebbe mai. Essendo i
Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e
non polendo con l’esercito loro stare alla
campagna a petto ai Romani, diliberarono,
lasciate guardate le terre in Sannio, di
passare con tutto V
esercito loro in Toscana, la quale era in triegua coi Romani;
e vedere permtal passata, se ei potevano
con la presenza dello esercito loro indurre
i Toscani a ripigliar 1’ arme ; il che avevano fregato
ai loro ambasciadori. E nel parlare che
feeiono i Sanniti ai Toscani, nel mostrar,
massime, qual cagione gli aveva indotti a
pigliar 1* arme, usarono un termine
notabile, dove dissono : Rebollasse j quod pax
sci'vicnlibus gravior t quam liboris bcllum
esset. E cosi, parie con le persuasioni,
parte con la presenza dello esercito loro,
gli indussono a pigliar 1* arme. Dove è da
notare, che quando un principe disidera d’
ottenere una cosa da un altro, debbe,
se l’ occasione lo patisce, non gli dare
spazio a diliberarsi, e fare in modo ch’ei vegga la
necessità della presta diliberazione: la quale è
quando colui che è domandato vede che dal
negare o dal differirene nasca una subita e
pericolosa inde-gnazione. Questo termine s’ è
vedutobene usare nei nostri tempi da
papalulio con i Franciosi, eda monsignordi
Fois capitano del re di Francia
colmarchese di Mantova : perchè papa
luliovolendo cacciare i Bentivogli di Bologna,e
giudicando per questo aver bisognodelle
forze franciose, e che i Yinizianistessino
neutrali j ed uvendone ricercoF uno e I’
altro, e traendo da loro ri-sposta dubbia e
varia j diliberò col nondare lor tempo
far venire I’ uno e l’al-tro nella sentenza
sua : e, partitosi daRoma con quelle
tante genti cli’ei potòraccozzare, n’ andò
verso Bologna, eda’Viniziani inandò a dire
che stessinoneutrali, ed ai re di
Francia che glimandasse le forze. Talché,
rimanendotutti ristretti dal poco spazio di
tempo,e veggeudo come nel papa doveva na-scere
una manifesta indegnazione difle-rendo o negando,
cederono alle vogliesue; ed il re gli
mandò aiuto, ed i Vi*uiziani si steltono
neutrali. Monsignordi Fois, ancora, essendo
con l’esercitoili Bologna, ed avendo intesa
la ribellione di Brescia, e volendo ire
alla ri-cuperazione di quella, aveva due
vie ;F una per il dominio del re,
lunga etediosa; l’altra brievc per il
dominiodi Mantova: e non solamente era
neces-sitato passare per il dominio di
quelmarchese, ina gli conveniva entrare
percerte chiuse intra paludi e laghi, di
cheè piena quella regione, le quali con
for-II acuì avelli, Discorsi. — 1. 49lezzo
cd altri modi erano serrate c guar-dale da
lui. Onde che Pois, diliberalod* andare
}>er la più corta, e per vin-cere ogni
di (Tic ulta nè dar tempo al
mar-chese a diliberarsi, ad un tratto mossele
sue genti per quella via, cd al
mar-chese significò gli mandasse le chiavi
diquel passo. Talché il marchese, occu-pato
da questa subita diliberazione, glimandò le
chiavi: le quali mai gli arebbemandate
se Pois più lepidamente si fusscgovernato,
essendo quel marchese in legaeoi papa e
coi Viniziani, ed avendo uusuo figliuolo
nelle mani del papa; lequali cose gli
davano molte oneste scusea negarle. Ma
assaltato dal subito par-tito, per le cagioni
che di sopra si di-cono, le concesse.
Cosi feciono i Toscanieoi Sanniti, avendo
per la presenza del-T esercito di Sannio
preso quelle armeche gli avevano negato
per altri tempipigliare.Cap. XLV. — Qual
sia miglior partitonelle giornale , o sostenere
lf impetode* nimicij c sostenuto urtargli ;
ov-vero dapprima con furia assaltargli. Erano Decio
e Fabio, consoli romani,con due eserciti
all’ incontro degli eser-citi dei Sanniti e
dei Toscani; e venendoalla zuffa ed alla
giornata insieme, è danotare in tal
fazione, quale di due di-versi modi di
procedere tenuti dai dueConsoli sia migliore.
