“ L. CoLiturat e L. Leau. Histoire de la Langue unl- verselle Paris, Hachette, 1904. (Rivista Utosofica, fase. 4, settembre-ottobre 1904). Non è solo pel fatto di contenere un’esposizione accurata e particolareg- giata dei numerosi progetti di lingua universale che si sono succeduti a comin- ciare dai primi di cui si abbia notizia (Urchard ,653, Dalgarno 1661. Wilkins .668) fino ai piu recenti e contemporanei, che il presente volume ha il diritto di in- titolarsi una Storta della questione della lingua internazionale. Esso merita tale titolo anche in un altro e più importante’ senso, in quanto 1 SUOI autori riescono con esso a provare che la serie di tentativi da essi presi in considerazione, lungi dal presentare l’aspetto d’una successione di sforzi in- dipendenti e incoerenti, lascia trasparire le traccie di una graduale evoluzione verso uno schema il cui carattere generale è già fin d’ora suscettibile di un’ap- prossimata determinazione, e le cui linee fondamentali vengono in certo modo a sovrapporsi a quelle segnate dal processo spontaneo che porta irresistibil- mente, per quanto lentamente, le nazioni civili ad aumentare sempre più il pa- trimonio di vocaboli e di espressioni che possiedono in comune. .e persone, anche colte, che non hanno avuto occasione di riflettere sull’argo- mento non si fanno facilmente un’ idea esatta della quantità di parole « inter- naziona 1 » che esse adoperano, e della parte sempre crescente che queste ven- gono ad occupare, non dico nei dizionari compilati dai letterati o dai puristi ma nel dizionario reale ed effettivo dell’uso corrente, nella lista cioè dei voca- boli del CUI sipificato si esige e si presuppone la conoscenza anche in chi non conosca altra lingua che la propria. Così, per esempio, nessun italiano potrebbe addurre la sua ignoranza del francese o del tedesco, come giustificazione del suo non conoscere il senso di parole come le seguenti, òuffet, bureau, chèque, club, hotel, itufiresario, meeting, menu, restaurant, rdclame, record, reporter revol ver, sport toilette, traimvay, tunnel, etc. Il che vuol dire che, se si prende come criterio dell < italianità. » di una parola il fatto che essa sia usata e intesa agli Italiani (e non si vede quale altro criterio si potrebbe prendere, da chi a meno non sia disposto a negare che siano italiane anche le parole alcool, ze- 542 GIOVANNI VAILATI 7itth, ovest, gas pel fatto che esse ci provengono dall’arabo o dall’olandese), i vocaboli sopra riportati hanno ben più diritto a essere qualificati come italiani di quanto ne abbiano tanti altri che i dizionari registrano solo perchè usati da scrittori di qualche secolo fa : come, per esempio, « allotta », « arrogi », < gtta- gnele », « millanta », etc. Ne al fatto che alcune delle suddette parole contengono lettere o sillabe aventi valore fonetico diverso da quello che loro spetterebbe nella nostra « or- tografia » può essere ormai attribuita molta importanza dal momento che tale circostanza non è più considerata come un ostacolo alla trascrizione esatta dei nomi proprii stranieri di luogo e di persona. Le esigenze pratiche si alleano ora al senso estetico per trattenerci dallo scrivere Stoccarda o Conisberga invece di Stuttgart e di Konigsberg. E se a molti non ripugna ancora lo scrivere Volfango invece di Wolfgang, a nessuno verrebbe certo ora in mente di imitare il Vico citando Descartes sotto il nome di Renato delle Carte. Un esempio caratteristico di creazione di nuove parole internazionali mediante un espresso accordo tra gii interessati ci è fornito dal sistema di unita C. G. S. adottato e promulgato dal Congresso internazionale degli elettricisti, tenuto a Parigi nel 1881, e le cui denominazioni sotto forma invariabile {volt, ampire, ohm, etc.) sono ora adoperate dagli scienziati e dagli elettrotecnici di ogni nazione. La gran maggioranza tuttavia delle parole che possono praticamente essere riguardate come già in effetto internazionali non è costituita da quelle che figu- rano nelle varie lingue sotto forma assolutamente