Grice e Campailla: l’implicatura
conversazionale del concetto di estassi – implicatura estasica – a room in
Bloomsbury -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Modica).
Filosofo italiano. Grice: “You have to love Campailla; when I philosophised on
‘be orderly,’ I was drawing from Campailla: “Order is the first – ‘ordinato
discorso dell’uomo;’ Campailla flouts the maxim: he allows that a man in
ecstasi, in mutual contemplation of beauty, say, may lose the order – Oddly,
Campailla dedicates more than a section to, then, ‘del disordinato discorso
dell’uomo,’ or men, as we’d prefer!”
Grice: “You’ve gotta love Campailla – I would have preferred he chose
the Graeco-Roman mythology, but he chose “Adamo,” and he provides, in verse,
all I ever philosophised on – human discourse – discorso umano – on top, he
considers ‘amore’ as a ‘passione dell’anima,’ and speaks of ‘self-love’ (amore
proprio) and even virility and testicles – a Renaissance man!” Nasce sotto la
rupe del Castello dei Conti. C., incisione dall'Adamo (Roma-Palermo) Mostrò le
sue migliori doti d'ingegno in età matura, giacché, in gioventù, per la sua
gracile costituzione, il padre preferì educarlo in campagna affinché si
irrobustisse all'aria aperta, piuttosto che indirizzarlo agli studi. Si trasfere
a Catania per studiarvi giurisprudenza, ma l'improvvisa morte del padre, che lo
lasciava erede di un discreto patrimonio, lo costrinse a ritornare nella città
natale, la sua cara Modica, in cui rimase fino alla morte, senza mai muoversi
da essa. Lì, poté dedicarsi interamente agli amati studi, prevalentemente
da autodidatta, coltivando con passione ed abnegazione, fra le tante
discipline, l'astronomia, le lettere e la filosofia. Sempre da autodidatta,
studiò Aristotele e i classici, per poi dedicarsi alla fisica, forse spinto
dall'onda emotiva suscitata dal terribile sisma che distrusse Modica e tutto il
Val di Noto. Morì per un colpo apoplettico.. Il suo corpo fu sepolto
sotto l'altare maggiore del duomo di San Giorgio in Modica, del quale una
lapide, deposta alla sinistra dell'ingresso principale, lo ricorda. C.,
filosofo e poeta Studioso di Cartesio, che vuole conciliare con la filosofia
scolastica, ne applicò i principi alle sue indagini conoscitive, fatte di
osservazione ed esperimenti, divenendo, insieme col filosofo trapanese
Michelangelo Fardella, uno dei principali divulgatori delle teorie cartesiane
in Sicilia. Poeta raffinato, fu accademico degli Assorditi di Urbino, dei
Geniali di Palermo, e della più celebre Accademia degli Arcadi di Roma;
restaurò quindi l'Accademia degli Infocati nella sua città natale. Da alle
stampe i primi sei canti (ispirati ai moduli letterari lucreziani) del poema
filosofico, in due parti, L'Adamo, ovvero il Mondo Creato, successivamente
dedicato, nella sua stesura completa (in XX canti) a Carlo VI d'Austria,
Imperatore e Re di Sicilia. Il poema, che conobbe una discreta fortuna e che è
stato recentemente ristampato, rappresenta una summa delle idee teologiche,
cosmologiche, fisiche e filosofiche dell'autore, alla luce del cartesianesimo.
All'inizio del Settecento, la fama del C., tra l'altro in corrispondenza
epistolare con importanti personalità fra i quali Ludovico Antonio Muratori
(bibliotecario del Duca di Modena), si diffuse anche all'estero, toccando
Lipsia, Parigi, Londra, tanto che il filosofo Berkeley volle conoscerlo
personalmente e, poiché C. non si muoveva mai dalla sua città natale (come
Kant), fu lo stesso Berkeley a recarsi in Sicilia a trovarlo, informandolo fra
l'altro delle nuove teorie newtoniane, le quali verranno poi usate dal C. nelle
sue successive opere. Il Muratori si fece intermediario persino per una
cattedra all'Padova da assegnargli, invito che venne pure da Londra, ma il suo
ostinato rifiuto a viaggiare e lasciare la sua Modica (in ciò, ancora simile a
Kant) lo portò a declinare tali prestigiose ed onorevoli proposte. Per lo
stesso motivo, invitato ad assistere all'incoronazione a Re di Sicilia, nella
Cattedrale di Palermo, del Duca Vittorio Amedeo II di Savoia, disdisse
gentilmente la visita. Pubblica, rimanendo però incompiuto, il poema
sacro L'Apocalisse di San Paolo, in cui, oltre ad affrontare i temi della
grazia e della virtù attiva, fornì pure una personale confutazione delle teorie
di Miguel Molinos, fondatore del "Quietismo", un'eresia che aspirava
all'unificazione con Dio. Infine, nello stesso periodo, iniziò a scrivere il
primo volume di un'opera sistematica intitolata Opuscoli filosofici, di cui
uscì solo il primo volume (in dialoghi) intitolato Considerazioni sopra la
fisica di Newton, contemporaneamente alla stesura di un trattato, in due
volumi, di fisica cartesiana, pubblicato postumo sotto il titolo Filosofia per
principi e cavalieri. La cura della sifilide con le botti di C. Pur non
essendo medico di professione, C. riuscì tuttavia a promuovere, nella Contea di
Modica, gli studi di medicina. Infatti, il suo impegno, quasi umanitario, lo
portò a sperimentare le sue famose "botti" (dette poi botti del C.)
per la cura non solo della sifilide (considerata, allora, il male del secolo, e
ritenuta dalla Chiesa come un castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma
anche dei reumatismi e, in genere, di qualunque forma di artrosi. La
"botte", in realtà, è una stufa mercuriale con all'interno uno
sgabello, sul quale il paziente veniva fatto sedere, in attesa della cura.
Questa consisteva nel versare, in un braciere che si trovava pure all'interno
della stufa, la relativa dose di cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano
dei vapori di mercurio, che erano poi assorbiti dal corpo del paziente in piena
sudorazione. La novità introdotta dal C. consistette nell'aggiunta di incenso
all'interno della botte, in una dose che consentiva, ai vapori sprigionati, di
essere più "respirabili" per un certo lasso di tempo, variabile dai
10 ai 20 minuti circa, a seconda dalle condizioni soggettive del
paziente. Il contributo del Campailla consentì pure di modificare la
forma della botte, rispetto alle altre già esistenti in Italia ed in Europa, le
quali avevano un foro in alto da cui fuoriusciva la testa del paziente che, in
tal modo, non poteva respirare i vapori di mercurio medicamentosi. Tuttavia,
questi vapori, così esalati, erano curativi solamente per i sifilomi che
infestavano la cute, i quali regredivano sì ma senza remissione del morbo (che
solo con l'avvento della penicillina si debellerà), con i germi patogeni che
continuavano ad agire e moltiplicarsi nel sangue dei soggetti infetti.
Invece, grazie all'innovazione del C., i pazienti, completamente all'interno
della botte, potevano ora respirare la miscela di mercurio e incenso, la quale,
agendo così in modo sottocutaneo, uccideva i germi diminuendone la carica
patogena; spesso, si ottenevano delle guarigioni, a volte anche definitive,
che, all'epoca, venivano considerate quasi miracolose. Infatti, un rapporto
medico dell'epoca riferisce che " [...] Dopo la cura mercuriale col
metodo C., si può assistere a delle rinascite complete di individui ridotti in
condizioni impressionanti di cachessia o con lesioni tali da rendersi
impossibile qualsiasi intervento curativo per via percutanea o
ipodermica". I risultati furono talmente soddisfacenti che
Modica acquisì notorietà in tutta Europa proprio per le botti del Campailla,
ancor oggi esistenti all'interno dell'antico Ospedale di S. Maria della Pietà e
visitabili all'interno di un percorso museale appositamente dedicato.
Negli anni a venire, le botti del C. furono, ma con scarsi risultati, imitate
altrove, sia in Italia che all'estero: ad esempio, sorse a Palermo, per volere
del prof. Mannino della locale facoltà di Medicina, un Sanatorio C. Fu poi costruita, a Roma, una cosiddetta Botte di
Modica; a Milano, ancora negli anni '50, furono costruite botti di vetro sul
modello di quelle del C.; mentre, a Parigi, furono fondati istituti a
imitazione del Sifilocomio C.palermitano, per la cura delle malattie reumatiche
e nevralgiche. Teatro La rappresentazione Cygnus, atto unico scritto da
Nausica Zocco, prende spunto dalla vita e dalle opere di Tommaso Campailla, ed
è stato portato in scena l'8 maggio a
Modica, per la regia di Tiziana Spadaro. Note L'esatta data di nascita è riscontrabile,
come quella di morte, negli appositi registri dell'Archivio Parrocchiale della Chiesa
Madre di San Giorgio in Modica. Taluni,
sulla base di nessuna fonte storica attendibile, hanno diffuso l'infondata
notizia secondo cui C. stesso sia stato vittima della sifilide, contrariamente
al fatto che lo studioso modicano costruì comunque le sue botti, per il
trattamento di questa infezione quando aveva solo 30 anni, ma morì a 72 anni,
età veneranda e considerevole, per quei tempi, in cui la vita media di un
individuo di sesso maschile era di 55-58 anni, per non tener conto poi del
fatto che, nel Settecento (e così, fino all'avvento degli antibiotici nel
Novecento), un sifilitico aveva comunque delle bassissime aspettative di vita
dopo il manifestarsi della malattia, dell'ordine di pochissimi anni. Ad ogni
modo, le botti del C. raccolsero, per molti decenni, un gran numero di pareri
positivi a favore di un loro benefico influsso contro il morbo. C.,
"L'Adamo" ovvero "Il mondo creato" poema filosofico, Volume
unico, Messina, Chiaramonte e Provenzano, treccani/enciclopedia Cfr. D. Scinà, Prospetto della storia
letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Tipografia Lorenzo Dato, Palermo,
Tratto dalla Rassegna di Clinica, Terapia e Scienze Affini, Secondio Sinesio,
Vita del celebre filosofo, e poeta Signor D. C. , Patrizio modicano, Siracusa,
1783; ristampa Modica. Guccione, C. ed il suo museo in Modica, Leggio &
Diquattro, Ragusa, Ottaviano, Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione
e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note Domenico
D'Orsi, MILANI, Padova, Criscione, C. Un poeta e filosofo modicano, Idealprint,
Modica, Guccione, C. il suo museo, la scuola medica modicana, Comune di Modica,
Modica, C. e la Scuola Medica Modicana, Ed. Ingegni Cultura Modica, Modica. C.,
su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di C., su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Sotto il titolo “Disordinato discorso dell’uomo” sono raccolti due saggi
pioneristici del filosofo modicano sul ruolo della mente nei sogni, nel
delirio, nell’estasi e nella follia. L'estasi (dal greco ἔκστασις, composto di ἐκ
o ἐξ + στάσις, ex-stasis,[1] «essere fuori») è uno stato psichico di
sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come
estraniata dal corpo: da qui la sua etimologia, a indicare un «uscire fuori di
sé». Nonostante la diversità delle religioni, culture e popoli in cui l'estasi
è stata sperimentata, le descrizioni circa il modo in cui essa viene raggiunta
risultano straordinariamente simili. Si afferma di provare in questi momenti
una sorta di annullamento di sé, e di identificazione con Dio o con
l'"Anima del mondo". Descrizione ed effetti. Manifestazioni
dell'estasi nell'antichità. Il corteo dionisiaco 2.2 L'estasi oracolare 2.2.1 Figure
oracolari 3 L'estasi nelle filosofie orientali 4L'estasi in Plotino 5L'estasi
cristiana 6L'estasi paradisiaca in Dante 7Il Rinascimento 8L'Ottocento e il
Romanticismo. Descrizione ed effetti Psichicamente è caratterizzata dalla
cessazione di ogni attività da parte dell'emisfero cerebrale sinistro (noto
anche come emisfero dominante o della "razionalità discorsiva"),
consentendo così all'emisfero destro (quello recessivo o passivo, detto anche
"emotivo") di attivarsi. È uno stato di estrema concentrazione simile
per certi versi all'ipnosi, quando ad esempio la mente rimane attonita nel
fissare un punto o un oggetto, dimentica di ogni altro pensiero. Generalmente
produce uno stato di notevole beatitudine e benessere interiore. Manifestazioni
dell'estasi nell'antichità Una simile condizione mentale era nota sin
dall'antichità ed era considerata manifestazione diretta della
divinità.[4] Il corteo dionisiaco Nell'antica Grecia erano famose le
menadi (o Baccanti), donne greche che partecipavano a riti non ufficiali. Si
trattava di culti misterici e iniziatici che si svolgevano al di fuori delle
mura della città ed erano aperti agli emarginati della società, quali appunto
le donne, gli schiavi e i meteci. I protagonisti di questi culti (detti anche
Misteri, connessi sia ai riti dionisiaci che a quelli orfici sorti intorno al
VII secolo a.C.), presi in uno stato di trance o estasi ballavano sfrenatamente
e uccidevano a mani nude degli animali. Si trattava di elementi legati
all'aspetto esoterico della religione greca, che convivevano sotterraneamente
con l'exoterismo della religiosità tradizionale.[6] L'estasi oracolare
L'estasi era ciò che rendeva possibili gli Oracoli, essendo vissuta come
momento di tramite fra la dimensione terrena e quella ultramondana. A volte lo
stato di estasi veniva raggiunto artificialmente mediante l'uso di sostanze
psicotrope; la persona coinvolta era portata così a compiere gesti o azioni
insoliti.[7] Figure oracolari Figure emblematiche e famose per le loro
estasi collegate al dono della profezia erano le Sibille, donne laiche che
gravitavano presso un tempio di Apollo proprio per la loro capacità di
connettersi col divino, che proferivano i loro responsi restando nell'ombra,
non mostrandosi facilmente agli umani che le avessero consultate ed
interrogate; oppure poi la Pizia vera e propria sacerdotessa di Apollo che
dimorava nel famoso santuario apollineo di Delfi, la quale si mostrava ai
fedeli e proferiva gli oracoli dopo appositi riti e sacrifici. La Pizia
raggiungeva uno stato di estasi indotto dai vapori inebrianti che uscivano da
una spaccatura del suolo, durante il quale proferiva gli oracoli. In Magna
Grecia era invece famosa la Sibilla di Cuma, antica città greca situata nei
Campi Flegrei. I responsi delle Sibille tuttavia erano spesso oscuri e non
facilmente interpretabili, venendo compresi ora in un senso, ora in un
altro.[9] L'estasi nelle filosofie orientali Nelle religioni asiatiche,
come l'induismo, il taoismo, e soprattutto il buddismo, l'estasi è il momento
sacro in cui avviene l'illuminazione, ed è il pieno sviluppo delle potenzialità
e delle qualità naturali presenti nell'individuo. Questo stato è anche chiamato
onniscienza oppure saggezza suprema e perfetta, dal sanscrito
anuttarā-samyak-saṃbodhi, comunemente detta semplicemente Bodhi, e corrisponde
all'illuminazione del Buddha; è lo stato in cui la mente diventa illimitata e
non più separata dal resto del mondo, il punto in cui il microcosmo della
persona si fonde con il macrocosmo dell'universo. Diventa così possibile una
condizione di nirvana, alla quale ci si allena sotto la guida di un maestro
tramite la meditazione, cioè la concentrazione su di sé e la consapevolezza
della propria energia. L'estasi in Plotino Secondo Plotino (filosofo
ellenistico neoplatonico), l'estasi è il culmine delle possibilità umane, che
avviene dopo aver compiuto a ritroso il processo di emanazione da Dio: essa è
un'autocoscienza, ed è la meta naturale della ragione umana, la quale,
desiderando ricongiungersi col Principio da cui emana, riesce a coglierlo non
possedendolo, ma lasciandosene possedere. Il pensiero cioè deve rinunciare ad
ogni pretesa di oggettività abbandonando il dinamismo discorsivo della
razionalità, ovvero negando se stesso. Tramite un severo percorso di ascesi,
che si serve del metodo della teologia negativa e della catarsi dalle passioni,
la ragione riesce così a uscire dai propri limiti, superando il dualismo
soggetto/oggetto e compenetrandosi con l'Uno. Quello di Plotino non è tuttavia
un semplice panteismo naturalistico, poiché per lui l'estasi è essenzialmente
un percorso in salita verso la trascendenza. Il circolo nella filosofia
di Plotino: dalla processione all'anima umana, e dalla contemplazione
all'estasi. Essendo l'Uno non descrivibile, perché descriverlo significherebbe
sdoppiarlo in un soggetto descrivente e un oggetto descritto (e quindi non
sarebbe più Uno, ma due), anche l'estasi è di conseguenza uno stato psichico
non descrivibile a parole, dato che l'estasi è la condizione stessa dell'Uno
che si auto-contempla. Intuirla è possibile solo per via di negazione: tramite
il suo contrario, prendendo coscienza di ciò che l'Uno non è, cioè del
molteplice. L'Uno stesso, in quanto autocoscienza del pensiero, per intuirsi
deve pertanto uscire fuori di sé, diventando molteplice. L'estasi è appunto
l'atto con cui l'Uno genera il molteplice: essa è un cogliere tutt'insieme
l'uno e i molti, in un circolo che dalla processione ritorna alla
contemplazione. Cusano, teologo cristiano del Quattrocento, dirà in maniera
simile che l'universo è l'esplicatio dell'Essere, ovvero il fuoriuscire di sé
da parte di Dio. A differenza del Cristianesimo però, secondo Plotino
l'estasi non è un dono della divinità, ma una possibilità naturale dell'anima.
Essa tuttavia si manifesta non per una propria volontà deliberata, ma da sé, in
un momento fuori della portata del tempo. Plotino stesso raggiunse l'estasi
solo tre o quattro volte nella sua esistenza. Viverla è infatti dato a
pochissimi, in rari momenti della loro vita. L'estasi inoltre non serve ad uno
scopo pratico; essendo contemplazione fine a se stessa, in questo mondo non c'è
nulla di più inutile. È solo nell'estasi però che l'essere umano ha la
rivelazione della sua condizione più vera e autentica. Per il resto la via
indicata da Plotino verso la saggezza consisteva in una vita retta, oppure
nella ricerca di espressioni artistiche come la musica. L'estasi
cristiana Santa Teresa d'Avila La filosofia plotiniana diede quindi avvio
a una lunga tradizione neoplatonica, che concepiva l'universo animato da un
eros o tensione amorosa mirante a ricongiungersi a Dio tramite l'estasi. La
teologia di Plotino fu ripresa in particolare da quella cristiana, e rivisitata
però alla luce dell'aspetto personale della Trinità. L'estasi venne intesa in
un senso più ampio: per il cristianesimo essa non è più soltanto una
contemplazione fine a se stessa, ma è funzionale all'azione; deve tendere cioè
non solo verso Dio, ma anche verso il mondo. Tale mutamento di prospettiva
venne introdotto affiancando all'amore greco di tipo ascensivo, corrispondente
al concetto di eros, un amore discensivo corrispondente al concetto evangelico
di àgape. L'esperienza estatica cristiana consiste così in una comunione, una
sorta di abbraccio col mondo e l'umanità in esso dispersa con lo scopo di
alleviarne le sofferenze e ricongiungerla al Padre. Essa avviene tramite
un'illuminazione operata direttamente da Dio. Questi fuoriesce nel mondo non
per un atto involontario (com'era nel plotinismo), ma perché ama le sue
creature. Identificarsi con la sua estasi divina è, secondo Agostino, la meta
naturale della ragione umana, la quale può riuscirci non per una deliberata
volontà individuale, ma per una rivelazione da parte di Dio stesso che si rende
presente alla nostra mente; l'estasi è dunque essenzialmente un dono, reso
possibile per intercessione dello Spirito Santo, grazie a cui l'essere umano
trascende i propri limiti e si rende strumento di Dio nel mondo.A differenza di
altre religioni la persona coinvolta non perde comunque la propria
individualità, pur compenetrandosi in Lui.Per i mistici medioevali, come San
Bernardo, o i neoplatonici tedeschi come Meister Eckhart, l'estasi è una
visione beatifica che avviene quando l'anima è rapita in Dio, e l'essere si
annulla in un Pensiero senza più limiti né contenuto: Dio infatti non può
essere oggettivato, perché non è oggetto, ma Soggetto. Si tratta di una
comunione mistica accesa da un fuoco d'amore, un'esperienza di beatitudine
suprema simile a quelle che saranno riferite in seguito anche da Santa Teresa
d'Avila, figura di riferimento della Controriforma. Un'altra testimonianza
sull'estasi in tal senso è quella medioevale del beato Jacopone da Todi nella
lauda O iubelo de core. L'estasi paradisiaca in Dante Nel Trecento Dante
Alighieri, nel Paradiso della Divina Commedia, di fronte alla visione beatifica
di Dio, negli ultimi versi della cantica prova così a descrivere l'estasi,
conscio della sua ineffabilità, dell'impossibilità di riferirla a parole in
maniera oggettiva: Dante contempla l'Empireo, incisione colorata
dell'originale di Doré «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige per misurar lo
cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond' elli indige, tal era io a
quella vista nova: veder voleva come si convenne l'imago al cerchio e come vi
s'indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu
percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l'alta fantasia qui
mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente
è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle]» (Paradiso) Il
Rinascimento Il desiderio di estasiarsi godette quindi di una notevole fortuna
durante il Rinascimento. Al di là del significato religioso l'estasi assunse
allora principalmente una valenza artistica o estetica. Il bello era visto sia
dai filosofi rinascimentali che dagli idealisti romantici come la via
privilegiata per ricongiungersi a Dio. Bruno paragonò l'estasi a un eroico
furore: non un'attività pacifica che spegnesse i sensi e la memoria, ma al
contrario li acuisse, simile a un impeto razionale. A una rivalutazione
dell'estasi nell'Ottocento contribuirono sia la Critica del giudizio di Kant,
sia l'idealismo di Fichte e Schelling. Kant vedeva nel giudizio estetico un
sentimento universale di partecipazione con l'Assoluto, nel quale la ragione
non è più vincolata da un'attività conoscitiva soggetta alla necessità delle
relazioni causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi.
Per Fichte l'estasi è intuizione intellettuale, l'atto immediato con cui l'Io,
nel diventare autocosciente, può intuire se stesso solo in rapporto a un
non-io; così nel porre se stesso l'Io pone al contempo anche il molteplice al
di fuori di sé. Parimenti Schelling vedeva nell'estasi un'attività infinita con
cui Dio crea il mondo. L'uomo può riviverla nell'estasi artistica, che è la
manifestazione più tangibile dell'Assoluto, nel quale l'aspetto attivo e
passivo, il lato conscio e quello inconscio della mente, non sono più in
conflitto tra loro, ma si fondono in una sintesi armonica di comunione cosmica
con la Natura. Mantegazza, Le estasi umane, Marzocco, Firenze; La Civiltà
Cattolica; Legislative Reference Bureau, Roma; Enciclopedia Treccani alla voce
«estasi», di Marco Margnelli e Enrico Comba, Giovetti, Dizionario del mistero; Mediterranee,
Atlante illustrato della mitologia del mondo; Giunti; Bianchi, A. Motte e
AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, Jaca Book, Milano; Diana Tedoldi,
L'Albero della musica: tamburo, stati altri di coscienza; Anima Srl; Burkert,
La religione greca di epoca arcaica e classica; Jaca, Messina, Riflessioni e verità; Edizioni
del Faro; Aa.vv., Dizionario della Sapienza Orientale: Buddhismo, Induismo,
Taoismo, Zen; Mediterranee; Kerouac, Il libro del risveglio, a cura di T.
Pincio, Mondadori; Evola, Oriente e Occidente; Mediterranee; «La scienza è
ragione discorsiva e questa è molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero
e nella molteplicità, essa perde l'Uno. È necessario dunque trascendere la
scienza e non allontanarsi mai dal nostro essere unitario, ma abbandonare la
scienza. [...] Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescivibile» (Plotino,
Enneadi, VI, 9, 4, trad. di Faggin). Faggin, in La presenza divina; D'Anna
editrice, Messina-Firenze; Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo; Il
circolo nella filosofia di Plotino, Milano, Rizzoli; Faggin, Mazza, La
liminalità come dinamica di passaggio: la rivelazione come struttura
osmotico-performativa dell'"inter-esse" trinitario; Gregorian
Biblical BookShop; Sulla differenza terminologica tra agape ed eros, cfr. E.
Stauffer, Agapao, in G. Kittel-G. Fridrich, Grande lessico del Nuovo
Testamento, vol. I, Paideia, Brescia; Bonetti, Matrimonio in Cristo è
matrimonio nello Spirito, p. 63, Città Nuova; Julien Ries, Communio, p. 88, Jaca;
Come una piccola goccia d'acqua che cada in una grande quantità di vino sembra
diluirsi e sparire per assumere il sapore e il colore del vino; così ogni
affetto umano, nei santi, deve fondersi e liquefarsi per identificarsi alla
volontà divina. Come infatti Dio potrebbe essere tutto in tutto, se nell'uomo
restasse qualcosa di umano? Senza dubbio, la sostanza rimane, ma sotto un'altra
forma, un'altra potenza, un'altra gloria» (Bernardo di Chiaravalle, De
diligendo Deo, 10, trad. di G. Faggin). ^ Santa Teresa d'Avila descrive
l'estasi come un momento di "assenza" nel quale afferma di aver
percepito tutto il dolore provato da Cristo durante la Passione, ma anche una
così grande gioia interiore da coprire il dolore (cfr. Autobiografia). ^ Nella
descrizione di Dante si tratta di quella condizione paradossale di «estasi per
cui la mente esce di sé e perviene a un potenziamento di sé» (T. Di Salvo,
Paradiso, Zanichelli). ^ Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura: da Giorgione
a Magritte, p. 432, Pearson Italia S.p.a.; «Una delle qualità necessarie al sapiente,
cioè a colui che intende spingere l'ascesi conoscitiva fino all'estasi e
all'indiamento (farsi Dio), è un livello erocio di amore per la bellezza, un
furore divino nella terminologia di Ficino» (Ubaldo Nicola, Atlante illustrato
di filosofia, p. 238, Giunti). ^ Ubaldo Nicola, Atlante illustrato; Pozzolo, La
fede tra estetica, etica ed estatica, p. 64, Gregorian Biblical BookShop, 2011.
^ S. Mati Novalis, Del poeta regno sia il mondo. Attraversamenti negli appunti
filosofici, p. 81, Pendragon, 2005. ^ Antonello Franco, Essere e senso:
filosofia, religione, ermeneutica, p. 170, Guida; Cfr. anche Luigi Pareyson, Lo
stupore della ragione in Schelling, in AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo,
ontologia della libertà, Mursia, Milano; Carlo Landini, Psicologia dell'estasi,
Franco Angeli, Milano 1983 Ioan Petru Culianu, Esperienze dell'estasi
dall'ellenismo al Medioevo, Laterza, Bari; Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche
dell'estasi, ed. Mediterranee, Razzano, L'estasi del bello nella sofiologia di
S. N. Bulgakov, Città Nuova, Merlin, F. Vettori, Un'estetica estatica, edizioni
Cleup, Padova; Beatitudine Esperienza extracorporea Illuminazione (Buddhismo)
Illuminazione (cristianesimo) Indiamento Misticismo Sofianismo Trance
(psicologia) Transverberazione «estasi» Estasi, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Stati di coscienza; Filosofia Portale Filosofia
Psicologia Portale Psicologia Religione Portale Religione Categorie: Concetti e
principi filosoficiEmozioni e sentimentiFilosofia della menteMisticaTeologia
Comie ſi genera; Nima Ragionevole, come di Anima, come sà, che, fuor del
ſuo ſcorre nel Corpo Organico. St.1. Corpofieno, altre Coſe Corporee.27.
Obbietti Senſibili terminan le Idee Per le Idee degli Obbietti,nel Senſo nel
Senſo Comune. St. 2. Comune rappreſentatele. Corpi Striati, e loro ſtruttura,
3. Cometalora s'inganna. 29. Fornice, e ſua teſtura; Delirio nell'Ubriachezza; Setto
Lucido, e ſua fabrica. 5. Vino or fà dormire,or vegliare. 32. Corpo Calloſo, e
ſua anatomia. 6. Come alle volte porta il ſonno. 33 Senſo Comune ne 'Corpi
Striati. 7. Come talora induce vigilia. 34. Da quali paſſano tutti gli Spiriti
Ubriaco, perche Delira. 35. Motivi, e i Senſitivi. 8. Mania, eſuo Delirio.
Anima,in quanto ſente,riſiede ne’ Corpi Striati. 9. Siſpiega in particolare.
40. Fantaſia ſi eſercita nel Fornice. Io. Morficati dal Can rabbioſo, e lor
Memoria riſiede nel Corpo Callofo.1.1. Delirio. 43. Imaginativa, come ſérve al
Di Come prendon proprietà Canine. 44. ſcorrere. 12. E credono, eller Cani. 45.
Facoltà Motiva,coni'è eccitata. 13. Core procede tal Trasformazione.46. lilee
Senſibili,coine ſi formano,e 's' Delirio Febrile, ò Frene fiu. 48. imprimono
nel Cerebro. 14. Come faffi. 49. Spiriti Animali, fimilialla Luce.15. Come ſi
dà Febre ſenza Delirio, e Paragone fra queſta, e quelli. 16. Delirio ſenza
Febre. Spiriti Animali, comeformano le Cerebro deſtinato agli uficj Anima Idee.
17. li, e il Cerebello à i Vitali. FI. Idee non ſono, che una pittura, in
Anatomia del Cerebello. protata nelle pieghe del Cerebro.19. Nervi, che naſcono
dalCerebello. 53. Sterienza. · 20. La Mente non bà dominio ſul Cea Idee, come
laſciano la loro inpronta rebello. 54. nuel Corpo Calloſo. 22. Comunicazioni
fra il Cerebro, e il inima, come ſi rigorda. 24. Cerebello ſcambievoli. 55.
Guajti gli organi del Diſcorrere, Impreſſioni del Cerebro,come ſi par iguafla
il Diſcorſo Umano. 26. tecipano al Cerebello, e quelle 50. 52. del 227 84. del
Cerebello al Cerebro. 58. Come ſi genera. 79. Agitazione Febrile, cagionata al
Delirio dellº Incubo, come ſi forma.81. Cerebello, partecipanıloj al Ce
Maliæconia Ipocondriaca. rebro, induce il Delirio. 59. SueCagioniantecedenti.
85. Non comunicandoſi, no’l produce.62. Suoi triſti effetti. 86. Delirio de '
Sognanti. 63. Come induce ilDelirj. 89. Sonno, come ſi fa. 64. Per gli efluvj
degli Umori, corrotti Cbefia 68. nelle Viſcere, 90. Sogni, come ſi formano. 69.
| Rimedj, che riducono allo ſtato di Sogni, perchè ſi formano,à miſura Sanità
gli Organi, guariſcono, degli Appetiti, e delle Paffioni dal Delirio. 91.
attuali, 74. Diſcorſo depravato per erroriLoa Incubo. 77. gici, e ſuoi rimedja
IXIETAS2140S147 Μ Α Ν Ω. ARGOMENTO. 27482 A82FATIRAF ETAFARAYAX 2X1% XKAYARANJE
D E l'ordinato pria Diſcorſo Umano Dichiara la Meccanica ragione il dotto
Serafin, poi de l’ Inſano Le falſe Idee, l Opere prave eſpone: Qual ne i Senni,
anche Savj, il ſogno vana Le incongrue fantaſie finge, e compone; Qual la
Ragion prevarica, e travia L ' Ipocondriaca, à l' Uom, Malinconia. STATE 1
sãto, 2.Su queſte Midollar due fondamenta Del Corpo inilerabile, c mortale La
propria mole anteriore appoggia Compreſo lò dal tuo dir, cô doglia,e pianto, Il
Fornice, che il Cerebro ſoftenta, Lo ſtato lagrimevole, e fatale, Ed in Corpo
Calloſo ad alto poggia. Seguì à parlar, per conſolarmialquanto, Sul Midollo
allungato ei, dietro, afſenta De l'Anima si nobile, c Immortale; Due pic
poſterior, di Volta in foggia: Coin'ella, in queſta fua Corporca mole, Del
Palagio cosi de l'Alma intero Intende, idea, membra, diſcorre, e vuole. L'uno,
e l'altro loftien doppio Emisfero. 5 E il Serafin: Dopo che invia l'Obbietto Mà
del Fornice al tetto interiore, Il Carattere fuo nel Sento eſterno, Qual Zona,
un Setto lucido li appende; Per il canal de Nervi, ei và diretto Che, in mezo,
da la parte anteriore, Sè ad improntar nel comun Senfo interno. A la poſterior,
curvo, diſcende. Queſto è il luogo del Cerebro, ch'eletto A i lati fuoi, con
ſempre ugual tcnore E de moti ſenſibili al governo. Di quà, di là ſerie di
ſtrie, ſi ſtende, Qual van le linee al centro, in lui convienli, Che tutte in
lui riguardano egualmente, Ch’entrin tutte le Idee de gli altri Senſi. Il qual,
di Vetro in guiſa, è traſparente. 3. 6. Pria,che il Cervello i ſuoi due faſci
accoppi L'ampio Corpo Calloſo è ſovrapoſto In Midollo allungato, e poi Spinale,
Al Fornice, e sù quel li ammaſſa, e annette, Da quai ſpuntano pofcia, ad ordin
doppi E con ordin mirabile è compoſto Tutti i Nervi del Senſo univerſale,
D'inteſti filamenti à retinette, Di Cannei Midollar compon due groppi, Di cui
l'immenſo numero diſpoſto Conici, e curvi, in forma lunga ovale In fuperficie
vien piane perfette, Che, perchè ſono à lunghe ſtrie ſolcati, Molli così, che
ammettono, à l'azzione ' i detti laran Corpi ftriati. De gli Spirti, ogni
minima impreffione. Entro de i Midollar Corpi Striati, E de gli eſterni
Obbietti lor là dove La reſidenza il Comun Senſo ottiene, Hà la Malizia, d la
Bontà compreſa, C'hà de le proprie Glandole irrigati I principj de i Nervi
apre, e vi piove Le cavità, di Spiriti ripiene, Copia di Spirti, ove ella
vuole, inteſa: Atti ad eſſere impreſli, e conformati I Muſcoli ritira, e i
membri move In ogni Idea,che a lor da i Senſi viene, Al'ampleſſo, à la fuga, à
la difeſa; Azili, e fnelli, à figlirarſi eſpoſti E quando poi di quei reſta
ſicura D'infiniti, in cui fian, modi, diſpoſti. Più Spiriti non manda, e i
Nervi ottura 14. I Nervi in lor degli Organi Senſori Spiegami meglio (aggiūge
Adam )traslata, Tutti invian de gli Spiriti i refulli: Come i'ldea nel Comun
Senſo ha forma: E quei, da lor, de gli Orgeni Motori Come dal Settolucido paſſata,
Spontanei tutti han degli Spirti i fluſſi: Entro il Corpo Calloſo imprime
l'orma: Cid, che vien dentro ammeſio, ch'eſce fuori E come poi, che in quel
reſta improntata, Di Senſitivi, o di Motivi in Auſli, Entro la Fantafia la
Copia forma, Del Cerebro, ove l'Alma à regnar ſtarfi, Simile a quella Idea, che
pria l'affiſſe: Per queſta regia Via, convien, che palli Cosi ei richiede: E
così Quei gli diffe 9. 15. In queſti l'Alma Umana, in quanto ſente, Benchè
vario fra loro il naſcimento Corpi Striati aſſiſte, e ognor riſiede: Han la
Luce, e gli Spiriti Aninali: Quilegata, à gli Spirti intimamente, Che quella
dal ſottil Primo Elemento, La sè, incorporea, à i Corpi aggir concede: Queſti
portan dal Terzo i lor natali, Qui l'occhio Spirital ſempr’hàprefente: Ne la
velocità, nel movimento, Qui tocca, guſta, odora, afcolta, e vede: Nel Terbar
riflettendo angoli eguali Qul le potenze Senſitive hà immote, De l'incidenza à
l'angolo, ſembianti Qui non ſentir ciò, che s'idea,non puote. Fra lor ſon
inolto, c in eſſere rifranti. 16. La Fantaſia, del Fornice nel Setto Tra gli
ſpazi de GloboliCeleſti Lucido, fuole eſercitarli, cui Ruota in centro la Luce,
à vorticetti: Come pervio, e diafano perfetto Girano in centro ancor mobili
queſti Per ogni parte han via gli Spirti ſui, Sottilmente formatl in Globoletti:
Qui le Idee rappreſentano l'aſpetto, Son de la Luce i Corpi agili, e preſti,
Che dal Senſo Comun paſſano in lui: Atti à modificarli in vari aſpetti; Le mira
in queſto Specchio, e le contempla Queſti da Corpi,onde ſon mai rifelli,
L'Alma, e in sè Spirital l'Idee n'eſempla. Tornano poi modificati anch'eſſi. 17.
La Idea, dal Setto lucido, leggiera Quale il Lume de i Corpi, onde riflette
Entro il Corpo Calloſo alfin trapaſſa, Ovunque dirizzarſi abbia permeſſo, E ne
le tele ſue l'Iminago intera, Di quei le colorate Immagginette Imprime, e il
ſuo Carattere vi laffa. Modificate al par porta in sè ſteſſo: S'impronta in lor,
come Sugello in cera, Ne gli ſpirti de l'Ottiche fibrette Nè per tempo sì
facile fi caffa. Quelle dipinge, entro de l'Occhio ammeſlo: Altre Idee in altre
fibre impreffe poi Laſciando in quegli Spiriti i modelli Serbano à la Memoria i
teſor fuoi. Che ne la fuperficie ebb’ei di quelli. 12. 18. Se diſcorrer talor
la Mente hà brame Tal gli Spirti Senſor modificati Sù quelle Idee, che il Comun
Senſo invia Da gli obbietti, onde füro indietro ſpinti; Uop'è, che le trafcorſe
Idee richiame Nel Comun Senſo portano traslati, Dala Mémoria à la fua Fantaſia.
Quegl'Idoletti Mobili diſtinti, Ponle nel Setto lucido ad elame, Che nela
Fantafia rapprefentati, Le rigette, o le approva, odia, ò defia, Ne la Memoria
alfin reftan dipinti, A miſura, che trae da loro effenze Con quello ſteſſo
colorato aſpetto, Utili, a infaufte à sè le conſeguenze. Che in ſuperficie å
vea l'efferno Obbietto. L'Adamo del CampaiHas Mmm L'ldos ro. IL DISCORSO UMANO.