Perchè Decio conogni impeto e cor» ogni
suo sforzo as-saltò il nimico; Fabio
solamente lo so-stenne, giudicando V assalto
lento es-sere più utile, riserbando l' impeto
suonell’ ultimo, quando il nimico
avesseperduto il primo ardore del combat-tere, e
come noi diciamo, la sua foga.Dove si
vede, per il successo della eosa,che a
Fabio riuscì molto meglio il di-segno che a
Decio : il quale si straccònei primi
impeti ; in modo che, veden-do la banda
sua piuttosto in volta diealtrimenti, per
acquistare con la mortequella gloria alla
quale con la vittorianon aveva potuto
aggiungere, ad imita-zione del padre sacrificò
sè stesso perle romane legioni. La
qual cosa intesada Fabio, per non
acquistare manco ono-re vivendo, che s’avesse
il suo collegaacquistato morendo, spinse
innanzi tuttequelle forze che s’ aveva a
tale necessitàriservate ; donde ne riportò
una felicis-sima vittoria. Di qui si vede
che ’l mododel procedere di Fubio è
più sicuro e più imitabile. Donde nasce
che una fa-mìglia iìi una città tiene
un tempo imedesimi costumi. E’ pare
clic non solamente 1’ una cittàdall*
altra abbi certi modi ed institutidiversi,
e procrei uomini o più duri opiù
effeminati; ma nella medesima cittàsi vede
tal differenza esser nelle fumi-glie I’
una dall’ altra. H che si riscontraessere
vero in ogni città, e nella cittàili
Roma se ne leggono assai essempi
:perché e’ si vede i Manlii essere
statiduri ed ostinati, i Pubi icoli uomini
be-nigni ed amatori del popolo, gli Appiiambiziosi
e ni mici della Plebe: e cosimolte altre
famiglie avere avute ciascunale qualità sue
spartite dall’ altre. La qualcosa non può
nascere solamente dal san-gue, perchè e’ conviene
eh’ ei varii me-diante la diversità dei
matrimoni; maè necessario venga dalla diversa
educa-zione che ha una famiglia dall’
altra.Perchè gl’ importa assai che un
giova-netto dai teneri anni cominci a sentirdire
bene o male di una cosa; perchèconviene
che di necessità ne faccia im-pressione, e
da quella poi regoli il mododel
procedere in tutti i tempi della vitasua. E
se questo non fosse, sarebbe im-possibile che
tutti gli Appii avessinoavuta la medesima
voglia, c Rissino statiagitati dalle medesime
passioni, comenota Tilo Livio in molti
di loro: e perultimo, essendo uno di
loro fatto Censore, ed avendo il suo
collega alla finede* diciotto mesi, come
ne disponeva lalegge, deposto il
magistrato, Àppio nonlo volle deporre,
dicendo che lo potevatenere cinque anni
secondo la primalegge ordinata dai Censori. E
benchésopra questo se ne facessero assai
con-cioni, e se ne generassino assai tumulti,non
pertanto ci' fu mai rimedio che vo-lesse
deporlo, conira alla volontà delPopolo e
della maggior parte del Senato.E chi
leggerà P orazione che gli fececontro
Publio Sempronio tribuno dellaplebe, vi
noterà tutte l’ insolenze oppiane,e tulle le
bontà ed umanità usale da in-finiti
cittadini per ubbidire alle leggi edagli
auspicii della loro patria. Che un buon
cittadinoper amore della patria debbo dimenticare l’ingiurie’
private.Era Manlio consolo con l’esercito con-ira
ai Sanniti* ed essendo stato in
unazuffa ferito, e per questo portando
legenti sue pericolo, giudicò il Senato
es-ser necessario mandarvi Papirio Cur-sore dittatore,
per sopplire ai difetti delConsolo. Ed
essendo necessario che ’lDittatore fusse
nominato da Fabio, ilquale era con
gli eserciti in Toscana; edubitando, per
essergli nimico, che nonvolesse nominarlo;
gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo,
che,posti da parte gli privati odii,
dovesseper benefìzio pubblico nominarlo. Il
cheFabio fece, mosso dalla carità della
pa-tria; ancora che col tacere e con mol-ti
altri modi facesse segno che
talenominazione gli premesse. Dal qualedebbono
pigliare essempio tutti quelli,che cercano
d* essere tenuti buoni cit-tadini. Quando
si vede fareuno errore grande ad un
nimico ,si debbe credere che vi sia
sono in-ganno.Essendo rintaso Fulvio Legato
nelloesercito che i Romani avevano in To-scana,
per esser ito il Consolo per al-cune
cerimonie a Roma; i Toscani, pervedere se
potevano avere quello allatratta, posono un
aguato propinquo aicampi romani, e mandarono
alcuni sol-dati con veste di pastori con
assai ar-mento, e gli feciono venire alla vista dello
esercito romano: i quali così tra-vestiti si
accostarono allo steccato delcampo; onde il
Legato meravigliandosidi questa loro presunzione,
non gli pa-tendo ragionevole, tenne modo
ch’egliscoperse la fraude; e
cosi restò il di*>igno de Toscani rotto. Qui si può comoramente
notare, che un capitano dieserciti non
debbe prestar fede ad unoerrore che
evidentemente si vegga fareal nimico:
perchè sempre vi sarà sottofronde, non
sendo ragionevole che gliuomini siano tanto
incauti. Ma spesso ildisiderio del vincere
acceca gli animi degli uomini, che non
veggono altro chequello pare facci per
loro. I Franciosi avendo vinti i Romani ad
Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte
aperte e senza guardia, stettero tutto quel
giorno e la notte senza entrarvi, temendo di fraude,
e non potendo credere clic fusse tanta
viltà c tanto poco consiglio ne’ petti
romani, che gli nbbandonassino la patria.