identica, ma bensì da quelle che vi si trovano leggermente modificate, sopratutto nella desinenza, a seconda dell’ indole dei rispettivi linguaggi, come avviene ad esempio per le parole : caffè, cioccolata, tabacco, garanzia, posta, vagone, consolato , oasi, concerto, etc. E in questa categoria che rientrano i numerosi termini tecnici (di scienze, di arti, di sostanze chimiche, di strumenti, di malattie, etc.) derivati dal greco, come chi- rurgo, estetica, ossigeno, fonografo, emicrania, etc. A projiosito dei quali giova notare come parecchie radici o prefissi greci (come —logo, —grafo, z=.geno, fono—, termozzz, baro=, archi—, end—, anti—, i^o — , filo — , geo—, etc.) pure non figurando, sotto qualsiasi forma, come parole isolate, nel dizionario di alcuna lingua moderna, tuttavia per il solo fatto di trovarsi ripetutamente adoperati, e con un senso ben determinato, nella compo- sizione di parole appartenenti a ogni linguaggio civile, finiscono per essere cor- rettamente interpretate anche da chi si trovi sprovvisto di qualsiasi conoscenza della lingua dalla quale provengono. La stessa osservazione si può ripetere per quei vocaboli latini che, pure non potendo essere qualificati come internazionali nel senso che essi apparten- gano ad altre lingue oltre che alle neolatine, lo sono tuttavia nel senso che le lingue neolatine non sono le sole nelle quali esse figurano come elementi di pa- role composte. Cosi per esempio le parole latine : navts, oculus, currere, secretum, ovum, pubblicus, annus, etc. non possono essere riguardate come del tutto estranee all’ inglese e al tedesco dal momento che a queste lingue appartengono le pa- role Oculist, concurrence, secretary, ovai, Publizist, Annalen, etc. E specialmente in virtù di questa circostanza che i più recenti progetti di “ L. COUTUKAT K L. LEAU, HISTOIRE DE EA LANGUE UNIVERSELLE ” 543 lingua universale, quanto più deliberatamente si propongono di costruire il di zionario in base al criterio pratico della massima effettività internazionale delle singole parole o radici (criterio che viene a essere naturalmente imposto dalla necessità di ridurre al minimo gli sforzi richiesti dall’apprendimento di arole interamente nuove da parte di chi conosca già qualcuna delle lingue civib''eu- ropee, e dalla convenienza di rendere il dizionario della lingua internazionale quanto più è possibile utile per facilitare l'eventuale apprendimento delle lino-ue civili europee da parte di chi non ne conosca alcuna), tanto più si trovano con- dotti ad attribuire una parte preponderante aU’elemento latino. La maggior parte di tali progetti finiscono anzi per differire tra loro assai meno di quanto possano differire due dialetti di una stessa lingua, e per avvi- cinarsi anche senza volerlo, per ciò almeno che riguarda il dizionario, ai pro- getti avanzad dai fautori di un ritorno all’uso internazionale del latino, in quanto anche questi sono costretti ad ammettere i neologismi indispensabili per espri- mere cose e concetti moderni, e a rinunciare quindi a qualunque pretesa puri- stica e letteraria. ^ Come è naturale, il latino più ricco di elementi internazionali non è quello classico di Cicerone o di Tacito, ma quello usato dagli scolastici e dagli scien- ziati del medio evo ; non quello, per esempio, in cui il Ministero della pubblica istruzione sarebbe chiamato Summus moderator shidiortcm, ma quello in cui ver- rebbe semplicemente indicato come Minister pttMicae instructionis o, anche me- glio, de puèlica instricctioìie. Ma a rendere difficile un completo accordo tra i fautori di un latino co- munque modernizzato e semplificato, e quelli che propongono la costruzione d una lingua affatto artificiale, per quanto costruita con materiali tolti in gran parte dal latino, si presentano le questioni relative alla grammatica. Benché gli uni e gli altri si trovino d’accordo nel riconoscere che le difficoltà inerenti all’adozione del latino come lingua internazionale potrebbero venir no- tevolmente diminuite coll’ introdurre nella sua