L'idea, che ne le fibre interiori In queſta forma, Adam, l'Umana Mente; Del
Caitofo Midol poi fi figura, Mêtre informa il ſuo Corpo,e leſuc Membra) Per
mezo de'caratteri impreſſori Da i fantaſmi di quello è dipendente: Non è,
ch'una verilima pittura, Con queſti ſente, immagina, e rimembra: Per via
dipinca in lor, non di colori, Mà in sè diſcorre, e vuol liberardente, Mà per
mutazion de la teſtura, E ciò clegge, che buon, che bel le ſembra: Chenegli
Spiīti !!! tal rifleſſo induce, Pur, de gli Enti Corporei, uop'e, che penſi,
Quale iColor riñettono la Luce. Per via d'Idee material di Senſi. 26. Non ſono
i Color tutti altro in sè ſterfi, Mà perd, che del Corpo i Morbi fono Che
ſuperficie, tal.configurata, Per l'intima union, Morbi de l'Alma, Sù cui
rifranti i raggi, e infiem rifleſſi, Perdendo il Corpo il natural ſuo tuono,
Han si la rifleſſion modificata, Se inferma è mai la fua Corporea Calma, Che
imprimono ne l'Occhio i color Ateli. La Mente, che nel Cerebro ha il ſuo trono
Con cui la ſuperficie è colorata: Tra gli Spirti animai non reſta in calma;
Cosi Criſtal diafano hà coſtume Perchè di lor difregolato il corſo, Sol culorir
per Refrazzione, il Lume. La perturbata Idea turba il Diſcorſo. 21. 27., Si
diffé il Serafino, e tenue Stile Che ſien fuori de l'Anima in Natura Che di
piun colore affatto intinſe, Corpi reali, e fisici, eſiſtenti, Sù quella, che
il veſtia, tela ſottile La Mente entro il ſuo carcere procura Scolpi la
fuperficie, e la dipinfe, Da i canvelli ſcoprir de'Sentimenti, E à colorata
Immagine fimile, Sol per mezo de'Senſi ella è ſicura, Immago in lei, fenza
color, diſinfc, Che fieno quelli al Corpo ſuo preſenti. Che in quel fcolpito
Lin con par tenora Nel Comun Senfo, à l'obbiettiva effenza, Il Lume riticttea,
qual fa il Colore. De le coſe attual så l'Efiſtenza. 28. Cosi (poi fegue à dir
) la ſola azzione. Sc al Comun Senſo fuo fi rappreſenta De lo Spirto animal rr
odifica to, Idea, che altronde ella avvenir ti avvcda, Få nel Corpo calloſo
impreſione, L'Obbietto, far non può, che allor non ſenta, Con renderlo, in
riflettervi', improntato. E ſentirlo non può, che non lo creda. Tanto, ver'fua
natia coſtituzione, Così à l'Occhio ſe alcun ti ſi preſenta, E' quel Midollo
tenero formato Tu già mai far potrai, che non lo veda: A''Idea Spiritofa in lei
rifleffa Così se ne lo Specchio Immigo eſpreſſa, Ccde la superficie, e reſta
impreſa. Noncrederla non puoi da Obbietto impreſa.?? 29. De l'Occhio in modo
tal sù la Retina, Or qualvolta à la Mente Idea ſi porta Che ancor 'efla
Soſtanza è Midollare, Entro il Senſo Comun per altra via, Se talun filo 1
riguardar ſi oſtina Che per la regia, ed ordinata porta, Illuminofo in Ciel
Corpo Solarc, Onde al Senſo Comun l'Idea s'invia, Per molto tempo,ancor, che il
guardo inchina, Mà lo Spirto retrograda la porta Del Sol P'linmago lucida gli
appare; Da la Memoria, • da la Fantasia, Elabbagliato acume ovunque gira, Per
la ſtrada de'Senfi allor la crede Quell'infocato lampo ognor rimira. Da
Obbietto eſterno impreſa, e le dà fede. 24. 30. Mà fe di ricordarti unqua defia
E Fede tal, che giudica, e diſcorre, La Mente poi di un traſandato Obbietto,
Qual ſe agiffe, nel senſo eſterno Obbietto; Al Calloſo Midot, placido, invia E
a miſura ingannata amalo, dabborre, Di Spiriti animali un rivoletto, Cheprova
in sè ſvegliar gioja, è diſpetto; Che in quell'Idea incontrandoſi per via,
Agita i membri, e à un operar traſcorre Torna modificato in Idoletto:
Corriſpondente à l'eccitato affetto: Dal Tipo Midollar la forina prende,
Depravato cosi delira infano E de l'antica Idea (imil ſi rende. Per morboſa
cagion Diſcorſo Umano. A turbar giunge un Senno, anche prudente, Per fimile
cagion, ſe non la ſteſſa, De l'afforbito Vin le copia enorme: Mania provien,
d'onde Ebrietà provenne Che l'eſaltato Spirito la Mente, Perchè la delirante
Ebrezza eſpreſſa Or forza à delirar con vane forme, Di breve tempo è una Mania
ſolenne, Or gli Spirti gli ottenebra talmente, E la Mania, nel Senno Umano
impreffa, Che n'è ſopito ogni fuo Senſo, e dorme. Di lungo tempo è un'Ebrietà
perenne, In diverſi Soggetti hà varj eventi, Furiola Mania, cui fon ſoggetti
Ch'or furiofi rende, or fonnolenti. Gli acuti più talor favj Intelletti. 38. Il
come ad indagar, contrari, vate, Il Sangue de Maniàci è con ecceffo Effetti à
partorir ne gli Ebri il Vino, Tal di Sulfurei ſpiriti impregnato Rifletci, che
nel latice vitale Che col reſpir per i Polmoni in eſſo Del Sangue è un doppio
fpirito falino: Il Nitro aereo ſpirto infinuato, L'un,che diſciolto entro il
fuo Siero è un Sale Spira nel vicendevole congreſſo Urinoſo volatile Alcalino:
Indomitaura, ed alito sfrenato, L'altro dentro del Sangue infinuato, Ch'eſalta
in movimenti univerfali Con l'Aria, e i Cibi, è un fpirito Nitrato, Pria gli
Spirti vitai, poi gli animali, 334 39. In quei,che la purpurea,in copie,han
piena, Che concorrendo ai Cerebro, accreſciuta Mafia Sanguigna, di Alcali
urinofo, Di moto, e quantità, rapiſcon tutti Lo ſpirito delVin ſi meſce appena,
Gl’Idoletti Ideal, che contenuti Che genera un coagolo vifcolo. Trovan nel
Setto lucido, e ridutti, La Linfa ingroffa, e i vitai Spirti affrena, O fien da
la Memoria, ivi venuti, E concilia un ſonnifero ripoſo. O ne la ſteſſa Fantaſia
coftrutti, Tal Miſto, fi condenfa in gelatina, E invianli al Comun Senſo, e de
la Mente Lo ſpirito di Vino à quel di Urina, Ingannano colà l'occhio preſente.
34. 40. Mà in quell'Uomo,in cui trovafi eccedente Qui dice Adam: D'un operar al
ſcempio Il Sal Nitroſo entro il Sanguigno Umore, De PUman miſerabile Intelletto
Mifta appena del Vino è l'Acquardente, Tal che può farlo e furiofo, ed empio,
Che à gli Spirti vitai creſce il fervore, Di prudente, che ſia, ſano Soggetto,
Spirando un'aura Elaſtica potente, Deh dona à me, mio Precettor, l'eſempio Che
gli Spirti animai move à furore. Per farne più diſtinto alcun concetto, Tai
lpiran, mitti, un'alito focolo Cosi lo prega, e il Serafin verace Del Viu la
Ipirto., e l'Acido Nitroſo, Il di lui bel deſio cosi compiace. Quindi de gii
Ebri à i Midollar cannelli Il Sangue del Maniaco un tal fervore Lo Spirito con
impeto s'invia: Nel ſuo Corpo talor riſveglia, e crea, Seco il caratter trae,
che ne ſuggelli, Che il capo punge, o il petto, e di un dolore Trova de la
Memoria, e il porta via, Intenſo à lui fà lovvenir l'Idea, L'aſporta feco al
Comun Senſo, e quelli, Quando di un ſuo Nemico oftil furore Che trova, anco
tener la Fantafia, Ferillo, e tutto il fatto allor s'idea: Ne i Corpi
introducendoli Striati, Poi da la Fantaſia per falla porta Per retrograda frada
ivi traşlati. Al fuo Senſo Comun l'Idea fi afporta. 42. Quella Idea crede allor
l'Umana Mente E da la vaua Idea l’Alma ingannata, Introdotta per via di eſterni
Senfi Che rappreſenta il ſuo fucceſſo antico, Da Obbietto, che fia à l'Organo
preſente, Stima ver ciò, che vede, e che aſsaltata Che quei moti Sengbili
difpenfi. Sia, già preſente à lui., dal ſuo Nemico. Onde ingannata, avvien, che
follemente Si accinge a la difeſa, ed opra irata De la ſtesſa maniera operi, e
penſi, Cotr'Uoin, che gli ſi incotra,ancor che amico, Comc fe quell'Obbietto
aveffe avante, Che, preoccupata da l'Idea mentita, Di qui la vana Idea forta il
ſembiante, Nemico il crede, e contro lyi s'irrita. Mà mirabil vieppiù, più
portentoſo Che da quei Solfi indomiti inveſtiti Loſtravoito penſiero è del
Diſcorſo Di periferia al centro in mille forme, Di chi dal dente mai del Can
rabbioſo Syolgon de Simulacri, ivi ſcolpiti, Prova in un di fue meinbra il fero
morſo, L'Idee de la Memoria, à varie torme; Che infetto già dal ſuo velen
bavoſo, E ne la Fantaſia poi male uniti E dopo ancor, che lungo tempo è ſcorſo,
Soa gi'iacaagruiFantaſmi in ſtuol deforme: Fra mille altri ſintomi alfin
riinane, Alfio nel Comua Senſo entran ſovente, Col creder sè già trasformato in
Cane. Adingannare, à ſpaventar la Mente. 44. 50. Nè ſolo al par del Canc
addenta, e morde, Febricitando il Sangue, uopè, che fpici E ſimile anche al
Cane ei latrar s'ode Del Cerebro più Spirti à le latebre: Ma con fame Canina, e
voglie ingorde Delicando gli Spirti, uop'è, che giri Prono diyora į cibi, e
l'olla rode; Il Sangue in pollazion celeri, e crebre: E con oprar col ſuo
penſier concorde Or come Febre è mai lenza Deliri? Le qualità Caninç affettar
gode; Come delirj fon mai fenza Febre? Lungi chi vien sà preſentir, dotato
Adamo al Serafin cosi propoſe: Di acuto, e ſottiliffimo Odorato. E si ad Adamo
il Serafin riſpoſę. 45. Premetto, per ſpiegar, d'onde contratto Per dichiarar
Fenoineno si bello, Concetto Uom poſſa aver cotanto ſtrano, Che interamente jo
ſviluprar prometto, Che allor, che vien de l'unione à l'atto Dopo gli uſi, che
detti hò del Cervello, Il corpo fral con l'Animo ſovrano, Deggio gli uſi anche
dir del Cervelletto: Gl'imprime de'luoi Spiriti il contatto Cheagli uficj
Animali eletto è quello, L'ldea di eſſer congiunto à Corpo Umano, A gli uli
Naturali è queſto eletto: La qual conſiſte in ’ n Caratter tale, Må pria di
eſaminar la ſua Natura. Ch'ngli Spirit, Umani è fpeciale, Sentine l'anatomica
Struttura. Del rabbioſo Velen taptu inaligna Nel Cranio è, dietro il Cerebro,
ripoſto Hà corrottiya attività la Forma, Il picciolo Cervello, e ſegregato, Che
gli Spiro animali, ov'egli alligna, In forina quaſi sferica diſpoſto, Ajo: o à
poco in sè inuta, e trusforına, E da le due Meningi andò ammantato: In rio
Venen l'Aura animal traligna, Di Cannellini hà il ſuo Midol compoko i E di
Canin Carattere s'inforina: E il cortice di Glandole am maffato, Cool ne le
Materie, oy'i gli ha loco, In cui con Meccaniſmi, al grande eguali, Muta, e
trasforma il tutto in foco il Foco. Si prepurun gliSpiriti aniinali. 47. S3
Sentendo aggir quell'Anima infelice Dal Cervelletto fol naſcon produtti
Impreſſion di Spiriti Cunini, Quei Nervei tronchi, e quei lor rami varj; La di
cui f.colta immaginatrice Che daii gli Spirti à i Muſcoli, coſtrutti Hà
depravuti affatto i retti fini, Al miniſter de’moti involontarj. Tradita ancor
da quei Fantalmi, elice Da lui movong i Vaſi, e gli Umor tutti, Da ſe Brutali
affetti, atti Ferini, Ch'a l'uficio vital ſon neceffari, Adam, nel tuo fullir
quanto hai perduto ! Cor, Vene, Arterie, Glandole, Fermenti, Sei ſoggetto ad un
Mal,che di Vom fà Bruto. Polmon, Linfa; Inteſtin, Chilo, Alimenti. 48. 54. Dal
già detto finor molto evidente Giuridizion ſul Cerebel la Mente Argomentar fi
può, come fi dia Punto non tien, nè i ſuoi eſercizi hà noti, Il Diſcorſo de
l'Uomo incoerente Non sà, chiuſa entro il Cerebro, nè fente, Nel Delirio Febril,
ch'è Freneſia: Come il Chil ſi amminiſtri, e il Sangue ruoti. Che allor, che
bolle il Sangue in Febre ardête, Di quel, che dal Cervello è indipendente, S
fulfurea falina hà diſcraſia, Fermar non puote, è regolarne i moti. Gi Spiriti
nel Cerebro avanzati, Aſſoluti, e diftinti i lor Governi In copia, c mobiltà
fon gencrati. Commercio hap fol per ſei Proceſſi alternt. Manda Manda al
Cervello il Cervelletto pria E per la via retrograda, ch'è dietro, Doppia
Protuberanza orbicolare, Paffa nel Setto lucido il torrente: Più baſſo due
proceſſi indi gl'invia Quelle Idee, che vi trova ei ſpinge addietro Per la
Protuberanza altra anulare, Verſo i Corpi Striati obliquamente; Due altri
alfine imprendono la via E al corſo natural turbando il metro, Da ſuoi due
Gambi al Calcc midollare L'offre per falfa porta ivi à Ja Mente E di Spiriti
alterni han participi. Che venute credendole da i Senli, De’Nervi il pajo
ottavov'hà principja. Vopè, che follemente operi, e penſi. 56. 62. Per l'uno, e
l'altro orbicolar Ricetto Se però nel ſol Cerebro è riſtretto Son gli Spirci
animai partecipati De'Spirti il moto, e de'fantafmi erranti, Da gli Striati
Corpi al Cervelletto, E à trapaſſar non và nel Cervelletto, E daqueſto anco à i
Corpi fuoi Striatia Senza febricitar fà deliranti: Per le altre quattro vie con
corſo retto Perchè fol ne ſuoi Spiriti è il ſoggetto, Vengono, e ven gli
Spiriti mandati, Che fà le Arterie, e il Cor febricitanti; Pe'l calce midollare,
ove inſeriſce E quello Spirto, onde il ſuo moto prende Le ſue due braccia il
Fornice, e li uniſcea L'Arteria, e il Cor, dal Cerebel diſcende a 57. 63. Sol
queſte ſon le occulte vie, per cui Maggior ſoggiunſe Adam ) inêtre a dormea Ciò,
che ſuccede in lor di ben, di male, Stupore, è il Delirar di fan penſiero,
Mandanſi internamente infra lor dui Che di vani fantaſmi, e incongrue forme Il
vital Miniſtero, e l'animale, Ad un ſtuol dona fe si menzogniero, La Potenza
animal gli affetti ſui I qual, non ſolo al Ver non è conforme I moti fuoi la
Facoltà vitale, Mà par, ch'è falſo, e credefi per vero: Secondo, in Pro comune,
à lor conviene, In modo tal, che un Senno, anche prudente, Opporſi al Mele, o
farfi incontro al Bene. Di creder gl'impoſſibili conſente. 58. 64; E quinci
avvien, che al ſol penſier ſovente Come inganni la Mente à dichiararti Nel
Cerebro, o di Gioja, d di Timore, De i Sogni l'incredibile Bugia, Moffo è il
Polmone, e il Cor placidamente (Replica Raffael) d'uopo è ſpiegarti, Soſpira il
Petto, e batte fpeſſo il Core. Come il Sonno produceſi, e che ſia: Quete, è
ſvolte le Viſcere, hà la Mente Mà pienamente, Adam, rammemorarti L'idea de la
Salute, ò del Malore: La teſtura del Cerebro dei pria: Intelligenza, e
auſiliario impegno Che la foſtanza ſua, teſfuta á velli Paſſa così tra le
Provincie, e'l Regno. Di cavi coſta, e sferici Cannelli. 59. 65. Or mentre la
febrilc agitazione Che à i lati de'ſuoi concavi Canali Nel Sangue, e ne
le.Viſcere ſi avanza, Triangolar fon gl'interſtizj inteſti: Gli efAlvj.al
Cervelletto, e la mozione Che in quei ſcorron gli Spiriti animali, Mandar per
via de Nervi hà ben poſſariza: E che diſcorre ilSugo nerveo in queſti, Quefto
annuncia al Cervel la impreſſione Fatti gli uni di Spiriti vitali, Per doppia
orbicolar Protuberanza, L'altro di Umor linfatici digefti: Entro i Corpi
Striati, onde la Mente Che ſtan fra lor, quei di elater dotati, Di quel calor
febril l'affanno ſente. Queſto di fode fibre, equilibrati. 60. 66. Mà ſe gli
effuvi, ei moti ſuoi ſon tali, Mentre gli Spirti à tal ſon rarefatti Che al
Cerebel traſceudono le ſponde, Che tengan quei cannelli intumiditi, Nel Cerebro
i ſuoi Spiriti animali O'quefti cosi reſtino diſtratti Per l'anular
Protuberanza infonde: Da ariditi, ò durezza irrigiditi, Poi da i poſterior
recti canali O'il nervco Umor pien di fali acri, ed atti Del calce Midollare
alfin trasfonde, Le fibre à ſtimolar, gli Spirti irriti, Del Fornice gli Spirti
à le due braccia Sta tempre aperto il Cerebro, e produce E in quel gli eſtranj
effuvj infinua, e caccia. Spirti continui, e la Vigilia induce. L'Adamo del
Campailla. Nina Per poco influſſo, ò per diſpendj immenfi, Nel tempo del
Dormire al Cervelletto Se al minorar fi vien lo Spirto in effi, Copia inaggior
di Spirti il Sangue infonde O’i ſuoi interſtiz; il nervco Umor più eféli Che
oſtrutto allora il Cerebro, e riſtretco, i; Tien, con più copia, e i cannellin
compreffi, Quei,che nõ manda à queſto, à quel trasfondo Queſti già reli vuoti,
e non più tenſi Maggior moto pertanto, e più perfetto Chiudonfi, molli, e
calcano in sè ſteſſi. Del Torace han le viſcere profonde, Continuar nel Cerebro
non porno E quelle de l'Addome, allor, che appieno Gli ſpiriti l'influſſo: e
faffi il Sonno. Immerfo è il Corpo Uman del Sonno in feno. 68. 74. Il Sonno è
un feriar di Senſi, e Moti, Mà perchè (dice Adam ) ſpelo, à miſura Mà Senli
eſterni, e Moti volontarj. Di noſtra Paſſion ſi formi il Sogno? Gli Spirti del
Cervel ſtan quafi immoti, Perchè m'idea, dormendo, e mi figura Chiuſe le vie de
Senſitivi Affari: Quell'Obbietto,che temo,ò quel,che agogno? Solo i ſuoi membri
proſſimi, e i remoti Qualor per breve, in queſta notte oſcura Tutti mantiene in
eſercizi varj, Michiuſe al Sonno i rai natio biſogno, (Perchè infuſſo di
Spiriti interdetto Vidi nel Sonno il Cherubino armato, Non hà ) la Region del
Cervelletto. Che mi avventava in fen brando infocato, 69. 75. Or così ſtando il
Cerebro.in quiete, L'Angiol riſpoſe: Il già commeſſo errore In una, in tutto
oſcurità diffuſa, Nel ſonno anche ti affigge, e ti tormentas Si occultan le fue
Immagini inquiete, Ti ſtringe il Cor, l'anguſtiato Core Ogni altra Idea de i
Senti eſterni eſcluſa, L'imprellione al Cercbel preſenta, In folche folitudini
fecrete Che pe'i Procelli orbicolar và fuore, La Mente è tutta in sè raccolta,
e chiuſa; E al tuo Senſo comun i rappreſenta: E del Cervello il diſcoriivo
Mondo Poi ne la Fantaſia forma i'alpetto Dorme in ſilenzio altitlimo, e
profondo. Del Cherubin, qual ſe ti apriſſe il petto, 76. Ed ecco, che per cieca
obliqua via, Altro ruſcel di Spirti al modo fteffo Di Larvette ideali erranti
ſquadre Dal Cervelletto al Cerebro diſcorre; Nel Coinun Senio, o ne la Fantaila
E per la via de l'anular Proceſſo Vagan leggicie or fpaventole, ed'adre, Lc
radici del Fornice traſcorre. Or veſtite di ainabije bugia, De Cherubin l'idea,
che trova in eſſo, Pingon bei Spettri, e Fantafie leggiadre; Seco rapiíce, e
ullin valia: deporre E van col Fallo, in naſchera di Vero, Nel Senſorio Comuo:
l’Alma, che'l vede De l'Anima à ingannar l'occhio, e’i penſiero. E lente il
duolo al Cor, ferito il crede. Tal ſe in Teatro cinbroſo il Popol liede,
Anch'io diſs’Eva) in quel notturo orrore, Niirando chiare aprir comiche Scene,
Mentre più gli occhi mici pianger nő ponno, E da Mimi larvati aſculta, e vede
Viep; iù per lo ſpavento, e pul timore, Tragiche finzion, menzogne amene: Che
per quieto oblio, mentre che a !Tonno, Quali del Ver fcordato, ii Falſo crede
Strangolate le fauci, oppreſſo il Core E da’luoi Seun italicdotto viene, Sento
da un Moftro, infra vigilia, e ſonno: Chefveglia ii Finto in lui, verace
intanto Volea gridar, volea fuggir, volea Odio, ) Amer,Picea, d Sdegno,c Rilo,o
Piáto. Scuoţer dal ſen la Belva, e non potea. 28. Chile fopite Immagini
alCervello Queſto č l'Incubo, Adamo (à dir riprende Svegli, i luoi Spisti in
renderne eccitati, A lui rivolto, ii Filico Divino ) Facile è di aſſignar, dal
Cerebello, Paroliſino terribile, che apprende Che fieno effiuvi, • Spiriti
ſcappati, L'Uoin, mentre che talor dorineſupino. Per quei fentier, che ſon, tra
queſto,e quello, Il Petto, e il Core ilmoto ſuo ſoſpende, Ne i Proceſi
ſcambievoii, incavati E fofpende ancu i Sangue il ſuo camino; De le
Protuberüize orbicolari, Che riſtagnando entro i polmoni in petto E de i terzi
Proceſli, ed anulari, Fà un breve si, mà aſſai moleſto effetto. Cio, che il
Sonno al Cervel coſtituiſce, Del Morbo Malinconico cagioni Vien l’Incubo à
produr nel Cerebello Son, ipaventoſi, e ſubiti tercori Qual, groſſo il
nerveoLiquido, impediſce Affetti violenti, e pailioni, Degli Spirti animali il
corſo in quello, Ipocondriaci, e Iſterici Malori: Tal di queſto il medemo anche
oltruiſce In queſte inordinate ripreſſioni Ogni talor ſuo midollar Canuello, Si
guaſtano le Viſcere, e gli Umori: Qualvolta amplia foverchio, in modi vari,
Onde mandati al Cerebro, ed eſtratti Di queſto pur le Strie triangolari. Spirti
ne fono, à gli uſi lor malatti. 80. 86. Come, al Cervel gli Spiriti impediti,
Mal fan l’uſo adempir più principale, Fermanſi gli uſi à gli Organi animali,
Ch'è: coʻlor moti armonici, adequata Così, gli Spirti al Cercbel fopiti, Tener
de l'Uomo à l'Anima immortale Ceffan quei de le Viſcere vitali, Quella, che al
ſommo Ben tendēza hà innata, Il Sengue, e gli altri Liquidi irretiti Mentre in
queſto ſuo carcere mortale Ne i polmoni, e lor vafi arteriali. Vive ad un Corpo
organico ligata: Ciò nel dornir ſupin ſuccede ſpeſſo: Che priva di lor Tolita
Armonia, Che il Cercbel dal Cerebro è compreffo, Sente una interior Malinconia,
81. 87. Prefa daʼNervi impreffion si rea Scemi di loro elaftica potenza, Al
Cerebro s'invia dal Cervelletto Debil tai Spirti à ſpanderſi han vigore, La
Mente un Moſtro in fantaſia s'idea, E di contrari Agenti à la prelenza Qual ſe
l'affoghi, e le comprima il petto: Producon, contraendoſi, il Tiinore. Poi
tratta al Comun Senſo è quell’ldea, Grolli, oltre del dover, ne l'aderenza Con
un corſo retrogrado indiretto Portan le loro Idee forina maggiore: La Idea ne
vede, e la impreſſion ne ſente; Onde di quel,ch'è in sè, ſempre più immenfo Or
che ſtupor, fe'l crede ver la Mente? Rapprefentan l'Obbietto al Comun Senfo.
82. 88. Miquel dal Setto lucido repiſce Anzi, però clie indebite miſture Spirto
le klee ne'Corpi ſuoi Striati? Di eſtrani effluvj in lor glaſtan le forme Del
Cerebel non già, che non fluiſce Appajono d'infolite figure Spirito in lui,
chii Cannellin turati. I lor Fantaſmi, e di feinbianza informe: Si parla Adaino:
E Raffacl fupplilce Tenebroſe le lınmagini, ed oſcure Del Cerebel gli Spiriti
privati, Non terbano à gli Obbietti Idea conforme: Per doppia orbicolar
Protuberaliza, Quindi de i Malinconici eſſer dee u Cerebro, che n’hà minor
inancanza. Piena la Fantalia d'incongrue Idee. 83. 89. De le vitali ſu Vilcere
à l'uſo Inino il M.lincolico à tal ſegno, Tutti gli Spirti il Cercbel riparte;
Solo in penſier fantaſtici ſi aggira: Il Cercbro non già, che benchè chiuſo,
Pregna hila Fantatia, colmo l'ingegno, Ne reſts pieno, e altrui non ne fi
partc. D'incoerenti Idee; ma non deli. a: Reſtande elauſto quel, da queſto
infuſo Chc, benchè erranti, in sè ſenza ritegno, Hà lo Spirto animal per quella
parte, Le involontarie Immagini riinira, Che dal Corpo Callofo, ove diſcende,
Pur ben fi avvede, e noto há ben, che ſia A gli Striati, ivi le Idee diſtende.
Sol tutto l'Effer loro in Fantaſia. 84. 90. 11 Sogno paſſaggiera è una Pazizia,
Mà ſe da le ſuc viſcere eſalato, Ma la Pazzia poi Sogro è permanente, Per i
Nervi, Par vago, e intercoſtale, La Ipocur driaca in cui Malinconia Morbofo
effuvio, al Cervelletto alzato, Riduce PUomo à delirar fovente. Per il di
dietro al Fornice poi fale, Contraria de Maniaci à la Follia, Ogni incongruo
Fantafina, ivi formato, Ch'è cir:Je !, furioia, audace, ardente, Che ne la
Fantuſia difpiega l'ale, Quefiriè timida, e imbelle, e'l penſier volto Nel
Senforio Comun con feco tira: Hà follecito al Plen, itupido al Molto. L'Alma
allor Ver lo giudica, e delira. Del IL DISCORSO UMANO, Del nobile cosi Diſcorſo
Umano, De'tanti ancor traccò Logici errori E de'ſuoi varj organici difetti Che
al diſcorſo depravauo i Giudici, Filoſofo l'Arcangelo ſovrano, E qual di Verità
gli alti ſplendori Con ſottili penfieri, e chiari detti. Oſcurano à la Mente i
Pregiudicj: Indi ſpiego i Rimedj, ond'egl’inſano Come la Dialettica riſtori,
Reſo, à cagion de gli Organi imperfetti, Con norme, i falli in lei,
regolatrici; Poffi à i retti tornar ſuoi Sentimenti, E al fine il giuſto Metodo
glieſpone, Con medicarne i gu'aſti ſuoi Stromenti. L'ulo à bene adoptas di fua
Ragionc. Estasi di santa Teresa d'Avila scultura di Gianlorenzo Bernini
Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Estasi di santa Teresa d'Avila (disambigua). Estasi di
santa Teresa d'Avila Ecstasy of St. Teresa HDR.jpg Autore Bernini Materiale marmo
e bronzo dorato per i raggi divini Altezza350cmUbicazione Chiesa di Santa Maria
della Vittoria, Roma Coordinate L'Estasi
di santa Teresa d'Avila è una scultura in marmo e bronzo dorato di Bernini, rcollocata
nella cappella Cornaro, presso la chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma.
La scena raffigurata nell'opera è, per la precisione, una transverberazione e
non un'estasi, quindi la scultura è talvolta chiamata anche
"Transverberazione di santa Teresa d'Avila". Storia Modifica
Nel 1645 - in un periodo in cui, con il pontificato di Innocenzo X, la
straordinaria carriera artistica di Bernini stava conoscendo qualche
appannamento - il cardinale Federico Cornaro affidò alle sue qualità di
architetto e di scultore la realizzazione della cappella della propria
famiglia, nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, a
Roma. Bernini, nell'eseguire la commissione, cercò una sua rivincita
professionale verso l'atteggiamento tiepido che il nuovo pontefice mostrava nei
suoi confronti e chiamò, per così dire, a raccolta tutta la sua inventiva di
architetto e di scultore sino a giungere a realizzare uno degli esempi più
elevati di arte barocca. L'Estasi di santa Teresa d'Avila, eseguita tra il 1645
e il 1652, una volta portata a compimento piacque immensamente al Bernini, che
con una certa modestia la definì come la sua «men cattiva opera» (dunque la
migliore delle sue realizzazioni). Lo stesso Filippo Baldinucci, nella
biografia dell'artista, riporta che: «il Bernino medesimo era solito dire
essere stata la più bell'opera che uscisse dalla sua mano» Descrizione
Modifica Visuale della cappella Cornaro: al centro troviamo santa Teresa
e il cherubino e, ai lati, si scorgono i vari membri della famiglia Cornaro che
si affacciano dai finti balconcini Una delle cifre per intendere l'arte barocca
è, come noto, il gusto per la "teatralità": la rappresentazione
spettacolare e talvolta anche enfatica degli eventi. In quest'opera Bernini,
mettendo a frutto la sua esperienza diretta di organizzatore di spettacoli
teatrali, trasforma, in senso non metaforico ma letterale, lo spazio della
cappella in teatro. Per far ciò egli amplia innanzitutto la profondità
del transetto; poi, aprendo sulla parete di fondo una finestra con i vetri
gialli, pensata per rimanere nascosta dal timpano dell'altare, si procura una
fonte di luce che agisce dall'alto, come un riflettore e che conferisce un
senso realistico alla irruzione sulla scena di un fascio di raggi in bronzo
dorato, così la luce che scende sul gruppo, attraverso i raggi, sembra
momentanea, transitoria e instabile in modo da rafforzare la sensazione di
provvisorietà dell'evento.Si può facilmente immaginare quanto tale effetto,
nella penombra della chiesa, dovesse apparire a quel tempo suggestivo. Anche la
freccia originaria retta dall'angelo, ora sostituita da un semplice dardo,
venne realizzata con dei raggi che scaturivano dalla sua punta, a
rappresentarne il fuoco del «grande amore di Dio», come santa Teresa stessa
ebbe a dire nella sua autobiografia. L'elegante edicola barocca,
realizzata con marmi policromi, nella quale Bernini colloca la scena
dell'Estasi di santa Teresa, funge da boccascena del teatro: essa mostra la
figura della santa semidistesa su una vaporosa nuvola che la trasporta – come
se fosse operante una macchina da teatro nascosta – verso il cielo. La
trasformazione della cappella in teatro diventa letterale con la realizzazione,
ai due lati del palcoscenico-altare, di «palchetti» sui quali sono raffigurati
– ritratti a mezzobusto – i vari personaggi della famiglia Cornaro. L'evento
privatissimo dell'estasi della santa diviene in questo modo evento pubblico, al
quale i nobili spettatori paiono assistere non già con trepido stupore e con
vivo trasporto devozionale, ma con staccato disincanto; li vediamo anzi - come
avviene spesso a teatro - intenti a scambiarsi i loro commenti. Il
palchetto sinistro, con i membri della famiglia Cornaro in veste di testimoni
attivi dell'evento mistico Ma non è per la famiglia committente, bensì per
l'ideale platea dei fedeli che si accostano all'altare – palcoscenico della
cappella che Bernini mette in scena l'estasi della santa. Egli dimostra qui
tutta la sua maestria di scultore, capace di lavorare il marmo come fosse cera,
con estrema attenzione ai particolari. La veste ampia e vaporosa della santa,
lasciata cadere in modo disordinato sul corpo, è un capolavoro di virtuosismo
tecnico, per effetto del quale il marmo perde ogni rigidezza e la scultura
sembra voler contendere alla pittura il primato nella rappresentazione del
movimento. Commenta a questo riguardo Ernst Gombrich: «Perfino il
trattamento del drappeggio è, in Bernini, interamente nuovo. Invece di farlo
ricadere con le pieghe dignitose della maniera classica, egli le fa contorte e
vorticose per accentuare l'effetto drammatico e dinamico dell'insieme. Ben presto
tutta l'Europa lo imitò.» La raffigurazione delle estasi mistiche dei
santi e delle loro visioni del divino, rappresenta uno dei temi più cari
all'arte barocca: i santi «con gli occhi al cielo aiutano» – seguendo le
raccomandazioni dei gesuitisulle funzioni pedagogiche dell'arte sacra – a
sentire emozionalmente, con il sangue e con la carne, cosa significhi l'afflato
mistico che porta alla comunicazione con Cristo e che è prerogativa della
devozione più profonda. Anche sotto questo aspetto, della raffigurazione
dell'estasi, l'opera realizzata da Bernini nella cappella Cornaro, sarà
destinata a far scuola e ad essere presa a modello innumerevoli volte nella
storia dell'arte sacra. Sul piano iconografico l'Estasi di santa Teresa,
che trova il suo prototipo nell'Apparizione di Cristo a Santa Margherita da
Cortona di Giovanni Lanfranco (1622),[6] è direttamente ispirata a un celebre
passo degli scritti della santa, in cui ella descrive una delle sue numerose
esperienze di rapimento celeste: «Un giorno mi apparve un angelo bello
oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità
sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore,
tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte
ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne
liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo
estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio.» (Santa
Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13) Il resoconto che la santa ci offre è
raffigurato quasi alla lettera da Bernini nella sua composizione marmorea, con
il corpo completamente esanime e abbandonato della santa, il suo volto
dolcissimo con gli occhi socchiusi rivolti al cielo e le labbra che si aprono
per emettere un gemito, mentre un cherubino dall'aspetto di fanciullo giocoso,
con in mano un dardo, simbolo dell'Amore di Dio, ne scosta le vesti per
colpirla nel cuore. Notevole è il contrasto tra l'incarnato liscio e delicato
dell'angelo (che fa pensare più a un Eros della mitologia greca che a un'entità
spirituale cristiana) e le vesti scomposte della Santa. Il volto della Santa e
dell'angelo Interpretazione psicoanalitica Modifica L'interpretazione che
studiosi della psicoanalisi come Marie Bonaparte hanno dato (proprio a partire
dai resoconti di transverberazione lasciatici da santa Teresa) all'esperienza dell'estasi
mistica in termini di pulsione erotica che si esprime sublimandosi nel deliquio
dell'afflato spirituale, ha condotto la critica a sottolineare in quest'opera
di Bernini la bellezza sensuale e ambigua dei protagonisti, avvalorando così la
possibilità di una sua lettura in termini psicoanalitici. Lo psicologo italiano
Enzo Bonaventura fa riferimento a Cupido, evidenziando, a livello simbolico, un
nesso tra la figurazione greca e la trasfigurazione religiosa nell'arte
cristiana[7]. Per provarne la legittimità, occorre solo richiamare la parola di
Renan in viaggio a Roma, davanti a questo stesso gruppo statuario: «Si c'est
cela l'extase mystique, je connais bien des femmes qui l'ont éprouvée»[8]. Si
potrebbe comunque ulteriormente citare il conte de Brosses[9], il Marchese de
Sade[10] o lo scrittore Veuillot. Collateralmente a quest'interpretazione che
considera l'esperienza di Teresa, e la scultura che la ritrae, nei termini di
quello che (per usare un'espressione di Georges Bataille) potremmo chiamare
«erotismo sacro», si deve tuttavia osservare che l'approfondimento della
biografia dell'artista napoletano ha recentemente messo nella giusta luce la
sua religiosità; una religiosità che in quel periodo della sua vita (quando
aveva circa cinquant'anni) si era rafforzata attraverso la pratica degli
esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, eseguiti sotto la guida dei padri
gesuiti che egli frequentava. Verosimilmente la lettura della vita di santa
Teresa non dovette essere un fatto occasionale, limitato a singoli passi,
segnalati magari dal committente. Al contrario, alcuni studiosi hanno letto
nell'Estasi di santa Teresa anche l'eco del racconto di altre esperienze
mistiche, come quella della santa genovese Caterina Fieschi Adorno. La
straordinaria qualità estetica e l'intensa drammaticità del gruppo marmoreo è
dunque da collegare alla personale ricerca spirituale di Bernini, al suo
impegno a scoprire per sé stesso, per poi mostrare a tutta la comunità dei
fedeli il senso di quell'amore espresso oltre ogni misura verso il Redentore,
che trova esempio nella vita dei santi. L'influenza dell'opera di Bernini
fu enorme non solo sui contemporanei, ma anche su molti artisti dei secoli
successivi. Il famoso compositore Pietro Mascagni, ad esempio, nel 1923 compose
una visione lirica per orchestra dal titolo Contemplando la santa Teresa del
Bernini, un brano della breve durata di appena quattro minuti. Marder, Bernini
and the art of architecture, New York; Marder riferisce a Irving Lavin, Bernini
and the Unity of the Visual Arts, New York; e a William Barcham, Some New Documents on
Federico Cornaro's Chapels in Rome, in: Burlinton Magazine, Cricco, Francesco
Di Teodoro, Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte, Dal Barocco al
Postimpressionismo, Versione gialla, Bologna, Zanichelli; Cocchi, Cappella
Cornaro ed estasi di Santa Teresa, su geometriefluide.com. URL consultato il 30
novembre 2016. ^ Oreste Ferrari, Bernini, in Art dossier, Giunti; Gombrich, La
storia dell'arte, Milano, Leonardo Arte; Lollobrigida, A. Mosca, Biografia, in
Lanfranco a Roma, Milano, Electa; Bonaventura, La psicoanalisi, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1938 ^ Traduzione libera: «Se questa è
un'estasi mistica, conosco molte donne che l'hanno vissuta» ^ Cfr. de
Brosses: «Se questo è amore divino, io lo conosco bene!» ^ Cfr.