Quando nel 4508 s’andò per gli Fiorentini a
Risa a campo, Alfonso del Mutolo, cittadino
pisano, si trovava prigione dei Fiorentini, e
promise che s’egli era libero, darebbe una
porta di Pisa all’esercito fiorentino. Fu
costui libero. Dipoi, per praticare la
cosa, venne molte volte a parlare coi
mandati dc’commissari; e veniva non di
nascosto, ma scoperto, ed accompagnato da’
Pisani; i quali lasciava da parte, quando
parlava eoi Fiorentini. Talmentechè si poteva conietturare
il suo animo doppio ; perchè non era
ragionevole, se la pratica fussc stata
fedele, eh’ egli 1’ avesse trattata sì
alla scoperta. .Ma il disiderio che s*
aveva d’ aver Pisa, accecò in modo i Fiorentini,
che condottisi con l’ ordine suo alla porta
a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed
.altre genti con disonore loro, per il
tradimento doppio che fece detto Alfonso. Una
repubblica, a volerla mantenere libera, ha
ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e
per guali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo.
E di necessità, come
altre volte s’ è «letto, che ciascuno
dì in una città grande 'taschino' accidenti
che abbino bisogno elei medico ; e secondo
che gli importano più, conviene trovare il
medico più savio. E se in alcune città
nacquero mai simili accidenti, nacquero in
t\oma e strani ed insperati; come fu quello
quando e’parve cha tutte le donne
romane avessino congiurato contra ai loro
maritid’ ammazzargli : tante
se ne trovò clicgli avevano avvelenati, e
tante eh’ ave-vano preparato il veleno per avvelenargli.
Come fu ancora quella congiura
de’Baccanali, clic si scopri nel tempo
dellaguerra macedonica, dove erano già
in-viluppati molti migliaia d’ uomini e didonne;
e se la non si scopriva, sarebbestata
pericolosa per quella città ; o sep-pure i Romani
non fussino stati con-sueti a gasligare le
muititudiui degli uo-mini erranti: perchè, quando
e’ non sivedesse per altri infiniti
segni la gran-dezza di quella Repubblica, e
la potenzadelle esecuzioni sue, si vede
per la qua-lità della pena che la
imponeva a chi errava. Nè dubitò far morire
per via digiustizia una legione intera
per volta,ed una città tutta; e di
confinare ottoo diecimila uomini con condizioni
straor-dinarie, da non essere osservate da
unsolo, non che da tanti: come intervennea
quelli soldati che infelicemente ave-vano combattuto
a Canne, i quali con-finò in Sicilia, c impose
loro che nonalkergassino in terre, e che
mangias-sino ritti. Ma di tutte 1’
altre esecuzioniera terribile il decimare
gli eserciti, dovea scorte da tutto uno
esercito era mortod’ogni dieci uno. Nè
si poteva, a gasli-gare una multit udine,
trovare più spa-ventevole punizione di questa.
Perchè quando una moltitudine erra, dove
nonsia 1’ autore certo, tutti non si
possonogastigare, per esser troppi; punirneparte
e parte lasciare impuniti, si fa-rebbe torto a
quelli che si punissino, egli impuniti
arebbono animo di errareun’ altra volta.