grammatica delle modificazioni semplificatrici d’ indole analoga a quelle che si sono spontaneamente prodotte ne le lingue neolatine, pure essi non cessano per ciò di differire grandemente nell apprezzamento dei criteri da seguire in tale semplificazione. Vi è chi si contenterebbe di regolarizzare le declinazioni 0 le coniugazioni, togliendo la loro inutile molteplicità e permettendo, per esempio, che si dicesse ati t o e legebo come si dice amabo e monebo, o loqtiivi, currivi invece di locutus S2tm e di czicurn. Altri abolirebbero senz’altro ogni declinazione dei nomi in- dicando invece i vari casi colle preposizioni come fanno le lingue neolatine 1 armenti sopprimerebbero le varie flessioni dei verbi corrisj.ondenti alle per- sone, bastando, per distinguere queste, T impiego dei pronomi. Anche per indicare i diversi tempi dei verbi v’è chi propone si abbandoni 1 impiego di speciali desinenze o modificazioni adottando invece l’artificio dei verbi ausiliari (anche per il futuro). Un passo piu avanti è fatto da quelli che propongono si abolisca la di- stinzione tra i generi dei nomi e tutte le regole di concordanza ad essa rela- tive, indicando solo, quando occorra, il sesso con uno speciale prefisso come si fa in inglese {he-goat, she-goat). Ne qui SI arrestano le proposte di semplificazioni, tra le quali la più radi- 544 GIOVANNI VAILATI cale è rappresentata dal « Latino sine flexione » del prof. G. Peano (‘), riat- taccantesi a un ordine di ricerche il cui primo impulso risale al Leibniz. Già questi aveva osservato che, allo stesso modo come l’uso delle propo- sizioni rende inutili, pei nomi, le flessioni corrispondenti ai differenti casi, così anche l’uso delle congiunzioni potrebbe sostituire, per i verbi, le flessioni indi- canti i differenti modi. Così, per esempio, la differenza di significato tra l’ indicativo e il soggiun- tivo è già sufficientemente espressa dalla sola presenza, per il secondo, delle congiunzioni : ut, quod, si, etc. Non occorre quasi notare che anche il modo imperativo non ha affatto bi- sogno di venire indicato da alcuna modificazione del verbo, bastando a ciò pre- mettere (o far seguire) a questo l’ indicazione del comando o del desiderio {opto, peto, quaeso, etc.) come già del resto si pratica in più d’una lingua {please, bitte, s’il vous plait, etc.). Un’ idea più ardita, suggerita pure dal Leibniz al Peano, è quella dell’ inuti- lità di qualsiasi flessione per indicare il plurale dei nomi {videtnr pluralis inutilis in lingtia rationali) (-). La distinzione tra singolare e plurale sembra al Peano possa essere sufficientemente espressa dal semplice premettere al nome, quando occorra, un aggettivo numerale, U7tus, aliqtds, omnis, plurcs, duo, diversi, etc.). A questa .ste.ssa conclusione era pure antecedentemente venuto anche un altro matematico che si occupò molto a fondo delle questioni relative alla gram- matica razionale, il prof. Giusto Pellavitis (Università di Padova), di cui l’ im- portante scritto, portante il titolo « Pensieri sopra ima lingua universale c su alcuni argomcnli analoghi » (Memorie dell’ I. R. Istituto Veneto, 1862), è sfug- gito* * all’attenzione del Couturat. Tra le altre proposte originali e suggestive che lo scritto del Bellavitis contiene è da notare quella relativa all’adozione di una speciale preposizione anche per distinguere il soggetto dal predicato di una proposizione, da adope- rare, s’ intende, .solo quando ve ne sia bisogno. Tale è il caso per esempio quando si tratti di una proposizione il cui soggetto o attributo sia rappresen- tato da un pronome relativo, il quale, per ragione di chiarezza, non può venire troppo allontanato dal precedente nome cui si riferisce, e non può quindi indi- care, per mezzo della sua posizione rispetto al verbo, se debba essere inteso come il suo soggetto o il suo predicato. Questa osservazione del Bellavitis non è priva anche di una certa impor- tanza filosofica in quanto costituisce in sostanza una critica della distinzione tra verbi transitivi e intransitivi e