Marchese de Sade: «Si stenta a credere che si tratti di una santa»
^ Cfr. Veuillot: «[Bisogna] espellere l'opera dal tempio... venderla... o
farne calcina!» ^ Jean-Louis Bruguès, Dizionario di morale cattolica,
Edizioni Studio Domenicano; Bataille: «E la sensibilità religiosa che
unisce strettamente desiderio e paura, piacere intenso e angoscia» ^
Bernini - Estasi di Santa Teresa, su scultura-italiana.com, La Scultura
Italiana; Don Michael Randel, The Harvard Biographical Dictionary of Music,
Harvard; Bernini Santa Teresa d'Avila Estasi di santa Teresa d'Avila L'Estasi
di Santa Teresa d'Avila di Gian Lorenzo Bernini raccontata da Caterina
Napoleone, su raiplayradio.it. Portale Architettura Portale
Cattolicesimo Portale Scultura Ultima modifica 6 mesi fa di eBot
Chiesa di Santa Maria della Vittoria (Roma) edificio religioso di Roma. Transverberazione
Estasi. Opera. Bernini. Le e&Usi dell’amore di patria. La niftscliera di Mazzini. Patria,
e religione^ eroi della patria e santi. Meglio il i'Jtammiisme che
rignonui^a dell'amor di iwitria, Diverse funoe dell'escisi dell"
amor di patria, — 11 ritorno in Italia dell' autore reduce dair TnfUa. Estasi
BoUtarie dei ^andi amatori della patria. Gli eroi della storia e gli eroi
aiiouijiii, Estasi epidemiche. Incendii delle foreste e iiiceudii
del euore namonale d'uu populu, — Eafliroiiti e ecmsiderazìoiii. Nel
mio Mu^eo d'a^ntropologiu di Firenze, in uuo degli armadii consacrati
alle grandi ìndiviilnalitì\ della apecie umana, vi ha la teista di un
uomo^ che ferraa V attenzione del piii frettoloso e .superficiale^
osservatore. Quando devo far da cicerone di mala voja^lia a qualche
importuno, lo aspetto a quell'ar- madìo, per consolarmi della lunga noia
di ripe- tere davanti alle stosjie vetrine le sten^^e parole. K VX
il visitatore sì ferma e dice; quella te«ta t) fonte qudìa di un
mniof Siete un buon osservatore, quella testa è di un santo e
fu formata sul cadavere. E che santo è quello? Si
chiama Giuseppe MazsEiui. Si potrebbe scrivere un volume su
quelFincon- scia rivelazione dei più voI*(ari osservatori , che
dinanzi alla raaafìhora di Mas^^^ini, domandano so quello sìa un santo. La
fìsonomia a#icetìca è nna delle jiiù CJiratte- riaticlie , ma anche ana
delle piìi iiidefiuiV>ìli, E il Miizriui Taveva, o morto pareva
ad<Urìttiira "n santo j?iù jflorifìcato ool piiradiso
cristiano. In quella domanda, che prorompe spontanea dal
labbro dei visitatori del mio Museo, vi è tutta la biografia di un uomo,
che amò la patria con fer- vore mistico e fece della sna polìtica una
reli- gione. E^fli stesso del resto si era asse|?Dato il suo po.sto
nella storia del pensiero italiano, scri- vendo sulla sua bandiera , Dio
e popolo^ due par role una pih miiitica deiraltra e che messe
vicino non sono che nn f^rido ilei onore lantùato neirin- finita»
poetico deindealita politica. L'amor di patria è uno degli aftotti più
alti, ma più indistinti e la cui analisi psicologica esi^e-
rel>be nn volume. È sentimento di lasso , perchè molti nomini d'
alta e di bas.^ gerarchia non lo sentono e perchè si dirige, più che ad
un lembo di terra , ad un mito corai)osto di materia e di idealiti\
e che muta forma e muta confini a s^ condadeì tempi e di conto altre
influenze esteriori* l sentimenti ili lusso, non hanno che
raramente la intensa energia degli affetti ut^oessariij ma per la
loro indeterminateaza o h\ sconfinata po.-^Mibi- lltà dei loro movimenti
possono imi facilmente portarci all'estasi. Por V uomo
selvaggio , sia poi tale perchè non veste il proprio corpo, o perchè uou
vet^ite il pro- prio pensiero; la patria è poco più che il nido per
r uccello o la tana per le fiero. È la casa iu cui è nato, è V albero
sotto cui ha dormito , è il fiume iu cui sì è tuffato, il bosco dove ha
cac- ciato , è la terra dove tutti gh uouiini ras.'^omi- ^liano a
Ini j parlano come lui , come lui odiano l'altra geuto che sta al di là
dal monte o «lai mare, L^t patria, circondata o no dal luare^ è
sempre un'isola; e chi si isola divien parcnttì di tutti co- loro
che stanno nella stessa carcere. La patria non h che una famiglia più
grande di quella che sì chiude sotto il tetto domestico, non è che
una casa più vasta di quella che alberga una stoasHi
famiglia. 2Jon amare la patria ò una vilti\ del cuore ^ è un
cretinismo del sentimento j quando non sia la previsione di tempi lontani
e migliori , nei quali la patria dell- uomo sarà tutto il nostro
pianeta, e stranieri soltanto si chiameranno gli aiutanti tlegli
altri mondi coi quali di certo un giorno parleremo, e forse per farci la
guerra. JJ amor di patria- è figliale e mistico in nna Tolta sola;
è tenero e ascetico, l^^igliale perchè la patria è la madre universale di
tutti quelli che parlano la stessa lingua, pensano lo stesso Dio e
Bparf^ono insieme lo stesso sangue. Mistico , perchè la patria non si può
baoiarej né abbracciarej e i suoi confini son segnati sopra una carta,
che non è negli atlanti geografici, ma nel cuore amano. La
patria è uno «lei circoli del paradiso dan- tesoOj dove da un piccolo
cerchio irradiano aonc piti larghe, come cerchio d'acqua smossa dal ca-
dere di nna pietra. Dal villagjrio adorato dove ci hanno battezzato e
dove speriamo di esser sepolti^ alla provincia, al regno, all'impero,
alle colonitv nostre lontane, la patria si allarga, si allarga sem-
pre, portando seco le tenere oscillaaioni del no- stro cuore, dei nostri
afifetti, della gloria nazionale* Quel palmo di stoffa che si
chiama la nostra bandiera j che un colpo di sole, uno scroscio di
pioggia pnò impallidire, quella stoffa che costa poche lire e che una
vampa di fiamma può ri- durre in un pizzico di cenere^ è il simbolo di tutti iJamqr
di patria 93 quelli affetti che .si condensano sotto nno
stesso nome, e là dove sì pianta quella bandiera ivi è la patria^
ivi i ricordi comuni e le tiomuni svimture e le glorie eomuDi oliiamati a
raccolta da im voce sola^ che le incarua e le personi&ca. Chi
analizza un sentimento t^oUa segreta spe- ranza o colla malignità palese
di distruggo rio, compie opera vana. Se lo fa per Bè non
diatnijE^ge che ciò che non è mai esistito ; se lo fa per altri,
predica nel dea erto ; dacché nessaun ragionamento ha mai fatto diminuire
d' un palpito un grande amore. La doìina che tu ami è una die
creatura, fa amata rfrt ceiito uomini ptlmn che tu In aìì^rnssi,,.,
U ohe importa f lo Vmno, Il Dio che tu adori non è mai
cswUto. Moto mo- siruoso in cui V antropofagia deW uomo quaternario
ti trova insieme alla industria delle simonie^ alle pag- gio Uologiche,.,
Mmpio^ tu non sai qneìh che dwL 11 mio Dio esista ed io VaàoTù.
Lo 8tes30 sarebbe tcntR^r di strappar con vani ragiimumenti a un
uomo l'amor di patria^ quando ej^Iì lo senti.^ palpitare nel più caldo e
nel pia profondo delle vi scerò , quando e^li ne ha fatto una
religione, a cui è pronto a darò tutto quanta ha, tutto il sanane delle
sue vene* L'amor di figlio, r ani or dì madre, l'amore per la donna amata
fiirono In o^cni tempo «jloriosi olocausti di anime elette futti
8ul l'alta re della patria. E poi andate a dire a quei martiri che la
patria è il mondo eh' easa non ha altri contini che lo spazio
interijlanetarel Finche lo nazioni esiatono , fìnc^hè le lingue
umano wi contano a luigUaiaj fìnehè metà del ge- nere umano non può
intender Taltra mete, finché ffBt nonio e uomo vi sono maggiori
differenze psichiche che fì*a un oane e nn lupo; l'amor di pntria
non hi discute^ ma sì 8entt% e nn iiopolo è tanto pili grande, quanto è
pia vivo e calilo e universale in lui questo sentimento. Benedetto
conto volte il più folle ehmwmismej maledetto il cinismo dì chi domanda
ridendo: 1} che cosa è hi patHa? La patria è la terra ^ in
cui in ogni 8olco vi è l'amor di patria 05 Il uà gocdola dì
f^tangne o ili sudore dei padri do- stri in ogni pugno d'arena vi è della
ceneri^ dei nostri avi; la patria è la terra in cai dorim» in
nostra madre e dormiranno i nostri figlinoli; è la storia di tutto il
passato, la storia di tanti secoli ili glorie e di sventare vissuti da
coloro che ci hanno data la vita; la patria è la madre di tutti
quelli clie parlano e sentono come noi ; è quo 11 a t-erra^ il cui nome
solo udit(j pronunziare in terra lontana ci fa battere il cuore, ci fa
baciare un giornale. È quella parola, che solleva onde di po- poli
a un gritlo rli guerra, cUc fa escire da ogni capanna nn uomo armato e ad
ogni finestra fa affaciìiarc una testa di donna ijiangente- La pit-
tria è una parola magica che può convertire ogni uomo in un soldato e
ogni donna in nna martire, che fa* piangere i fanciulli disperati di non
esser ancor uomini e fa pian^^ere i vecchi perchè non posftom» più
imbraudire nn fucile. La patria è tiuella santa parola, che lUstacca
Toperaio dall'of- iìcintìi , il contatlino dal cami>f> , V uomo di
lettere dal libro, il banchiere dallo scrigno; che strappa daltc
braccia della fanciulla il giovane innamo- rato; e tutti riunisce in
nn^mìca schiera e sotto uno stesso vessillo, in cui tutti guardano Assi
con occliio d'eroe e amore <\i martire. Quar altro altare ha tanti
adoratori? QuNUaltra religiane ha tante idolatrie? QuaVè
Tara su cui si portino altrettante vittime ^ che corrono chia- mate
o non ohi amate, ma sorridii^nti e calde d^eu- tnsia^mo? QuaValtra parola
ha tanta onnipotenza, q 11 al' al tra estasi può superare co deista di
sentirsi in uD^ora sola (livennti trenta milioni di fratelli, che
amano lo stesso amore, che sentono lo stesso otlio, che so cenano lo
stesso sogno di vendetta o di sdegno? Le estasi più
oomuni dell'amor di patria sono qaelle che si provano nel rivedere la
terra nativa dopo mesi e anni di lontananza e le altre che si
godono nelle grandi feste, che salutano un grande trionfo nazionale:
solitarie lo prime j associate le seconde ; grandi entrambe e capaci di
voluttà senza nome. La. nostalgia è nei trattati di patologia
una mar latti a che si classifica fra le alien azioni mentali.
Beati coloro che possono esser pazai in questo modo; infelici coloro che
per grettezza di cuore o per esser nati venti o trenta secoli prima del
loro tempo non sono capaci dei rapimenti del rivederti ]fh
patrìft dopo lunghe assenze. Io che ho vissnto molti anni neir altro
emisfero e che ho attraver- sato l'Oceano per otto volte ho provato
quest* e- stasi in tutti ì suoi gradi e in tutte le sue forme. Mai
l'ho goduta eosì intensa e così profonda come dopo il mio ultimo viagfi^o
nelP India. L'amor della patria, ai rovescio degli altri
amori, cresce cogli aonì^ e quando io 'ttopo alcuni mesi di assenza
al mio ritorno dall' Tiidia soppi che al- l^indomani avrei riveduto
l'Italia, sentii eho il cuore batteva forte forte, come dinanzi al
sorriso della donna amata. Io non vedeva ancora la mia terra,
ma la sen- tivo. Sentivo che essa mi aspettava come ci aspetta la
nostra donna in un ritrovo d' amore limi^iimente desiderato» La mia
patria, Tltalia mia non poteva esser lontana.. L'onda più azzurra,
il cielo più sereno me lo dicevano ad alta voce ; me lo diceva il profumo
dei fiori d'arancio che mi invia- Tano gli orti benedetti della Calabria
e della Si- cilia, Ed io guardava fisso davanti a me neir o-
rizzonte lontano j che la mia nave andava conqui- Esta^i umam,
stando ad ogni moto deir elice. La nebbia sfumava, Topaie
diventttvii oltremare, e fra le nebliie lon- tane vedeva un mondo, nuovo
e antico per me, la patria dei miei avi. La nebbia diveniva terrai
e cielo; terra e cielo T Italia. — Fra poche ore avrei baciato quella
terra e sul mio capo si sarebbe disteso l'azzurro ohe mi aveva veduto
nascere. Non sarei più morto in terra straniera e i miei cari
avrebbero potuto piangere inginocchiati so- pra la mia terra, sopra la
terra che aveva gene- rato me e i miei cari. E la terra
nebbiosa e oscura si disegnava in coste e in golfi , in monti e in piani
; e in qaei monti e fra quei seni apparivano poco a pooo oasuccie
bianche incorniciate di pampini ver<li e riposavano fra boschi di
agrumi neri come il bronzo. In quelle case dormivano uomini che
par- lavano la mia lingua e quella terra mi mandava come un saluto
del cuore i profumi del mio orto, i profumi della mia giovinezza e tlella
mia poeaia. Là io era amato, là il mio nome non era parob ignota:
qualcuno mi aspettava. Vi erano braccia aperte impazienti di stringermi
al onoro, vi erano labbra di donna e di fanciulla pronte, impazienti
di baciar le mie labbra. Profumi di fiori e baci ohe mi chiamavano
ad alta voce, con sospiri d' amore, Come aveva potuto io per così lunghi
mesi star lontano (la quegli alberi benedetti, da qneWe brae-
cift innanioTìtte , da quella terra che ora. la mia , la terra
della mia culla e della mia iom^ f Nod avevo io commosso una colpa j che
avrei rerlenta fra poche ore ? Come avevo io potuto sopportare
tanto dolore ? B la nave camminnva ; e la nave correva e a
destra il continente d'ItalÌM, a sinistra la pììi ;^ande delle isole d'
Italia si avvicinavano a me^ lontaise e vicine, come due braccia aperte
all'am- plesso I — To mi smentivo abbracciato da quelle braccia
gigantesche , mi sentivo inebbriato da quei profumi ; udiva il mormorio
delle voci del- l'uomo, che dalla riva giungevano fino a me; voci
d'uomo e voci d- Italiani. Perfino Je vele delle piccole barche che sfì
lavano lungo la costa mi pa- revano pili bianche, più gaie , più snelle
d' ogni altra vela di mare. S^on eran forse vele italiane ì E
r Etna gigante fumava dair alto e il -calca- gno d' Italia poggiava anir
onda azzurra quasi volesse spiccare il salto alla conquista del
mondo. Avrei voluto gettarmi in quel] ^ onda per sen- tirmi
bagnato dal mare d* Italia, avrei volato lan- ci armi per giungere più
presto a toccare- quella terra santa, quella terra tlivina, madre di tre
civiltà e aon ancora stanca ; quella terra d' eroi e di fljartiri,
in cui tante genti avevano bevuto le prime fonti tìol pensiero , avevano
imi>aruto i primi canti (Iella poesia. Quanto or^oglio^ quanto
amore e quanta irapazienza di ridare a qnella terra il bacio di madre ehc
mi «fetta va lontano; dai suoi orti fioriti, dalle 6U© città illuminate
dalla gloria, dalle vette dei suoi monti pittoreschi, dai campi
così fecondi dì vita. Se qnella non era un' estasi e che cosa è
dunque l'estasi 1 Se quello non era un rapimento dei seasi, del
cuore, dell' amore , del passato che si strìn- geva col presente; se
quella non era una santa ebbrezza; e che cos'è dunque il rapimento;
che cos'è r ebbrezza! — [ miei occhi eran gonfi di laf^rimCj ma
sorride vauo ; il mio labbro era muto, ma sorrideva tremando, come
davanti a un bacio ohe dovesse uecìdermi come uomo per trasfor-
marmi in un Dio. Estasi solitarie d' amor di patria devono
pro- vare quei pochij eletti che nascono per dar libertà o
grandezza alla patria e sognano prima e me>li- tauo poi l'opera grande
che si prefiggono a scopo della loro vita. Gran parte ili questi amori
solitarii e profondi si eouauma nell^ opera del pensiero, nelle
lun^^^he lotte di prepAvazìon^ ; ma tra le ansie di olii aspetta e
sperando teme ad of^i istante di per- dere il frutto di tanti sacrifici ,
di tanti sudori , e forse di tanti martirii ; vi devono esr^ere
istanti in cui alla mente riscaldata da tanto entusiasmo appare V
alba della vittoria in nn orizzonte lon- t-ano e la speranza del premio
fa batter forte il cuore. Quanti^ visioni sublimi devono esser ap*
parse al Mazzini, al Cavour, al Garibaldi, quando neir esilio o
nelgabinetto di ministro o sul campo di battaglia sognavano di far libera
, grande ed una la nostra patria e sentiviìuo «li poter essere
artefici primi in quest' opera grande ; sogno di tanti secolij miraggio
di tante generazioni. Le imprese degli eroi riuiangono scritte in
ta- vole di bronzo o in monumenti di marmo, scritte co[ ferro e col
fuoco, colle torture dell* ergastolo o le lunghe angoseie notturne del
pensiero che non dorme j ma ciò che non rimane scritto è Pe- stasi
che prepara quelle imprese e che le prevede in anticipazione.
Ogni frutto si feiionda neir amplesso dei petali profumati e
fulgenti di bellezza e ogni figlio di creatura viva nasce dall' anelito
di un grande amore. Cosi le opere magnanime che salvano un popolo o
che Io glorificano, clie rompono le catene dell' oppressione o allargano
le frontiere della patria non 80D0 mai uragani di violenti e o subitanee
divinazioni del geuio ; ma si preparano lenta- mente e lentamente
maturano nei sautiiiirì del cuore e del pensiero, là dove i ^ermi celati
pre- parano r albero fntnro ohe darà ombra a un' in- tiera nazione.
La poetala sprezzata solo dal volgo dei faccendieri, perchè non sono
capaci d' inten- derla, è la madre d*ogni opera grande e non e- è
grande soldato o grande uomo di Htato ehe non fosse anche e soprattutto
poeta. Poeta nel so- gnare imprese che ai più apparivano come pazae
utopie ; poeta uel fan taa ti e are e neir osare ; poeta uel deliziarsi
nelle sante visioni dell'avvenire; poeta nelle estasi <imorose che
mostra^io al eredente premio lontano di grandi vittorie. Xon invano i
Greci hanno detto che il poeta è un creatore. Né le sante estasi
dell' amor di patria anno con- cesse soltanto agli eroi , ai semidei
della storia. Tutti coloro che hanno fortemente amato la pa- tria,
tutti quelli che hanno dato ad essa il pensiero o il sangne , che hanno
cospirato jirìiua e studiato poi per darle grandezza e pot**iiaa,
pouno nella loro vita aver provato rapioientì delizioM. OgDuno pia
che sé stesso non può dare all' altare d' na grande affetto e nelle
rivoluzioni e nelle gfaerrej come nelle grandi lotte poli ti <; he gli
amanti della patria possono contarsi a legioni e la storia li
dimenticfi, appunto perchè son troppi. T^a storia ha fretta e personifica
iu nn tipo i martiri minori. Pellico è il martire delle cospirazioni,
Mazzini è V apostolo della religione della x^atria » Garibaldi 1'
eroe, la Cairoli è la martire delle niadri^ Cavour fe il pensiero in
azione, e così via> Per ogni forma del sagrifìzio y per ogni opera
della mente , per Ogni travaglio dei cuori, la storia segna un
indi- viduo che divien statua, ìdolo e tipo, e dimentica le molte
figure anonime, che si raggruppano in- torno a quei tipi e fanno loro
lieta ghii'landa. Né questi negletti della storia lamentano l'in-
^ustìzia : al monumento, alle corone, all' arco di trionfo essi non hanno
pensato mai. Essi hanno amato la patria e per essa hanno pianto o
sono morti : la loro missione è compiuta e sono felici come lo
furono PeUioo, Garibaldi e Cavour, An- ch' essi hanno provato le sante
estasi della spe- ranza e della vittoria^ e la patria li ha l)enedetti
e glorificati nel silenzio delle loro case , nel nido delle loro
famiglia o dei loro a rio ri. La patria è grande percliè ebbe dì tali
figli e attraverso le vene e i nervi clic congiunto uo le
generazioni scorre V omla deir entusiasmo fe palpita la voluttà del
sacrifizio. Che cosa sarebbe il Cristo aonzii gli ApostoU; che cosa
avrebbe fatto GarlbaLtU »euza la coorte dei Mille, e Cavoar senza i
pre- cursori del 31 ? No (lo voglio ripetere per la centesima
volta), la iiatnra non è così irtginsta come appare alle esigenze
dei più. Le gioie maggiori della vita non si misurano col metro del ^enio
o snlla bilancia della ricchezza. Tutti, innanzi morire, possono
es- sere baciati dalle labbra innamorate d'una donna; tutti
posisono render quel Via ciò alle labbra d'una Agli a. Nessuno è così
povero da non poter fare aagrifìzto dì se alla patria , nessuno così
infelice da non provare le estasi dell- affetto e della poe- sia.
Pel sole che dair alto illumina tutte le crea- ture della terra, nessuno
è grande, nessuno picco- lissimo e i suoi rag^ì entrano beatificando
e consolando nelle ftbre d' ogni cuore, nella porta iV ogni
tugurio. I piccoli numeri di ventano grossi se som muti iDsieme.
Così i piccoU affetti ponno divenire nra* gani se i cuori battono
insieme. CIic! co.sa è una gocciola? Eppure i* oceano è fatto tii
gocciole, Kessim affetto forse quanto Tamor di jiatria può per la
isna natura moltiplicarsi con grossi numeri e allora V entusiasmo degli
individui diviene onda che alla^^a le contrade e rapisce nella sua
cor- rente case e villaggi, città e popoli intieri. È que- sto un
punto ancora oscuro della psicologia umana e che pare dovrebbe formare
una delle baai te- tragone di ciò che suol chiamarsi la fllosofla
della atoria.* Come 3i sommano due affetti analoghi o eguali
? Di certo non colla regola aritmetica che 1 + 1^2, E oome si
moltiplica un entusiasmo , quando si ripete cento, mille, centomila volte
nello stesso tempo in cento, in mille, in centoraila cuori? An- che
qui la regola matematica non serve a spie- gare r allargarsi e il
diffondersi del fenomeno ri- percosso in tante coscienze umane. Vi sono
epidemie per il sentimento come pei morbi popolari» e
il difibiifieriii degli entusiasmi presenta gli sttsa misteri^ gli
stessi salti bizzarri^ gli stesai prodigi nome V allargarsi ^elle grandi
epidemie. L' incendio dei cuori per influsso d' nna gloria
nazioDale è uno degli spettacoli più grandiosi e commoventi del mondo
utnauo, ed io compiangd tnttì coloro , cbe nel corso della loro vita
non hanno 'potuto assistere ad una tli queste grandi feste, nelle
quali tutto un popolo canta Tinno della gioia e lo accompaguauo gli
squilli elettri^- zauti della vittoria e la fanfara del tumulto po-
polare e l'ebbrezza di tanti cuorij che sentono tiel tempo s^tesso la
stessa gioia , clie ardono deHii stessa febbre, dello stesso
delirio. Kon invano io ho rassomigliato ad un inceufiio
questi rapimenti nazionali: nessuna immagine po- trebbe rii|»presentare
più fedelmente lo svolgerai di questo fenomeno umano. Ma non ha ad
esser? incendio di pagliaio ^ che le società di assieara- zioni
registrano con dolore, o fi ara me di cucina, che pompieri
benemeriti spengono in un* ora colle loro pompe. Ci vuole nno di quelli
incendi delle vergini foreste e della pampa ci eli* America meri-
dionale^ che ho le tante volte veduto e ammirato nei nùei viaggi. La
fìatniua è venutu claU* alto o dal Im^^o , da na ftilinlue o dal focolaio
d' un viaggiatore : non importa. É fiamma che non riguarda le
socktà d^ mmìirazlomf né chiama a i?*è i pompieri. È fuoco Glie
s'allarga a destra e a sinistra^ che sale ìii alto lim^o le scale delle
liane sugli alberi alti come torri e che rade le erbe del basso come
rasoio ardente. Erbe e cespuglìj alberi e arbusti, piante di mille
anni e florclUai sboceiati ieri, tutto è in- vaso dalla stessa fiamma,
che tutto divora e eon- sama/ Nessuno resiste a quel fuoco, non U
cacto gonfio di succhi, non le foglie verdi, non i tron- chi secolari;
nessuna pianta, nessuna erba, nessun insetto che viva su quelle erbe,
nessun rettile che strisci , nesdun piccolo rosicante o armadillo
che s'accovacoi nelle tane, ne^ssuna belva del bosco, nessun
mammifero della pianarti. Dinanzi a riuel faoco tutti sono eguali e tutte
lo creature hanno ad ardere fiammeggiando , scoppiettando e deto-
nando* Vola la fiamma in colonne , striscia come onda, divampa come
nembo, e non appena il fumo porta nel fresco del verde il segno
preoarsore della distruzìane^ il famo divien calore e il calore
diviea ìucendio, E riiicendio cammina; prima incerto, poi
siouro; prima trotta, poi galoppa, vola; esaltandosi nel delirio d'
uo' opera gigante di distrazione e di li- vellazione* I piccioli
innalzano il loro fuoco nelle regioni degli alti; e gli alti precipitano
turbinando e rovesciando i tiazoni incandesoenti nel piano delle
creature minori. E volano le sointiUe e ser- peggiano le fiamme, uè
alcuno al mondo saprebbe dire chi dia maggior alimento a quelle
vampe. mag;2fior calore in quella voragine j in quella fa- Cina
gigantesca. Screpolano, adoppiano, gemono i rami succoienti e rovinano i
colossi della foresta^ portando lontano lontano T inno di una
grande rivoluzione^ fluchè fra cielo e terra non si distin* guono
più né erbe ne arbusti^ né alberi, né animali; ma una cosa sola si vede,
una cosa sola si sente, il fuoco trionfatore d'una fiamma invadente e
tiranna. È la festa del fuoco, è V orgia della distruzione; è la
morte di un mondo vecchio che prepara il terreno a un mondo
nuovo. Cosi sono le feste nazionali, non imposte da decreti di
prìncipi o da grida di ministri, ma sorte spontanee per Tirrompere di un
sentimento caldo, elle infiamma tutti 1 cuori, che riscalda tutte
le coscienze. E le anime fredde sono ravvolte dal- l' incendio
comune, e gli egoisti, volenti o nolenti, si riscaldano allo stesso fuoco
e i timidi non trovan Bcami>o alla fuga. On^ni creatura che abbia in
petto un e nere di uomo deve ardere p consu- marsi nella stessa fiamma.
Padri e figli e ignoti si abbracciano insieme e in una volta sola, e
il riso e il pianto che si confondono in un turbine solo fanno
ridda e alzano al cielo un grido solo ; che è r entusiasmo ; s' inebbri
ano dello stesso licore che è r affetto di patria. Anche il marmo si
riscalda, se ravvolto dalle fiamme, e anche il ghiac- cio si discioglie e
si consuma fra le vampe d'un incendio. Saltano le più robuste serrature
chiuse tlalla mano gelosa tleir avarizia , sì spezzano le catene
più robuste saldate dair egoismo e dalla paura. Ogni "cuore umano ha
ad ardere . dello stesso fuoco; e il ferro robusto e il piombo vileJianno
a fondere per una volta almeno in uuo ft tesso croglaolo , formando
una lega che bMì le le^^i della cliìmica e le analisi della scienza.
E 1111 popolo ebbro dì gioia', che non conta pia nelle sue flohiere
né poveri né ricchi, né gio vani ne vecchi; raa canta con una voce sola,
somma dì tutti i vafiitì, di tntte le poesie , dì tutti gli urli
umani : canta V inno della redenzione o della vittoria. Chi ha avuto
la fortuna di essere già uomo nel 48 e nel 5^ rammenta questi incendi
fìei onori italiani e per le membra forse già intirizzite tW freddo
dolla vec<3liiaia risente ancora il caldo di quel fuoco. E rammenta
ancora alcuni momenti di estasi sante, di ineffabili rapimenti^ nei
quali ogni altro sentimento taceva o si eclissava davanti al
divampare subitaneo e irresistibile di un unico sentimento, V amor di
patria. l'amoe di patria 111ir Coa\ come <lair incendio delle
foreste ver«:iiii nello strato dì cenere clie rimane si prepara una
terra feconda per nuove creature a venire ; così tietlp grandi estasi e
nelle sante eìylirezze di mi popolo trionfante, si prepara un nuovo
terreno in cui sarà scrìtta una nuova f^toria, È per questa via che
lo guerre diventano ri generatrici di nn popolo stanco; e quando per due
o tre i^enerazioni non di rampa uno di questi incendi
rigeneratori, i fanghi, le mutfe e i bacterii invadono ogni tronco
d' albero e ogni seme di pianta, e dalla lenta putrefazione dei cadaveri, s' innalza un miasma omicida, elle
soffoca i bambini nella culla, .sommerge i giovani nella palude deirozìo
e della noia, e uccide i non nati nel ventre delle madri. In tutte le lìngue
dei popoli civili voi trovate scritto che vi è un amore platonico, e se si è
sentito da tutti il bisogno del vocabolo, vorrebbe dire che la cosa esiste, o
nella natura o nel pensiero degli uomini. Noi non ci fermiamo abbastanza sopra
i rapporti delle parole colle cose, e ammettiamo si esso e volentieri
che tra i molti suoi capricci l'uomo
abbia anche codesto, di fabbricare parole
per cose che non esistono. Eppure ciò non è vero
o almeno non è vero che in parte. Se fabbrichiamo una parola
per un essere immaginario, è però vero
che questo essere fu immaginato da
noi e quindi esìste o è esistito nel
nostro cervello. Il guaio vero che si trova nello studio delle parole come
vestito delle cose è questo, che non
tutti gli uomini applicano lo stesso
vocabolo alla cosa stessa, soprattutto
quando si tratta dì fenomeni psicologici. Di
qui confasione, anarchia; torrenti d'inchiostro
e spreco infinito di fiato per
spiegarci, per intenderci e pur troppo, ahimè, per
creare nuove contese e nuove logomachie. Sappiamo tutti che cosa sia un
coltello, una mano, un occhio e a queste cose tutti applicano la stessa parola.
Andiamo pure quasi sempre d'accordo nel battezzare il piacere, il dolore,
l'odio, la collera e molti altri fatti del mondo psichico, che hanno per tutte
le coscienze lo stesso significato e che trovano nel
dizionario la loro rispettiva veste. Ma
ben altro avviene, quando si tratta
di fenomeni fugaci e confasi o di momenti
impercettibili di un'emozione o di un
intreccio di molteplici elementi. Allora la parola
non è che un'approssimazione grossolana o uno
sbaglio completo, e noi significhiamo con
uno stesso vocabolo le cose più
diverse, facendo come colui che volesse per
forza far entrare il proprio corpo in un
vestito che non fu fatto per lui.
Questo accade, per esempio, per l' aiwìre piatomeo.
Tutti adoperano questa parola per ischerzo
o sul serio, per ludibrio o per
difesa, per ipocrisia o per convinzione, ma
le idee che si rivestono con questa
stessa parola son così diverse, come il sì
e il no, come il vizio e la
virtù, come l'ipocrisia e l'idealità.
Proviamoci a interrogare, facciamo un'inchiesta,
muoviamo un processo alla parola, chiamando al
tribunale come giurati gli uomini del
volgo e i filosofi; gli uomini di
buon senso e le donne oneste; chiamiamo
pure anche gli scettici e i credenti;
i materialisti e gli idealisti. Che
cosa è l'amore platonico? L'amore
platonico è un paradosso, è un'utopia;
non è mai esistita e non esisterà
mai. L'amore platonico è una ipocrisia
che copre ben altra merce. L'amore
platonico è un lasciapassare per salvare
il contrabbando. L'amore platonico è una
falsa chiave o un grimaldello per poter penetrare in
casa d'altri senz'esser veduti. L'amore platonico è un
travestimento dell' impotenza. L' amore platonico è
una maschera ad uso dei ladri e
dei malfattori. L'amore platonico è la
quadratura del circolo. L'amore platonico è
la centesima versione della favola della
volpe, che trovava acerba l' ava che
non poteva arrivare. L' amore platonico è
l' amicizia fra un nomo e nna donna. L'amore
platonico è amore vero e proprio, ma senza
la colpa. L' amore platonico è l’ amore con
tutte le reticenze imposte dalla religione, dalla
morale o dalla necessità. L'amore
platonico è il voglio e non posso.
L'amore platonico è l'amore senza il
desiderio. L'amore platonico è una fraternità delle
anime, senza il possesso dei corpi.
L'amore platonico è l' ammirazione senza il
desiderio. L'amore platonico è tutto
l'amore, meno il pos- sesso. L'amore
platonico è tutto l'amore spogliato del-
l'animalità. L'amore platonico è una
doppia menzogna a cui non crede nessuno
dei due mentitori. L'amore platonico è
il primo stadio dei grandi amori e
l'ultima fase dei piccoli amori. L'amore
platonico è un patto giurato da due
che spergiureranno domani. L'amore platonico
ò un giuramento di marinaro fatto durante
la procella. L'amore platonico è una
concessione fatta oggi da ano dei due
contendenti colla speranza o la sicnrezza
di aver Taltra parte domani o
posdomani. L'amore platonico può essere
una finta battaglia fra due che non
sanno battersi o hanno paura del
sangue. L'amore platonico è un vescovato
in partibus infidelium concesso a chi
non si può dare una curia. L'amore
platonico è la metafisica dell'amore.
L'amore platonico è la più sciocca parodia
della più bella, della più grande, della più ardente delle umane
passioni. L'amore platonico è un leone di
gesso, è una tigre di carta pesta, spauracchi da bambini o ninnoli
di fanciulli. L'amore platonico è la più alta espressione dell'amore ideale.
L'amore platonico è il trionfo dell'uomo
sulla bestia, è l'amore reso eterno
dall'idealità delle aspirazioni. L'amore
platonico è la speranza; l'amore vero è
la fede. Estasi umane, Vili Sono
trenta definizioni molto diverse tra di
loro, alcune anzi opposte alle altre,
ma rappresentano a un dipresso tutte
le possibili. Lasciando da parte quelle
che, definendo la cosa, la negano,
mettendo in disparte le altre che
sono ironie o malignità, possiam dire, che
tutte hanno una parte di vero, per
cui forse, mettendole insieme in un
buon mortaio di agata, che la nobiltà
della materia esige tanta nobiltà di
strumento, e porfirizzando il tutto con
pazienza di chimico e sensualità di
farmacista, potremmo forse sperare di avere
la quintessenza della definizione, la vera
e unica e infallibile definizione dell'amor
platonico. Io mi son provato in
buona fede a questa operazione
chimico-farmaceutica e confesso dì averne ottenuto
un polifarmaco arabico-bizantino che mi
richiamava alla mente i preparati più bizzarri del
medio evo. Ho buttato via dunque il
mio pasticcio, e facendo appello al senso comune,
che anche nei più astrusi problemi
della psicologia spesso li risolve meglio
d'ogni altro senso, ebbi questa risposta. L'amore
platonico è il aentimmto che unisce
un uomo e una donna, che pur
desiderandosi, rinunziano volontariamente all'intreccio
del corpi, maritando le anime. Fin dove
arrivi quest'amore, fino a quando possa
vivere, io non so. Ho scritto un
libro (Le Tre Oraaie) per dimostrare
la possibilità di quest'amore, ma una
gentile e dotta scrittrice inglese scrisse
argutamente neWAcademy che io avevo
tagliato il nodo gordiano, ma non
l'aveva sciolto. Consultai molti inglesi,
intenditori profondi delle ipocrisie dell'amore,
chiedendo loro che cosa fosse la
flir- taUon, quali i confini entro i
quali si muovesse questa intraducibilissima
fra le intraducibili parole e ne ebbi
così svariate risposte, le une metafisiche,
le altre ciniche, da scoraggiarmi e da
fJEurmi desistere da ogni ulteriore ricerca
in pro- posito. Dunque? Dunque io ,
aspettando da altri più profondi
conoscitori del cuore umano, definizione
più precìsa, più scientifica, conservo la mia,
bastandomi per ora di affermarvi che
io credo fermamente nell'esistenza dell'amore
platonico, che credo nella sua rarità,
nella sua altissima idealità, e che
lo riconosco per uno dei fiori più belli e
più fragranti che fioriscono nel cuore
umano. É capace di rapimenti ineffabili, di
estasi degne di vivere all'altezza dell'estasi
religiosa e dell'affetto materno. Non ammetto
amore platonico fra dae vecchi, fra
due brutti, fra due creature che non
possono desiderarsi. Si dice da tutti, ma
falsamente, che le anime non invecchiano,
ma invece le anime invecchiano come i corpi,
e le anime che si uniscono nel
santo vincolo dell'amore platonico, hanno
ad essere giovani e bèlle. Questo
sentimento sublime non è possibile che
a rare creature elette, che sanno compiere
il mi- racolo di spogliare le anime
da ogni veste corporea, che sanno spogliare
la passione da ogni desiderio della
carne, e contemplandosi si ammirano e si
amano. Anche le anime come i corpi
hanno un sesso, e nell'amor platonico
stanno faccia a faccia e guardandosi
eternamente si rimandano senza toccarsi, torrenti di
luce e di calore. Due astri che
girano nella stessa orbita, che non
si toccanmai; che sorgono insieme con
una stessa alba, che collo stesso tramonto
svaniscono e sfumano nella grande voragine
dell'infinito. Sempre in moto, ma sempre
distanti Vnn dal* l'altro, attratti allo
stesso centro e respinti dagli stessi poli; in
relazione tra di loro soltanto per
fasci di luce e oitde di calore. L'anima
dell'aomo fatta di forza e di azione, l'anima
della donna è fatta di grazia e
di bontà; e queste dne natnre umane
che sommate insieme formano l'uomo completo
si attraggono eternamente, ma non si fondono
insieme, arrestate dal dovere, che permette
loro di amarsi, ma proibisce loro di
toccarsi e di fondersi. La massima delle
attrazioni diventita immobilità, la massima
delle forze divenuta ammirazione, contemplazione,
estasi divina. Nessun attrito, nessuna resistenza, nessuna trasformazione
di energia; nessuna cenere perchè non vi è
fiamma; ma luce; nessuna stanchezza, perchè
non vi è lavoro; nessuna morte perchè
la vita è arrestata dal miracolo
sublime che faceva arrestare il sole nel
cielo nei tempi della Bibbia. Nessun
bisogno di mutamento, perchè solo la
stanchezza o la noia (che non è altro
che una forma di stanchezza) può dar
desiderio d' incostanza. L'amore platonico deve
essere puro da ogni voluttà terrena; è
questa la sua grandezza, è questa
l'acqua lustrale che lo battezza e lo
santifica. Quelle due immense forze che si
attraggono senza toccarsi e senza
confondersi, rimangono immobili e fìsse; ma
se una delle due vacilla, dimi-
nuisce d'un battito solo la propria energia,
la più debole è subito attratta dall'altra
e l'urto è irre- sistibile. Schizza una
scintilla o divampa una fiamma ; ma
l' amore platonico è distrutto. Più volte
i due astri vengono così vicini l'uno
all'altro che ne oorrusoan lampi. Son
due . creature che nello spazio si
son toccate appena con un fremito di ali
spasimanti, ma l'ala deve fuggire con
santo e rapido pudore dal contatto
dell'ala. Guai a chi crede o sogna
che due grandi amori possano vivere della
vita celeste delle cose eterne, dopo
una carézza o dopo un bacio. Molti,
anzi i più degli amori platonici, muoiono
in questa maniera, perchè le due
anime innamorate sognano questo sogno, che
si possa fermarsi a metà strada sulla
china di certi pendii; ohe li'
credono o sperano che Torlo di certi
precipizi possa essere pietoso. Non un
bacio, non una carezza, non fosse che
qaella delle ali. Anche le ali sono materia
e materia viva e calda. Quando due
labbra si son toc- cate, ahimè, l'amor
platonico è ferito e per lo più
a morte. Le anime sole possono amarsi
platonicamente e la materia è sempre dotata
di gravità; fosse pnre piuma d'ala,
vello di cotone o massa di piombo. Il
precipitare di essa sarà lento o veloce
secondo la diversa densità della materia: i
venti pietosi delle reticenze, delle
difese, delle foghe faranno volare per
l'aria Iqngamente il filo di seta e
il fiocco di cotone, ma fatalmente,
ma inesorabilmente avranno a cadere. O
tutto o nulla è in amore un
assioma di quasi matematica pre- cisione, e
le donne, sempre più sapienti di noi
in questa materia, lo sanno e lo
ripetono sempre all'orecchio degli impazienti. Esse
sono le vestali del- l'amore platonico, le
custodi del pudore, e quando esse
vengon meno per le prime ai
giuramenti dell'amore platonico, non v'ha quasi
uomo su questa terra, che le aiuti
a salire. La caduta è fatale, è
irresistibile! Al contrario di quanto si
crede volgarmente, non sono i piccoli
aniQri, ma i f^frandi che soli sono
capaci di salire alle altezze dell’estasi
platonica, di subire quella sublime transustanziazione,
che arresta il desiderio alla soglia
del tempio, che trasforma la più
ardente delle passioni in una luce di
luna, che illumina, ma non riscalda.
I piccoli amori son pruriti animaleschi,
che si soddisfano grattandoci o
applicandovi dei pannolini bagnati nell’acqua
fredda. Essi non possono salire le
alte cime, perchè son deboli, molto
meno poi possono attraversare lo spazio,
perchè sono senz'ali. Molte false virtù non
sono che piccoli amori domati coi
fomenti freddi e quando li vedo
innalzati ai supremi onori del sagrificio e dell'eroismo mi vien
voglia di ridere. I grandi amori invece
non si domano che colla morte o
con un miracolo. Questo miracolo è Vamoi
e platonico. II credente, pieno di
fede, di speranza e soprattutto d'amore è
venuto al tempio, per pregare ed
amare. È venuto da lontano: almeno
per venti, forse per trent'anni ha
viaggiato e sudato per monti e per
valli, attratto alla Mecca dall'amore. Nel
lungo pellegrinaggio ha sudato e ha
pianto, ha patito la fame e la
sete, ma è giunto vivo alle porte
del tempio. I minareti dorati scintillano
al sole e dalle porte aperte escono
profumi di mirra e di rose. I grandi
amori sono religione o idolatria, e
il pellegrino s' inginocchia e prega prima
di essere ammesso all'adorazione del Dio.