Ma ammazzare la decimaparte a sorte, quando
lutti la meritano,0,1 ' è punito si duole
della sorte; ehinon è punito, ha paura
che un’ altravolta non tocchi a lui, c
guardasi di er-rare. Furono punite, adunque,
le vene-fiche e le baccanali secondo che
meri-tavano i peccali loro. K. benché questi morbi
in una repubblica faccino cattivieffetti,
non sono a morte, perchè semprequasi s’
ha tempo a correggerli : ma nons’ ha
già tempo in quelli che riguardanolo
Stato, i quali se non sono da un
pru-dente corretti, rovinano la città. Eranoin
Roma, per la liberalità che i Romaniusavano
di donare la civilità a’ forestieri,nate
tante genti nuove, che le comin-ciavano avere
tanta parte ne’ suffragi,che ’l governo
cominciava a variare, epartivasi da quelle
cose e da quelli uo-mini dove era consueto
andare. Di cheaccorgendosi Quinto Fabio che
era Cen-sore, messe tutte queste genti
nuoveda chi dipendeva questo disordine sot-to
quattro Tribù, acciocché non potessino,
ridotte in si piccioli spazi,corrompere
tutta Roma. Fu questa cosaben conosciuta
da Fabio, e postovi sen*za alterazione
conveniente rimedio; ilquale fu tanto
accetto a quella civi-lità, che meritò
d’esser chiamato Mas*sirno Niccolò Machiavelli a
Zanobi Buondel-monti e Cosimo Rucellai salute.
Quali siano stati universalmente iprincipii
di qualunque città, e qualefosse quello di
Roma Di quanto spezie sono le repubbliche,e
di quale fu la Repubblica Romana.
Quali accidenti facessino creare inRoma i
Tribuni della plebe; il chefece la
Repubblica più perfetta ...Che la disunione
della Plebe e delSenato romano' fece libera
e potentequella Repubblica ; . . . Dove più securamente
si ponga laguardia della libertà, o nel
Popolo one’ Grandi; e quali hanno maggiorecagione
di tumultuare, o chi vuoleacquistare o chi
vuole mantenere. . . Se in Roma si
poteva ordinare unoStato che togliesse via
le inimicizieintra il Popolo ed il Senato
Quanto siano necessarie in una Re-pubblica
le accuse per mantenere lalibertà Quanto lo
accuse sono utili allerepubbliche, tanto
sono perniziose lecalunnie. hiIX. Come egli
ènecessario esser soloavolere ordinare una
repubblica dinuovo, oal tutto fuori delli
antichisuoi ordini riformarla 68X. Quanto sono
laudabili i fondatorid’una repubblica o d’uno
regno, tantoquelli d’ una tirannide sono
vitupera-bili Della religione de’ Romani 8*2XII.
Di quanta importanza sia teneroconto della
religione, e come la Italiaper esserne
mancata mediante la Chie-sa romana, è rovinata
Come i Romani si servirono dellareligione
per ordinare la città, e per seguire le
loro imprese e fermare itumulti . .I Romani
interpretavano gli auspicii secondo la
necessità, o con la prudenza mostravano di
osservare la religione, quando forzati non
1‘ osser-vavano; e se alcuno temerariamentela
dispregiava, lo punivano 100dio alle cose
loro afflitte, ricorsonoalla religione ~Un popolo
USO a vivere sotto unprincipe, se per
qualche accidente diventa libero, con difficult-à
mantienela libertà. . ^ag. Uno popolo
corrotto, venuto in li-bertà, si può con
dit'ticnltà grandissima mantenere libero In che
modo nelle città corrotte si potesse
mantenere uno Stato libero,essendovi; o non
essendovi, ordinarvelo Dopo uno eccellente
principe si puòmantenere un principe
debole; madopo un debole, non si può
con unaltro debole mantenere alcun
regno.Due continove successioni di principi
virtuosi fanno grandi effettivecome le
repubbliche bene ordinatehanno di necessità
virtuose successioni: e però gli acquisti ed
augu-menti loro sono grandi Quanto biasimo
meriti quel prin-cipe e quella repubblica che
mancad"armi proprie Quello che sia da
notare nel casodei tre Orazi romani, e
dei tre Curiazalbani Che non si debbe
mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le
forze; e per questo, spesso il guardare i
passi è dannoso Le
repubbliche bene ordinatecostituiscono premii e
pene a' loro cittadini, nè compensano mai P
uno con r altro Chi mole riformare nno Stato antico
in una città libera, ritenga almeno V ombra
desmodi antichi Un principe nnoro, in
nna cittào provincia presa da Ini, debbo
faro ogni cosa nnova Sanno rarissime volte
gli nomi-ni essere al tutto tristi o al
tatto buoni. IniPer qual cagione i Romani fu-rono