di quella tra verbi attivi e passivi. Essa mira infatti a sottoporre non solo l’accusativo (come già avviene in alcune lingue, p. e. nella spaglinola), ma anche il nominativo (^) a norme analoghe a quelle che reggono gli altri casi, sopprimendo l’inutile complicazione della costruzione (') Alti della R. Accademia di Scienze di Torino (gennaio 1904). (*) Leibniz. Opusculcs el Fragnicnt inédils publiés par L. Couturat (1908), pag. 281. (®) II Bellavitis ha avuto su questo punto dei precursori fra gli scolastici, in Occam e Alberto di Sassonia. L’apprezzamento espresso su quest’ultimo dal Franti, (nella sua Storia della Logica in Occidente), precisamente a questo proposito, è da deplorare come erroneo e ingiusto. L. COUTURAT E L. LEAU, HISTOIRE DE LA LANGUE UNIVEKSELLE 545 passiva, ed emancipando nello stesso tempo la frase da ogni restrizione relativa alla collocazione delle sue varie parti rispetto al verbo. Anche sull’uso degli articoli e delle particelle dimostrative le osservazioni del Bellavitis apportano un contributo prezioso alla soluzione delle controversie che ancora si dibattono tra gli autori di vari progetti di c grammatica ra- zionale ». Un concetto dominante sul quale egli ritorna frequentemente è questo che l’adozione di date preposizioni o congiunzioni o articoli (« voci grammaticali » come egli le chiama) per indicare date relazioni tra le parti d’una frase "non implica che tali voci devano essere sempre adoperate per esprimerle : esse pos- sono e devono invece essere omesse ogniqualvolta la loro assenza non pro- duca ambiguità. 'lutte queste « semplificazioni », le quali, del resto, potrebbero applicarsi, come al latino, anche a qualsiasi altra lingua, finiscono, come si vede, per far capo al concetto di un linguaggio suscettibile di venir compreso e adoperato indipendentemente dalla conoscenza di qualsiasi regola grammaticale. E in fondo l’ideale che si presentava già alla mente di Descartes in quella sua lettera al Padre Mersenne (29 Novembre 1629) nella quale, discutendo un progetto di ignoto autore che riteneva aver costruito un linguaggio atto a es- sere interpretato e scritto col solo aiuto di un dizionario, concludeva che « ce ne sera pas mcrvetlle que les esprits vulgatres apprennent cn moins de six heures à composer en cette languc ». (Descartes, Oeuvres. Edit. Tannery et Adam I, 76). Ed e questa stessa idea d una lingua artificiale, costruita, per quanto ri- guarda il dizionario, con materiali tolti alle lingue viventi e sottoposta invece, per quanto riguarda la grammatica, alla massima semplificazione razionale, che il Rcnouvler sembra avere in vista in quella frase, quasi profetica, che appunto il Couturat riporta a questo proposito (pag. 75-0, 514): *■ La languc universclle doti ciré cmpiriquc par son vocabulairc et philosophique par sa grammaire ». (Re- NOUVlER, De la question de la languc universellc au XIX Siècle, « La Revue », aofit, 1855). Non voglio chiudere il presente cenno senza richiamare l’attenzione su un altro scritto italiano sul soggetto della lingua universale, del quale pure non è fatta menzione nel volume di cui parliamo. Esso fu pubblicato a Roma, l’anno 1774, col titolo : « Riflessioni intorno al! istituzione d’una Kngtia universale. Lettera di Glice Ceresiano a Giotto fllo Eugenio ». L’autore ne è il P. Francesco Soave, il quale si propone in esso di esami- nare un progetto di lingua universale pubblicato l’anno prima a Berlino, da G. Kalmar. Questo è tutto ciò che mi ò riuscito di sapere sul contenuto del detto opu- scolo, che finora non sono stato in grado di rintracciare e che conosco solo dalla menzione che ne è fatta in un’altra opera italiana, pure ignorata dal Cou- turat (Gaetano Ferrari, Monoglottica, Modena, 1877). Di quest’ultima ebbi conoscenza per mezzo del dott. prof. Cesare Meriggi, appassionato cultore di questi studi e autore lui pure di un progetto di cui sono segnate le traccio in un volumetto pubblicato a Pavia (1884, Frat. Fusi). Como,
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