Ed egli lo vede, ed egli lo
sente vicino. Nella luce rosea del tempio egli ha
veduto il gran Dio, che dispensa la
vita e la morte: ai suoi occhi
lampeggianti d'impazienza e di, ardore hanno
risposto altri due occhi, lampeggianti e ardenti
come i suoi. Egli ama e sarà amato;
ancora una preghiera e san consacrato li in
fondo al santuario del Sancta sanctorum,
dove il fumo degli incensi gli
nasconde la voluttuosa visione, dove un
coro di angeli gli cela i sospiri,
di chi come lui aspetta e desidera.
Un istante ancora, ancora una preghiera,
e tu avrai il premio del lungo
pellegrinaggio, dei lunghi dolori patiti.
Sei nato e hai vissuto venti, trent'anni
per cogliere quel fiore, che anch'esso non
sbocciò che dopo altri venti o trent'
anni vissuti da un' altra creatura
che nacque e visse per te. Oh
perchè quelli istanti non diventan secoli
e quei secoli Vili non
ardono in un istante sulUara del
desiderio e dell' amore? Una voce vi
ha chiamato, vi chiama. Voi siete
esauditi; voi siete ammessi nel tempio. La
creatura sognata per tanti anni, intraveduta
fra le nuvole della fantasia e le
iridi del desiderio, è là, vivente,
calda, giovane, davanti a voi e vi
sorride. Anch' essa aveva sognato,
desiderato, aspettato: se 1' asceta ha
bisogno di un Dio, anche Dio ha bisogno
dell'adoratore, e voi siete la creatura
sognata e aspettata da lei. Ogni
vostro sguardo diventa una carezza, ogni
vostra carezza un desiderio di carezze nuove,
e i baci aleggiano per l'aria facendo
intorno a voi un nembo di pe-
tali di rose. I desiderii son
divenuti benedizioni: due primavere, due
vite, due amori aspettano di fondersi
fra un istante in un solo paradiso
di fiori, di profumi e di voluttà.
Venga pure la morte; avrete vissuto
abbastanza, il mare vi sommerga pure, il
fuoco vi incenerisca, la terra vi
ingoi; al di là dell'infinito non v'
ha altro pensabile ; al di là
del tutto, che cosa desiderare ancora?
Amate e morite! Ma ecco che fra voi
e lei un angelo o un demonio, il fato
o il dovere ha messo una spada
di fuoco. Voi vi amate e vi
amerete fino all' ultimo respiro, ma
voi non vi toccherete. Non una
carezza, non un bacio; neppure i
flati confonderanno i tepori delle anime. Io
afiretto colla penna impaziente ciò che
in natura avviene lentamente, più spesso
per una serie non interrotta di
uragani. Senza lotta, senza agonia, senza
l'orto di Getsemani non avviene quella trasformazione
che muta due desiderii in una
rassegnazione, due passioni in un'estasi,
due soli nell'astro della notte. Nulla si
perde di quanto vive o si muove,
non la materia, non la forza che
non è altro che l'at- teggiamento della
materia, e anche ì cataclismi della
terra e del cielo, anche i cicloni
che scon- volgon la terra e
rovesciano le città sono trasformazioni di forze,
sono equazioni matematiche nelle quali il
prima e il poi si dimostrano come
quan- tità eguali. Così avviene anche
negli uragani del cuore. Due amori
dovevano confondersi insieme per riaccendere la
fiaccola della vita, due baci dovevano
sa- lire al cielo confusi in una sola
benedizione della vita trionfatrìce. E
invece, passata la procella, vin
rasserenato il cielo, noi vediamo il
pellegrino venuto da lontano al tempio d'amore
ancora sulla soglia, ancora prosternato e
in atto di rassegnata e serena
adorazione. E^ nel tempio, là in
fondo, fra le nuvole degli incensi e
il coro degli angeli, immoto il
Dio,che guarda il pellegrino con tenerezza
serena; e là rimarranno entrambi Dio e
crea- tura, idolo e sacerdote fino all'
ultimo respiro. L'amore che feconda è
divenuto l'amore che ammira; l'amore che ama
è divenuto l'amore che adora; il
sole che tutto colorisce e riscalda
si è trasformato nella luna, che fa
fantasticare e sospirare. Se avete letto
la mia Filologia del dolore, dovete
ricordare le pagine, nelle quali ho tentato
di studiare la psicologia della malinconia.
Fra questo caro fiore del giardino
del cuore e l'amore platonico vi sono
grandissimi rapporti di somiglianza. L'amore platonico
è una grande e soave ma- linconia e
chi l'ha potuto e saputo godere, non
rimpiange la gioia, perchè quel sentimento
ha bellezze più alte, ha misteri più
delicati, segreti più riposti e sublimi.
Dei vulcani, dei terremoti, degli uragani
che sono vita quotidiana dell'amore nulla
è rimasto : delle battaglie combattute
nes- sun cadavere, nessun membro divelto;
il terreno l'amob platonico lacerato dalle
bombe, solcato dalle artiglierie, madido di sangue
umano, è ritornato all'aratro; e le
spighe fioriscono, dove corsero i gemiti
dei moribondi e gli urli dei feroci. Una croce di legno piantata
sull'orlo del campo vi ricorda però la storia
del dolore e spande all'intorno un'aria
ma- linconica. Non invano io ho
invocato il tempio ad esprimere e contenere
i misteri dell'amore platonico, perchè
questo ha forme mistiche e le sue
estasi presentano molti caratteri del
rapimento religioso. Soffocato e spento il
desiderio, inutile la lotta, che cosa
rimane fuorché l'adorazione? E questa
adorazione che prima è consagrata all'
idolo, si affina sempre più, man mano
andiamo perdendo la memoria delle battaglie
combattute e la figura che adoriamo perde
ogni giorno più la propria personalit\
per prendere forma di mito o di
simbolo. La donna che adoriamo d'amore
platonico non è più per noi Laura
o Beatrice, ma è la donna, la
donna unica e sola che per noi
personifica tutte le bellezze, tutte le
grazie, tutti gli incanti di Venere e
di Eva. La donna amata ha
occhi che ci incantano, membra che le
mani accarezzano, chiome entro le quali si
smarriscono i desiderii come in un la-
birinto incantato. La donna amata d' amore
platonico non ha occhi, non membra,
non chiome, e perchè le avrebbe se
noi non possiamo baciarli e possederli
? Dio ha forse occhi, membra e
chiome f Noi amiamo platonicamente, ma
amando adoriamo; e l'adorazione è
l'estetica divenuta affetto o l'affetto divenuto
estetica, o direi meglio è un
sentimento che aleggia eternamente fra l'ammirazione di
una bellezza assoluta e un amore infinito
per questa bellezza, a cui non osiamo
dar forma, perchè anche questa ci
sembra una profanazione. L' amore abbraccia
sempre qualche cosa, colle mani o
colle braccia, colle labbra o col cuore;
l'amore platonico non abbraccia, perchè
l'infinito non si stringe; l'amore
platonico, contempla, ammira, adora. Siamo in
piena estasi e in estasi permanente:
nessun carattere del rapimento gli manca,
non la fissazione, non lo sprofondarsi di
tutte le sensazioni in una sensazione sola,
non la immobilità per tensione di
tutti i muscoli antagonisti, non la
ca- talessi, non la insensibilità per
eccesso di sensazione. E le estasi son due:
due come le creature che mutuamente
si contemplano e si adorano; due come
le forze, che campate nello spazio e
sempre lontane si invocano e si
attraggono e eternamente rimangono fìsse,
senza avvicinarsi di nna lìnea né
toccarsi mai. In cielo fra gli astri
avvengono que- sti fenomeni che gli astronomi
studiano; nel cuore umano avvengono gli
stessi fenomeni con leggi eguali, con
eguale miracolo di potenza e di
bellezza. Se l'amore platonico per la sua
alta idealità si avvicina ai rapimenti
mistici dell'asceta, ha per altri suoi
caratteri le profonde sensualità del-l'avarizia.
L'avaro e l'amor platonico hanno questo di
co- mune: possedere un tesoro che contemplano,
che adorano, ma che non spendono.
Quella donna che voi adorate, è d' altri
o di nessuno in apparenza, ma nessuno
l'ama come voi, per nessuno è bella
quanto lo è per vói. I vostri
sguardi, le vostre aspirazioni, i vostri
pensieri sempre rivolti a lei la
circondano d' un’aureola, che la isola dal
mondo. Essa è chiusa in uno scrigno
invisibile, ma non meno inviolabile; in
uno scrigno d'oro e di gemme
di cui voi solo avete la chiave.
E anch'essa, voi lo sapete, non ama
che voi. È il possesso potenziale, è
la proprietà ideale. Gosì appunto è
dell'avaro: egli contempla quei fasci di
biglietti miracolosi che possono a un
cenno trasformarsi in gioie, in lusso,
in ogni ben di Dio. E per volontà
nostra quella donna è intangibile, quel
denaro ' non si muove, ma quella
donna è nostra, quel tesoro è nostro.
L'amore platonico, ricco com' è di
rapimenti, ci presenta allucinazioni di
trascendente bellezza. Nessuno più abile
sarto per vestire i corpi nudi, nessuno
più ardito per spogliare i corpi vestiti.
Nelle visioni dell' asceta Dio appare
(come vedremo più innanzi) in aspetti
svariati, ma sempre bellissimo; e
l'adorazione che crea l'immagine si
raddoppia neir estasi d'ammirazione di quelle
bellezze. E così è noli' amore platonico, in
cui tutte le forze del pensiero, tutte
le energie del senti- mento, concentrandosi
in un punto solo, danno tali ali
alla fantasia e tale energia al suo
pennello da trasformare l'uomo in un poeta
e in un pittore in una volta
sola. Poeta che abbellisce e idealizza
tutto ciò che tocca; pittore che
della sua tavolozza fa una verga
magica che tntto riveste di un'iride
afiascinante. La donna adorata e non
posseduta è sempre Venere per noi;
Venere Afrodite quando la fantasia la spoglia,
Venere Urania quando la fantasia la ravvolge nei
densi veli della nostra gelosia e del
nostro rispetto. Nuda o vestita è sempre una Dea
per noi, e noi ne siamo i
sacerdoti. Anche le sante vedono Dio
nudo nelle loro visioni, né quella nudità è
meno casta o meno pudica. L'amore
platonico è tutto un pudore, perchè il
pudore è la riverenza dell'amore, è
la santificazione del desiderio. Oh quante
volte nei sileuzii della notte le
tenebre si illuminano per noi alla luce
mistica della fantasia e dall'onda azzurra d'un
mare tranquillo sorge per incanto al
fremito impercettibile d'una brezza che
vien dal profondo una visione di
donna. E noi assistiamo al mistico
nascere della Dea d'amore, assistiamo al
nascer della vita. Estasi umane, vili
E sorge dall'onda Spumeggiante pregna
degli inebbrianti e salsi aromi del
mare la visione della creatura amata, della
sola donna che per noi è donna,
e che nuda e casta come una
statua di Fidia, lucente dell' onda
che cade in mille perle su quella
perla sola che è il corpo di
lei, s'innalza fremente e flessuosa, come
una palma umana; e sorge e s'innalza sulle
sue colonne di marmo pario, inghirlandata
dalle chiome fluenti, che fanno piovere
una pioggia di perle sui morbidissimi
flanchi intomo a lei bolle e freme l'onda,
quasi ebbra dei contatti voluttuosi della
Dea, e guizzano nereidi e naiadi a
farle corona di bellezze minori, mentre
angioletti rosei svolazzano all'intorno di
lei, im- pazienti di accarezzarla colle ali
convulse. E nes- suna lascivia scuote le
nostre membra e nessun desiderio osa
turbare Testasi di quella contemplazione. Voi siete
sempre in ginocchio, col corpo o col
pensiero, davanti alla divina immagine che
adorate. E altre volte Venere non
esce dal mare, umida e calda delle
sue feconde aspergini, ma in un bosco
di allori sotto il cielo ellenico, scende
dal tempio e passeggia sorvolando sull'erba,
quasi statua che ubbidisce all'evocazione del
suo creatore e ritoma alla vita. E
gli inni dei poeti e le corde
d'oro delle arpe eolie cantano e suonano
le loro armonie, facendo coro di
ammirazione e osanna di adorazione alla dea
della bellezza, alla madre di tutti ì
viventi. E noi prostesi al suolo baciamo
l'orma profumata, che il piede divino
lascia sui muschi vellutati e fra
l'erbe odorose. Ma terra e mare non
bastano più a fare cor- nice alla
nostra visione trascendente e noi vediamo
la nostra Dea farsi creatura alata e spiccare
il volo nelle alte regioni del cielo.
Non più carni rosee o colonne di
marmo parlo, ma la carne dive-vni nuto
opale e le membra trasformate in ali.
E vìa per Paria e gli spazi infiniti
del vuoto, un aleggiar robusto e un
ondeggiar di chiome, or dorate dai
raggi del sole, or argentine al
chiaror della luna, or buie come le
tenebre degli abissi. E un fiam- meggiar
degli astri, che anch'essi nell'eterna pace dei
secoli, fremono alla vista di quella divina
bel- lezza e scintillano più caldi e
più splendidi, salutando colle ebbrezze della
luce una creatura deUa terra. E noi
dietro a quella visione, convertiti da
creature mortali in un sospiro di desiderio
che vola e insegue la donna alata.
La via lattea ci è guida al nostro
volo audace e tra la polvere degli
astri che non abbiam tempo di ammirare
e fra gli abissi dell'infinito e le
meteore deUo spazio cogli occhi fissi
a quella creatura che è cosa nostra
e di cui sentiamo nel vuoto infinito
il batter dell'ali, Siam rapiti in estasi
e speriamo di confonderci e sparire in
quella donna, che non è più donna,
ma angelo; che non è più angelo,
ma Dio; un Dio creato dalla nostra
fantasia e dal nostro amore. Sparire per
sempre e con lei, come dicesi che
le comete attratte dal sole si
consumino in un bacio ardente come
loro, ciclopico come lo spazio. Sparire
e confondersi, non ritrovar più il nostro
Io, non distinguere più qua! differenza passi tra
noi e lei, fra l'amare e Tessere,
fra l'uno e il due; non ricordarsi
della terra, del nascere e del
morire, della gioia e del dolore; non
pensare altro pensiero che il pensiero
di lei, perdere tutta la coscienza e tutta
la memoria, per sommergerle nel grande
oceano di una sensazione sola, l'estasi;
spogliarsi di tutte le passioni,
dimenticarle tutte, per non ardere che
d'una sola passione, l'amore. L'uomo e
la donna disgiunti sulla terra, ricongiunti nel
cielo e per sempre con un bacio
che non ha domani, con un amplesso
che trasforma le anime nella carezza di
quattro ali. * Le estasi
dell'amore platonico non sono tutte di
adorazione, ma possono presentarci le forme
della devozione, del sagrifizio spinto fino
al mar- tirio. Allora noi abbiamo i
rapimenti già descritti nell'amore materno,
nell'amor figliale e negli altri affetti
minori. Inutile ripetizione sarebbe quella
di ritrarre i lineamenti di questi
quadri sublimi, che tanto si rassomigliano.
L'ionico carattere che distingue tutte queste
forme svariate è quello di essere
accompagnato dall'ardore della più calda delle
passioni, di esser tutto imbevuto di
quell'amore che fu chiamato con questo
nome senza aggiunta di alcun agget-
tivo, quasi prototipo di tutti gli altri
amori. L'amore platonico può essere
potente e fecondo di estasi, anche
quando non è diviso da un'altra creatura.
Anche quando vibra in un solo cuore,
anche quando contraddice (rarissima eccezione)
il verso famoso del poeta: Amor ch'a
nullo amato amar perdona, può durare
tutta la vita, può essere il palpito
di ogni ora, il sogno d'ogni notte,
la religione mi- stica di un solo cuore. In
questi casi soltanto vi ha di diverso
e di caratteristico una soave ma-
linconia, forse confortata da una speranza
lontana che il nostro amore, pur
rimanendo sempre pia* tonico, 8iia diviso
da un' altr' anima. Xie estasi dell'
amicizia. Rapimenti dell'amor fraterno. Anche
senza il fascino del sesso, anche
senza i vincoli del sangue l'nomo può
amar l'uomo di quel sentimento che si
chiama amicizia. Ho gii\ parlato troppe
volte e a lungo nella mia Fisiologia
del piacere e in altri miei libri più
recenti dell'amicizia, né starò a
ripetermi. Qui non dob- biamo occuparci che
di quelle rarissime forme di questo
sentimento che possono portarci fino al-
l'estasi. L'amicizia è possibile fra
uomini e uomini, fra uomini e donne,
fra donne e donne; ma il sesso
è tale un elemento perturbatore d'ogni
altro af- fetto, che non sia amore,
da rendere 1' amicizia assai rara fra
ue persone di sesso diverso, e anche
quando i sensi non parlano e nessun
desiderio accompagna l'amicizia, questa è però
modi- ficata profondamente da quella tenerezza
irresistibile che l'uomo ha per la donna,
di quel bisogno di protezione che la
donna sente dinanzi all'uomo. Ecco perchè
preferirei separare dal gruppo delle Estasi
umane. L’ amicizie vere quella che Tuomo
e la donna pos- sono intrecciare tra di
loro, ravvicinando queste alla famiglia
degli amori platonici. V amicizia è
un sentimento di lusso e noi lo
vediamo mancare affatto o presentarci forme
atrofiche negli uomini di bassa gerarchia
psichica. Le sue energie sono deboli,
talché cedono subito il campo ad
altri sentimenti più imperiosi e che
hanno una grande missione nel ciclo
della vita. È anche per questo che
le donne ci presentano più raramente
esempio di calde e tenere amicizie.
In esse l' amore e la maternità occupano
tanta parte del cuore da non lasciare
il posto per altri sentimenti minori,
e d'altronde la galanteria virile fa
delle donne altrettanti rivali e semina
la gelosia e inviperisce le vanità e
solletica la malizia e la maldicenza;
per cui V amicizia fra donne è
pianta rara, che vive per lo più
vita breve e fra le pareti di
una stufa ben calda e custodita. Che
l'amicizia sia una pianta di lusso lo
prova il vederla fiorire nell' età
delle massime energie affettive, cioè nella
giovinezza. Col primo aocenno di capelli bianchi,
col primo chinar della curva vitale,
le amicizie nuove sono molto rare e
le antiche si conservano spesso per
abitudine, per ri- conoscenza, ma son fiacche
e messe quasi sempre nel secondo giro degli
affetti. Se r amicizia è sentimento
raro, è tanto più delicato e si
muove in una sfera di altissima idea-
lità. Intendo sempre parlare della vera,
della sublime amicizia, di quel sentimento
che fa di due nomini un nomo
solo, che li unisce mano con mano,
cuore con cuore, anima con anima. Per
lo più fra la massa del volgo
si chiamano con quésto nome simpatie
fugaci, associazioni d'interessi, con- suetudini
d'occasione ed altre cose ancor più vol-
gari e più basse. Per questa via di
certo nessun rapimento è possibile. Ciò
che dà il marchio di nobiltà all'amicizia
è V eleziùne che ne è il midollo e lo
scheletro, che- ne è il motivo
informatore. Non è soltanto negli ordini
politici che relezione sostituita all'eredità
o alla forza segna un gigantesco
progresso: anche nel campò degli affetti
l'elezione è il battesimo che li
consacra ad una vita gloriosa, che li
tra-sporta dai bassi fondi delle necessità
organiche nel cielo dell' idealità. Neil'
amore, nell' affetto di patria, nella
maternità, in tutti i potenti affbtti
che stringono l'uomo coi vincoli della
famiglia, vi è un vigore irresistibile, vi
è una forza trascen- dente, ma nello
stesso tempo noi ci sentiamo ra- piti
dal fato, dalla necessità:. Siamo ben felici
di questa cara necessità, Ina V Io, sempre
superbo, sente qualcosa più forte di
lui e riverente s' inchina e ubbidisce alle
leggi della natura. Nell'amicizia invece
nulla di tutto questo: nessun fato, nessuna
necessità, nessuna tirannia d'uomini, di cose o
di tempi. Due anime umane si
incontrano nel viavai della folla, si
contemplano e s'intendono. Un riso sorriso
in due, una lagrima pianta in due,
un grido d' entusiasmo escito prorompente,
irresistibile in uno stesso momento da due
petti umani, avvicina i cuori e
stringe le destre. Son due note
musicali, che partito da due. strumenti
lontani si sono incontrate per l’aria,
formando un accordo d'armonia. E quello
stringersi delle mani rivela nella sua
espressione semplicissima tutta la psicologia
più fine e più profonda dell'amicizia. In
amore son le labbra che tendon Farco
e si cercano; in amore son le
viscere che si intrecciano e si
fecondano: neir amicizia son le mani,
che si cercano e si stringono; gli
istrumenti del pensiero e dell'azione.
Sentire insieme e sentire egualmente, ammirare
le stesse cose e disprezzare gli stessi
uomini, par- lare commossi cogli stessi
i)oeti e benedire con una voce sola
lo stesso sole, ci fa parenti nelle
anime, come in amore le simpatie
fanno di due sangui un sangae solo,
di dae desiderii un desiderio solo, e colla
fiisione intima di due esistenze, creano una terza vita. L'amicizia
è una parentela d'elezione, è un
amore delle anime, è un sentire il
proprio pensiero sommato a un altro; i proprii
sentimenti, le proprie simpatie, le proprie
aspirazioni ripercossi sempre dall'eco affettuosa
di un'altra simpatia, di un'altra natura
umana, che risponde alla nostra. Dolcezze
ineffabili, voluttìi di altissima sfera,
che fanno l'uomo superbo d'esser uomo.
Questo consenso non cercato ma trovato,
questo combaciarsi intero e completo di due
anime, questo libero matrimonio di due
nature umane può bastare a rapirci in estasi
; quando soprattutto ci rifugiamo in
seno all' amicizia per sfug;^ire dagli urli
del profanum vulgus; quando siamo inseguiti
dal latrato dei cani ; quando ci
sentiamo asfissiati dal lezzo del fango
in cui pur troppo dobbiamo le tante
volte camminare e sommergerci. È allora
che l'oasi dell'amicizia ci stende la sue
braccia e ci involge colle sue ombre
profumate, colle sue brezze inebbrianti, e
proviamo la santa gioia di chi escito
da una cloaca immonda e oscura, si
trova nell'aperto cielo in mezzo alla
luce, all'aria pura; fors'anche fra il
profiimo dei fiori e il sorriso dei
bambini. L'estasi di due amici che si
comprendono, che ^i stringon le mani.
che si guardan negli occhi, leggendovi
riflessa Pimmagine di so stessi, è
muta come quasi tutti i rapimenti
della vita. É muta ed è profonda:
è serena eie azzurra. Non si sa
eome incominci e dove finisca; appunto
come noi non sappiamo, guardando in alto,
dove il cielo incominci e dove esso
finisca. Tiriamo profondo profondo il
respiro, perchè vorremmo quasi ingrandirci di dentro, come
ci sentiamo raddoppiati di fuori; e
il nostro Io si confonde, si
sprofonda con un'altra coscienza, quasi due
parti di un'anima sola, che separate
dalla violenza, incontratesi nello spazio,
ritornano ad essere una cosa sola. In
quei momenti beati ogni confine ben
definito della coscienza si ofiftisca e si
sperde : ci pare di essere due,
perchè godiamo sentimenti, bellezze, splendori el
vero o del buono in due; ci par
di essere uno, perchè sentiamo vibrare
due coscienze in unacocienza sola; perchè
le due anime si son abbrao- -ciate e
strette e confuse in un'anima sola.
Sante e care e dolci ebbrezze
dell'amicizia, che si elevano per la
loro purezza nelle sfere più alte dei
sentimenti umani. Se sono men calde
di quelle dell'amore, sono però più
durevoli e serene; se vi è meno
volutto, vi è più pensiero; se vi
è meno fuoco, vi è più luce. Ma
perchè questi sterili e vani confronti?
Perchè sagrificare anche noi a quel
maledetto gallo d' Esculapio, che costringe
sempre l’uomo a confrontare le cose che
studia e descrive? Forse che si pota
risolvere il problema la rosa sia più bella
del giglio, lo zafiBro più splendido
del diamante, il cavallo più bello del
leone? Lasciamo ogni bellezza al suo
posto e non tormentiamo le creature
del nostro pianeta, facendole passare sotto
le forche caudine delle nostre gerarchie.
La natura feconda e generosa non ha
mai scrìtto dei numeri sulle proprie
creature: nessuna prima, nessuna ultima, e il
muschio microscopico che nasce e fiorisce
fra le fessure del tronco d' una
palma superba, è bello quanto l'albero
maestoso che le offre l'ospitalità; e
la stretta di mano dell'amicizia è
cara quanto lo stringersi insieme delle labbra
innamorate. Le estasi dell'amicizia sono di
varie forme, ma quasi tutte possono
ridursi a queste due: estasi di
simpatm e estasi di conforto. Delle
prime ho parlato fin qui, riducendole
ad un'espressione sola. Le altre sono
più facili e più. comuni. Esse non
sono che estasi di carità rese più
intense, più cald, più poetiche, perchè il
sentimento che le ispira è di più
alta natura. Nella carità facciamo il
bene agli altri, solo perchè uomini; all'amico
diamo tutto noi stessi, per lui
facciamo i maggiori sagrifizii, perchè uomo
e perchè amico. Dall'elemosina che ci
umilia e può anche avvilirci, incomincia
una scala ascendente e che ha mille
gradini e pei quali si sale alle
forme più squisite della beneficenza.
Sulla più alta cima sta sempre 1'
amicizia, che conforta e aiuta e
soccorre senza umiliare e porge il
dono con tale delicatezza, che mal
sapresti dire, se sia più prezioso il
dono o più caro il modo con cui ti
vien presentato. ESTASI dell'amicizia
Impiccolire il sagrifizio fino a
nasconderlo affatto, mostrare che chi dà è
invece colui che riceve, ohe il donatore
rimane debitore ; nascondere nella gioia
di dare l'orgoglio di dare e
soffocare fin dal suo nascere l' involontario
rossore di chi riceve, sono altrettanti
miracoli che l’amicizia compie colla massima agilità
, colla maggiore naturalezza di questo mondo.
Indovinare il dolore anche senza il
pianto, presentire l'imbarazzo quando nessuno lo
sospetta, prevedere la sventura prima che
arrivi, il pericolo prima che l'allarme
sia dato, non attender mai che la
mano si stenda a voi, ma stendere
la vostra e nella stretta di mano
nascondere il benefizio, sono le prime
lettere dell' alfabeto dell' amicizia; son
problemi elementari che il cuore risolve di
primo acchito e senza bisogno di
studiare la matematica. Davvero che in
questi ca^i è diflBcile dire chi più
goda dei due, chi primo arrivi al
rapimento del benefizio fatto o della
riconoscenza caldissima. L'uno ha preveduto,
ha presentito, ha indovi-nato. L' amico soffre
ed io posso far tacere quel dolore.
L'amico ha bisogno di soccorso, di
con- forto, ed io sarò quei fortunato
che potrò soccorrere e confortare. Il cuore
batte forte forte in petto, le mani
tremano per 1' emozione e un sorriso
involontario e angelico corre sul nostro volto.
Tutti gli artificii più astati sono
da noi adoperati per far sembrar facile
ciò che è difficile, naturale ciò che
forse è per noi un doloroso
sagrìflzio. Nessuna astuzia è più raffinata, nessuna
ipocrisia più opaca, nessuna fantasia più
immaginosa di quella che adopera l'amico
per occultare il benefizio, per giungere
in tempo; per abbellire la carità
collo splendore della sorpresa. Il dono
dell'amico è un fiore bello e
profumato che ci presenta la mano di
un bambino, innocente e giulivo come la
bontà sempre aperta dell'uomo generoso,
rìdente come tutte le primavere della
vita e della natura. E chi riceve
ed è costretto a non vergognarsi di
ricevere e chi indovina tutte le
sante astruserie e i fini accorgimenti
che accompagnano V opera del conforto
e chi misura tutta 1' altezza dell' anima
che corre soccorrevole a noi, rimane
confuso e commosso e dallo strazio
della disperazione è portato di volo
alla beatitudine più sicura e più alta.
L'amico ci ha indovinato e l'amico
risponde con un'onda di riconoscenza; il
sorriso di chi fa il bene è
nobile come il sorriso di chi lo
riceve, e due estasi si confondono in
un'estasi sola. Chi più felice dei
due? Nessuno. Chi più grande? Nessuno.
Quale il debitore, quale il creditore?
Nessuno dei due; o entrambi creditori,
entrambi debitori. Chi più bello del
sole che illumina o della terra che
è baciata dal sole! Chi più bello
del cielo che si specchia nel mare o
del mare che si fa azzurro al
sorriso del cielo? Chi più dà e
più riceve della gloria dei grandi o
del riflesso d' amicizia che le turbe
innalzate dal genio rimandano al sole
del pensiero? Beata ignoranza codesta, di
non poter distinguere due bellezze che
si fondono in una bellezza sola ; due
gioie che si unificano ìa una voluttà sola;
due grandezze che si sperdono e si
consumano in una sola immensità. Non
malediciamo la vita, se questa ci
lascia lo spazio e il tempo per
essere uno di questi amici o per
assistere ad una di queste scene del
mondo morale. Quante bassezze, quante
viltà, quanto fango si devono trovare nei
sentieri pedestri della vita por
dimenticare uno di quei quadri, quante
tenebre ci vorranno per cancellare tanta
luce, quanto male per far dimenticare
tanto bene! Nessun fiume, per fangoso
che sia, ha potuto togliere all'oceano
le sue trasparenze; nessun sofiQo di
uomo ha potuto spegnere il sole, nessun
gelo Tha mai potuto raffreddare! L'affetto che
ravvicina i nati tVuno stesso padre e
d'una stessa madre, esiste abbozzato anche
negli animali. Gli uccellini allevati in
uno stesso nido, spesso anche quando
Thanno abbandonato, vivono assieme e si
amano: spesso anche le scimmie ed
altri mammiferi sentono di essere
fréitelli, ma queste fratellanze son pallide e
di piccola durata. I colpi di fucile
del cacciatore crudele, i lunghi viaggi, i nuovi
amori, spezzano ben presto i vincoli di
fratellanza, e dopo pochi giorni, o
poche settimane, o pochi mesi, secondo
i casi; ogni riconoscimento di uno stesso
sangue si dilegua e scompare. I
fratelli possono intrecciare un nuovo nido,
un incestuoso amore, o possono farsi
la più spietata guerra. Anche fra
gli uomini l'amore fraterno è spesso
pallido e non presenta che deboli
energie; i molti cuculi deposti nel
nido d'una famiglia, le antipatie e
le dissonanze dei caratteri troppo frequenti ad
onta della comune genealogia, le lotte
d'interesse opposto, le lunghe e necessarie
assenze imposte dalle vicende della vita,
sono altrettante cause l'amoe fraterno che possono rallentare
o rompere le catene fraterne. Fra fratello e
fratello, fra sorella e sorella si
aggiunge poi la ruggine delle gare di
vanità e di emulazione, e questa ruggine
corrode più ohe la lima di forti
passioni. Per tutte queste ragioni i
forti amori fraterni son rari, rarissime
le estasi affettive. Oserei però dire
che, meno rare eccezioni, Tamore fraterno
non ci mostra scene commoventi e sublimi,
che quando è rafforzato dalla simpatia
dei sessi opposti. Earo V affetto
intenso fra due fratelli, forse più
raro ancora quello fra due sorelle;
più comune invece il sentimento che
lega il fratello alla sorella. Quando
fratello e sorella si amano davvero,
si amano molto, il sentimento che li unisce
è un'amicizia resa ancor più calda dalla
comunanza del sangue e può giungere a
tanta forza e a tanta idealità da
avvicinarsi assai all' amore platonico. Son
due creature che non possono amarsi
d'amore, perchè troppo rassomiglianti, perchè
esciti dalle stesse viscere, perchè hanno
ricevuto il primo bacio dalle stesse
labbra, perchè hanno succhiato dallo stesso seno
quel secondo sangue che è un secondo
vincolo di parentela. E poi son
cresciuti insieme, hanno respirato i)er
tanti anni l'aria dello stesso nido,
hanno dormito tra le pareti della
Stessa casa, hanno pregato sotto la vòlta
della stessa chiesa, hanno pianto le
tante volte insieme; hanno diviso i terrori
infantili, si sono inebbriati insieme nelle
feste dell' infanzia e insieme hanno
subito le procelle dell'adolescenza e della
prima giovinezza. Come e perchè non
si amerebbero quelle due creature, che
vedono a vicenda rispecchiata tanta parte di sé
stesso nel cuore e nel pensiero
dell'altra? La comunanza delle memorie è
parentela del cuori e ad essa basta
un cenno, un sorriso, una parola per
rifare quei viaggi poetici e affascinanti nel tempo
che fu. Quei due forse hanno già
passata più che mezza la vita insieme,
fors'anche hanno insieme composto nella
fossa il loro babbo e la loro
mamma, e in un certo giorno
dell'anno, anche lontani e senz'essersi
chiamati, si trovano insieme sopra una stessa
tomba. E come e perchè quelle due
creature non si ame- rebbero; non si
amerebbero molto; non si amerebbero sempre?
La nostra sorella slam noi stessi
incarnati in un sesso diverso e
quando in essa noi vediamo riprodotti i
nostri lineamenti, rifatti gli stessi gesti,
riprodotti gli stessi gusti, le stesse
antipatie; sor-ridiamo di compiacenza, esclamando: s'io
fossi una donna, sarei lei! E la
nostra sorella non solo ci rassomiglia
nel volto, nei gesti, ma desidera le
stesse cose, sorride degli stessi scherzi, ha come
noi qnelle stesse debolezze, delle quali
dobbiamo spesso arrossire. E si ride
insieme, e si arrossisce insieme, dicendoci
nell'orecchio : Anche tuf — 8Ì anch^io!
E la nostra sorellina (che sorellina
è sempre ogni sorella, quando è molto
amata), e la nostra sorellina rassomiglia tanto
alla nostra mamma, che la si direbbe
la mamma ringiovanita. Essa ha per
noi tenerezze materne, indulgenze materne;
essa ci può abbracciare e baciare,
benché essa sia una donna. Quanto è
indulgente e buona! — Con lei
possiamo sfogare le nostre bizze,
confessare i nostri rancori; con lei possiamo
dividere tutte le amarezze dell' orgoglio
offeso, dell' ambizione delusa , delle
speranze svanite. Essa non e' invidia ma ci
ama. Essa non riderà di noi, né ci vorr.Y consolare coll’accusarci fattori
della nostra sventura. Essa è donna e con noi quasi madre; nessuna
osservazione, nessun rimprovero prima di averci medicati e guariti. Nessuna
domanda importuna o impertinente prima di averci fasciata la ferita. Possiamo essere
più vecchi di lei; essa ci tratterà sempre come bambini, sarà capace perfino di
prenderci fra le sue braccia e di farci la
ninna nanna. E la sorella si getta
fra le braccia del fratello. come non
può fare colle braccia di nessun
altro uomo. Del marito ha suggezione,
del padre ha rispetto; davanti al
figlio vuol essere infallibile. Il fratello
invece non è né marito, né padre,
né figlio, ma un po' di tutto questo. Egli è un uomo e la
sorella può appoggiarsi a lui come alla forza che protegge e difende. Egli é un
uomo, ma non sarà mai un giudice severo, perchè anch' egli prima di
gridare al peccatore, vorrà guarire il peccato e risanare la ferita. La sorella
è sicura che il fratello di lei avrebbe peccato come lei, s'egli si fosse
trovato nelle stesse circostanze ed essa è sicura di trovare una grande
indulgenza, una misericordia grande come quella del Cristo. Ma non
occorre peccare per rifugiarsi fra le braccia fraterne del figlio della
nostra mamma. Il fratello ha piti
ingegno di noi, più di noi ha
studiato e vissuto. Egli ci darà la
luce per camminare nelle tenebre della vita, egli
ci darà un braccio poderoso per
appoggiarsi, egli sarà la nostra bussola nel gran
mare delle umane dubbiezze. E che
faresti tu In questo caso f Come
esciresii tu da questo labirinto f
Dimmi se io ho fatto benet Dimmi
vi è ancora un rimedio a tanto
male f „ E le domande si
succedono le une alle altre, senza
attender risposta e le risposte diventan
altrettante domande; ed è un affollarsi confuso e prorompente di
parole, di sorrisi, di lagrime: e
sono abbracci che interrompono domande e
risposte e sono baci che valgono più
d'un volume di ragionamenti e son
singhiozzi che taciono alla soavità d'una
carezza e son carezze che vogliono esser rimproveri e
rimangono invece carezze dolcissime e sono
due anime di uomo e di donna,
che possono vedersi nudi l'un l'altro
senza arrossire, perchè non hanno sesso
e sono come Adamo ed Eva prima che
avessero bisogno di coprirsi delle foglie
dell'albero mistico dell'Eden. n questi casi e in altri consimili
la commozione può giungere fino al
rapimento, e l'estasi si afferma con tutti i suoi
caratteri di isolamento dal mondo esterno
e di concentrazione di tutte le forze
del sentimento e del pensiero in un
punto solo del mondo psicologico. Beati
coloro che l’hanno Estasi liman, provata, fosse
poi gioia che prendeva il posto d'un
grande dolore o gioia che si faceva cento
volte maggiore, perchè si moltiplicava colla
igioia d' nn' anima sorella. L'amore
fraterno è un sentimento di lusso,
tanto è vero che è appena abbozzato
e fuggevole negli animali e così pure
è debole nelle razze e nelle nature
inferiori. I sentimenti di lusso sono
i più indistinti, quelli che hanno
frontiere meno sicure, per modo che si confondono
facilmente con altri affetti di analoga
natura. L'amore fraterno confina coir iimore
platonico e coli' amicizia, e tanto è
vero che spesso udiamo escire dalle
labbra commosse di due amici, che non
pensan punto a far della psicologia,
questi gridi dell'anima: Io il amo
più che un Fratello. Tu mi sei più fraUllo
che amico. La nostra amicizia è una
vera fratellanza delle anime. Noi non siamo amici
ma frnt4ilU! E d' altra parte non di
raro due fratelli escla- mano alla lor
volta. Ma il nostro affetto è una
santa amicizia. Ma anche senza i lincoli
del sangue noi saremmo due amici. Se mi fosse
permesso tentare di distinguere il caratt-ere proprio delle estasi
dell'amicizia e quello dei rapimenti dell'affetto
fraterno, direi che nel primo caso vi
è una grande fratellanza nell'urna- nità
che ci eleva al disopra del volgo
e che nel secondo la voce del
sangue ci tiene più vicini al nido
e quindi piti caldi, più commossi,
più inteneriti. Nei rapimenti dell'amicizia vi è
più pensiero, in quelli dell'affetto fraterno vi è
più viscere.Nei primi la differenza di
sesso turba l'estasi o la porta in
altre regioni, nei secondi invece questa differenza è quasi
sempre necessaria e contribuisce assai ad accendere i cuori, ad affinare, a
intenerire, a commuovere gli animi che salgono insieme in
quest'Olimpo del sentimento. Descrivere tutte le
possibili estasi umane s.irebbe dar fondo
all'universo psicologico e nessuna forza
d'uomo vi basterebbe. Io mi accontenterli accennare ad alcuni
rapimenti dell'affetto fratemo: altrettanti quadri presi
dal vero e che potrebbero ispirare il poeta, il pittore, lo
scultore.Due fratelli vivono in paesi lontani Uun dall'altro e vengono a
conoscere per via indiretta, che il babbo si trova in grave imbarazzo di
afifari commerciali. Accorrono non chiamati, si incontrano sulla soglia della
casa paterna. Si sorprendono, si interrogano. Son venuti per
la stessa ragione chiamati dalla stessa
voce interiore. Hanno pensato la stessa cosa, lo stesso
piano, gli stessi progetti per salvare l'onore del padre. Lo possono fare e lo
faranno. Esaltati, commossi, si gettan nelle braccia l'un dell'altro e godono
un soavissimo rapimento dell'anima. Due fratelli che lavorano insieme, hanno
pensato uno stesso libro, senza scambiarsi una sola parola. Venuti a
comunicarsi a vicenda i loro progetti, si trova che essi si incontrano e si
combaciano.Lo stupore diventa ammirazione, l’ammirazione contentezza,
beatitudine. Essi si abbraccino, si inebbriano della gioia di aver fusi due
pensieri in un solo pensiero. I fratelli De Goncourt devono aver provato più
volte quest'estasi deliziosa. Due sorelle hanno perduto runico fratello, vedovoe
padre di numerosa famiglia. Sul cadavere del
caro perduto suggellano un bacio in due, che è
conclusione d'un giuramento fatto in silenzio, nello
stesso momento. Esse non prenderanno marito,esse daranno tutto il loro tempo,
il loro dinaroai nipotini che fanno loro figlinoli, che si stringono al seno in
uno slancio di carità generosa. Quelle due anime beate di aver pensato in uno
stesso istante la stessa cosa si abbracciano, si stringon forte forte
cuore contro cuore; confondono lagrime, singhiozzi, sorrisi e
godono una delle estasii fraterne più complesse e più alte che possa godere
anima umana. Una donna è tradita, tradita nel santuario della famiglia,
precipitando nella disperazione dall'alto d'ana felicità senza nubi.Tutto si
oscura, l’aria diviengelo, la terra spine, il cielo un'uragano. Essa ha un
fratello, le scrive una parola sola: Vieni e mi salva! Ma il fratello ha
saputo la sventura piombata sul capo della sorella, prima ancora che la lettera
fosse scritta. Suona un campanello, si apre un uscio, vi si precipita un uomo.