meno ingrati agli loro cittadini che gli
Ateniesi Quale sia più ingrato, o un po-polo, o
un principe Quali modi debbe usare un
prìncipe o nna repubblica per fuggirò questo
vizio della ingratitudine; e qnali quel capitano
o quel cittadino per non essere oppresso da
quella Che i capitani romani per errore commesso
non furono mai istraordi- nariamente puniti;
nè furono inai an-cora puniti quando, per
la ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro» ne fussino seguiti danni alla
repubblica, lfil Una repubblica o nno principenon
dobbe differire a beneficare gli uomini nelle
sue necessitati. Quando uno inconveniente è cresciuto
o in uno Stato o contra ad uno Stato, è
più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo
P&g» L'autorità dittatoria fece tene,e non
danno, alla repubblica romana :o come lo
autorità che i cittadini si toPgono, non
quelle che sono loro dai suffragi liberi
date, sono alla- vita ci^vile perniciose La
cagione perchè in Roma la creazione del
decemvirato fu nociva alla libertà di
quella repubblica, non ostante che fosse
creato per suffragi pubblichi e liberi Non
debbono i cittadini che hanno avuti i maggiori
onori, sdegnarside' minoriQuali scandali partorì
in Roma la legge agraria: e come fare una legge
in una repubblica che risguardi assai
indietro, e sia contra ad unaconsuetudine
antica della città, èscandolosissimo Le
repubbliche deboli sonomale risolute, e non
si sanno delibe-rare; e se le pigliano mai
alcuno par-tito, nasce più da necessità che
daelezione In diversi popoli si
veggonospesso i medesimi accidenti . . rrr~. m.
La creazione del decemvirato inRoma, e
quello che in essa è da no-tare: dove
si considera, intra moltealtre cose, come
si può salvare persimile accidente, o
oppressare una re-pubblica Saltare dalla
urailità alla superbia, dalla pietà alla
crudeltà, senza debiti mezzi, è cosa imprudente
ed inutile. Quanto gli uomini facilmente si possono
corrompere . Quelli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati Una
moltitudine senza capo èinutile: e non si
debbe minacciare prima, e poi chiedere P autorità
È cosa di malo esempio non osservare una
legge fatta, e massimedallo autore d'essa: e
rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una
città, è a chi la governa dannosissimo Gli
uomini salgono da un' ambizione ad
un'altra; e prima si cercanon essere
offeso, dipoi di offendere altrui Gli uomini,
ancora che si ingannino ne’ generali, nei
particolari non si ingannano
Chi vuolo che uno magistrato non sia
dato ad un vile o ad un tristo, lo
facci domandare o ad un troppo vile e
troppo tristo, o ad uno troppo nobile e
troppo buono Se quelle città che hanno
avuto il principio libero, come Roma, hanno difficoltà
a trovare leggi che le mantenghino; quelle
che lo hanno immediate servo, ne hanno
quasi una impossibilita L. Non debbo uno
consiglio o uno magistrato potere fermare le
azioni della città LT. Una repubblica o uno
principe debbo mostrare di fare per
liberalità quello a che la necessità lo
constringe A reprimere la insolenza di uno che
sorga in una repubblica potente, non vi è
piu securo e meno scando- loso modo, che
preoccuparli quelle vie per lo quali
o’vieno a quella potenza. Il popolo molte
volto desidera la rovina sua, ingannato da
una falsa spezie di bene : e come le
grandi speranze e gagliardo promesse facilmente lo
muovono 25S Quanta autorità abbia uno uomo grande
a frenare una moltitudine Quanto facilmente si
conduchino le cose in quella città dove
la moltitu-dine non è corrotta: e che dove è eqnalità,
non si può faro principato;e dove la
non è, non si può far
re-pubblica 26SLVI. Innanzi che seguino i
grandi acci-denti in una città o in una
provin-eia, vengono segui che gli pronosti-cano,
o Domini che gli predicono. PLa plebe
insieme è gagliarda; diper se è deboleLa
moltitudine è più savia e piùcostante che
un principe altri si può più fidare; o
di quellafatta con una repubblica, o di
quellafatta con nno principe Come il
consolato o qualunque altro magistrato in Roma
si dava senzarispetto di età Quale fu
più cagione dello imperioche acquistorono i
Romani, o la virtù,o la fortuna Con quali
popoli i Romani ebbero acombattere, e come
ostinatamentequelli difendevano la loro libertà.
. Roma divenne grande città rovi-nando le
città circonvicine, e rice-vendo i forestieri
facilmente a' suoionori Le repubbliche hanno
tenuti tre modicirca lo ampliare lingue,
insieme con 1~ accidente de-1 diluvi o delle
pesti, spegno la memo-ria dello cose, .
Come i Romani procedevano nel farela guerra
Quanto terreno i Romani davanoper colono La
cagione perchè i popoli si par-tono da’ luoghi
patrii, ed inondano ilpaose altrui Quali
cagioni comunemente faccinoX. I danari non sono
il nervo dellaguerra, secondo elio è la
comune op-pinone Non è partito prudento fare
amici-zia con un principe che abbia
piùoppinione che forze assaltato, inferire, o
aspettare laguerra Che si viene (li bassa a
gran for-tuna più con la fraude, che
con laforza t Ingannansi molte volto gli
uomini,credendo con la nmilità vincere la
su-perbia Gli Stati deboli sempre
fieno ambi-gui nel risolversi: e sempre le
deli-berazioni lente sono nocive Quanto i soldati
ne’ nostri tempi si disformino dalli
antichi ordini . Quanto si debbino stimare
daglieserciti ne’ presenti tempi le
artiglie-rie ; e se quella oppinione che se
neha in universale, è vera Come per I’ autorità
de* Romani,e per lo essempio della antica
mili-zia, si debbe stimare più le
fanterieche i cavagli . Che gli acquisti nelle
repubbli-che non bene ordinate e che secondola
romana virtù non procedono, sonoa rovina,
non a esaltazione di esse .Quale pericolo
porti quel principeo quella repubblica che
si vale dellamilizia ausiliare a mercenaria Il
primo Pretore che i Romanimandarono in
alcun luogo, fu a Capo-va, dopo
quattrocento anni che co-minciarono a far guerra
Quanto siano false molte volte leoppinioni
degli uomini nel giudicarele cose grandi
Quanto i Romani nel giudicarei sudditi per alcuno
accidente che ne-cessitasse tal giudizio,
fuggivano lavia del mezzo Le fortezze
generalmente sonomolto più dannose che utili
Che Io assaltare una città disu-nita,
per occuparla mediante la suadisunione, è
partito contrario. . . . Il vilipendio e
l’improperio ge-nera odio contra a coloro che
l’usa-no, senza alcuna loro utilità Ai principi e
repubbliche pru-denti debbe bastare vincere ;
perchè ilpiù delle volte, quando non
basti, siperde Quanto sia pericoloso ad
unarepubblica o ad uno principe non ven-dicare
una ingiuria fatta contra alpubblico o
contra al privato La fortuna accieca gli
animi de-gli uomini, quando la non vuole
chequelli si opponghino a’ disegni suoi Le
repubbliche e gli principi ve-ramente potenti non
comperano l' ami-cizie con danari, ma con
la virtù econ la riputazione delle
forzo .... Quanto sia pericoloso credere
agli sbanditi In quanti modi i Romani occu-pavano
le terre Come i Romani davano agliloro
capitani degli eserciti le commis-sioni libere A
volere che una setta o una repub-blica viva
lungamente, è necessarioritirarla spesso verso il
suo principio. Come gli è cosa
sapientissima simu-lare in tempo la pazzia 5Come
egli è necessario, a volermantenere una libertà
acquistata dinuovo, ammazzare i figliuoli di
Bru-to Pag-Non vive sicuro un
principe in unprincipato, mentre vivono
coloro chene sono stati spogliati Quello
che fa perdere uno regno aduno re
che sia ereditario di quello . Delle
congiure Donde nasce che le mutazioni
dallalibertà alla servitù, e
dalla servitùalla libertà, alcuna n1 è senza
sangue,alcuna n" è piena Chi vuole alterare
una repubbli-ca, debbo considerare il soggetto
diquella Come conviene variare coi tempi,volendo
sempre aver buona fortuna . Che uu
capitano non può fuggire lagiornata, quando
1’ avversario la vuolfare in ogni modo
Che chi ha a fare con assai, an-cora
Che sia inferiore, purché possasostenere i
primi impeti, vince. . . . Come un capitano
prudente debboimporre ogni necessità di
combattereai suoi soldati, e a quelli delli
minicitorla golP0Ye 8*a Più confidare, o innuo
buono capitano che abbia l;eser-cp° debole,
o in uno buono esercitoche abbia il
capitano debole. Le invenzioni nuove che
appari-scono nel mezzo della zuffa, e le
vocinuove che si odono, quali effetti
fac-cino Come uno e non molti siano
preposti ad uno esercito, o come i piùcomandatori
offendono Che la vera virtù si va ne'
tempidifficili a trovare; e ne* tempi facilinon
gli uomini virtuosi, ma quelliche per
ricchezze o per parentado pre-vagliono, hanno
più graziaChe non si offenda uno, e
poiquel medesimo si mandi in ammini-strazione e
governo d’ importanza. Nessuna cosa è più degna
d' uncapitano, che presentire i partiti delnimico.