La sorella lo guarda, non sa piangere e non può ridere. Gli porge la lettera
ancora umida dall'inchiostro ed egli legge quelle quattro parole e neppur lui
può ridere o piangere o parlare. Perchè quei due fortunati non cadrebbero in
estasi in quel momento? Due naufraghi iV una fiera procella della vita son
rimasti soli nel mondo. La donna in un mese ha perduto tuttii figliuoli uccisi
dalla difterite, ruomo era solo ed è divenuto cieco. Quei due non hanno
più né padre, né madre, né zii, né cugini, ma essi son fratello e
sorella. Questi hanno attraversato continenti e mari e si sono abbracciatiper
non separarsi più mai. Perché non cadrebberoessi in estasi? L'estasi è sempre
uno stato eccezionale, passeggero,e la più partedegli uomini non l'hanno mai
provato.Taluni piìl rozzi e incolti durano fatica anche a immaginarselo. La sua
bella etimologia greca f x-a radice, lo star fuori, esprime mirabilmente questo
concetto. La parola di estasi è dunque greca, e i greci pia poeti dei latini,
dovettero conoscere meglio di questi uno stato di trascendente idealità. I
romani, gente positiva, patica, popolo d'azione, non conobbero Vestasi, ma
l'indicarono con perifrasi diverse : mentis excessu, animi abalienatio. Tommaso
Campailla. Keywords: oposcolo, ecstasi, estasi, animis abalienation, mentis
excessus. discorso disordinato, discorso ordinato, discorso umano, uomo, vita.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Campailla” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Campanella: l’implicatura conversazionale del
katùndi dialit -- utopia italiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Stilo). Filosofo italiano. Grice: “One has to take
Campanella seriously; admittedly, an Oxonian will focus on More, but Campanella
is closer to Plato! I especially like that the walls of the city of “Sol” –
it’s a proper name for the prince, not the sun! – have all the semiotic elements
of the semiotic systems by which the ‘solari’ communicate – Campanella designs
a very Griceian model based on ‘efficiency’ and LOVE! There’s ibenevolence
everywhere – indeed, it is Campanella’s Sol’s City that I was thinking when
inventing the principle of conversational benevolence to be spoken in the City
of Eternal Truth!” -- one of the most important of the Italian
philosophers. H. P. Grice enjoyed his
philosophical poems. Tommaso Campanella, al secolo chiamato Giovan Domenico C.,
noto anche con lo pseudonimo di Settimontano Squilla (Stilo), filosofo,
teologo, poeta e frate domenicano italiano. Giovan Domenico Campanella
nacque a Stilo, un piccolo borgo della Calabria Ulteriore, al tempo parte del
Regno di Napoli (attualmente in provincia di Reggio Calabria) come egli stesso
più volte afferma nei suoi scritti e come dichiarò il 23 novembre del 1599 nel
carcere di Castel Nuovo a Napoli, al giudice Antonio Peri: «son di una terra
chiamata Stilo in Calabria Ultra, mio padre si domanda Geronimo C. e mia madre
Caterina Basile». Fino al 1806 si conservava anche l'atto di battesimo nella
parrocchia di San Biagio, borgo di Stilo, così redatto: «Battezzato Giovan
Domenico C. figlio di Geronimo e Catarinella Martello, nato il giorno da me D.
Terentio Romano, parroco di S. Biaggio nel Borgo». Il padre era un ciabattino
povero e analfabeta che non poteva permettersi di mandare i figli a scuola e
Giovan Domenico ascoltava dalla finestra le lezioni del maestro del paese,
segno precoce di quella voglia di conoscenza che non l'abbandonò per tutta la
vita. La famiglia si trasferì nella vicina Stignano e il padre pensò di
mandare il figlio presso un fratello, a Napoli, perché vi studiasse diritto, ma
il giovane Campanella, per il desiderio di seguire corsi regolari di studi e
abbandonare un destino di miseria, più che per una reale vocazione religiosa, decise
di entrare nell'Ordine domenicano. Novizio nel convento della vicina Placanica,
vi fece i primi studi e pronunciò i voti a quindici anni nel convento di San
Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso (in onore di san Tommaso
d'Aquino), continuando gli studi superiori a Nicastro e poi, a vent'anni, a
Cosenza, dove affrontò lo studio della teologia. L'istruzione ricevuta
dai domenicani non lo soddisfaceva e non gli era sufficiente: «essendo
inquieto, perché mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto falsità in
luogo della verità rimanere nel Peripato, esaminai tutti i commentatori
d'Aristotele, i greci, i latini e gli arabi; e cominciai a dubitare ancor più
dei loro dogmi, e perciò volli indagare se le cose ch'essi dicevano fossero
nella natura, che io avevo imparato dalle dottrine dei sapienti essere il vero
codice di Dio. E poiché i miei maestri non potevano rispondere alle miei
obiezioni contro i loro insegnamenti, decisi di leggere da me tutti i libri di
Platone, di Plinio, di Galeno, degli stoici, dei seguaci di Democrito e
principalmente i Telesiani, e metterli a confronto con il primo codice del
mondo per sapere, attraverso l'originale e autografo, quanto le copie
contenessero di vero o di falso». Fu in particolare il De rerum natura
iuxta propria principia di Bernardino Telesio una rivelazione e una liberazione
insieme: scoprì che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la
natura poteva essere osservata per quello che è, e poteva e doveva essere
indagata con i mezzi concreti posseduti dall'uomo, con i sensi e con la
ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti e senza
mandare a memoria quanto altri credevano di aver già scoperto e di conoscere su
di essa. Era il 1588 e Telesio, che da anni era tornato a vivere nella nativa
Cosenza, vi moriva ottantenne proprio in quei giorni. Il neofita frate
entusiasta non poté sottrarsi a deporre sulla bara, nel duomo, versi latini di
ringraziamento devoto. Quelle che dai suoi superiori furono considerate
intemperanze gli costarono il trasferimento nel piccolo convento di Altomonte,
dove tuttavia il C. non rimase inattivo: la segnalazione di alcuni amici, che
gli mostrarono il libro di un certo Jacopo Antonio Marta, napoletano, scritto
contro l'amato Telesio, lo spinse a replicare e concluse quella che è la sua
prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata, pubblicata a Napoli due anni
dopo. In essa C. ribadì la sua adesione al naturalismo di Telesio,
inquadrato però in una cornice neoplatonica, di derivazione ficiniana, per la
quale le leggi della natura non mantengono più la loro autonomia, come in
Telesio, ma sono spiegate dall'azione creatrice di Dio, dal quale deriva anche
l'ordine provvidenziale che governa l'universo: «chi regola la natura è quel
glorioso Iddio, sapientissimo artefice, che ha provveduto in modo da non
reprimere le forze della natura, nella quale tuttavia agisce con misura».
C. non poteva rimanere a lungo ad Altomonte: abbandona il convento calabrese e
se ne andò a Napoli, ospite dei marchesi del Tufo. Nella capitale del
viceregno, pur non abbandonando l'abito di frate, fu tutto inteso ad
approfondire i suoi interessi neoplatonici e scientifici, che allora erano
connessi strettamente con gli studi alchemici e magici: «scrissi due opere,
l'una del senso, l'altra della investigazione delle cose. A scrivere il libro
De sensu rerum mi spinse una disputa avuta prima in pubblico, poi in privato
con Porta, lo stesso che scrisse la Fisiognomica, il quale sosteneva che della
simpatia e dell'antipatia non si può rendere ragione; disputa con lui avuta
appunto quando esaminavamo insieme il suo libro già stampato. Scrissi poi il De
investigatione rerum, perché mi pareva che i peripatetici ed i platonici
portassero i giovani per una via larga ma non diritta alla ricerca della
verità». Il De sensu rerum et magia, iniziato a scrivere in latino, fu
completato e dedicato al granduca di Toscana Ferdinando I de' Medici;
sequestratogli il manoscritto a Bologna dal Sant'Uffizio, fu riscritto in
italiano, tradotto in latino e
pubblicato finalmente a Francoforte. C. vi persegue una sintesi di naturalismo
telesiano e di platonismo: a Democrito e ai materialisti rimprovera di voler
far derivare l'ordine del mondo all'azione degli atomi, che non hanno
sensibilità, e agli aristotelici la mancata iniziativa di Dio nella
costituzione della natura. D'altra parte egli non intende nemmeno sacrificare
l'autonomia delle forze che agiscono nella natura, pur se la spiegazione ultima
delle cose va ricercata nella primitiva azione divina. Secondo C., i tre
principi, materia, caldo e freddo, di cui è composta la natura, sono frutto
della creazione divina: «Dio prima fece lo spazio, composto pure di Potenza,
Sapienza e Amore e dentro a quello pose la materia, che è la mole corporea. Nella
materia poi Dio seminò due principi maschi, cioè attivi, il caldo e il freddo,
perché la materia e lo spazio sono femmine, principi passivi. E questi maschi,
da codesta materia divisa, combattendo, formano due elementi, cielo e terra,
che combattendo tra loro, dalla loro virtù fatta languida nascono i secondi
enti, avendo per guida della generazione le tre influenze, la Necessità, il
Fato e l'Armonia, che portano l'Idea». Le tre primalità (primalitates)che
corrispondono alle tre nature divinecostituiscono il triplice carattere di ogni
essere: Dio «ha dato a tutte le cose potenza di vivere, sapienza e amore quanto
basti alla loro conservazione. Dunque il calore può, sente e ama essere, e così
ogni cosa, e desidera eternarsi come Dio e attraverso Dio nessuna cosa muore ma
si muta soltanto, anche se ogni cosa pare morta all'altra e in verità è morta,
così come il fuoco pare cattivo al freddo ed è veramente cattivo per lui, ma
per Dio ogni cosa è viva e buona». Se si considera ogni cosa nel tutto ci si
rende conto che nulla muore veramente: «muore il pane e si fa chilo, questo
muore e si fa sangue, poi il sangue muore e si fa carne, nervi, ossa, spirito,
seme e patisce varie morti e vite, dolori e piaceri». Dalla Potenza le
cose sono solo perché possono essere e hanno una determinata natura; Dio
attraverso questa potenza dona la Necessità alle cose, la Sapienza permette
alle cose di conoscere il Fato, ossia il saper vedere la successione di
causa-effetto nei processi naturali e infine l'Amore permette l'Armonia fra gli
esseri, perché questi amano essere così e non diversamente: «tutti gli enti si
compongono di Potenza, Sapienza e Amore e ognuno è perché può essere, sa essere
e ama essere, combatte contro il non essere e, quando gli manca il potere o il
sapere o l'amore dell'essere, muore e si trasmuta in chi ne ha di più».
Tutte le cose hanno sensibilità: «Tanta sciocchezza è negare il senso alle cose
perché non hanno occhi, né bocca, né orecchie, quanto è negare il moto al vento
perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha denti, e il vedere a
chi sta in campagna perché non ha finestre da cui affacciarsi e all'aquila
perché non ha occhiali. La medesima sciocchezza indusse altri a credere che Dio
abbia certo corpo e occhi e mani». Inoltre C. ci parla anche delle
primalità del non-essere, presenti inevitabilmente nel mondo finito, che sono
l’Impotenza, l’Insipienza e l’Odio: solo in Dio, che è infinito, le primalità
dell'essere non sono contrastate dalle primalità del non-essere. A queste tre
primalità si contrappongono le potenze negative, che possono variamente
combinarsi alle primalità nell'ambito delle varie forme della magia, che è
l'insieme delle regole che vanno osservate per intervenire nella natura. Il
mago è il sapiente che scopre le relazioni esistenti tra le cose: «beato chi
legge nel libro della natura, e impara quello che le cose sono, da esso e non
dal proprio capriccio, e impara così l'arte e il governo divino, facendosi di
conseguenza, con la magia naturale, simile e unanime a Dio». La magia si
manifesta attraverso le sensazioni, che possono essere negative o positive:
sensazioni che l'uomo coglie, e che gli fanno capire di essere parte integrante
di un ordine universale; tuttavia, nonostante sia parte di questo ordine, può
opporsi a tale ordine, e se si oppone all'ordine universale la magia è
negativa, se invece si armonizza, ovvero cerca di seguire l'ordine universale,
allora la magia è positiva. La pubblicazione della Philosophia
sensibus demonstrata provocò scandalo nel convento di San Domenico: un
domenicano che non frequenta il convento e che rifiuta Aristotele e San Tommaso
per Telesio non può essere un buon cattolico. Anche se nessuna affermazione
eretica è contenuta nel libro, C. fu arrestato dalle guardie del nunzio
apostolico con l'accusa di pratiche demoniache. Non si conoscono gli atti del
processo ma è conservato il testo della sentenza, emessa in San Domenico,
contro «frater C. de Stilo provinciae Calabriae» dal padre provinciale di
Napoli, fra Erasmo Tizzano e da altri giudici domenicani. L'accusa di praticare
con il demonio e di aver pronunciato una frase irriverente contro l'uso delle
scomuniche vengono a cadere, ma resta quella di essere un telesiano, di non
tener conto dell'ortodossia filosofica d’AQUINO (si veda) e di essere stato per
mesi «in domibus saecolarium extra religionem»: dopo quasi un anno di carcere
già scontato, è allora sufficiente che reciti dei salmi e torni, entro otto
giorni, nel suo convento di Altomonte. C. si guardò bene dall'ubbidire
all'ordine del tribunale, che lo avrebbe costretto a rinunciare, a soli 24
anni, a un mondo di cultura nel quale egli era convinto di poter offrire un
contributo fondamentale. Così, munito di una lusinghiera lettera di presentazione
al granduca di Toscana, rilasciatagli dall'amico ed estimatore, il padre
provinciale di Calabria fra Polistena, C.
partì da Napoli alla volta di Firenze, con il suo carico di libri e
manoscritti, contando su di un posto di insegnante a Pisa o a Siena. La
prudente diffidenza di Ferdinando I, che non mancò di chiedere informazioni sul
suo conto al cardinale Del Monte, ottenendo una risposta negativa, spinse il 16
ottobre Campanella a lasciare Firenze per Bologna, dove l'Inquisizione, che lo
sorvegliava, per mezzo di due falsi frati gli rubò gli scritti che si portava
appresso, per poterli esaminare in cerca di prove a suo danno. Ai primi
del 1593 Campanella fu a Padova, ospite del convento di Sant'Agostino. Qui, tre
giorni dopo il suo arrivo, il Padre generale del convento venne nottetempo
sodomizzato da alcuni frati, senza che egli potesse identificarli, e perciò,
fra i tanti sospettati del grave abuso, anche il C. fu messo sotto inchiesta.
Non si sa se dall'inchiesta si passò a un processo che abbia visto imputato,
tra gli altri frati, anche C.: in ogni caso egli ne uscì innocente.
Rimase a Padova, probabilmente con la speranza di trovarvi lavoro; vi incontrò
Galileo e conobbe il medico e filosofo veneziano Andrea Chiocco. Ma il
Sant'Uffizio lo teneva ormai sotto osservazione: fu nuovamente arrestato. Fu
accusato di: aver scritto l'opuscolo De tribus impostoribusMosè, Gesù e
Maomettodiretto contro le tre religioni monoteiste, un libro della cui
esistenza allora si favoleggiava, ma che nessuno aveva mai letto; sostenere le
opinioni atee di Democrito, evidentemente un'accusa tratta dall'esame del suo
scritto De sensu rerum et magia, rubatogli a Bologna; essere oppositore della
dottrina e dell'istituzione della Chiesa; essere eretico; aver disputato su
questioni di fede con un giudaizzante, forse condividendone le tesi, e di non
averlo comunque denunciato; aver scritto un sonetto contro Cristo, il cui
autore sarebbe stato però, secondo Campanella, Pietro Aretino; possedere un
libro di geomanzia, che in effetti gli fu sequestrato al momento dell'arresto.
A Padova, in un primo tempo gli furono contestate solo le ultime tre accuse:
per estorcere le confessioni, Campanella e due imputati presunti
«giudaizzanti», Ottavio Longo, originario di Barletta, e Giovanni Battista
Clario, di Udine, medico dell'arciduca Carlo d'Asburgo, furono sottoposti a
tortura. Nel frattempo, dall'esame del suo De sensu rerum, fatto a Roma,
dovettero trarsi nuove imputazioni, che richiesero lo spostamento del processo
da Padova a Roma, dove infatti Campanella fu condotto e rinchiuso nel carcere
dell'Inquisizione, Per difendersi dalle nuove accuse di essere oppositore della
Chiesa, Campanella scrisse già nel carcere padovano un De monarchia
Christianorum, perduto, e il De regimine ecclesiae, ai quali fece seguito, nel
1595, per contestare l'accusa di intelligenza con i protestanti, il Dialogum
contra haereticos nostri temporis et cuisque saeculi e, a difesa
dell'ortodossia di Telesio e dei suoi seguaci, la Defensio Telesianorum ad
Sanctum Officium. La tortura cui fu sottoposto nell'aprile del 1595 segnò la
pratica conclusione del processo: il 16 maggio C. abiurava nella chiesa di
Santa Maria sopra Minerva e veniva confinato nel convento domenicano di Santa
Sabina, sul colle Aventino. Le disavventure giudiziarie di Campanella non
finirono però qui. Il 31 dicembre 1596 era stato liberato dal confino di Santa
Sabina e assegnato al convento di Santa Maria sopra Minerva; intanto, a Napoli,
un concittadino di C., condannato a morte per reati comuni, Scipione
Prestinace, prima di essere giustiziato, forse per ritardare l'esecuzione,
denunciava diversi suoi conterranei e il Campanella in particolare, accusandolo
di essere eretico: così, il 5 marzo, Campanella fu nuovamente
arrestato.[25] Non si conoscono i precisi contenuti della deposizione del
Prestinace né i dettagli del nuovo processo, che si concluse: nella sentenza,
Campanella fu assolto dalle imputazioni e, diffidato dallo scrivere, liberato
«sub cautione iuratoria de se representando toties quoties», finché, consegnato
ai suoi superiori, questi lo confinino in qualche convento «senza pericolo e
scandalo». In tutto questo periodo di tempo, il Campanella non era
certamente rimasto inoperoso nemmeno sotto l'aspetto della produzione
speculativa e letteraria: oltre agli scritti difensivi del De monarchia, del
Dialogo contro i Luterani e del De regimine, e ai Discorsi ai prìncipi
d'Italia, che è un tentativo di captatio benevolentiae all'indirizzo della
Spagna, giustificato dalla difficile situazione giudiziaria, scrisse l'Epilogo
magno, destinato a essere integrato nella successiva Philosophia realis, con il
Prodromus philosophiae instaurandae, l'Arte metrica, dedicata al compagno di
sventura Clario, la Poetica, dedicata al cardinale Cinzio Aldobrandini, e i
perduti Consultazione della repubblica Veneta, Syntagma de rei equestris
praestantia, De modo sciendi e Physiologia. Ai primi del 1598
Campanella prese la via di Napoli, dove si fermò diversi mesi, dando lezioni di
geografia, scrivendo le perdute Cosmographia e Encyclopaedia facilis e
terminando l'Epilogo Magno. In luglio s'imbarcò per la Calabria: sbarcato a
Piana di Sant'Eufemia, raggiunse Nicastro e di qui, il 15 agosto, Stilo, ospite
del convento domenicano di Santa Maria di Gesù. Per poco tempo il
Campanella rimase tranquillo in convento, dove scrisse il piccolo trattato De
predestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae, nel quale affermò
la dottrina cattolica del libero arbitrio. In un abbozzo dei suoi Articuli
prophetales, appare già l'attesa del nuovo secolo che gli sembra annunciato da
fenomeni straordinari: inondazioni del Po e del Tevere, allagamenti e terremoti
in Calabria, il passaggio di una cometa, profezie e coincidenze astrologiche.
Un nuovo mondo sembra alle porte, a sostituire il vecchio che in Calabria, ma
non solo, vedeva «i soprusi dei nobili, la depravazione del clero, le violenze
d'ogni specie la Santa Sede sanciva i soprusi e proteggeva i prepotenti. Il
clero minore, corrottissimo nei costumi, abusava ogni giorno più delle immunità
ecclesiastiche, e profanava in ogni modo il suo ufficio. Fazioni avverse
contendevano talvolta aspramente tra loro, e non poche lotte erano coronate da
omicidi e delitti d'ogni specie. Gruppi di frati si davano alla campagna, e,
forniti di comitive armate, agivano come banditi, senza che il governo
riuscisse a colpirli. I nobili e le famiglie private, dilaniate da inimicizie
ereditarie, tenevano agitato il paese con combattimenti incessanti tra fazioni l'estrema
severità delle leggi, che comminavano la pena di morte per moltissimi delitti
anche minimi la frequenza delle liti e delle contese, aumentavano in maniera
preoccupante il numero dei banditi». In tale situazione di degrado e
nell'illusione di un rivolgimento già scritto nelle stelle, Campanella
progettò, senza preoccuparsi di valutare realisticamente le possibilità di
realizzazione, la costituzione in Calabria di una repubblica ideale, comunistica
e insieme teocratica. Era necessario per questo cacciare gli Spagnoli,
ricorrendo anche all'aiuto dei Turchi: cominciò a predicare dai primi mesi del
1599 l'imminente ed epocale rivolgimento, intessendo nell'estate una fitta
trama di contatti con le poche decine di congiurati che aderirono a quella
fantastica impresa. Le autorità ebbero ben presto sentore del tentativo di
insurrezione e in agosto truppe spagnole intervennero a rafforzare i presidi.
Il 17 agosto Campanella fuggì dal convento di Stilo, nascondendosi prima a
Stignano, poi nel convento di Santa Maria di Titi; infine, nascosto in casa di
un amico, progettò di imbarcarsi da Roccella, ma venne tradito e consegnato il
6 settembre agli spagnoli. Incarcerato a Castelvetere, il 10 settembre firmò una
confessione nella quale faceva i nomi dei principali congiurati, negando ogni
sua partecipazione all'impresa. Ma le testimonianze dei suoi complici erano
concordi nell'indicarlo come capo della cospirazione. Trasferito a Napoli
insieme ai suoi compagni di avventura, Campanella fu rinchiuso in Castel Nuovo.
Avvenne il riconoscimento formale dell'accusato, descritto come «giovane con
barba nera, vestito di abiti civili, con cappello nero, casacca nera, calzoni
di cuoio e mantello di lana». Il Santo Uffizio non ottenne dall'autorità
spagnola che i religiosi imputatiCampanella e altri sette frati
domenicanifossero trasferiti a Roma e papa Clemente VIII, l'11 gennaio 1600,
nominò il nunzio a Napoli, Jacopo Aldobrandini e don Pedro de Vera, che fu
fatto ecclesiastico per l'occasione, giudici nel processo che si sarebbe tenuto
a Napoli. Ad essi venne aggiunto il 19 aprile il domenicano Alberto
Tragagliolo, vescovo di Termoli, già consultore nel primo processo, scelto dal
papa per trattare in modo favorevole Campanella, poiché Clemente VIII era,
anche se prudentemente, antispagnolo. C. era passato sotto la
giurisdizione del Sant'Uffizio, che nessun tribunale statale poteva violare,
nemmeno nei casi di lesa maestà. Ciò permise di ritardare la prevedibile
condanna a morte del frate. Durante il processo presieduto dal vescovo
Benedetto Mandina, Campanella, sotto tortura, riconobbe le proprie eresie e, in
quanto relapso, diventò passibile della pena capitale. La sua strategia di
difesa, disperata e rischiosissima, fu quella di fingersi pazzo, poiché un
eretico insano di mente non poteva essere messo a morte dal Sant'Uffizio.
I giudici, dubbiosi, lo sottoposero il 18 luglio, per un'ora, al supplizio
della corda per fargli confessare la simulazione, ma egli resistette,
rispondendo alle domande cantando o dicendo cose senza senso. L'accettazione da
parte dei giudici della pazzia avvenne il 4 e 5 giugno 1601, durante una
terribile seduta di tortura denominata "la veglia", che consistette
in 40 ore di corda alternata al cavalletto, con tre brevi interruzioni. La
resistenza morale e fisica di Campanella gli permise di superare la prova,
anche se rimase poi tra la vita e la morte per sei mesi.
Frontespizio della Metaphysica Trascorse 27 anni in prigione a Napoli.
Durante la prigionia scrisse le sue opere più importanti: La Monarchia di Spagna
(1600), Aforismi Politici (1601), Atheismus triumphatus, Quod reminiscetur,
Metaphysica, Theologia, e la sua opera più famosa, La città del Sole, in cui
vagheggiava l'instaurazione di una felice e pacifica repubblica universale
retta su principi di giustizia naturale. Egli addirittura intervenne sul
cosiddetto “primo processo a Galileo Galilei” con la sua coraggiosa Apologia di
Galileo (scritta nele pubblicata nel 1622). Fu infine scarcerato nel
1626, grazie a Maffeo Barberini, arcivescovo di Nazareth a Barletta, poi papa
col nome di Urbano VIII, che personalmente intercedette presso Filippo IV di
Spagna. Campanella fu portato a Roma e tenuto per qualche tempo presso il
Sant'Uffizio; fu liberato definitivamente. Visse per V anni a Roma, dove e il
consigliere di Urbano VIII per le questioni astrologiche, avendo con successo,
secondo il Papa, impedito il verificarsi di profezie che preannunciavano la sua
morte imminente in occasione di due eclissi. Però, una nuova cospirazione
in Calabria, portata avanti da uno dei suoi seguaci, gli procurò nuovi
problemi. Con l'aiuto del cardinale Barberini e dell'ambasciatore francese de
Noailles, fuggì in Francia, dove e benevolmente ricevuto alla corte di Luigi
XIII. Protetto da Richelieu e finanziato dal re, vive al convento parigino di
Saint-Honoré. Il suo saggio e un poema che celebrava la nascita del futuro
Luigi XIV (Ecloga in portentosam Delphini nativitatem). Gli è stato
dedicato un asteroide, 4653 Tommaso. Il pensiero di C. prende le
mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio;
egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura
vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e
materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli
esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura
della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato
che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all'esasperazione questo
naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi
ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea
(materia). Il problema della conoscenza (e la rivalutazione dell'uomo) Il
naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della
conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la
conoscenza è possibile solo grazie all'azione diretta o indiretta dei sensi, e
che Colombo aveva potuto scoprire l'America perché si era rifatto alla
sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla
sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da
quella sensitiva. Tuttavia C., a differenza di Telesio, cerca di rivalutare
l'uomo e pertanto afferma l'esistenza di due tipi di conoscenze: una innata,
una sorta di coscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei
sensi. La prima è definita ‘sensus inditus', che è la conoscenza di sé, la
seconda ‘sensus additus' che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza
del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé,
invece, appartiene solo all'uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante.
Campanella si rifà ad Agostino d'Ippona, poiché afferma che noi possiamo
dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della
conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus' sarà poi il punto essenziale della
filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito': io penso quindi esisto (cogito
ergo sum). La religione e la politica In base a queste premesse,
Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una
religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione
che rispetta l'ordine universale dell'universo stesso; le religioni positive
sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però
che il cristianesimo è l'unica religione positiva, poiché è imposto dallo
stato, ma al contempo coincide con l'ordine naturale (cui però aggiunge il
valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione
razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli
sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale,
individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella
Francia, a seconda di convenienze politiche e personali. La città del
Sole Magnifying glass icon mgx2.svg La città del Sole. Civitas Solis
Campanella fu autore anche di un'importante opera di carattere utopico, ovvero
La città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale,
utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole,
un dio laico proprio di una religione naturale, di cui C. stesso è sostenitore,
pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo
re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su
cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In
questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel
delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a
Platone (V secolo a.C.) e all'Utopia di Moro. Fra gli antecedenti dell'utopismo
campanelliano è da annoverare anche La nuova Atlantide di Francesco Bacone.
L'utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un
modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l'uguaglianza, allora questo
Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. È però importante
sottolineare che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò
Machiavelli rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello
Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo,
finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere.
Interpretazioni storiografiche del pensiero politico L'incertezza è già
evidente nell'interpretazione della critica idealistica, che, nei limiti di una
conoscenza ancora incompleta dell'opera, coglie nel pensiero campanelliano un
deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia
da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale. Per
Silvio Spaventa, Campanella è il "filosofo della restaurazione
cattolica", in quanto la stessa proposizione che la ragione domina il
mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato.
Non molto dissimile la lettura di Francesco de Sanctis: "Il quadro è
vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il
papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto,
perché la ragione governa il mondo". È la ragione che determina e giustifica
i mutamenti politici, e questi ultimi "sono vani se non hanno per base
l'istruzione e la felicità delle classi più numerose". Tutto ciò conduce
Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno
immanentismo. Opere Aforismi politici, A. Cesaro, Guida, Napoli An
monarchia Hispanorum sit in augmento, vel in statu, vel in decremento, L.
Amabile, Morano, Napoli Antiveneti, L. Firpo, Olschki, Firenze; Apologeticum ad
Bellarminum, G. Ernst, in «Rivista di storia della filosofia», Apologeticus ad
libellum ‘De siderali fato vitando’, L. Amabile, Morano, Napoli 1887
Apologeticus in controversia de concepitone beatae Virginis, A. Langella,
L'Epos, Palermo 2004 Apologia pro Galileo, Michel-Pierre Lerner. Pisa, Scuola
Normale Superiore, Apologia pro Scholis Piis, L. Volpicelli, Giuntine-Sansoni,
Firenze 1960 Articoli prophetales, G. Ernst, La Nuova Italia, Firenze; Astrologicorum
libri VII, Francofurti 1630 L'ateismo trionfato, ovvero riconoscimento
filosofico della religione universale contra l'antichristianesimo
macchiavellesco, G. Ernst, Edizioni della Normale, Pisa; De aulichorum technis,
G. Ernst, in «Bruniana e Campanelliana», II, 1996 Avvertimento al re di
Francia, al re di Spagna e al sommo pontefice, L. Amabile, Morano, Napoli 1887
Calculus nativitatis domini Philiberti Vernati, L. Firpo, in Atti della R.
Accademia delle Scienze di Torino, 74, 1938-1939 Censure sopra il libro del
Padre Mostro [Niccolò Riccardi]. Proemio e Tavola delle censure, L. Amabile,
Morano, Napoli; Censure sopra il libro del Padre Mostro: «Ragionamenti sopra le
litanie di nostra Signora», A. Terminelli, Edizioni Monfortane, Roma 1998
Chiroscopia, G. Ernst, in «Bruniana e Campanelliana», I, 1995 La città del
Sole, L. Firpo, Laterza, Roma-Bari Commentaria super poematibus Urbani VIII,
codd. Barb. Lat.; Biblioteca Vaticana Compendiolum physiologiae tyronibus
recitandum, cod. Barb. Lat. 217, Biblioteca Vaticana Compendium de rerum natura
o Prodromus philosophiae instaurandae, FrancofurtiCompendium veritatis
catholicae de praedestinatione, L. Firpo, Olschki, Firenze 1951 Consultationes
aphoristicae gerendae rei praesentis temporis cum Austriacis ac Italis, L.
Firpo, Olschki, Firenze 1951 Defensio libri sui 'De sensu rerum', apud L.
Boullanget, Parisiis 1636 Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri
eretici, D. Ciampoli, Carabba, Lanciano 1911 Dialogo politico tra un Veneziano,
Spagnolo e Francese, L. Amabile, Morano, Napoli 1887 Discorsi ai principi
d'Italia, L. Firpo, Chiantore, Torino 1945 Discorsi della libertà e della
felice soggezione allo Stato ecclesiastico, L. Firpo, s.e., Torino Discorsi
universali del governo ecclesiastico, L. Firpo, POMBA, Torino Disputatio contra
murmurantes in bullas ss. Pontificum adversus iudiciarios, apud T. Dubray,
Parisiis Disputatio in prologum instauratarum scientiarum, R. Amerio, SEI,
Torino 1953 Documenta ad Gallorum nationem, L. Firpo, Olschki, Firenze Epilogo
Magno, C. Ottaviano, R. Accademia d'Italia, Roma 1939 Expositio super cap. IX
epistulae sancti Pauli ad Romanos, apud T. Dubray, Parisiis 1636 Index
commentariorum Fr. T. Campanellae, L. Firpo, in «Rivista di storia della
filosofia», II, 1947 Lettere 1595-1638, G. Ernst, Istituti Editoriali e
Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma; Lista dell'opere di C. distinte in tomi
nove, L. Firpo, in «Rivista di storia della filosofia», II, 1947 Medicinalium
libri VII, ex officina I. Phillehotte, sumptibus I. Caffinet F. Plaignard,
Lugduni 1635 Metafisica, Giovanni Di Napoli, (brani scelti del testo latino e
traduzione italiana, 3 volumi), Bologna, Zanichelli 1967 Metafisica.
Universalis philosophiae seu metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata. Liber
1ºPonzio, Levante, Bari 1994 Metafisica. Universalis philosophiae seu
metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata. Liber 14º, T. Rinaldi, Levante,
Bari 2000 Monarchia Messiae, L. Firpo, Bottega d'Erasmo, Torino 1960
Philosophia rationalis, apud I. Dubray, Parisiis 1638 (comprende Logicorum
libri tres) Philosophia realis, ex typographia D. Houssaye, Parisiis 1637
Philosophia sensibus demonstrata, L. De Franco, Vivarium, Napoli 1992 Le
poesie, F. Giancotti, Einaudi, Torino; Poetica, L. Firpo, Mondatori, Milano
1954 De praecedentia, presertim religiosorum, M. Miele, in «Archivum Fratrum
Praedicatorum», LII, 1982 De praedestinatione et reprobatione et auxiliis
divinae gratiae cento Thomisticus, apud I. Dubray, Parisiis 1636 Quod
reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, R. Amerio, MILANI,
Padova 1939 (L. I-II), Olschki, Firenze; Del senso delle cose e della magia,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 De libris propriis et recta ratione. Studendi
syntagma, A. Brissoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Theologia, L. I-XXX,
Libro Primo, Edizione Romano Amerio, Vita e Pensiero, Milano, 1936. Scelta di
alcune poesie filosoficheChoix de quelques poésies philosophiques, Edizione
Marco Albertazzi, Traduzione francese di Franc Ducros, La Finestra editrice,
Lavis Campanella nel cinema La città del
sole, regia di Gianni Ameliol A. Casadei, M. Santagati, Manuale di letteratura
italiana medievale e moderna, Laterza, Roma-Bari; Firpo, C. «Dizionario
biografico degli Italiani», Roma 1974: «Non hanno fondamento le asserzioni
ricorrenti, attizzate da un patetico campanilismo, che lo vorrebbero nato nel
vicino comune di Stignano». Nel Novecento nacque una disputa campanilistica tra
il comune di Stilo e quello di Stignano, che rivendica di aver dato i natali al
filosofo calabrese e indica nel proprio territorio la presunta casa natale di
Campanella In Luigi Firpo, I processi di
C., Roma; In Opere di Tommaso Campanella, Alessandro d'Ancona, Torino 185412.
Un decreto del 16 maggio 1968 ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione
Caleffi fissa la casa natale di Tommaso Campanella nell'attuale Comune di
Stignano, al tempo casale del vastissimo territorio di Stilo, adducendo a prova
del fatto l'archivio provinciale di Napoli. La differente indicazione del
cognome della madre, Basile e Martello, fa ritenere che quest'ultimo sia un
soprannome Massimo Baldini,Nota
biobibliografica, in T. Campanella, La Città del Sole, Newton Compton, Roma; C.
Syntagma de libris propriis et recta ratione studendi, I Germana Ernst, Tommaso Campanella: The Book
and the Body of Nature; Springer Netherlands,.
Gli amici Giovanni Francesco Branca, medico di Castrovillari, e Rogliano
da Rogiano, entrambi telesiani, gli segnalarono il libro dell'aristotelico
Marta, il Propugnaculum Arìstotelis adversus principia B. Telesii, Roma; Philosophia
sensibus demonstrata, impressum Neapoli per Horativm Salvianum 1591 Il libro è andato perduto T. Campanella, Syntagma de libris propris14 John M. Headley, Tommaso Campanella and the
Transformation of the World, Princeton
University Press, 1997. T. Campanella,
De sensu rerum et magia, II, 26
Pubblicata da Vincenzo Spampanato in Vita di Giordano Bruno, Messina; Il
cardinale rispose che l'inquisitore fra Vincenzo da Montesanto gli aveva
riferito che del Campanella «si rivedono molti libri pieni [...] di leggerezza
e vanitade, e [...] ancora non sono chiari se vi sia cosa che appartenghi alla
religione»; cfr: lettera del Del Monte a Ferdinando I del 25 settembre 1592 in
Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, f. 3759
La vicenda di questo sequestro, simulato con il furto, è esaminata da
Luigi Firpo, Appunti campanelliani, in «Giornale critico della filosofia
italiana», XXI, 1940 Non vi sono
documenti relativi a quell'episodio, essendone unica fonte lo stesso Campanella
in due sue tarde lettere, a papa Paolo V il 12 aprile 1607 e a Kaspar Schoppe
il 1º giugno dello stesso anno, nelle quali Campanella sottolinea la sua
innocenza senza entrare in dettagli.
Campanella, lettera a Kaspar Schoppe del 1º giugno 1607: «accusarunt me
quod composuerim librum de tribus impostoribus, qui tamen invenitur typis
excusis annos triginta ante ortum meum ex utero matri». Due libri di simile contenuto furono scritti
soltanto alla fine del Seicento e ai primi del Settecento. Campanella, ivi: «quod sentirem cum
Democrito, quando ego iam contra Democritum libros edideram». Ibidem: «quod de ecclesiae republica et
doctrina male sentirem». Ibidem: «quod
sim haereticus». Campanella, lettera al
papa del 12 aprile 1607: «Primo ex dicto unius judaizantis molestatus». Il
giudaizzante dovrebbe essere un certo Ottavio Longo da Barletta, anch'egli
arrestato a Padova e processato a Roma.
Ibidem: «secundo ob rythmum impium Aretini non meum». «Lecta depositione Scipionis Prestinacis de
Stylo, Squillacensis Diocesis, facta in Curia archiepiscopali Neapolitana,
Illustrissimi et Reverendissimi Domini Cardinales generales Inquisitionis
praefatae mandaverunt dictum fratrem Thomam reduci ad carceres dictae Sanctae
Inquisitionis», in L. Firpo, I processi di Tommaso Campanella88 C. Dentice di Accadia, Tommaso Campanella, Opere Tommaso Campanella, Apologia pro
Galileo, Frankfurt am Main, Gottfried Tampach, 1622. Tommaso Campanella,
Metaphysica, 1, Paris, 1638. Tommaso
Campanella, Metaphysica, 2, Paris, 1638.