Se a reggere una moltitudine èpiù
necessario lo ossequio che la
pena. Uno essempio d'umanità appresso ai
Falisci potette più d' ogni forza romana Donde nasce che Annibale con
diverso modo di procedere da Scipione, fa
quelli medesimi effetti in Italia che
quello in Ispagna. Come la durezza di
Manlio Torquato e l’umanità di Valerio Corvino acquistò
a ciascuno la medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse
cacciato di Roma. La prolungazione degl’imperi fa serva Roma. Della
povertà di Cincinnato, e dimolti cittadini romani. Come per cagione di femmine si
rovina uno Stato . Come e' si ha a
nnire una città divisa; e come quella
oppinione non è vera, che a tenere le città
bisogna tenerle disunite. Che si debbe por
mente alle opere de’ cittadini, perchè
molte volte sotto un’opera pia si nasconde
un principio di tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono
dai principi. Ad uno cittadino che voglia
nella sua repubblica far di sua autorità
alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l’invidia:
e come, venendo il nimico, s’ha a ordinare
la difesa d’una città
Le repubbliche forti o gli uomini
eccellenti ritengono in ogni fortuna il
medesimo animo e la loro medesima dignità. Quali
modi hanno tenuti alcuni a turbare una paco. Egli
è necessario, a voler vincere una giornata, fare l’esercito
conattente ed infra loro, e con il capittano.
Quale fama o voce o oppinione fa che il
popolo comincia a favorire un cittadino: e se
ei distribuisce I magistrati con maggior
prudenza che un principe. Quali pericoli si
portino nel farsi capo a consigliare una cosa; e
quanto ella ha più dello straordinario, maggiori
pericoli vi si corrono . La cagione perchè i
Franciosi sono stati e sono ancora giudicati nelle
zuffe da principio più che uomini, e dipoi
meno che femmine . Se le piccolo
battaglie innanzi alla giornata sono necessarie,
e come si debbo fare a conoscere un nimico nuovo,
volendo fuggire quelle . Come debbe esser
fatto un capitano nel quale 1’esercito suo
possa confidare Che un capitano debbe esser conoscitore
dei siti Come usare la fraudo nel
maneggiare la guerra è cosa gloriosa. .
Che la patria si debbe difendere o con
ignominia o con gloria; ed in qualunque
modo è ben difesa Che le promesse fatte
per forza non si debbono osservare Clie gli
uomini che nascono in una provincia,
osservano per tutti I tempi quasi quella
medesima natura E’ si ottiene con
l'impeto e con 1’audacia molte volte quello
che con modi ordinari non si otterrebbe
mai . Qual sia miglior
partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de'
nimici, e sostenuto urtargli; ovvero dapprima con
furia assaltargli Donde nasce che una
famiglia in una città tiene un tempo i
medesimi costumi Che un buon cittadino per amore della patria debbe dimenticare l’ingiurie
private. Quando si vede fare uno errore, grande ad un nimico,
si debbe credere die vi sia sotto inganno. Una
repubblica, a volerla mantenere libera, ha
ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti; e
per quali meriti Quinto Fabio è chiamato
Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Livio” – The Swmming-Pool Library, Villa Speranza. For H. P. G.
Grice’s Gruppo di Gioco. Tito Livio.
Grice e Lodovici: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della virtù – verso la meta –
la meta è l’origine -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Messina). Filosofo
italiano. – Grice: “I like Emanuele
Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is good!” -- samek
lodovici -- one of the two. Il
suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al materialismo e al riduzionismo.
Esperto della filosofia di Plotino, Sant'Agostino e Marx, si occupa dello
gnosticismo che a suo parere si trova ripresentato in diverse filosofie e
ideologie dell'età moderna e contemporanea. Figlio del bibliotecario e
bibliografo Sergio Samek Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello
maggiore, noto medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi
vivere sempre a Milano. Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga,
quando dopo il naufragio di un'imbarcazione carica di bambini era stato
inserito nel gruppo delle piccole salme, ma il tempestivo intervento di un
medico lo salvò. Di formazione e cultura cattoliche, studia a Milano dove si
laurea con «Filosofia classica e spiritualità cristiana nel Commento di
Sant'Agostino al Vangelo di San Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due
monografie, una su Agostino (con il contributo del C.N.R.), e l'altra sulla
gnosi moderna, che gli valsero la cattedra di Filosofia a Trieste. In una lettera Noce si riferiva così. Nella
prima delle sue due opere fondamentali, Dio e mondo, inizia considerando la
grave accusa rivolta da Heidegger alla metafisica, ovvero di non aver compreso
che cos'è l'«essere» e di aver reificato Dio, di averlo cioè reso una
«cosa». Questa critica può essere legittima ma non nei riguardi della
metafisica neoplatonica nella forma in cui è stata mediata da Agostino. Individua
il fulcro di tale metafisica nella dottrina della «partecipazione» delle idee
col mondo, in forza della quale il rapporto di Dio col mondo è una relazione
sostanziale e non oggettualità. In Metamorfosi della gnosi, delinea una
fenomenologia della cultura come influenzata da una mentalità inconsciamente
gnostica. Tale mentalità ha assunto in sé le tesi dello gnosticismo antico,
ovvero la sostanziale negatività del mondo, la possibilità di redenzione dalla
oscurità del mondo attraverso un sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di
un redenzione del mondo realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla
sola azione dell'uomo tramite la politica e/o la scienza. Così nel
pensiero gnostico la finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e
rifiutate, con l'ambizione di creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena.
Insomma, sintesi del pensiero gnostico è quella formulazione che trova il
proprio culmine nel «rifiuto di non poter essere Dio»; in tal modo nella
visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo gnostico a identificarsi con
l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi limite. Da ciò appaiono evidenti
gli obiettivi polemici e critici di ogni metamorfosi dello gnosticismo rappresentato
nelle forme del riduzionismo antireligioso, del prometeismo marxista,
della filosofia radical-relativista diffusa attraverso i media, della
corruzione della memoria storica attuata anche attraverso la corruzione del
linguaggio ed infine nella strategia della distruzione della famiglia, che è
stata potentemente colpita in particolare con la rivoluzione sessuale e con
alcuni tipi di femminismo. Per quanto riguarda la sua pars construens,
Safferma che proprio a partire dalla post-marxistica crisi del pensiero
secolarista gnostico si deve delineare la necessità di ritornare alla tradizione
metafisica, da lui indicata sulla linea di Platone, Plotino e soprattutto
Agostino. In sintonia con l'ermeneutica
contemporanea, e pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura
storicamente condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della
conoscenza, secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non
ha le cose», e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa
del linguaggio per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo
con cui l'uomo storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio
stesso (i baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca
la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime
potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i
limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono
specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica
idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che «ha affermato la libertà politica da ogni
autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha
affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha
affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per
prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»
Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la
religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le
risposte prime ed ultime. Tipica poi del suo pensiero è la «cultura del ricordo», intesa come
cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai
fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e
dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i
totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo
e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che «mi rende migliore di quello che sono». La
riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole
che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che,
per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo
onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è
nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza
quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò
«non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo
sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che
trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la
coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo
spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente,
come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli
esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “
Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e
Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino,
in Questioni di storiografia filosofica,
La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e
Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in,
Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di
cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli, La felicità e la crisi della cultura radicale
ed illuministica, in La crisi della
coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e
mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares, Dominio dell'istante, dominio della morte.
Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di
studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di
Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il
gusto del sapere Estratti di L'arte di
non disperare M. Picker, Il mio professore di filosofia, Studi
Cattolici, Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo,
Catania. Giacomo L., Profili. L., Studi Cattolici, Sciffo, Le maschere della
gnosi, «Avvenire», Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza.,
in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles,
La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Fumagalli, L. e
Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/ tesi.pdf
Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre,
una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivio
Storico Articolo-emanuele-samek- lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il
ritorno della gnosi, in «Avvenire», Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano. Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu
su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Il gusto del sapere Universitas, Documentazione
interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione
nell'analisi” Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la
gnosi come vero avversario della verità di Restelli, sito "Cultura Cattolica.
Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale, il sessuale – la
sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir, virile,
virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The Swimming-Pool
Library.
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