Tommaso Campanella, Metaphysica, 3,
Paris, 1638. Tommaso Campanella, Poesie, Bari, Laterza; C., Medicinalium libri,
Lugduni, ex officina Ioannis Pillehotte: sumptibus Ioannis Caffin, &
Francisci Plaignard, 1635. Delle virtù e dei vizi in particolare, testo critico
e traduzione Romano Amerio, Ed. Centro internazionale di studi umanistici,
Roma, 1978 Studi Luigi Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi
processi e la sua pazzia, 3 voll., Morano, Napoli (ristampa anastatica, Franco Pancallo
Editore, Locri 2009). ID., L'andata di Fra Tommaso Campanella a Roma dopo la
lunga prigionia di Napoli, Memoria letta all'Accademia Reale di Scienze Morali
e Politiche, Tipografia della Regia Università, Napoli 1886 (ristampa
anastatica, Franco Pancallo Editore, Locri 2009). ID., Fra Tommaso Campanella
ne' castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, 2 voll., Morano, Napoli Giuliano
F. Commito, IUXTA PROPRIA PRINCIPIA Libertà e giustizia nell'assolutismo
moderno. Tra realismo e utopia, Aracne, Roma; Cunsolo, Tommaso Campanella nella
storia e nel pensiero moderno: la sua congiura giudicata dagli storici Pietro
Giannone e Carlo Botta, Officina F.lli Passerini e C., Prato 1906. Rodolfo De
Mattei, La politica di Campanella, ARE, Roma 1928. ID., Studi campanelliani,
Sansoni, Firenze Francisco Elías de Tejada, Napoli spagnola, IV, cap. II, Tommaso Campanella astrologo e
filosofo, Controcorrente, Napoli. Luigi Firpo, Ricerche campanelliane, Sansoni,
Firenze 1947. ID., I processi di Tommaso Campanella, Salerno, Roma Antonio
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Editrice,. Luca Addante, Tommaso Campanella. Il filosofo immaginato,
interpretato, falsato, Roma-Bari, Laterza,.
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bivio.filosofia.sns. Historiographiae liber unus iuxta propria principia, su
imagohistoriae.filosofia.sns. testo tratto da Tutte le opere di Tommaso
Campanella, Milano; Germana Ernst, Tommaso Campanella, in Edward N. Zalta,
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Stanford. Filosofia Letteratura Letteratura Filosofo Teologi italiani Poeti
italiani Professore Stilo ParigiDomenicani italiani Letteratura utopica Accademia
cosentinaVallata dello Stilaro Ermetisti italianiAforisti italianiItaliani
emigrati in Francia. CAMPANELLA STYtL. ORD. PRED. PHILOSOPHI RATIONALIS PARTES
V Videlicct: GRAMMATICA DIALECTICA RHETORICA POETICA HISTORIOGRAPHIA iuxta
propria principia. S V ORVM OPERVM PARISIIS apud BRAY, via lacobHi, sub
Spicis Maturis. iZMtn Pmilfgh Rfgis. ILLVSTRISSIMO y /tAIOyB'
EXCELLENTISSIMO D FRANCISCO COMITI DE NOAILLES; vt nuf uc
Ordinis Rcgij £quici Torquato Rhutcnorum ac Supcrioris Anierhias trx^
fcdto, Regi/c]uc Chriftianifliuii, apud Summum Ponuticcm Oiatori. £
TI LLVSTRJSSJM0 C Ji EFERE2SSIMO V. CAR. DENOAILLES. EPISCOPO
SANFLORENSI; intcrioris Consilii Regii McflbrisFia^us. optinui , mci
fcxuatorjbus» S. P. £ natitudinif ita me liht dcmncit, Excellcnci|fimcComc,
vr ntm ftaihmeus, effi Jeieam 4tft€ velim, Et cum tumm era 'JidQtm
manitumm tiK ucQM€nfar€ necmejun uekm; hocmihireJldt (ptod pofpmt Muft yVtnuUis
temporibus teflimonium Vmutumac meritorum tuorum tdceatur-i fmllaque
obliuione dcleantur, Libertatem, honorem, vi- Mm tibideheo Cum enim jynagd
Potentium [non Deum neejuejusy nequefaSyVerentes yfed venantes gratiam
faljts ha- inisfatffijuevenabuHs a Catholico "Rege ypofquam in
pri^ maperfecutione mc innocentem perDf^cem Alb^t declaraue- T/ttytanquam
iterum :(elantes pro Regno ipfns, ijuo poffcnt Regno ipfus longo tempore
ad diuitias cjT* honores laruatos comparandum ahuti ] perque Vim perque
dolos , in partem frada inuidis falfs etiam fratribus illeflis , dum moror
in Ciuitatefan{}a y conarentttrinnocentiftmumadnecem traherr Th (G cncf
o(c Heros) mcy cjuem tota fere Romayfum- mufq; Pontifex fcicnttjs &
xirtuiibus cunitis nedum iujhtid omatiffmusy innocentidCHftoSyfapieim amator
diljif ejfent a violentia infdijs pojfetueriy incolumem feruajli:
ecum explorarenthoftes me intuis edibus refugientemy tu illoruehi
debas interea technaSjdum tuo curru noflu fub altma veftc per 4tli}
portam veilum y tuifji literls ad Principes & Confules, obuios
futuros commendatUy ad Chriftutnifiimii \fqy Regem ifjnocentum Refugium, FILOSOFI
ac piorum hominum Tutelam,Mep:e Regis Regum brachium y nauis Pctri
facra aochoram, me tranfmitrerei. Mon fufticit Calamus animi. m
robur,fagacitatem, induftriam , c!T infignia in hoc euen eufaflay diaue describere.
Jd illustrissimum ac reverendissimum Eptfcopum Sanflorenfem ParifioSy te
iubenteytan- (femapplicui.Vtztctefttuus ideftfctizkct tUfuxta
Gellij £thimologiam natura legem, ideoprorfus \t tu mihi af- juit,
J^m c ad te Jemomeus^magnamme Carolejqui humani simere€fpifiimeperegririantm,refodH
lajfum & ft nedefunilwn ad vitam rtuocafh^ O* tandem
inuiciifsim» Re^j regijsfaumbuscwmldM&f meexhihmfiu Imem fAi
^iddefterate G allorum hijlorici narrant ^ & Poetacanunt spes
QhriJlianAreipuhlica prafumitexfc[}atq\, Vmo ftutus a miftriss eSr fecurus a
calumnijs, ratias Deo ty lemenrifsimo Re^ ac Mmijlris heroicif , nempe
fratribid nobuf imis Noalhjs. Haud efude audco Antiptis fufsim DoBtfsmicmfofitosmof€sac
Prafiamiamenarrare, uam [drJkoma(Sr GdUiaadmrantur, & quos
euulgauitlibros de I mpmo iufli & de Triumpho Virtutts, eruditione ac
fapicntia j?!enos , ')4?ijue iffum lofige maps, ^i^mmtifarum pofftt
Chtnms praJkcant. Cenerefi Comiiis iam Mcerelaudes yereor^cumnecflylns
Jicpar, ac perfein hijhrtis commenden- tur; a fuperiortbusemmfecuiss
prafulfere. Ncfie enimre' censffigloria \/efiraJed ah,exarJio
RegniFrancorif fflendebat. Jftabanno mmfimo pofi Chriftum natum certa
fcrie fofi guitrandum, qm primus cognommatus efi de Noailles fijue ad
nefira tenfora immmeri de Veftra frofapia cwh 4mnerantm htnes , fiorum
alij cum Dom m j^uitania fr^dpue.tum forisin ifiavna cum Ludouico Kege
fan^o fugnando contra Saracenos fortiter ohierunt i <Jr in Ita^
Md,in Anglia, Poloma^Thracia, totum queadeo ftri
Or. ftmtefTarnm^hononfieentifsimis legationtbus perui ati eaiu
JocistUis pro patria perfecere fuaicam ueRefflus (jollis 9Uh tmerunt opera
fidelem fed sdamjut, vr femfn' meruerint Ismdmahonii &akipfit^i^mmultisd
Jnterauoseminet magnus ille tuus jintonins fatuor Pegi^ ins acumAMli^M^
Cuitjs cor liurdcgfiLut 1 henefafla, tenet honorijicc: corpus
Noaillia, Omino que in bello TerraMartqy iidem pr^clara j^elJirut
OmictoQatba logum hcroum atque geflorum & dtgnitatum perpetua fcrie
Jpendentium fwniamtna modeflia alionim forjan inui. diamihimirificamnarr itionemahradere
iufsityc^uoniam for^ taJfenecUtidihtis augeri, nec ohtrcfldtlombns veflra
minui foteflgloria, renio ad te nohihfsime Comesxujus virtus helli'
caapud RHpcllamaduerfusJnglosenituit & in MonteaU bano dum oppugnatur
Virtute Regis, corufcauit; & qu4 apud Taurinos comtra Hispanos hofles
egerisy hifloria non tacet; trtres inclytifltj tui nuncimitantur.
Moxautem in legatione Romana tanta prudentia te gefsifli, Vf summo pontijici et
Romanis Principibus carus, ratufquc femper effes , ac ftmul Regi tuo
fidelifimus \?tihfsimufiji4e ; ^u^ duo Vix coife in Orator.bus cxteris
pojfe \ndtmt(f. Ex hoc jper prouidentiam Deifalusmeaaffulftt: & cum
feruator definls non defiturusy ConferuatorCarolus frater tuMme
Partfisrecepit. Ex hoc debitum perenniterlaudandi Voj, Praclarissimi
fratres, animi et corporis fuhHmitate antijuorum Oallorum
prdfluntiam redolentes, inmere fuhat: cumque non possim perenniter
cum fim/nortaitSy vos immortalitati erbi aterni committere flu-
deo, Sciefitiarii omnium reformatarum per meinergafluhsnu- tu Dei , qui est
FILOSOFIA RAZIONALE,J}>len- dor Rationis diuin^, tcfle Jugufl. \eflro
nomini confecro. Ef^ ' tn hoc volumine GRAMMATICA NON VULGARIS SED
PHILOSOPHICA, continens semina scientiarum et nationum sermocinia et modum
grammaticandi secundum naturam et artem. Hanc Jemanibus sophiflarum
nugacium liberatamytibi Liberatori t ue Orarm^r^flantifsimo^dedtco. jidiacetilh
Lo^ic non imehuntuYy dd dircSHonem cognoscima fictihans human£
inftdurata. Hmc dddidi Rhetoricam j & Poeticamyjuas in
froftilfulofueatascm/fiecittiSyi Mufas duxi, Tandem apponitur
JF/tftorioffraphia , atf Adulatonhus Qfmhus Lofjuacihs denigratdj nunc infmm
reJHtutd pmtaictniytfuEgode vefbm nmim diccn nonMli ui
fejuenturimelligantl^oalUos meos hacmethodo effe dicen" das. Sufcif
ttecrgoeo quo exhihentMrammQ ( Pr^ftantifsimi JDofmnf ) non ingratumfortc
namm nmit^atiferuiveflri, edijue, qua foletit me hcnendentia htmmsre s
inquo C. mea per totum Orhem veftram teftiftcetur henefiden^ tiam, inque
\eftram refonet mam yaktc. Pari/iis : Jic i;. Mairttj X Commiflicne RcuerendiiEini Pacris
Fracfis Nicolii Roduifij S. A- Magiftri» & tocuu Ocdinisnoflffi
dicacoium Vicaril Gcncralis Apodoiici » vidi Tomum primum opcium R. P. M.
N E iti€ , noftn Ordinis, Complcdcntem Grammaticam, Logicam, Rhetoricam,
rocfmi. t?c Hirtoriographiam, nihil
. iii co concra Cacholicam Fidem miicni > imo omnia luo Aucore
digna, ic quamplurinia ad Theofogiam capcrtcndam cllc iudicaui.
Qpapto- - ptcfojanupropria merubrcripri iuc dic 7. Nouciob. iV.
Am^ninui CtUiuJ^ S, The^Ugtd MCPhiUfcphid Ze^«r,» mm«t CtU^ij 5. ntmuti
S, M, fimdentium Alfli ifler* imfrimMiurJi videhiitur Reucrendt^tw
/» M.S^ F^lMiijj, Iybcnttf Rcuer. P. Nicolao Riccardo» fac, Pal.
Apoll. Magiftro 'pcimum volumcnopcium R. P. Mag. C. Ord. . Prard.
Granimatica, Logica, Rcthotici,Pbl:i!>& Hiftoriographia co«.
cextam,non minorc diligencia quam volaprateperlcgt : nintlc]ue quod 1
Catholicam Iqdac Fidcm, aot Chri(Hanosoncndac mores occui nc; qjiare
pubiicis dignum typis conftanter aflcacro , qub duicifonaB^ htlius
Campanulae minficus tinnitus r.homnium auribus lladioforum. i cxaudiacur.
In fidcm &'c. Datum Komx m Collcgioiandb Bon^:. ucncuixdic 10,
Augufti. frdTiciicHi Jlfitortiui n fanflc Seu. OrJ, A^in. Ccft, Celie^if
S^.Bonaneniurd in vrhe Regcm e^ l^elior. EG O Fr. Vinccntius
Bartolus et c» Thcolog. Magifter
Ord.Pr2d. Vifis fupradidlis atccftationibus,
conccdofacultatcmcvordine& commiflionc R^uercndiflimi P. F. Nicolai
RodiilHj nollri Ord. Gen. Magiftri, R.P. M- F. C., eiufdem Ordinis:
Vt librum atticulacuiii RAZIONALE FILOSOFIA partcscjuinque, typis mandare poflit. In
quorum fidem ins meo figillo munitls manum propciam apporm. Datum Romxin
Conucntu S. M. fupcr Mi^ n^am. Dic 14- Augufti i(»5o.' Locus
iigilli, fr. l^mimiBmtht^ ^mptfAmmn prepris^. 1 Ji^ R 1 M A T V Fr.
Ni^Uuu RitCArdins. , facri. C. FILOSOFIA RAZIONALE GRAMMATICALIVM III PARIS
Apud BRAY, via lacobii; fub Spicis Maturis. M. DC. XXXVIII. Qm
Primlegio Regis. P^G.verp vltimo.tx iijtge.&c, Pdg.^o. verf. y
difbioncs diftin- giiitur , /<r^f> didbioiies noadiftmgauar. P4i.
91. vfr/l6.pcrci,/f^r, . pcc t», Pag. 6i.verf. 14.. ficu:. /f^^ lanc.
Va^. 5. ver/: 10. vccebimjc. P4. 51. w//: aires, /f; .ai rci. Z»-*. 89-
^'^f- vifi'»»"», amitiim /<x<r. amatu. P4g 60. pjlt t^^r/: u.
pm*tur. Noundum : quod potclUs impcrarijaeftquudoloa iicurnuior, qua
maioccm, vc fdc atltros /.1- fidejs. Sei eadem vox clt ieprccatiuaicum
minoc ad maio;cm, vc fal- fium me fac Dem. Cumad xqaalcm, est confulciua
auc hortatiua, vf fugecrMest:r -4t. Et maior cnim induic voccmx qualis, &
miuoiisA- c conuccfo pcr accidcns. Correftio erratorum in
Logica. F.ig.i. verf. 31. faOum, legf fradum. Pag.. verf, 14. voccJi^^*
TOCCt. f>4g. 8. verf 4. quid/^^*quod. p4g. 11. verf 2. vt lege aut.
f-i^- 14. vfr/: 8. intcricdliouc, mtcrcaronits.-A-ff-"»' -
cxprcfTa, /f^r cxpretr.Ti. /« e»Jem verf. i3. fy nchailiegoricus , /',^f
ryncacheeor«mati(;us. P^p-. i^, wr/: 17. dcno^iijiaius^^^ djm^A4 4. VfT/.
II. vfr/i#, ouAas, lege gutcas. CorreHio Erratorttm in Toetica. 4 F4r.h. t/^r/:io.rerum./f^*
vcrum. pag.^o.verf. ij fimplici vc nutije^e fimpUci iccuiu.i. vuum. In
e^dem verf. ic^. fic^u coucca, lejre ficuci e concra. tmiUem verf. ^6.
profundit,/ pcrfundic. pag.ou »t/:}o.dcuncioncm,/tfr <Jcuocioncm.
f^j;. 4?. wr/. 5. fomctco, /rg:*- folo mctro, fdg, ^s.verf: 10.
quanciimquc , legt (^uam^um^quc. C/r<rr4 difcrettom LcP.orm
commmmuf.Se Grammatica iii commttni. Definicio Grammadcx.
GrammatiC4 efi ars inSirHmentaUs T^oluU hu^ mana congtHiy
rationahilitet fir/jplickcr ^ •* dic£ndi,atqtic confcqucnter
fcnhcndi^ . legendi ^mdcfuid animo "^ua^ CHnquc noHtia
pcrc€f>imus.IciTVR Ars infnmentalh t\ Tuo gencre^ica &Hino'riogr3phu,
quaroninesluntarics \ki}^ yjf^nicchanicae,rcd fpcculatiusttai
inftrumcn. IX^-^. 4^^/ \{ taiej qiioniam non pcr fc, fcd proptcr
princi- palcs, & proprcraWud funt. Plato ir. Cratilo.dixit,
l^mtmeft infirmwtm mdi^ {uifioKti^ Xoucigo QranMika
1 ^rdmmitknUtiih in (lrumcntunicft, vt fuae partcs. l>ici\.\xx^politit
huHiani^zi, differentiani proedi£lariimartium: nam Logicac (ltn(lrumcn«
tum Mctaphyfici : Rhctorica & Poctica sunt instrumcn- ca Leginjtoris. Grammatica
vero totius communitatis him injr. Siqa idem naturale cClcunclis animantibus in
societate viuentibus ci, qui concipiuncanimo, SIGNIFICARE conui. ifennbus, per mutua officia
copulatis sive propter bonum proprium, fiucahcnum, sive commune proptcrei
fadazfunc voces et orationes, htcrarque vocum particula?, ad exprimendum orc
vel scripto qujc proferri opuscrunt. Grammatica ergo naturalis est hominis,
quatenus poeticus est, anificiahs insuper quatenus voces et orationes ad tcdum
vium confidcrar. Dicitur grammatica esse ars dicendi. Dicimu«
cnrm {'^ ./ quidquid animo concipimus. Etquia illud idctu
fertbimTT5,-a<rcttrunf^ie5 qula legimus scriptum, ponendum est *ct Atquoniam
potest cfl"c grammaticus, qui ncfLit fcnbcrcncc legere, ut excus, videtur
Grammatic; i est c instrumentum dicendi per cflfentiam A fcibcndi&le gcndiconfcq
Mcntcr&ad vfimi. Dicitur congruf propter concordiam partium orationis
t 6c ratiinahiliter ad differentia sermonrs ac brutorum rautu A f colloquentium
naturaliter, iicmadd: £fcrcntiampcritui. Gramaticorum i vulgari
forma. Additur simplicitert iterum ad differentiam rhetorica et poetica,
qaa: ad humanam etiam politiam pertincni sed addunt figurationcs sii per
simplicem sermonem, S\}bdit\ir yqrridcjuid animo quacumque NOTITIA VEL SIGNUM
percepimf, ad difterentiam Hulorio graphite, qiiac iupponit
GrammaticS loquentem dcomnibus et habet proobiedo solum a^ia &
di^a notabiliVx^c natura fjiucpohtia Grammatica vctp omnem fcrraoncm, sive
famih'arem, fiuc epistolarum, sive historicum jfiuc scientificum, rc(f\ificatad
congruitaicm naturalem et artificialem, vt insii patebit. Pritr jc ergo notiones
vocabulis et oratione grammaticali notificant ut : fcicn* tiasvcr6
Loeicafi deindc fcrmonctra«^lamus.la grammaatica ergo cominentur semina scientiarum.
\ o ; cnim aliqi;id taciunt lcirc vulgari modo dc Cim£lis rc- %
& cx his^qua: voce significanius ad scicntias altiorcs cri- Dur.
Qu^ippc qua omnes ex p jecxiftenri fjunt cogniiic vocalnilorum in do oratiorinis;
Icd in inventionc ex inspconibus, et kniauombiis cognoscentis per senso iia
ani* s : et notamis et exptimcDtis per lucras vocales, insonantcs,
tanquaoi per clcincntafira, res prxnbtatas coqtie dtcitutikamnuiica Gi «ecl^MM
litcr^m cdLati^ idc6 in-oaiinalibus cx iiiiip toruih vocabiilofuni :
clarationecxof diaiur; in inucmiufa vcr^ tt imponendo mfcrutationc. xv,: pupicx
Grammatica alia civilis, alia philosophica J ^Iuilis, pctiiiacft, non scientia
Constat enim cx fli^totira* C^tc «fuque clarorum scriptoruni. Hjhc sequitur
Sciop« ius Tutocbtis Lyf fiusjqui tunclcdt sputant^cin: CICERONE am VIRGILIO
calknt § & vocv bu^a U. ph rafcs , ple« anqgc naturaii f arlotaducrla.cji
ptincipum.& vutgi vfu pc» i cptir i tete pjfcia vctii rati^e
CfiaftAtjA iamolet. Eft cni M%icfiigan^ntc Hcausdcnotamisim icftigata,
copulanrifque & dri^htntis rcs»prout in natura cpcriunrur» mcthodu 5.
Notatcniroc(rcntias, aftufqlic,&:hjt» )itiidincs, vt if.fj^
viJcbimiif. Hanc Grammatici vulgares damnarf ut , fi dixcris,
vir# «ofus, ridcanr, qi.oniam CICERONE dicit, ftudiofi) s:5c cnm
vo* :abulacx rcbi]s,non cx autoribus dcccrpimus, exribil.inr. Sco«
iim^findtm Thomam, aliosque, qui mngiscx rci natura oquuntur damnant
ifli, profc£t6 damnati jgnorantix, et Wodicitatiscrgaflulo.Vndi 5 Grcg. maicftattmvcibi
Oci fc rcgults DONATO inclodctcnti^n dcbcrcdcclarauir. Quid noii obloqiiutiircttmiiouascesifiucnimus
vocabulis CICERONE in* 4 (jr.min.itic^lium dicibllcst proptcrcaq
ic nou is voccs cxcoc;iramu$ \ NobismJ uearavocabdla IijBC,prifiialKas, eH\:ntu,cLlcntiarc,matcriarc,
2cc. huturtnodi CICERONE ncti^uc d Upliccrcnc ,liccc ignoca olim. Itcmquc
& ip(c ait : Beatituio & beattta^, vtrunqut ^nm ifeivfu m jlUctuU
funt vitUtbmU : cik vbi 'nuUcr^fi* -xpfS «iixic , effcntU. At^Caoli opbis
lcgcs pr«(icrtbaac: cr- go^5c (cieatum coardAnc , ciuam
Cmraipfeampliairct , (i occaCio & ftieatia oon dcfutHeac : U Houcius
licecc dixie iempjer. HmttJmiMi Sipajpsm tmideor cum Ungua Catonls OEnti
Sermnem ftstriitm ditdmritjCP* nond rernm Momina proiuUrir, Lkuii
fempenfue Itcchit Signatum frafente nota odticere noniciL.
rUto p(iinu»-dittr,idca: 5c Aristoteles. Eatiielechia: att noiicg O£rimaIitas,
&qiiiddiiasivi4e primam partem Mec* libr. I. D/jfercmia inter
CimUm Philosophicam. Dlffort Gratiimaricaduilis a Philosophica, in
vocibusi phraH. In vocibus iila fe atur auioritatem vfiim} k quo
adc6 dircedere tjmet vt nec novarum rerum
vocabula oott^i admicjcac. Vndi polunt dicere, bombardam, fed tdr*
meotumljetticumj quod nomen commune est omoibus machinis: errant ergo primo
trahcntcs proprium ad commune J Sccunvio vniuocamad j Eqiiiuocum: wum
cnim brodium non habcn vocabilum in Latino, rcJ dicitur ius, quod 6c lcgC
significat rconfanduc ergo rcnliim. philosophus vcio vocabulum iniicnict
proprium in sua Graautica. Quoniam il!i vocabu^aaifcdiuanon trahunt a
fubllantiuo, (icut oporter: Vtrcascotmcffuudit virtiiofum, hoc nonTtuntur|fed{\udJo-
fii:0 iicunt i qtifi, vo« longe abcft 4 signiticatione vera, dc )3 im
cileoti^ notacc voluot, dicuot Quod
cft quo iud crat
cffc, Iiidicro quidem modo: cum vocabulum quidditas, & e^Tcntia , fint significantiora
brcuiora. Bcnibus^ ic dicat Rcx Turcarum, dicit RcxTiaci^e , tam
ridtculosc, juim superstitiose. philolophica ergo fcdatur
commoditatcm, 3c rationcmj vocabula significant ex natura rei et
non confuudanc cn fum metaphora x qui uocatione analogia. Ncctcmpusn; ni6cationis
fruAra cxpcndant(qu6d niaximum cft dctrincntum:) ficuti faciunt Grammatici, descriptione
pro vorabulo utentes. Differunt etiam in phrasi: ciutlis cnim vtiturphraH
accepta in foro et curia apud magnates et plcrumqucdicit aliud i proprio sensu
sed vfusfacir, ut sensum alienum vediat oratio. Sic dicunt idem e dio tollcrc,
prooccidcrc et pcrdcre. Id autem in philosophia significat de mediocentro m pcri» hcriam
trudcrc. Similitcr aiunt, rcdigcrc iiiordincm, pro >riuarc Magislratu.
Atin Philosophia significat ex confuso nordinato, in ordinem tranfirc j
ficuti cum Chaos tolUtui naliquoncgotio, vclinmatcria rerum. Quaproptcr
aos grammaticos nil vcrebimus. Eoum enim est confcruarc vocabula ac declararc
(Imilitcr & DratiorKs:Phik) philosophorum vcr6& Anificu cft
inucnirc et ordinarc. Proptcrca temcritas Pacdagogorum miranda est, cum T
hcologos cm€ndant, proptcrca quod Ciceronis vocabuli 5c phrafi non
vtuntuitcum potius laudarc dcbcrcnr jqiioniAi omnis Artifcx (ux Artis
vocabula inucnirc dcbci jfic clara, kpropria imponerc. Hoc autem palam est,
qupniam ex auiusdcfcdu acciditjvr idem vocabuluiri aliud significat in
v- naartc, et aliud iu altera. Unde, apud rusticos, “liber” significat ‘arboris
corticem’. Apud litcraios, “liber” SIGNIFICANT PER METAPHORAM ‘codicem.’ Apud
Politl- :os, libcriatc ffucntcmr; apud oratores, “liber” significant, per
metaonymiam, ‘filium.’ Similiter, “verbum,” apud grammaticos, est orationis
pars significans solum. Apud theologos, “verbum” significat u test ‘conceptus
animi, delaratus aut voce apud physicosacrisvctbcraiioncm notat, apud vulgus
locutionem, 6c aliquando omne vocabulum. Proptcrca notaui tx Yarronc» &
Nonio, &Fcftononcxtarcvoc:» bulum apud latinos quod plurcs significationcs non
habcar, quoniani 6 grammaticalium. /ucccnio Principuni, et rei publicae
mutationcs, 5c f cmpora jpfairohunt voccsadnouas signirtcaiioacs. Philosophia
au-. fcm non (k*. ria?:crca, Grammntlca ciuilishabct ortatcm, in qua
vigcr: & illam amplcduntiir Grammaiici: dicunt enim sub Cicerone 6v
CcrUrcavlulram lingu^m: proprcrca non Plauti, ncc Ccci!ij»ca? tcrciumqiic
fcnprorum priscorum iermoncmac- ccprantjicurnccrcccntiorum quaiis
PliniuSj Ambrosius, Augunini; s, e AQUINO (si veda) At Philosophica
non agnorcit.rtarcm lingua:, sed raiionalitntcm: amplc^iturqiu:
vocabula bona omnium temporum. Proptcrca 3cnoiia fi£ta- quc vcrba
probcconucnicntia rebus diccndis compk^itur iuucnirquc: VI cnim Horat.
ait. Licuit /(mperqjuJic^I^ Signatnm prafente nota producere
nomenl Et f hrafim addcrc: pra:rcrtim cum impcrium rch^gfa,' et
artcs nou2 fucccdunt, & loqucndi modub.-voccs camt proptcrrcs,non rcs
proptcrvocc?. Vndc fon.m Eic;c(:.i« fticum vtitur vocabulishifcc,
canontzarc: {piriruali. ctlutura,6J: aliishuiiifmodi in sensu proprio non
L.itin( r»im pri- fcorum.idqucfi accufcs impcritus&rudis
cfiS.NwfwiCLSvnic authoriiaccm vocdbula fiiniunt. OVpCfftitiose colcns grammaticam
civilem, languct id j3pugna
fcrbpxumj crbacaptatjrcscfFugiunt quas praefcrtim ipfc fuis non infignit
notis, et notas alienoruin r con fatis notas colit &: vt Clemens
Alexandrinus i. Strom. 3. inquit . funt SophiOa: infcliccs, nugiscanoris
gariicntes,cum in nominum dcbita, et ccrta didionnm compositione et connexionc
tota vita laborent; cicadis apparcnt loquacioics: U allcgai coiuxa cos
rUtoncm, & alios Phi-£amj4ruIlA\ Lfherprmnf. r oibphos prleium
oloacm LcgiUtorcm, ita diccn« xm. Adlingtia afpicitis, dulcia verba
loquentes Quiltbet at vejirum vulpis veSligia Jigit. Cun^is efl
vobis petulans mens. 'ulpesquidem tnfimulatfone iapientja?»quamnonhabent»
Sr in latcocinio alienaf, (unt fyci^i vulpcs :cum enim de fno loo
habcanc^ nid vcftes, quicquiddixete philosophi mutata r^ene verboruni pro
fuo vcndunr. Mcns cnim pctulans vul- pium fui amorccmmfc
ipfamdccipit,putatquc fc plus fci- :c,quia fcit verba , quim qui ics
inucQigauit^nec nifi fua Grammaticavcftiantur ,rc^la,&vcra, qu» dicit
philosophus, reputaf: hincaliena vcndit impudentcr profuis, \*r-' xsqiiia
ornar fois. Horum fcimo cfl calix Babylor.is (in-quit Oiigcncsj in qao errores
ctiam pro dodrina, nedum furra, tradunt bibcihia 5ophi(lar* Vakie
caucodum eft crgo Phtk>rophfs«oe tis Aia icriptacrcdanr, qui, (lcut
pcrdiX|io« jcne, qt^a^noapepeierunt. Honim iniidtasmillies expertui
:oquor. Cauendwineilctiam Philosopho , ncrpernat citti edl jQttinmat icam
>dum tameo rdHisconueniat rcitis.Con« remnitur enim d.tbtba petulaoti
quafi indoiElus: & pucfi fic^co equaceseorum quorumeft folum
grammattca ri»"ihc tjOtjcat», notanr fimplicitatcmfermonis: rcs
cnim noncurant, quilh|HS£ordctcnusmitcntur & optent pro
gnorantibuscoshabcnt,qui eorutii Grammaticam non (c* [^anrur.
«Sdpicnrespauci (unr, (\uItorum infinitusednumc* rus :hinc eucnit »vt
iiUablustaii^a, diMitiis ^dc do^ioa:ho« Qorc vacueniur* .De partibHs
Qrsmmatiea fSf ^^9^ m QVoniamGrammatica congruitatem
6t(ktonh (cri- prionis habct pio obj c^o di^io autcm iit cx vocabu* s ^
ram matic Aliurn lis : vocabula cx fyllabis-.fyiUbacx liicrisiidcopartcs
Gram- inaticx putantr.r 6c dc litiiis i. dicunt Crammatici om« JiCS.
Ittera ^rima parte Grammatica. Litera est elementum primum, idcoque minimum
orationis. Dicitur litcra alituro, quafi cxaro, quohiam cxararur m
orcp^imiItuw««tatuLdlij fcflptura per manuamia , Grammatica Graec; Jicitur
quafi literatura, quoniatn dfuis elementis habet etymologiam. Poniturclcmcntum
loco gcncris. JEfcmcntum cnim cll id, cx quo aliqiiid primitus componitur.
Ponitur primum, ad differentiam syllaba, cx qna secondo componitur oratio.
Ponitur sermonis ad differentiam corpusculonmi atomorum, qu.rcxiftimanturclc.
xncnta rcrum. Additurminimiim, ad ciuficmrci dcdarajioncm:li cracnim
iiidiuiiibilis clh T^e numero Utcrarum. SVnt autcm
litcra: viginii trcs apud latinos A B C D E ^Sj^,i,K,l>m, n, o, p, q, r, f, r,
u, x, y, 2, quarum Latinae non luntnifi dcccn)& noucm,ctenim
K,y,z,x,d Gratcisacccpcrunt : vtcbnniurcnim pro K , chjpro
y,vtcbamur,vjpro duplici s s i pro x,vubaniur ,s c. * 'A;'Tandcm h, nonvidctur
cfTc iircra, fcd afpirarfonisnota, addensaliquid fupra vocalcs. Catulhis
cnim narrat Arrium foUrcpronuntiarc Hinlidiaccum h,pro lulidiae.
ANDO: LibeffrimHsl. POflunt inucniri & alix licer t, vt • ,
parauna « & nia. gnumMtcm duplex g:in vulgan cnim sermone aJiter pronunciamus,
gli, in vocabulo agli U in vocabulo mgli gentia. Item non datur g, qua: faciat
(bnumx qualcm cmn omnibus vocalibus. Non cnim ita conronat g,^,
(icurg,;, vndc Arabcs triplcx g, habcnt, iuxta tripliccm pronuM^.
tioncmhuius literae. Pia^tcrca litcra r , alitcr fonat cum a^ 5cciim ^ , coniun£ta;
proptcrtabcne fuitaddcrc k, &ad- dcndacHec altcra litera, qi:a^aicdium
fonum habct imer r> & K>vcin vulgari fcrmonecxpcrimur. Pxxierci
litctame- dia imcr dc;^, rcpcricndaei Tctia litercnim pronuntiamus
r, cumdicimiis^rtf/y, & cum dicimus gr^/i^ > prxfertini in vulgari
sermone. Nec fupplet ii;, pro /«nec 0 duplkem^^ji^, appoitas, vtia] ?pgti(ggi4eclarauimus:
qua propter dclinea. uimuschara^tcrem m€diumhac figura, Hi^ani vero fece.
runt cum cauda f Prarccrcsk indigemus dup'ici /, confi suntividcliccr»
et voca1i: quem ad modum Hirpani^&Heb.2c Arabcs vtuntur jproptcr cadiximus
;\longx figura? consonantem : qui Hcbra?is cft j/ vcrobrcuis vocalcrr. '^I
an- dcm duplici,vocali et consonanti indigemus, quemaJmo- dum
Hcbrj:is, & Arabibus rationabilitcr vfurpatur, alio- C]uin mu!ra
vocabula faiso pronunti.bnntL:r»vt vt^a. vbi nifi secundum altcra figura
sciibatui pionuniiaiio fallirni. Similircr & iuuenis^6i /V/;v//5cc. consonans
v, vocari dcbci vau^ & confonantcs ; Jcd^vcl /«^vt pra:fata lingua
admoncnt; Quaproptcr A Iphabctum nostrum erit quod sequitu|^n.
-^,^,f,k,rf^/,^,G,^^;V,/,w,»>^,f ,r/,/ r,», v,sf , Lkerarum alU
^vocaUs^aliA confonantes. Vocales quiiiqiic a, e^i, o fU^Sc dicuntur vocales,
quoniam aiteda vocali sola, moUica vaticutc tnoduiationis, expiiiwuntur.
Cotsronaotcs ^uat yigititi i^d^fti^G^btj^mj^^f^rJ^ Dicumur consonantes
quofiiam cum vocalibus simul Ib* nant. Instrumenta enim vocis, que sunt
lingua, palatu noi» labia,^ gurguiio, vocem (quateit expirart aeris per arteriam
vocalem ibnus) configurant: 6c cum illo dicuntttCCon£6narc non autem
perlbnare vt vocales. ConfonaniiLim alia: dupliccsvt j^jtf,/-, alix simplices»
vt oniacs i^iiqtt^^ 51H3C cnim vilCD» pco duabus; noa autcni Sunt apud
Hebraeos dc Arabes duplices dmnesconrotian teSydum pun^o intermedio
notantur. Apud nos vcrb fol«ie x.^yt, ftfnt dupliccs abrque
pun&osquas autem vq« lumus duplicaie» duplici codemcharaaerc
noeannus. « m Solem contmgi vocales non eiufdeni generls] con^itmrs,
unam syllabam longam qHamms per se ejfent brenes. Harum comun flio
voci' SHr Difhthongus. Sunt autem apui Latinos veteres
Dipliihongl q inqne ^,<r, tu^eUiCiy(cd in v ulgai i Tcl- uionc add Ci
t u t to [ D li ilio gf^qiiot sunt
combinationes vocalium inter se, praetcr quam in fine carminis
po<^tici, vbi /ui , tolui , voi, mie &c. pronuntiaiitui dissyllaba, qu
alibi pronuntiantur aiOnofylUba IQirguuntur litec coafonances
iamutaS)&;fcmi-vo* D Mut^ funtnouem. C D F G
K P .ii. 7*. Etdicuntur mut( I qupniam mutum habcnt fonum , quafiGom nuUa
vo» cali^vel vocalitatisaffiatu proBuncjat. Semi-vocales sunt
VII. ^.ilf.iV. R,s, j,ViSc dicuntuc semi-vocalcs quoniam habent partem soni
vocalinm .£t quidcni S. apud-^ucretium caJit Inftar vocalis:ait cnim.
Sceftra ^tfku^tadem aliis fopitus quieu efim . I^ta diftin£lio fuit
vcraapud GrnscoSj Hcbrazos.Sc Arabcs: qui lircras pronuntianr quali
diclioncs: dicunt cnim pro J4.B.^lpba,Bita,S) CAkfh.Bct:h.i^Eliph,Bat.
Scd ia idiomatc Latioo pronuntiatui limplici sonodc truncatosi
nevocjlibus, idco omnes sunt routae: licet non pofllnc pronuntiati fine vocali
recunduninos: tamen secundum nar tvfam. omnes intelliguntur fine vocali
nobis qui et vocalest etiapi truncat): proferimua. D'cLiiKUr
liquidx L. H. M. N. quoriini liqucfcunt m mctrc-.ira, vt fvliabai-n
brcucni etiam producanr, accommodantur que brevitati et produ^iomi dur Tunt
qua: fcruant sonum et tempus. Syllaba est Uterarum vfurpatio ] ^nins
fo^ ni , "vniufque modulatioms partialis index. Quonia ex
literis syllabx qii possunt esse pars vocabuli propin c^iior:i moiiiatv^y
111 bi t n n nc iikcnd um; di £t is iryliabano vcrbo Grx. Hoc est comprchcndo
iqiionia Qi plcrumqucplurcs literas comprchcndir. Profe^lb quo nos vti-
niur literis, id valcnt jqua propter usus fecit de litera syllabam, sed
non absque raiione; alioquin de quacumquc litera facerec syllabam. Facit
autemdc sola vocali, quoniam sonum habet , non de consonante, qua: non
habcr. Aliquando fic ex duabus vocalibus j vt diphihongum monosyllabam
jali- qia Jo cx vna vocali, &vna confonanrcjvr,^f,aliqi aJo cx
vna vocali e duabus consonantibus vt J?er. Aliquando cx vna vocali
& tribijs conionantilnis, vt, //r./,3c rizjjaliquanJo cx vna vocili 3
quaruor consonantibus, vt firum jaliquando cx vna vocali q; iinquc consonantibus,
vt j9/rp, Pluribus noa viurur LATINII at Tcutonicis & Polonis vsurpatur.
Vbi vidcs n6/oirc cx pluribus vocalib. fi. rifyllaba, nifi abinuiccmabrorbcantur,
Qcut in diphthongO i sed ex una tanrum quoniam ipsa sonum pctfc<S^ um
habcr. At ex pluribus consonantibus .ficri unam syllabam vidimus, quoniam
per se sonum noa liabent, nifi vocalibus copulatx. Plurcs autcni ponuntur
ai modifiationem illius vocalis, tt quod purus lonus non SIGNIFICAT, (bni
modulatfo SIGNIFICET vt in Mctaph. doccmus, dc nominum impositione loquentes
m Non reftfc Grammatici dcfiniu DtSyUaba cft comprehensio literarom sub vna vpce&
vno spiritu indiftin* dbo prolaca. Nam syllaba qvando que constac ex una
litter;: vc prima Wmamo. Nec dicas, habct ordiocm ad comprehensionem subrcquentium.
Etcnim prscpofitio noti hjbct ordincm, ncc ,vocatiuum, imo est aliquando
litera, 5c syllaba et DICTIO ET ORATIO. Igitur noa re£le dicirur syllaba
comprehensio literarum, sed potius diccnda crat particula vocabuli roni partcm pctfcctam
facicns. Et cnimiiulla cpnfonans potcft faccrc fyllabam, quoniam pcrfc sonum
(lonedic, niacum vocali. Vocalis autcm cdit. idc6 potcft; c(re syllaba.
DevocsMo] {.farte.^rammatks. Vecabulurne A fonm ort ani^alis frolatus
naturalfpus inflrumemis formam, d SIGNIFICANDVM aliquid fim^U^ mmie
conaftum. Ponitur /ijwif tanquam genus j Omnis cnira vox sonus est &noniconucrfo.
Dicitjar^/rv&rt/ w minutlr ad differentiam sonorttm, quQS ventus et
tuba, & rcmi , aliae. queres, cdunt 5 qujc pro pric vocabula non
facicnt. Pici- nii* natuntlihus inHrumentis fomtafut » ad diffcrcntiam fonorum,
quos anmul cdit AD SIGNIFICANDUM, scd per instrumcnta artificialia j qualiafunt
tympanum et tuba 6C campaia i quibus ab cxuinfcco im^onitur SIGNIFICATIO iattamcii Uit, conim
foni vocab-.ilanon funtiquoniam nec pcr natural/a inftrumcnra.ncc
naiuralitcr formantur j (cd pcr artificialia & anificialitcr.
Additur,^^/ SIGNIFICANDUM dctcrmirutte conceptum vjc?:tis , nd cxcludeJum
voccs.qua; nihil dcicrminaii ll5nificanr,aut cx naiura.ficuc
intcricdioncsincq e ex im- pofi:ione, ficui ncmina & vcrba. Scd
irdcterminate v t^»/^ f.rf. Et prxtcrca ddhin ial/.ptid fimjjlex mcnte
conccpitm-^ quia i:-itcric£lioncs,pafl*ionc5, &affc^ioncs, dcdarant
coniplcxcpcr modum oraiionis, nonpcrmodum vocabuli. Vc- .liim cnim vcro
quidquid mcntc apprchendimus, pcrfonuin imiranteTJ iHud in configurationc
litcrarum cxprimendo, vocabulum facimu Vocabuiumautcm vocatur TERMINVS apud
Logicos, quia lonos confufos 6c indctcrminatc SIGNIFICANTES ad aliquam
ngnificationcm ,qua ita hanc rcm, & noa aliijscoiifusc fimul
intcllic^amus , contrahit. Diciturdidio apwd Grammarieornu TrrctttrTiiuClXiim
di£lio. ctiamvoca* curoiatio,ne dum parscius, Tfot fnnt genera
vocahHlorumyquot funtpaytes orationis immediate. Oratiocnimcx
vocabuHs componitur immcdiate , cx litcris vcro & fy llabis rcmoie ,
& rcmotifiirae. Quem admodum mundusimmcdiatcconftat cxprimis
corponbus, vocjtisclcmcntisjtanqiiamcx vocabulis: prima autcm cor-
poracx caufis matcrialibusadiuis, &idcaljbus, & formalibus tanquam cx
fyllabis. Caufa: autem mifta: cx propriis particulib tanquam ex litcris. Vnde LUCREZIO
corpuscula indiuidua literis comparar. Quapruprcr in (cqucnti ariiculo
tra- anntcs dc orationc,fimui omfiCS partcs cius,acproindc voca-
bula coDfidcrabinius, Liher primu^s, J5 Gcncra eigo vocabulomtn
feptctn sunt iquoniam partcs orationis per feasc fum iioaiiiter reptem.
etenim T)e ^HArta parfe Grammatiu, hoc i[l dc oratione Caf. j. Axt.
u Oratio vocabulorum compUxio, ordinata ad mamfefiandum quidifuid
animo comfUxe concifttur. QVomm vna di&io fiu vocabiirum non
(kch oratio^ lem^nifi rubauditis pluribusdiSiombi Vt cum qnis
•inttrrogantijV// fanmy retpondct . volo , pcr vnicam diaio-
Hcmiquxviriutc contipctpronon)cn ,& nomcn,^^;;m. Picptcrca diximus
clTe orauonem complexionem vocatulo» rum. Addimus fri//>7fi/<?raw :
quoniam niii ordincntur vocabuIa, noii fjciiintorationem. Vifidican :volo
Pctrusfcrum,iguur,cun j&c.nihil SIGNIFICATVR SIGNIFICATIO corationis. Dixi,
ad manifefian dum quidquid concipitur rnenti CQmplexc 5 quoniam^ prmsc Qncipimiis
animp fimplices,4 dcinde vocabuiis manifeftanMisjQK^qnci tta vt,^tiQK nenn
conceptusexprimant. DemH^Nm^^imus res coiC ceptas,vti funt in natura,&
facimusorationcm.VbcabuIaer* ' go (ignificant restoratio complexiones
rerum conceptarun9.i., pendix, diutfioqne orationls in
confufam\ ^ diHm Ham. VpIcxquidcmc(loratiCi aIia confura, aliadi(\in£la. Confi^ia
fitabfquQ vocabulis, lcd folum ligQisclIca tantibus animi pjflioncs,
notioncs & afFedioncs. Vnde i Grammaticis vocaturparsorationis 6c
intcric^lic: quoniam aliis partibus orationxs intcriicitur.
Scdnonrcftc. iccnimctiam fola profertur intcricdio vocata: &
fignificac totum quod oratio, fcd confiise;vt ciira ridcns cxprimir,
^h, ah.ah, Et admirans, P^tpe : 6c imprccans veh\^ plorans^ ehu,
Quaproptcr non rcde pars orationis ponitur, cum fic oratio, ficut cumdico
idcm valcf ,ac , cgo pioro &c. Oratio autcmpcrfcdacft ,
quardillindc (ignificat & pcr partes qiiiJqiiid mcnsapcrirc
vult. De partibm oratioms dtllin£ia.Sunt partes.JlTMioms Jl^e99^nomerf
/verburril fartictfmm , fro nomen , ad nomen, adverbium, conimctio.
Probatlo & fufficientia.' OMnis cnim pars orationis aut SIGNIFICAT
ciTcntiam rerum ficcHnomcn, didumquali notamcnencnti^, vt homo. Aiit
fignificat aclum clTcntia?, 5c hoc facit verbum, vt: “amo” : didlum a
vcrbcrjtoaere, quoniama£lus prc- ccdir abcficntia foras, icwx vox in
aercm. Aut fignificac a(flum fimiil cum cflcntia j & fic cft
participium , vt amans , quoni.mi partimaiflum dcnoiar. Aut fignificat
pcrfonam cllcnticr,& ficcft pronomcn, pofiium loco nominis.vt
cgo, & vos &c. Aut fignificat rcfpcdus intcr c(fcntias, &
circun- ftantiam ,& modum^& fic cft adnomcn, fcu pia? nomcn,
vt contra, propicr, cbm & c.qiioniam nomini prarponitur SIGNIFICANTI
ESSENTIAM. Aut SIGNIFICAT moditicationcm & circumstaniiam adus. Sc
ficponituraducrbium;fic diftum,qi)oniam ftat iijxta verbum sigmificativum
adus cuiulquc :vr bcrc, foniicj^: intcridic: :dno Qicdc.: et
SIGNIFICAT :xpriniit|ii itur^cimilit > plofo
&c. cntiam rf- cftcitvW' afius prc
f bcrci. Liierprimus. mj forticer» heri.bis dec.
Auc coniuagit effentias inter/e aut adus incer fe auc efiencias cum aftibus, auc ipforum complexiones:
& fic vocatur ^oni un£tio, pars fept ima s vr, &tenini, igicor.
De quibus figillatim dicere opor. tebic. PArriumorationisapud
Latinos,alia:funt declinab les, vt, nonnen, verbum, participium, &:
pronomen AJia: indeclinabiles,vt pra:pofitio , aduerbi.um,8c con
uindio. Apudquafdamnaciones alicer. Declinari dicnntur , qua: in
fine variant fyllabam att irariaciottenr MODI SIGNIFICANDI. Qua; non
varianr modum, nec fiineiio vocis,dicuncur {nondedinari} apco'
VQcabulp, ex corporalibus fumpco. NOMEN est vocabulum, pars
Orationis declinabiiis vel particulal>ilis , significans ej OR*hciam.
cuiufcun« quereieximpofitiqiiie,. Quoniam de nomine, vi Oracionem
in^redimr, cia^ ^Aac Grammaticus: propterei definttor per hoc, quod
eft- vocahuhtm ,! tanquam per genos : fed ad ^xpli- candum vfum
dicitur, quodeft pars orationis. Qupd ponitur loco declarati generis.
Deinde dicitur decli- mbjUs^^d diiFerentiamprasnoniiniSi6c
Aduerbij,6cCo£^ i $ Grammatlcalium Qtmpanellx]
ittndrlonis, qu^ non declinancur : qttoniam dicunt vnam modo
circun(bantiamvautre(pedum, aut modificatio. nem e0renciarttm, & adttumeoram.
Nttlium vero dicit essentiam quac plures refpe&us 8c circttnftantias
habet} vndeoportcat ipfum declinart IN LINGUA LATINA, et CASUS
admiteere in fine. In ahis aatem lingttisrhabet pro decH- natione articulosjhorum
cafuum notas, quod nuUibi Kabent Aduerbia , Adnomina» 5c Coniundiones^vt
mox aperinius. Propterea non eft de efientta vocabulorum
efledeclinabilevfed vel declinari ,vt apud Latinos j vel arciciilari, vc
apud vt tlgarcb, & Hebrxosj vel vcrumque, vtarud Grxcos.
Dixi ^gni^canr. difFv^renciam confignificantium. Aduerbium cnim
& prononien & prienomen , &: Coniuncliio confignificant aliqua
circa e{Ientiam.& adus: nonautem fignihVanrnliquidrarum.
Dixi (ffemUm. f\ A diflPerctTtiam verl3i,5c participij quae SIGNIFICANDUM,
2c efTcntiam cum a<flu Itemque pronominis, quod mdiuiduaiitates& particuiaritateseircn-
tiae (ignificat j & non efsendam immediace »nifi vc perfo.
nacanu Dixi tandem , '/iif^« >/fei>9 Quoniani Nomina CC
^erbaab intellec1:u imponnntttr AD SIGNIFICANDUM, & non ab animi affecflione;
quemadmodiim interiediones, qu£ nulia incellefttts confiderattqne
expe^kata» foras promontttr« Vrimum (orolUnum correSfmtim
dejini QYiipropcer fallttntar Giainmatici , dicentes nun ej/e
fJrtem 9Mtom$ dedlnaiitm ft^nijUdtuem fubfianiidm , autifnsUMBm pofrism
vel eewimnMtm emtt cafu. Non enim folam fabfbmtiam ,aut qualitatem,
SIGNIFICAT Nomen, fed omnemefsennam jkilicct & quan- ucaceiu^
fotm.am;)&aAunij^ adionem,6c paiTiQuem, . ,j,.i^'.d
rimilitudinem A difnmilitudiuem, Sc Relationem, & >^on-ens.
Et enim ScNon.entis datur crscntia ^faltcm •^iQt^llccflUj quamhocnomen,
«//'i/KW^ fignificac. SIGNIFICARE SUBSTANTIAM et quantitatem et qualitatem
6cinruperomnia alia pixdicamenra, est essentiale nominis: sed QUOD SIGNIFICAT
propriam. vel communem, eft accidcntalc-, nec ponendum erat Grammaticis in fua
definitione j cum nuUi fit vfm , ncque ad noicendum nec ad diftincruendum.
Simihteretiam SIGNIFICARE cum cafu, accidic Nomim in aliqua lingua qualis
est latina ScGrxca. In Hebrcxa enim, ITALICA VULGARIS , 6t Hispanica 6c
Gallica non dantur casus nommumi fcdarticuliipforum cafuumloco ponuntur. Sicucetiam '&:
Noinina Latina indecIinabilia, & finccnfibus, vtceUe U coTnu\ \r\
fingubri. Ergo falluntur Grammaticnn definitione & efscntia
Nominis. uotrnodisl> JomenfignifimeJfentiam. Orrb Nomina
fignifican tomnia prjcdicamenta^qua- tenusfunt cfsentia:,nonautcm vc
a(^lus. Siquidem albefaaio cfsentiam a^ionis dicirj& albatio
paflionis; non autcm aftum ,qui eft albcfncere , albefcere Hoc cnim
verborum eft Praeterea Nominum aVuid efsentiam puramdicit, vt Amor, 6c Homo
aliud vr ad iunaamal- teriefsenti<j; vchumanum:aliud vt conccrnit
aclum in omni genere. Quod vel e fsentiam aa:ionis , fcu a^lus, vc
li^io ^amatio, au3itio, wc\ efsenciam patienci5-,f »r^, treatura, amatura:vc\
essentiam instrumenti aausjvc amAtorium , anditoTinm Jenforium ,
potef^atorium , qonu-o- tant. Aliud efscntiam , cum poffibilirace
aauiarvc y//- lefa Biuum: aliud cum pofiibilitace poffibilicace
paf- iiua:vt caJefafHhile : Mud fignificat efientiam ordu natam ad
a^am, exiftcntiamquc vel PRAESENS, vc C ii p “amans”, vcl prxteriram, \iamattis, vel
futuram : \Z'amX iur:4S,6c amandus. Aliud totum negotium circa
adus, ut nego aamenttintyteri Umentum arfvamentumyVvAgo Paf*
lamento: aliud totaai ncirotiationis 'aut entitatis com-
prelienfionem,vtfl«//<«/^*^», notamen examin ^ Yulg^> effame^
canamey gentame » & canaglia, rifri/agliaisMvid .xem cuni efficientia
istnetificum dolorifiatniyfrelificum.fic quxcunqueexfacio, &re,qux
fir,coponuntur; aliud cu plenirudine, roecanditate viamofofiKm vinofum vm» iro/ttmtilmd
Nomen eflentix comparationem infoper confignlficat}Vt vinofins^^ fottior\
aiiud fuperlatfonem vtviniflsfimus ^fortifiimnu Concernunt etlam
Nomina <](uanritatem cxprefsain )fedajMid Latinoi foliim dimi-
nutiontmwt i)»munculuty mMsufcuks, Atin vulgari lin- gua etiara
amplificant: dicimos entm “signore” “signorella,” “signora”; {X,o,Stgnorotte “signorino”
USggnorotu, Primum Itfnpl^v^.H^^jpTi^imimiii i 11 irllfiiTimpllfi C4tj.
quartum fiiblimati quintum mihuit ex parte abC queaoie^lione.
Patet autem > quod differcntia flexionis , & finitionii
vocabulorum indicant refpedlus addicos cfscnciis j vti mox. deriuando
confid Qrabinius. . Diuifionem fortiuntur Nomina ab cficotia
aquan- titate, anuniero , ab ordin e, a fexu, i formatione.
Diuifio /. ab efentia, feu eJI^MiaU^:Ominum Aibft^ff Pumin >
aliud^j^il^* dinum. Lihr ^ritaus NOMEN SUBSTANTIVUM est, quod per modum subsiftcntislper
se, significa c j ut, “homo”. Nomen adiectivum est, quod per modum adiacentis
jilceri significa c* vcalbus,d: ut “humanus”, & rifibilis.
ERgo duplexeft Adied^iuuiHyalcerumrubflantiale folaquevoce
adiediuum , vc i^ir/i^iM/f , & hBhta num animse idiacens j cum dico » Amma
raihnalis , vel humana. Aliud accidencale9 Voce2c re Adie£liuum.vc
maUgnum^ 8c d^flmn adiacent anima: vt cum dico» Ani- msi cfl maltgna vel
dofla i homo albm. DTuifioprimafumiturredcab efrenriaNomjnis^quas ;
est SIGNIFICATIO. Et quoniam res omnis aurefl: substantia,
(cueffentia,ricucAtf«ip2c rr/^w^if/a/jaucaccidens ; , fubAantix- feu
efsencix. vc albuSyhCli^eu$\ cum dico,' / homp eA albus : crianguluscft
Ligncus*'- propterea omne. Nomen auteftfubftanciuum, aucadiediuum £c !y Aib- ;
; ftantiuum , idem qiipd eflentiale in hoc loco. Vnde al-*?h. ^
htdo eft fubftantiinim , duoniam gnificac pcr modum fubfiftentis,
licccalbedil^^ift^c.res fubfiftcns in fc, fed ^ in fubiedo corpore.
GrammaBt!ti^innen refpicic modum fignificaiiai,nonrenifignificacam:ficut
Metaphy/!^ Aibusvero dicitnradie Aiuumsauiaper jfenon figniii. cat
fiibfiftens ,fcd inhacrensacciaenfbue^Iten. £c;pro« ptereaetiamly
sationalc hpinini eftfftdicAiuum :n$m licet fitfubftantklcicciindumrem :
tamcn (ecundum 8e fignificandi modum videcur adicdiuum , vt accidensr. GRammatici
dixcrnnt, Nomen rubflantiuum efTe illud^quoddeclinaturpervnam vocem,
&; vnum articulum , vc/^/i:/>orV^«: vcl per duos articulos, 6:
vnam vocem,vc ^/r^c^/j^r^i^mo. Adiedliuum ver6, auodper tres
articulos , 6c vnam vocem : vc hic, hac^ hoc fsliK' vel per tres
arc.& tres voces : vr hacacerjjaeacris, & hoc <rfrtf
•velpertresarc. & duas voces : vc/&i^ , tatU^ n^Us^Schoc
rationalei vcl pcr tre$ voces :vc^pfl0;, jtf»^, bonum. Sed quoniam lingua
latina non recipit articulos ficuc Qfxca, deciaracio ipforum eftnulla.
Vnde multiGrammatici non vtuntur articulis indeclinandoi Vuigaris
etiam Lingaa nonhabec-nifiduas voces^ vt plu« nmum in adie(fbiuis : vc
kidiUB ^tiL kUntai^in pluralii hianchi hianc^iej^^saj^xxtx &: I lifpa
ri i^ i^rab^s^fe Hebraci. -PfxtereaHeclaraiio ipforum non d^i nacttca No«-
imnam^feda (Igno adiacence)& vftt; Vimjio 11. Nominum ex
qtiantiMt. Arck IXL. Nbminnnalittd commune) aliud propriom.
NOMEN COMMUNE est, quoJ plura Itmilin fimul significat, ut “homo”. NOMEN
PROPRIUM est quod significat unum, ut, “Roma”,5c /'<r/r«ij&
giQptereaciiam vocatur particttlare, &pcrloiiaic.-
Hi£c<Uoifibdici Cttriqoanthate , qaoniam commo. 4idcttr
de. multis. N^m “Petrus ed “homo” “Paulus” c^hnmd Vrancifcns efi homo,
Propriu vnifoliconuenit vc “Roma”. Non cniin dicicur Roma nifi ciuitas
illa, in qua Papa regnat.F.t qua- uis alia; ciuiraces polTint vocari Roma
ificut&ali, ho- mines eciam vocancur Pecrus; camcn incellcdus
luiius Nominis, X<>w^,& “Petrus”, refpicitvnum »cuiusefl: proprium.
Sed profe(fl6 grammaticalicer omnia propna pofTunc ficri communia secundLim.
vocem, feupera: qui vocationcm fcciis
tucem fecundum rem ; vc in Logica docebimus. Reclc camen hanc diuifionem
quancitaci adfcripfimus } quoniam magnirudo & mulcitudo in (1- significacionc
ad quancicacem spedare videcur Nomina eciam a pronominibu fiunc communia,
&: parcicularia, & singularia i vcjw^w /;<»OT« altquii homo\^
hk homo'S\' cutfuo inlocodocebimus. Tslominum ,
am?ncro. Ominum aliud fingularc, vt homo : aliud plurale, vt
bomines* . T T^cdiuifionon refpiciccolleAionem ,&vnitatem^
XjLficutiam di^la ifedfolum prolationem. Nam A#- m9 , cft Nomen commune
,& gens , & populus ; plurae- nim significac, sed pcrmodum vnius
colleftiu. Et propter ealicctfit nomen communejnon tamcn est plurale, icd
singulare: hominei autemnumeri est pluralis, quiaplu» raiicer profertur.
£ t hoc in omni lingua similiter. Nominum, ix ordine. Nominum aliud
primitivum, aliud derivativum. i4 ^ramm Atlcalium
PRimiciuumell, quodanulIoefi: gramaticaIicer,vt;55-- moy &
mdns. Derivativum, quoclab altero deriuajturivt “humanus” ^h^^oxrnnt : sic “montanus”
a “monte”. Semper autem deriuativum est adie(3:iuum,auc verbale: primitivum xionitenv.
REclediflindlionem hanc ab ordine fumpfimus. Oi'- do enim est, vbi datur
primum et secundum, 6c tertium feriatim a primo^ercro quia aliqua nomina sunt
primitus impofitaadaliquid significandum substantive: dicunturrc£kc pr
iiiii ordinis : qu x vero ab eis , dicuntur deriuaTT, ficutriuus a fonce.
Ecquidem datura deriuatione etiam deriuatio. Nam a Marco deriuatur
Marcel- lu5 ra MARCELLO MARCELLINUS Ec a lufto luftinas .drufli-.
no luflmianus. EtquidemJy luflus/umirurfubfiiantiu, quarcnusab
eodenuaturluftinus &Iuflimanu. Non tamen inuenies derivatiuum, quod non fic
adiecliuum , vel. verbale "i patreenimdehuacur paternus
Scpatrizarc. DAnturNominapofitiuajVt iu^us-H. conaparatmai vc
iufii6r-H fuperlatiua , vtjuffifiimtts SIGNIFICANTIA magis iustum et maximtiufi:
um, & hoc apud Latinos, non incundis linguis. Et quidem compararivum
derivatur a primo cafu. definenTeini.fi.n.itf/ fiaddmius ar, fit
iufiioribifort} Jortior. Ar superlativum regularirer deriuatur a pnmo
cafudefinente ini/, autinr,^. vtkiufiif; & fdftis 'iufiiJHmuf,
ftrtifsimus - & a miftr., miferrimus. EXCEPTIONES LATINORVM. Excipiuncur
hnitt ,malus paraas ;;.v;^nflj: ex quibus noii deruiarur bomor bom^\mus^
5c walic) ^f.^ruior^ ma(^nior ^rnaUfr-nus ^faf^ifitmui ^waf^nipimu , lcd
a bona meitjr^ optimui ' a malo pcjor^fcfamui \ i paruo nntior^
mir,i- mus : aaiagno, major^ maKimu!.F.xcipiuntur noniina desinentia
in ificus y ytmaj^ Tiifiius ^fiiakfcns hcncfccntue beneficus^ fimJia : 5c
quibusderiuanturw<i^«//ffr77//(;r , w^- gnt^cenn^imus :*nalif(€ntUr^
malcfcentifiimus : benefcen- tijlimes , et similiter in similibus.
Prsctereo excipiuntur qu^edamnominain desinentia vtfadliSyhL
humilts quselicec producant faciUof^ humlior it^n^en non ad-
iungunt^icem fafiltfiims kamiiifitmusikd fadUimus U humslUmus .^radiUmns.
Dicimas camen ab vtili vtiltfii'- iffffi.^pudPliiiium. In vulga naucem
lingaaperadiier bia gtadaadcur, vt fi^ Bonp i l piu h no : ntb
pnrfidiu ^o9i;/^m^i>9r^/jfim^ Gailic^ vetbYm 609*
qaoDiamtercio gradu dift^tfuperlat. apofic, ' Grammatici b an
c difti n^lionem vocant /peciei ,vndc dicunc prnniciuam speciem, &
deriuaciuamrfed c^nn fpecies fitid quodfub fignato genere ponicurraut
rei apparentia : cum hanc diuifionem non ponant fub gene-
reafHgnato vllo,non rede fpecificam vocant. PofTenc cnim
limilicerdiccrcipeciem fingularem &cpluralem: 5C & deplinaCLoncs
eciam fpecies nunciipare. Philofofhifma Grammatkdtiqnis ad diriuationes. F DEriuare'6ft
rluum de foncc ducere. Fonscficntii rcrumeft, vndidacicarexiftentia &
adasexiftcn di, adtuaodii agetidi., fic natioulL Idcirc6 ex nomine,
quod efrcnciam fignificat^cleriuatur verbum. Nec potefl:inueniri verbum, quotInon
fit a nominervt cnima nominederiuatur« (?w/«<«r^,itaacaIore caltre^
caUface^ y^rafrigore rw/r/V/^^ i
ab amore amo :Avita viuo^ abho- mine homifico erenim vbi non extat verbum
,oportec illud fingere in GRAMMATICA FILOSOFICA; vt a remo-igare : a
capite capitalare - a manu manej^pare dicimus in vulgari idiomate, vt a patre
fatri\\ars icc.fpaU leiiare campegparey fefleggiate. Veruntamen vbi prius
reruma <flus, quameflentiain- notuit deriuauimus nomenA verbo non secundum
naturam sed secundum neceffic a^ex c/^; Theos i, vidco dici- tur5^£;5
Dr«;:&a lego dicitur lcFfor-i &:adiligegere dileUio. Essentia enim
diligcntis qua diligens est, nomen non haber, ficuti multa, quorumeire
eft adic- ctiuumnon fubfiftens. Quandp veux^ilVnm ctTmftro~a
e- xiflendijVel operandi,vel agendi,vel parrendi fimulfignu
ficatur,tunc ad vtrumque fignificandum fex nomina par-
ticipaliaderiuanrur. Duodicunt pocentiam adjndlum, \l\amafjilc Sc
ajnatiuum : fuFiihile & faBiunm , idefi: quod poteflifieri 6c quod
potefb facere : 5c duo significare frentiam cum adlu prxfenti, vt amam &
amatum , portans & porcatum : duo vero cum aclu futuro, vt amatnrum
& amjmltirK ifiiFlurum Sc faaendnm, ideft quod facier 6c quodfiec.
Duovero praeteritum concemere aclu cuni cllcntia debcrcnr,qux tamen IN
LATINA LINGUA non reperi u n tu r -fed lY^wrf///'w ampliaturad prxfens
&prxterr- tum sicut & ly amans. PofTet autcm dlci Amatutam. &
Amarans, lcclntum & ledatans :porcatutum & porcatans. Qui ergo
linguam perficere vult confideret. Diciturtamen inaliquibuscacnatum ,ideftquod
cx- n:\uit,8c quod cxnacum efl : fed confufa aclione cum paf.
lioTie per inertiam vfus,cyranni fermonum : non auteni rationis,qux Rex
efl sermonum. Quando essentia non cum aAu, sed cum virtute ad aclum
dicirur, dexiuamus nomcnaliud in torvt Ai^ator, tr
«dificatoivideftqui arcem5c yim ardificaudi babct vci profefnoiicm. Rurrusqtiandoinftrcimen^m
vel a!iquid 4nftrtimen taleadillum adum, enunciacur deriuamus nomen aliud inoriam
tfinemy Viam dipnvm JotttMium exetutc^ fium^fcnforiumy potiftatorium appetiterittm.
Deriuamns in Mum &a^iuum , quando qiiod de gVr nere maceriali
alicuius eft prohunciamus, vcfa^itium, nouititium, commendaticium , {litlaticium&Tulg6
niOr uitizzo, compariccio, acquariccio, 7 Q^ndo mocium efTentia:
cum adu: in«r<<deriuamus, V t /^.r, genitura, creatura. Quando congeriem
elTenriaram & aAuum eiufdem generisin entum dcriuamus vocabulum , ut “firmamentum”,
documentum, & monumenium vulgo par» lamento facimenro, magiamento,fentimento. Item
cum pcrtineraliquid adefTedicimus, in ile &ale, deriuamus : vt/6m/^
ab hero, feruileaferuoiliumilcab humo, ouikab ouibus :
b(aciiiaIeabraciiio : exiciale ab exicio. Quando ipsu adu, vt
cfTentia &q m'ddita5.eft,Tel in ufl vel in ia vel aliter deriuamus vt
Amorjlanguorjdoldr, fa- pi£cia» do<?l rina, led io,amacio,iu fti tia ,
focutip, difFcritas. . Quando efrentiam plenam adu , in entia, vt
mdQlen^ tia patientia, conniaencia) fomnolencia, pracfentia , clifw
ferenti A^abrentia. Qua:dam dicnnt eflenttam 6e curam uBlva^ in aHmm
deiinatasTC Armencarius, Cbriarius,Commiflarius,de« pdfitariasjlonuius^
6c vulgo ftafiiero Caaaliero, fi)mie« ro&c«^ Qusedam
dicunt cflenti & a<ftusfimulmunus, £c iii ifl»«deriuantur,vt
“lanihcium”, “opificium”, “di/ridiuni”, puer.n. perium, “pontificium”, “sacrificium”,
“presbyterium”. Quxdam comparationem dicuncadie< fliuorum, quiedaniiu perlationem
m /«r , 6cinij7itai dehuaca, vcio* ftior, iufl:ifTimus, aiufl:o,
&c, . ii][u^dam dimiautionfim. ia mkm & vxiUm lum,
vtwi^z/i^^a/ai^ peclurculumj corculumj &mollicel-
lum, marceilum rcribillo, refocillo&c. Qu^c aucem
iiKlinationem,cum adus deleflarione in cfurn deri uauc ^st,amor9fu>Si
fragoftis J carnorus , vinofuj,, faftidiofus. Ac in lingua
Lacina non reperitur verbum &nomeft has omnes derijuationesiiabens.
Picimusenim , Amol\ aman s , amatum^ amaturum amandum amati^um, “amabile”,
amacanumtamatop, amaciflimuus, amantior, sed deen: amacio, amamencufn^ amaficium,
Amatura, Amanitia, Amorofus. amaticium jamaeile :qdxtamen aliisnon de
funtvbcabuiis» ^ In vuigari linguadefimt dqriuationesiiiiiltx^fed
alix Mifupcr adduntur. Nam alfignpre dicinius signorone-,: signorazzo«figQoreito,
signorino, signonizzb, fignorclrr lo, “Pietro” “Petrone”, “Petrazzo”, “Pecrocco”,
“Petrino”, “Petrillo”, “Pietrazzo”. ^r^iriTfff iHdirmd^nii iiilinpni al ti
tudi- WMrfiprifaz^^o'^\^t\t\xA\n^modtcam dimi^. nutionem (finorinj^fXus
minuic 5c fegregat. Stqrjore/' h,zd ceoericudiiieiii imbecillam traliic.
St^oruz^yO ad minimura, Suinta nominum dimfio a S^xUr^ Art. Nominum aiiud
mafculinum /aliud farmininum, a* iiud n^ucrum , alittd cc>mmunr,aliud
omne y aiiad promifcudm ^aiiudincertumi; 'Otwenniafbulinumcft qwod
mafculum in fexdi^- rum fignificat: t4>jagta,& dbu*.. Et
dcdiDatiir per arti culumbic. Latifiis, vuigopeiri/.
e"'Fxmininum.d[lquod ramiioam fignificar, vtfi: & alba &mtt Uecd£.
defignaaturper articalmiH i&^A Vulga per/tf.
Ncucrum,<iuod'^ecau^ f«minam fignifioar, iFtcleclinaturper
ai^iculuno vc ftudiuiti^^calbam» ][acionale. 4^eftiVi vulgarifennone
arcicttlusneurri. Commane quodfimutma fcuIumdC&rminani
figoifi-cat:¬atur perarticttlumJ^i^ et hai homo^ti adue*
ni;&'ratidnalis» » Omne eft quod fignificat mafCttlum,
f^niinam, neucrum: 6c declinatur pertres artijculos, vc i^ic &:
/;/r<: Promircuum , quod fub vna fcxus (ij^niflcacione
Hgnificacvtriufquefcxusanimal, vc hicPaffer,ha:caquila secundum vfum
loquendi. Incercum quod nunc mafculinc, nunc fxmininc pro-
nunciacur Wi&4r^£uiis^.tamlacinc, quam vulgariter, Qunnmisresomnc'in omni
rpecie.iubeant-aliqua' indiuidua fortia, vta<3fiaa in generatione aliqua
imbedlla dcpaffiua in generatipne^pr^fertimanimalitim Larinitamen
vfumrermotitsprsd scientes jionragnofcunt fexumn Lfiioanimalibur. Etex his
cradiaxerAmcad plaiv ; icas. Pydiagorici aucem (exum-ip x^undlis a g n ofcttnc
r^r bu$ : ira vt agens fit mas , patiens £emina , materiaque.: ammatici
raiiien in omnfveliocoonagnofcences, dti-/ ; fftpbj^run^ fettti1i>gc
i^omen maribusr &mininutnffim alias tranftute;
nittt. Qiiaproprer Z)^»/ ^?te4ttt4iiafcul^ , terri^ fx^ mininc:
Sci^vis mafculinc, fa:mininc, quoniain bis adioin ifli^.pa/Iiorelucrbat. At in
rnultis (^enus non ponunt,ncque.'enim ftudium eft mafculu.s aut fxmina,
&rcdc. Sed rebus fxmintisaliquando danc vtrumque nomen:Aqua enim
dicitur />wy^ flrminine , lateK mafculinc : & quidem aclus
voluncatis vocatur-appetitus mafculinc, auiditas fxminin^ : et defiderium
neutrali ter., Scamnura etiaponjcurneutraliter.cum potius Avminine
idebeac ponii qttoniam ittbfiac^vc faemina fedencibuSft Di^itizecJ by
Go Quapropcerdiftinguendficftde feJtoPhyfico &c Grammaticali.
Pliyficcenim non daturfexus nifi mafculinus et fxmininuSjVt in viro 6c
muliere:^ promifcuus, in hermaphrodito , 6c in lymacibus, communis :nam
motus vehemenriscft mafculeus, debilis fxmineus. Neu- trum autc nil
videmur dicere : non enim proptcrca quod noncftmas nec fxmma eH: aliquod
genus. Sed porius eftnullum g;enusphyficum. Sed grammaticalirer dantur fexusplurimiiam
di<fti;mafculeus, fa!mineus,neutcr, communis,oranis, promifcuus, &inccrtus,
fecundulo- queadi vfum, qttinon semper nacurac correrpondenr/ed plerumque,in
Grammatica humana Grammacica aute Angelorum melias exprimic&per
cercasvoces cetcos fexus &veracicen Sexum Grammacici
vocanc genus, nbnredevi^on enim funcduogeneramasft &minat V^in
logicapate bic. Nomtniim ajbrmatione Nominum apud est
formxfimplids: aIiudcompo(i« cx : aliud de compolics. Nomen simplex
est unius vocis, compositi pnis ex- pers, ut “animus”. Compositum nomen est
quod ex pluribus nominibus, componitur j Vt “magnanimus” ex magnus 6C
animus. Decompofitum vcro eft quod ex compofito deriuatur, non additainterdum
compontioneaUa^vc Magnammi- exmagnaninio. Onab re hanc distinctionem
ex formatione voca- accipimus. Cumenimres alix conllent ex
NOni simplici forma , llcut aqua. cuius oinnis pars est aqua
ob ^lDriginalem homogeneam formationem. Aljx conflcnc "{^tyi
comj)ofitaforma,ficuti pirum ex circulo Scangulo. Alix ex pluribus compositis
, Ilcut facies hominis ex forma oculi et nasi et genarum et mandibulx, 6>:
auris, & ceterarum partiumjita euenir coportet vocabulis in fui
formationious. Forma enim totius ex formis partiuni; formx partium ex
vnitatibus resultant simplicium formationum ificuciin logicis declarabimus. Vocatur
ctiam figura a Grammaticis simplex composira iquos non fu- nius
imirari '/quoniam formatio propnus quam figura remhanc elucidac. '
Considerandum quod compositio alia fit cx nomme &nominevr
“magnanimus” ex “magno” ^canimo ta- ' •r^-La ex nomine & verbo , vc “magnificas”
ex “magno” et “facio”, j aliaex nomine& propositione, vt conferuus ex
cum fic seruo, 6ctranrpofirioextrans& pofitione: Aliaex aduerbio &
verbo, vcraaleficu5& male&:ficio :alia ex aduerbio 6: nomine vt
beneficium. Accidentia communia omnWus Nominihm. ACcidunc nominibus declinatio6( cafuSjinllatina- Grammacica.;
C G Casus est mutatio noixiinis in fine Teu cadentia
di." dionis in eodemnumer 6,vc Pecxus Peai Pefro. DISTINCTIO
CASVVM. CAfaum aliuseft reftus, qui nomina dnu$'vbcatun
quoniamonmis rei nominatio primainipfo est. Alius obliquu^quianon
adres fblam nominationem, sed enn m ad aliquid circa rcm fpcdat, &: cfl
quincuplex, videl Gcniriuusdaciuus accuIaciuus, vocaciuus. 6v ablativus
Quibus debet addi aduatiuui, vocatuja GrammacLcis feptimus ca(ufi. Nominativus dicirurcaftis
non quiacaclit ab alicjuo, sed quia in finc aliam cadentiam habet quamahj et
rcclus dicicur, quoniam reda nominacio cfTencix per ipsum est. Alij dicuncur casus,
quoniam a nommacivo U, ledicudine sijgnificatiomscaduntj &nraulinfine
mutant cadentiam. Dicitur gcnitiuus a gignendo, vel quia primus gignitura
redo vt quidam volunt , & hoc minime. Nam poctac non magis ingcnitiuo quam
in datiuo dicimus, dc- Patri <i4i/i««i, vicmior eft pzter ^cminjtiuo ,
qu.im patris. Gettitiim Si quiadditvnamlitteram fupervtrumque. Sed
dicicur genitiuus A gignendo.quoniam pactcmjip geni- stiuum poiumus cum
nominamus fihum morenij fibrum, 'Vt Pl^tfUsIoannis filius. Sed non solum patrem
,)[fdpofr u. ' fe(rorem,& fubieaum^^^ 5c aha?^luto|poDfe/
fxpe in^enitiifo^v <}uon1am luri^ijf|if^jpfBkm i|« }$tn
cum patfe faJtem Grammw^em^" » nefcierunc vocabulum explicans
omnia. - ad adhunc cafum pcrtinentia & declararunt eum
amaicri Dici cur dativus a dpiiando, quoniam ille', ciH quid datur,
poniturintali.carttplerttmque»ticel i^itcrdum&tui aufertur
&, cuLtimetur56cc. Accufariuus dicitur abaccufando, cjuoniam patiens.
caufa quafi femper in ipfo ponitur ; accuiatiautem cft pa. ti.
Accufareaucemciletiam adnotare&fugillarc. Vocatiuus dicitur h
vocando; quoniani ciim quem. piam vocamus , in iioc ca(u
oblnjuamusjnomen, vt 6 Petre*'
Ablatiuusabaufcrcndo,quoniamcum abaliquo quid auferimus,ponnnusillumin
tali cafu.led etiam caulaa- genspaiTiuaibi ponitur ,6c inihumenta omnia,
quibus, operamur,vtquibusimplcmus&:vacuamus,vt.loquentes deverbisJ declarabimus.
A(fbuatiuus ab acluando^quan- do forma.inftrumentum & pars
indTnmcncalis adum concexnuncimmanencem,vtini. lib.
docebuuus. Non fuiRciuncpracfacrcafus, qubniam Poc Hiaeftno.
minatiui, vocatiui/& ablatiui. Poeriveif6 geniciiii, datiui in
fmorulariter & iterura nomin.i& VocaCiio plural. ergo alij
aidendi crant in cun^s declinationibus, vel ftandiitTt in.articulis , vel
addendi. Nam cum vulgb dicimus j//>^i/fi/o^/-non habetur in latino
mCifMfi^ fhtts , qui n on exprimic quod3ir^idnuit,pr«fertim inan-
tlionomafia. Declinatio est - variacio cafuum nomin.um gene^
jracimt Quando nominain
finccadunc, feu definunt aliter, cum dicunt efientiRs , 8c alitercum
circa elTentias aliquid de illis dicitur in lina;ua Latina & Grxca :
in no- flraenim vulgari noneft differenriacafuum ,fi?dnumeri
tantum:loco aurem differentiarum pooimus articulos, quibuscarent Latmi
& abundant Graccij & in hifce cafi- basnonomnia eandem normamferuanc^leddeclinaoc
abeavariando pluribus modis apud Latinos jin vulgari enimnomiifi duo
funtmodi,6canomiQadaisagnofcun. tur non i genitiais, vc in latina »
Giammacici cradide runc declinationes nominum. DE NVMERO DECLINATIONVM.
Sunt^titem Vfeclinaciones nominum fex: prima caiaa i. genitiuus
(ingularisdefinitin, diphth6gum, vt Mufa^ Mufa^. Secundacuiusgcnifiuus
fingularisdefinirinijon- gum vt “dominus”, “domini”. Terria cuiusgenitiuus
fingu-, Jaris definit in is , correptum, vt pater patris . Quartn, cuius gcnitiuus
finguiaris definitm i^; producluni, vt vi(u5, - vifus. Qmnra,cuius
genitiuus fingularis definit V/, vtfi- des fidei & fpcciesfpeciei.
Sexra^ cuiu.sgenititt^ifingulaxis de fiuit m ^ , vt cornu cornu,: J,cfuS)
lefu. Nominacioos non indicac declinationes cafuum»]
quoniamconcingic ipfittti tpl«i^bus moJis accipi i N omina imponencib us
, cum prxfercimd lingpa peTe" mBain kuinam accesfianciur, fed in
geniciuo ccncor4^ danc, Bc io^cieceristpropterea a genitiuo babenC;
diftinonem -fingular em, vc Poeta poecas » Anchifes Anchi/se» Eneas
Eneae, Adam Adae , Aminchas Amintb«. H^ep cfmnia n6mjaa fpe&ant ad
primam decIiaaciQneni , U tiberprimHs. coniieniunt in genitiuo
6i opponuntur nominativo, Seci profedo Calliqpe est prima: dec]inationis,
&: concordat cum aliisin genitivo ,(}uifacit CaI!iope5,propterea.
dicendum quodnomina purtlatina conueninnt,externa vero variant in
eadcm^declinatione: idcm videbi&in^»^ 5.&^uai' cai declinatione«&x|uinta&rcxta.
In prima Latinorum declinatione n omi hati uus definit in a, breoe, ablatiQus
(imiliter in, a, longumVocatiuus in a;breue : genitious 8c datiuus in
ar.diphthongum inxe videturvuIgQS latinofumeriraire iomnis
(snim ^e^bet ab omni & /ineulo difbingui , quKndo praefef^fhi
non adeftarticulu5diuingues,nequeprontxciatio.Tgitur non tt6th
dati0us,6c Genitiuusin ^ddtniSt. Loco Quorii vulgares
ponuntartlcuIos^W&«i/, vt,del poeta&jal poe. tas, icrrbirur.tiecre^
amnormft renuerutponentes poeta in nominativo, vocatiuo, et ablativo. Nam
necvariatur quantitas in pronunciando nominatiuum & vocatiuurhi
necfi variaturin ablatiuoagnofcitur j cum folum penultimarum in latino agnoscatur
quantitas. Prasterea in plurali latinorum numero prmiac declinationis
nominativus vocativus qacdermunt in a:, dipbth6gum, genirivus in4r«wdatiuus,
6c ablatiuusin, longum , aut inabus^ cumA masculino separamus fa^mineum
fexDm : sed profedo nonrecflt, quoniam confunduntorarione similitudinis cafus :
idcirco diftinguendi erant faltem per arti- ' culps. Feliciores in hoc
^nt Grxci vulgares vtuntur . articulis:vt nominatiuo /i peeti - Genitiuo
delli poeti: accufatiuo&/«^/i ^vocatiuo k ppni^ ablatiuo
daUipoe- ii. Sed non refticonfiindantartiailum nominadui 8c
acca&tiui. Secunda declinatio
telatitiisrationdlite Rdicuntenim Nominatkio Dominas^ genititio
Domini,djiduo Domi. . no»acca&tiao Dominiim, vocattuo ADomiiie»
ablati«. finiiDmMQo: Yariantnominatiuum iDus^Dciminas: in ' VE
ij i€^rdmmAticalium C^mpanelU, cfjVcmagiller : fcamnum in hoc
genere neutro con- fundunt nominatiuum cum accufariuo , vocatiuo in
«m:- & in plurali fcribitur in ^,hi tres earusdermunt.
Incertiadeclinatione nominatiuus multiplicircrvaria- turin r/>f
ponitur,in iz.vtfiElix.mo7j,vt Artneon,in f«,vc nomen,inrff,vtlaciin es ,
vt Aucrroes - in ,^,vc omntf : ia ^ y vt epigrammii : in , is , vt nauis
: quas in gcni tiuis- coniieniunrin,,ff»datiui^ ivis\m accufatiuis in,
>fed neutraomnia , vt innominatiuo r vel in, /w, vt nauim :m
ablatiuo in^/,v«liii«^cumcon£uiu>nedaiiuiy&aliqUan'- donominatiui.
/ Quartacieclittattbin^ irihaber nomtoatiuiinr , &genr.
tiu^m &vocatjiiuftinngulares, quoseonfandit cunnno*
ininatiulsvocattuis ficaccuiatiiiis p tttraKbus.dact.ttU5lia^ ' bet
in , ui, accuCifr iifff,.aBlar.hiv«r.
Quint»concordatinr»ominatijuis in ,«^deGnentibus fcmpcr Sc
geniriuis in cuncbs.io.t ^ fiid t.<i«i £tfhdit genr-
tiuoscimrdatiuisin fingulari. Aceuf. in ,>w , ablat. in, #,
fedvocatiuu5ftnguIaris6c nominatiuus&accur. 5c vo- cat. pluralrs
confunditurcum nominat fingulari. Genitivi rcdc fc haben* in corum pluralicer
^fcd datiui cum ablativis in- confunduntur>- Sexta declinatio non
ponirura Grammariciriponcnc fa- quidem: NihH .n. commune haber
Nominanu{^Ar«y,. cum cxteris prxfertim cum quinrn,in quaab
eisponitur. Nominat. genir^^iccuf. vocat. ablat. faciunt , a ,
fcmpor- in fine. At inpJurali nominatiuo vocariuo & accuf in ^ vt
cornua»^nua, vcrua» Prxeereii. feli datiui con- fufi cuip
ablatiuirpluialis» nu^eri ii^ iini copucniua«c
i2ttin.<]uae/untcjuinteti ^'. A ' ' ^ N. Hogua^ Qrxca St
cafus {^iif^ScuIi c^^ tiaruo» nominatarfiadualitiaiiei^*ln tatina' foii
tSLfkp vuljgari^ IlaIa,Franci^ «Hirpana, H^breaAi Af abica, hl
ai;tiajii Droptcrfast <ji*mil5 acciientia > i^Juna exa^ Liberprimus] v
declinadcmemeileVfiomi Qibus* Igtcur nec^cnr^c.cJ'!- iMttiocUndis
quoque^Laiinis. PRononi^ ncdvocabuIiim declinabile confignjficiia^
perfonas, velperfonalia eifentiarum. »r . . r; ^
E E T id circ a d i citur prononcien
^yjoniaiia ponicurloc proprijnomuii. Rgo femper repwrfJntat
efl&ti^run? exilfeiai^s:, Yelexidentiamprimq, dt
Inredorefieiitiimiii^ b]iquo> (ecnndarick Dlcitur
pranotnen vficalttlam jfars orationis drdU nahilis, ficut& nomen ex
fuo genere, qui conuenit 'Cumkliisdiaionibus,&ex
difFer^tiaabindeclinabilibus. Non additur vel art)culahilis , quoniam /
articuiorum 'iiobeftarriculus, pronomina autem varticulifunt. Dicitur
cofippiifjcat ferfmas vtl pcrfonalU effentiam ad differentiamNomfnis&
verbi: quor^im. iliud %nificante£. fentias,iftuda6i:us. Eft
aute pcribna quod perreaIiquodparticuIari2itu&' diftincl uab
aliis>& indiuifuminfe,fonatWPf/f«/ UfiU»S' frimui Martini, Omnis
eQimres in-iiiis caiifis habercC» ientiampuram^iicuc i&«j^oite
meaynoneiirmiftaniai.^ tcrisc nequ e qua n t i tati,neque qiialitacibus ^erum
coext^ ficndum^ NMcftin cera^M^iie inUgho, iiequemmias E ig. 3&
CjrammMicdmn CampandUl longa, eqa.e curta, nequealba,
nequenigra,ncque graiT cilis, nec craiTa. Sed cum Tentc d^ mence
meaxdein&n. tia^ ided ad eiTendum extra cunc noneft am]>litts
pura/ed liabet fiiarri p.erfoiialtcaijem mixm asm,aUisidDus,non .
ei^Hmdicttur .A.Sed hxc.A.curta,nigra, gracilis, &c. Sic homo in
mente Dei, vel in natura ,Tion eft hic Jiomo, nifi cum perfeeftextra
cauias,^propriamhabet perfo- mm 3c,dicicurhic homo , 6c
petrus,&ille^j5c;ille, & ego,<£c meiis nofl:er& aliqnis.
Pronomen ergo n<jrj fignificatefTcntiam fed perfonam , vc ^•(^o ^/«vef
perfo- naliavc mcustuvs. Et quoniam porsona eft c^frentict subsistentia, anr
singulariras, propcerea rcnipcr pronomen signjficat cirenciara, fed personatam,
vei perfonam elTeh- tic-c Aliquando 5c perdonalia, Cume^itp dicoyf/««j
jdf- fentiam significo , fed cum dico , fjliusmeus , significoeC.
fenciam iiltj perronacafmidell hanc&dam £t propcerea» vc dicicur in
jiij ii nn rtii wlUi i i i ^ [ in mm i Tn i ftu loco no- minis;iq|j^pniam
perfona^nonjeft perfona nificflentix ad extflrentiiip ^eciufl^. £t in
fecundoc Qrollariodiximus, qttO(f sigmfica*c exiftencias efrentiarum;
quidauidenim In rerum mtterfitate eft, existentiam haber, feanon
fiib* itftentiam, aut, perr<Miacn^nin fic substantia: vcAibum
habec exiftencidfii \ ttd non fubfiftenciam , qooisianmon exiftit per fe
, Ted in perfpnaal^cuiusiyvel in indittjdae a^- qiiocorpore. Perfena
c|ttidem proprii diciturdeiatip nabilibus creatiiris ^ indtttidiium ,
& nypoftafis de cttisms creaturisad exifteritiam dedu(^is. In rcdo
igitur ponicur existentia, in obliquo faltem implicito
,e{r^ntia:'cum dicojille “homo” id est illa perfona hominis etc. Ego Petrus:
homoenim fic Petrus fccun Jano ponuntur j &aliquando exprefse in obliquo
cafu vt aliquis hominum, v.elquippiam falis. Dicitur quoniam prohdmcn non significat
de se, nisi una cum nominee ex prefib vel implicito : vc cgQ. Petrus qrahicperronaii
Ucem ^ fc; QVatnui* ncMnina fingill^'^
,^V^(fift"rus & Fafckisdi^ cant efFentiam perfonitjim , h jid
tiinienrantpno- nomma : quoniam in re£lo cfTcntiam dicAnt vt
finguraris &non ponuntur locoalicuius nominis fignificantis essentiam,
fed de fe ipram significar. Licet connoratiuc pronominent, cum nominant.
Petrus enim est hic homo filius lonx et existentiam crc^o clicar in obliquo :
6c significat essentiamin rcdo. Vei existentiam, vt quacdam non efrentia
est, ac fub raiionc exiftcntix. Quoniam proprium eflentiale est
prpnominisfignificare personasyprima di/lin(%io prbnbminum erit. a personis.,
Pronominutnafiud fignificic. personam primam, vc egQ& nos, :41iucl secunda.m,
vt ru , &: vos:aliud tertiaqi, vthjp , & ille ; i^liud vmnei personas
vc qui , qua;, Recbcpomturel Tentialis divisio pronominum a significatione
perfonali, quoniamliic eft vfqs &eilctotia
prononiinij^.Tresiiimcpn{onzcancuin apud Gianu mancos« quontamperionarepradr
(rntat exiftentiam cum |irofeitur:qfii ergo proferCy Vel repra^fentar fe,
ficdi;'' cit. E^i iiKl.atiurhvquo^.cwnbquiturjdclkididC'?'»: it
iAtb oiiine vocatiuum sdiiien efl; ethim^fl^cm- dae qaoniam fubaudicu^i»,
& Velatitfmici^imi dc quo eR&imokficdico,ltfr. Nos «ddimw personam
quar cam , ideft omnem, quoniam pronomen referconinespcrfonas, 5ciiiiif5eiVperrona:
quam rcfcrt, vtegoquijCu qui. illequi :
vbi^«ieftprinui»&fecttnda, & ccrna. 'Myftfrinfii/Tlieolpgicum eH;
, cur non vkt^ ten^am perfonafn (ertno prodiicicur. Neque enim ix^
eternicace func plur es p r i malitaces, " Secunda
dliiifiQ^abeJfenna. Pronbminum aliud fubftanriuum, vt egoj, tu ,
nos, vos^fut liic ifte,ille,ipfe. Aliud adie<5liuum, vt meus,
tuus, fuus, nofter, vefter, quis, aliquis^quis^quidem quif- piam^omnis. Dicitur
pronomen substantiuum, qaod fjgnificatexi stentiani seu personam, quasi
per feexiftentem. Ec itieo n on fo lum f 2;o , tu, nos, vos, et fui,
ponuntur fub- ftanciu«,quscper vocc^ pluresnon declinantunfedetiam
hic,tfl:e',illejpre,qu.x per vocestre5i& articulos pronunciantur, quoniam
dire£bc fH!;nificant perfonamjVt pcrfeexiftentem: & hic non
valecregula grammatico- rum,ex vocibus, &arciculis fubftantiam
accidenta» liratem vocabulornni decbrans, Sed in fpiciendum eft ad
inodumv lignincandi. Poluimus adiecliua pronomina, mcus, tuus,Yuus, nofter, &
vefter, quomam non fignifiqantperf^iiamdire^cnpcr feexiftentem, sed
adiacen. terii, dicitur enini equusmeus jquafir^Wf/:^w,feu«frA utt
adiaccat equo. Scd curn dico ,'ego , &ille » demon-
ftfandoadiacenciam 6c accidensperfonalenon dico.Sefl^ perfooam
ojPteplit^^ dicit perfonamiper, . /^i^iij:^ ali^U f^idam dicec
perlbnam la : U mnis dicet perfonas. Sed ircitH
adiacet* Eceoinifdi Mexpomcur^^iil* M.fis , expooitur #wiKi iiW»
^nsnlaris 9C perfonjitns. Qnod fi ira non est, Ii^e diftinccio non
Aabeaclocum ifi protxoitii Deiicuthabqc in noauioc. DiSmcJio tertia
cx quantitate. ' PronbminufD aliud 7niuerfale , vc quilibec^ 8( omni U
qui€umque ^aliud paiticulare^TC aliauis &qut« ilain,
quifpiani;aiiudfingulare»vcego,ta,iue,iple,l ic; iftc., Pronomen universale est quod significat
on^.ncsperfonas fiinul : vc omnis homo. Particuiare quod fi- f^nificat
aliquas perronas rancum: vt quidam homo,& aliqui &homines,&:
ahus homo: fingulare cfl quod significac vnicam fingulareniperronam vc bic
Jiomo,iiVe, 3le,aicer,ac vnus. , G;R4[mmacicl nonlrede
poAierunt intevnomina, dm nis & aiiquis, 6c quidam :hacc enim nullanf
effen* ttam 6gntficaac npbis : nec illis fubftantiam aticqua-
liratpm: vndeiogicinon vocant eot terminos fignifto catinos,
edconfignificatittos fyncache goregipacicos; quoniam per fe non
fignificani^fed habent tnoratione offieium defignandi perfonas
omncsaucquardam,qux in illiafiibinteUiguntur. Cum enimdjco, omnishomo,
non incelligicurcflenciabominis,fed omnis perfona hnmana: veluticum
dico,quidam lapis non inceliigicur efiencia Iapidis,ied aliquod corpus
indiuiduum lapideii, feu lapis dedudus ad exjfietiam aliqnam.Etcum dico,
hic homo, r.on fignifico fubiKTntiam hominis,nifiiecundari6, icd
perronam quam demonftrabomim$« i. ETideo pronomtn non
ftat loconominis coinmumri . fed proprij:cum eninvdico^omnis bomo : ly
§mni$' significac Pecrum Joannem^Fnincircttm et alias personas humanas
, CcWiott^hU km9 ngnificat Betrum ^ (^uemi oilcndo.. ' ^ifiin£2io
(jiuartaexordme^ • Art. Vi. PRonominualiaprimitiua ,
vtEgo.tu^ nej^vcs ^fui^ille^. hii^ ijleyipfe^^ts^ ^uis , alius.
Aliaderiuatiua, YtiWf«i><««MVlca pronomina primitiaa habenr fiium
deriotf»- .dunma genitiuo didum, vt ego, mei, facic meus» mea,meum^tu,tui,taus,tua^uum.
Sai,/uus,rua,/uum, . ^ nos producic>nofter^no{tras: vos >vefter
& veAias. /I producitY/^i^iii «liifi faocfit compofitum ear ^
dmftfp, jitipfe^illeM<,^hSmtiffmk\^ produounc| de- riuatiuunn
tf/HH t^tni^LcixjilunBifLeiUfr^^lufdHiS* Ip&L: <juQ€)ue facic
i///;iwf X iipud Blautam*. Dti^fio uinta ex numeroi. '
PRonomcn aliud fihgulaic,[vtcgp :aliud|difc5ale,j
Vtc- E|Rima,reciitida& cereiaperibniKAmt nua^rij^luralis
'rraiaciii i . Hoc camefi norafiifum qood in Jin«::iiaLatina et vulgari
leahcanoncorrerpondenr C\h'i pluraiis nin-ne- ru«caa<i fiQ|fbtari^iQ
prinil5 6c (ecunclisper^ooif- 'Ntim fcumdicb ^^^innngulan ,
deber£dicere7^09^>ibpluraii: & ex /fr nngulari, /«ff/i in plifrali
nos AffiKEtprweSk^ iingaaTurcica'^lt<*f!^ habet -condicionem, qnoruam
proego, 6Cfi%l%\oihetlsM^t^'-- niy pro cu & vos ,fundr fani^pato
eciam aliay lipguas yfoii- Iher fe habere. In rcrtiis perfonis rcdcfe
haue^c^ iin-
gularceniincl\///f,i/rf,//i»<i:plurale//i/,A//<f,i^^^%)i^n£iio
fextaexJexH. Pronoininum aIiud mafcuhnum vc i7ii: aliud fa:mi' uinum
,vc///i^}aliudneucrum , vc//i«i/:aliud omnc, EA<Iem
rationedeciaracur fexus pronominum acquc nominum Sedpi onomina
carentcommnui 8cpro- mifcuo ,&:incerco. Quoniam cum fignificanc
perfonaj appoficas cflenciis^clarcfignificanc rexumabfcjue com-
municace «promififuii^ce 6c incerticudine. V
1Diflm3ioJeptmAaFormatione. An. yilU 1 PRonominumaliud
simpIex,'vc//- & /y^^ralius com- pofitum vc idem U ifihic |
conipomcur is U dc^' GrammalicaliumQim^aneSie, NOn diflfert
dedaratio figurar fimplicts U cdmjK>- Cnx nominuin & pronon-Hnuni.
VerumapudLad- nosnon uiueniniuspronomcn dccompofitum. T^rofoftio de
declmmonihm fronommum. Declinationes pronominum fiinc quinque. Primac4i-
iusiingulans gcnitiuusdefimciai vcd^gtfginfi, tUytmii
/v/,carccenim/arinoiiiif)aciuo. Sccunda cuius gcriiciuus deflnit
\nius ,vt iUfiUius^fCej iffi^s j i/icy ifim$^. aUus^alms : aUeralitrius,
^ Tertia cuiQS geni tiuus deHnit in i, vtmeas^me^f^ml^^
hcitmei^me^ymeijl^cJiSgwi , tui,tmf0iHi4 i^fintfyftti/a^^ ftiix, k vrfrv^
ve^n\ veftm^ vefirs : ipofier , 4w^em , nefiri^ ntffir^e nefff* Quarta
eft cuius geniciuus fingulans definicin//, vt ^nifiras nofiraiisivefiras
vefrasis. Ad^ nancreducunrur.pa- ' cronihiica mafcnlina , & ficminina
, qux rcperiuntur in prima 6c tercia declinat. nominunl : fed ron riim
nciid/ra vtputant Grammatici, fci] pronomini gciuilirui.
Qaintacuius genitiuus lingiilaris dciinitin h^ivzfre b^e^tOQC,
Facit ^«/«f/ : //, ect , iiljactt cius, Q^ i\ vcl ,ju\ oi^ ifuod ifacii
cuius , & codcm modo fe habcnr compofirjv,. - ^ f w ^ '/*^^»
eiufdtm - ^ ab aliflftis a lii^ius, m Quoniam
pronoiina flc<^ u n tur in finc cum cadi t dU dio «haberc dicuntiSr
pafas : 6c ex ipforum variar^ ' CiOQe^vairialaittif declinaciones» &
plerumqucagenidlio: uaihqaam in pluriboi cafibus reperiacur vanccas cam
in plurali) quim ip fiegulari. Id quod:fiatcemiaa&'das XaXi^^s;c
plures dedihatrones. Nihil cnim commune hahct
W,hxc.hoc,&iflhic, iftha: cjftoc, cuinis, ea,jd,&.quis
vei qiii,qUcT,q"od. Prxteroa dantur componta pronomina
quorumalia . fcruant pristinam declinationem in cafilnis,
prxfertini genitiuo, vt/f^d7Wf/,</>/^/?Jr/,/7/^Wif/
/«;7i^'/fcribirur, //1 demi^hicce^h/ccc(^hocce,huiufce hc\t. A Iia non
fcruanr,.Oam cx ecce & eccon^^\\c\nmseccum^ eccam^ eccum , non ra-
men eccihMtus : 5c ellum,eiia m, ellum, non cameii eJlius, prbecceilliiis
iquoniamlylfrrcfolum acctiratiitum ref- , picic. Sicuti fnoimi&
tafipt^ fol um abjbMii|Ql^ueniiiMli» O^inta pronomina
naiiieraK^ bitbent incercas. de- ciinaiFiones-* nain vffar/, tny^^, ,
f^it «^«1»/« Sed reliqui nameri fqnt indeclinahiles. Scribiiur e
cericra pronbmina gentil icia, vtAquinas feruancanalogiarh^d!'-
cimus enim^f»i>^///,«9|fi'rf//i,cumponuntur non vt no- mina, fed loco
nominis. • •. ^nim^dtierfio de fatrQnimicis. ^ PAtronimica funt in
prima declinatione nominum : vt Eacidas Eacidx;& in v vtPriamides
Priamidis-.fic Priamis Priam idis fxminin^ d!cicur,quaequoniam
ponu- tur loco nominum funt pjronomina , 8c non nornira,vt Grasci
puranr. Nam nefaoquis fitPriamides nifi fubaa- diatur Paris: iicutnefcio
qaisiitillenilifubaudiafur Pa- ris,ve4 Pernis,verfaomo:pra*cerea palam
fpedant ad personalitatem : vt nuUi diibipi fit qi^in fint £rt>niDr.
iniiVi. I)iHin£lio pronominum ex ftgnatura\ Aliui
demonjiratiuum. Aliud pojfcfsimm: aliudgentilium , altud relativum. Pronominum
alia demonstrativa vt ego;tu.liic, ille ipfe, iflejis & Iy, quoniam quaridigico
perfonamde- monftranr. Alia (unc l^odcCCwiay Vtmcttstuus
/uus^ noffef^ve^^raiifnai, quomam poHidentcm circumfcribunt
perfonam. Alia gencilia vtnofiras ^ veflras yEneades cuias ^c [UO'
niam pacriam, Scjgentem, connotant. Prxtcreaexpraediftiyferrqtixdam
retatiua, quiarcm antelatam fiue ante didam refcrunt , vt ille^ ife
^hic^^jr is^ iiltwY' ^ quisqufCy quod. Dennr Dnflraciuaprononriina
reruiuntrenfacisdemon- ftrationibus perfonarum , vel cfTenciarum
pcrfona- tarum. Naminfenfu oflendi non pocefl: eHencia, ni-- fi
deducla ad exifl:enciam,feu perronaca. Sed relaciua non oflendunt ad
fenfum, fcd quafiad memoriam.Nam dici- musiPetrus eft dodus, ille qui j
vel ifte/qui legitin fcholis. Scd ly ille , ipfe , ifte » is , refert
antecedens de- monftrando, quamuisnon adfenfumfempcr exteriorem Sed
ly quselrefert memorando & particularizando. Addimus nocam
demonftratiuam ly ex Arabibu» quoniam logici acceptarunt eam ad
dcmonflrandum du- plicitcr.-valet enim vtecce 8c hoc fimul.
Notandumcactera pronominaabfoluca vc pofiefiiua <3c gentilitia per fe
..patenc!,quid oonfigniHcant in vfii:ac relatiua declara- 'tione
adhucindigenr. Definitiorelatiuorumptpnommuin^ V plcx eft rciaciuum ^
aliud eilen tiac i aliu^ j ccideo- Definiiio reUtim iJfcntiA.-
£latiauine(rennaseft,>quoclnatu|am reirefcrt,de monftratque, fiue>y
tencem ^ {Tue^^r&exiftefit;^ 1 vt. homo^quieft. GB.ammarici ^iuidont
relatiuum» infubftantiar £daccidentis ^ 5c dicrnitrel^duum Aibftanrix ,quod
re. fert nomen fubftantiunm:vt labor, quemfofcipis, eft . durusjvbi
ly queni rcferthocfubftantjuumi abpr.Scd rc-
iatiuumaccidentisreferradie^biuum. Nam etfialiquan- doadiediuum eftfubftantialevtanimatus,
& rationalis;. nihilominas {;rammaticaliter fe habervraccidcns.
Scd prote(flbnon femperitarebabct. Nam si dico Petrus et nomoqualisestu,
idem vaiec acquc Petrus cftrationalis qualisestU:& ly homo est: substantivum
et rationalis. adiecliuum, Qn.ipropter m comparationibus rclatiuis
non vtuncur logici relariuo accidcntis, fed potius ad-
uerbiofimilitudinis,ficut, &velut :vttu e^liomo^/icuc- ego tquamuis
ly Hcut omnes nocas compararionis fup. j>leat in referendo. Propterea
nos diximus relatiuum efTcntia! n^,nominibas ^gfammaticabbu5 potiU2»quaBi
i xebius confuleremus libtanttd: ile Utiwjamfubftaati» eftduplcxXidcnutis,
6wdiuer/I*^ Cti^mmaticalnm Cam^and Ut Relativum identitatis
refertidemomnino quodan- qtiien: aniniai fcntic, 6c.hdmo eft animal
dc idemfentiti vbi ly qui ^ ly idcM'^ referunt bominem omnino etin*
dem, ELitiuum diuerfuatis fubflantix rcferr diuei fr.m X V
anteccdenti : vtalius ^ vce^o vidco ''otrum 6c alios ^ o m i nes : vbi ly
aiios refcaiiomiues , vcdiucr lilicaiuur a -rrET^rx; QVid
Ocdiuerfic^tis^identitatisin Jogicis&metlia- pliyiicis
declamitrdiicautem Gimiturpro quacum* quc fimilitudine,
&x>ppofitipne« DE RELATIVO ACCIDENTIS. Relatiuum
accidentiscfl^qiiodrefertaliquid pcrci- neiis adeiTentiam, vcperfonatam
accidencibus. NVMERATIO Relauua accidentis funt (eptem,
quallsiquantu^^ quot^quotuStquoceQiyCuius» cuia(, cuium 5 cuias« GR.ammatici<!ieunt
retatiuum accidentis referre anteced^ns a diediuum,vc cu esnjger , qualis
coruus: ' vbi Tbily qualis refert ly niger, & non ly tu
,diximusquod non omneadiecliuum cft accidens in: iiilofoplna, (cd
in grammacica, quxrcfpicit modum lignificanditantuni. Sufficiencia rclatiuorum
accidentis fumitur ex hoc, quodomniseflentia vcniensad exiftentiaii\, re|^i6iicec-
ad^entia,ideoqueveAitur&perronatur qnalii^tie^guaii* '
titate,numero,orjine numerati , coUe^ione ordl^a^- . tum s in loco &
t,empore & in numero "i^ogterea dd tur <qpaHs
t.qtUU3Ciis.qQOt,quocu5 , quotenus'}^quibq$ de&ec aiidi nuhc , tunc ,
qaando,iliic»vbi,0 ex his po^Ten c apud ^ '
l^ifenosderiUaritiomina&pronoiniria.! v V j-- ' .V
£fta»cemquah'tasmodusreifiueaccid«^^ fldLiitiaIiS)pTopcerea refer^ ly
qualis omnes exiftendi ^ndi moaos. jDicimus enim Petms ^ft atbus^
fprcisX manus , cationalis , dioes , Rex , velox ; red:tis,'$c. Qu]
' Iisestu:vbi lyqualis, & efTehtia: , & perfona!, 8£ fori na:,
& operatiui, &: pafliui, &voIiriui,<^- animi,6c corpo- ris
, qualitates refcrrepoteft: quoniam in '^mm pra:diQa- niento datur
qualitas , vtin logica probauimus. Quantitaseft menfura fubftanna:
perfonata::&pro- pterea dicimusPetrus eft alcus, magnus, crafllis,
longus, quancus cstu:vbi ly quantusrefert omnes dimenfiones
iundas,&fcorfum , fed non qualitates quantitatis:noa cnim dico, 5^
rectus figura quancus ego, fed qualis ego. vc milices Quot refertomnem
numerum fimpliciter funtduo, tres» quacaorsdecem^cettcnmimilie^&c.
quoc funtciues. Quociisomnls'ordinis nuAienisjVt tu es primus,{fe«
cunaiis, certius, decimus, centefim'ttS96cc.iD ichola,quo*-
tusfumegoinfenacu; . QuocenicoIle^bionemnDmefatonim fcriattild svtmo
fmcbi nmbuiant biol, terni, quini| deni, mi)leni , cencciii,
quoceniambulantmilites; Aliquando iungicurquotoscttmquifque
,quandoC« gntficat ttttm de ordinatis , vc deeimut quijqut
^fecimiBS £x his dedacuncttf aditterbia> vc qneties
,Jecief^m$lliis. jo Item transferuntaradtetnpora aetates, vt
qiiotennis» bienms,tnenms quoniahi tewpuisadVxiftenriamrpe-
^t:item,adnocum,vt primasfecundas &c. 5c fedct pri- inoveireennd6 : &
prius, ac pofteriu':, vltimus ,6cc. lol cusenimadexiftentiam fpeclac, vt
in locrica. Prxccreaquoniamindiuidua. idefl perfonnta: e/Tentix, non
folum referuntur pcr prorfara^; cxiftenti.ilirares» fcd etiam expatria
& gence , 6c profeOione 6cfiidione: pro- prerea dantar^Ai^i
rcIaciuahorum,vid. Cuiuscuia,cuiij» tccm^s:vt ego fum Romanuscuias cs tu,
vbi ly cuiasrcfctt' ]y Romanus expacria. Icem Ciceronianus: Dominicanus;
cuiustu : Piatonicus cujas tu &c. At\^ cutas refertpoC. fe/Tioncm/vt
ttiiim^pntrum hU^ff^fuifi idebetetinin
-Jycujasreferrcpatronimicuihpronomen: vt Parjs eft Priamjdes,cajas eft
Hc^aoti quod Grammatici non cori- fideraruiu:, NGt^ndum quod omnia
praedkaaiet\ta, vt perfo- nancuradinnicem, fiuntpronom^na>
vtvero(unt^ Velexidunt.Ainnomina. i)erho. VErbum efl vocalnilum
declinabilr, fignificaps cx impoficione , rerum aclum^Hue eilendi,fiue
exi- ftendi/iue operandi,iiue agendi^ Hue patiendi EA rationequaindefinitionenominis
ponitur vHiU bulum orationis pars tanquamgenui gramatlcafe. A
dditar ieclinabiU, ad differentiani prxp o fitionis,ad:- iierbij ,
coniuoaipnis 9 dicitur)%ii^^ Dber pritntii • jr gorematicorum.
L)icicur cum imfo^ttone y difFerentiam intcriedio- nis/' ' " '
Diciturrf5? aw,tanquamvItimadifFereniiacon(litucns verbum in elTe
verbali.fcperanrque a cscteris orationis partibus. Dicitur eff^rtci , vel
quoniam omne vcrbum /ignificateflentiar ac1umnone(rentiam:&: guia
a<flusvel 'cftlubflantialis vclaccidenraliSjvel medius .idcirco
di- ciiwraFiu if^^dlyvzbomoefiammdl^vhi lyr/J^fignificat ipfam
elFentiam vt erte{rcntia&: c6iungitnotiones,n6 res-.pro-
perea.-^tfmvocatur vcrbum fubflantiuii rede d Grammatici-i. Sed
perperam,dixerunt , verbum fignificare adio- nem vel palFioncm. Hfi enim
non significatac\ionem neque paflionem litemnequedifco fignificatadionem, sed
adumadionis rtf/^/jjaucem fignificataclionem, vteflen- tiamaliquam :
docere vero vt ndum. Quid auttmfitA- clusin Jogica declaramus& mctaph
Additur vel cxilhn- di : Nam cum jico : Peirus e/?^vd eflin platea : vel
exifiit^ non fignii-ico Petriaclum cflentialem , fcd cxiflentialem,
quod ./.eflextracaufaifuas: vel quiacA in alio 6c ad a- JiudiT >
-'< v- Additur/?.^<?^^r^W/, quoniamopcratio non tranfit in ixMwd
^homo amluUt :ZcS.iovQX<i tranfir,vt fjomo '^eriferat filium.
Dicitur etiam ao^cn^i vtPetrusdocec:&paticndivtP e tru s
docetur. Seddchisadlibusin Metaphyf. dicemuSjneqvi^'
QuimQtami^atUiefinegoti/, ' Hlnc vides quantopere falluntur
Grammatici,dicences", verbumcfje farterjt ofationn declinabilem Ec
deinde.non loquuntur amphusde decJinationc , fedde coniugatione. Item
dicunt, verbum efle /?^«//fr<r/iafiiw aUioms & pafiionis : cum
verba fubftantialia &neutrai ctiam ipforum ceftimonio, non dicanc
aclionem neque paflionem. fyncathe ^rdfMmMkAlmmCafnpanelU]
Quod auteni addunc Qrm\\\u\c\^verlumefipaTSord thnii decltnahiliiy quo
Unm modi^foryyns terfiporibusagen^ divelpatiendi fi^nificaUuumff} . non
perriner ad definitionem, ficucin logica decIararur.Non enim ex hoceft ve,r-bum,quodhabeti'nodos&
tempora. Sed exJioc quod adum fiuentem abeffcntia & qui4ein
verbamrubftan- tialcnon habetneque fignificattempus:& multa
verba. heterocUta :& tempow <?cicliteise»hoc, quodaauiriott-
fubieo fitvtalibi docemus. Pmerca in linguar Chhienfittm
&CocoocKinenfitiin verba non declinantur perfonis- , nec temporibus
«a* riantttr» fed^otuhs , vtAioihiocoapeiiemusiergoaccti.
dunthxcverboinoa^ei&ntiantvefbttm. Di^in^tio "verhomm ejfemialis. Verborumaliud
AibftantialejVt /Iwjraliud cxinren- thls ,vt rfuneo^exijlfi ahud
opcratiuum /lueaclin- cum, vt Vfflffy ambttltf.^audec. Ahud aihuum,\t
ca^igo^ac- cufoyfacio : aliud paiTiuum,vtca/?igor,verSerc} :
Ahud ad. it Grammatici cbmmune , vc cnmmr-^iid^ dcponcns,vtv/<;f,/wn
- QVoniamfignificarea(flum rerum eft v^erbo e/Fen- cialcexhuiufmodiacluum
dyiin(flionc Ai mcdafuic vcrhiorucfrentialis diftiyii!aiO.:-6c
quoniaibcfientiaprocedit exifl^Qaab exi{];^i;|aoperatib4 aboperatipneaak>»
abadioae pa (Tio: proptcrea verbum reftc diftin g u itt)r in , euentiale
exiftenttale ^ operatiuum , a^iuum , &c jpafi» fiutun. '
£tMcdiftin^ioeft]l4^undttn)]»mVnask)fecmiduinVo:* cem fequif
vtdetur paffittum , quod tamcn eft fecundttm oremAdittttni.:
&propterea vocator deponens , 6c vafulo Liber priHim.
53 ridetur adiuum, quod tamen eft pa/TiUum. Aliudfbcun*.
dum vocemeftpafIiuum,fedfecundum remeft a^liuum &pariuum jVt
avipIcUor : & propterea a Grammaticis dicitur commune. Hoc apud latinos,
noiilinguisaliis: et recundum|r? aturamnondantiir veiborum
genera,Jijfi cx quinquc|a4ii>us. ACtiua&pafliua funt verba
inoijmiilingua, Atki Latina ex fmitionein o in or , diflinguuntur,
quodvemmeftin pinmbiis temporibus verbonim,prae^ terquam^ in prxtentis.
perfeAis & plufquam perfedisi o u^Tefoluunturin partxcipium €c verbum
fubftantiuuro: aicimus ekiim amdtns fumyel fui\ iccScsmanuir^miyel
fnerdm &c«inIi^naveroItalica, nondatur ylliilks tem-^ poris pa/Iiuum
,,£drdfqlttituriniiibftantiut]m vt fro ego 'amar^dicimmU/hnM^tPy tu
feiamat^^queU^iamatQ. Ki -in tertiis^perfbnis fupplec ly
ftama^&fieamato &c. In adiuis verofunt temporaomnia,exccpris
prarreritisperfeciis , & plufquam perf cclis : etenim pro amaui
d^ama* utram^ dicimxLs h^amato ha vevo amaio, Do c vment^v.m;
ISta.duo veiba fam & h^leo funtbafes verbomm om- niummam
copulanrfubftantiuc , &: ndiccliuc. fiueac- cidencalixci, flue
iQtrinfecciiiae extiniecc res omnes. r Verbaqi WBGramati«i«
vocanturneutra^jflonfunt a< dina nec paffiua propter &dc>quod
fignificanta^lu. e^ifteadi vt>?^: aut a<Ed^i,ve- ^wrMifiue
operandiyt ^orr»^ aut pot^di ^ic non potendi vt almhdu & iofi^*
Gommuniftautem 8ft<leponeniia pminent dd a^iua^ pafliua; ^ deponenia
eiiaib neuti^ fuiit fec«n«l|iBi. Tem,vtut3r^^radi9ri Ccuti auxRior
^ nudicor^wi^t^^ duuafecundum rem. NOvttig6xtQLi neqtie
fecttn^fi* mn,neqae leciiin& '
vocem^Grammaticidiftinguttntverbainadiuumj,: pafliugm , ncucrum, commune
6c dcponcns : etenimin adiuis funt qiurdam neutra, vt amifyrtdeojnteldgo
: qux aduMnceriores ScafFcdus notiones iminancntes fignificanc In
neutris vero ponuntpalliua inulca.vty^^ff ^exulo^ nia verba
pertinentia ad agriculruram faLso pofita in quarto ordine neutrorum.
Similitcr qux fpedant ad diuinas ac^iones natur^ aucons vc nmy,t^tonj\^uce(ctt'
Jndeponcntibus vero ponuntneutra fccundum rem, li- cet voce pa (fi ua , v
1 1 ^cton ^r<f ^^|jf f r, jja f^^'^ fi»ma(hor,\ Miiior. Secun^um
vocem autem omnia verba ex hoc . quoddefinuncino, velinor : 5«wenim&
fua compofita. ' folummodo neutra poni poiTent bc tunc faHa eflct
ver^ ab eis cradica » quod X, fiq^ipcat aUmm vef Dijlmilio
verborum ex ferfonts. Art. lU. Verborum aliud
peribnale^atiud imperfonale , aliud fcniilc.' descriptio: Verbum
personaletrcs habct personas, primam, secunda, lertiam pronominibus ck'leruicntes,
vtr^p amoyfuam^s^jlleamat, Impcrfonale nullas habctpcrfo-'
nas^ucnumerpsfedfub tcrtip^quafi ojxint^iytdmg amaiur Liher ^rimtii, te
amatar, ai illoamatur. Vulg^ , fidnia^ Jau &
ama-ddnoiiama. DeferJo^almmmmeroptimdumLatms, Granmaticos . Perfonaliaverbaalia
funt adiua,qu« definuftt inb, &^ormant pa/fiuumin or: vtjamo, vnde
fic anior per additionemr, alia pa/Euaquac deiinuminor Klia bentadiuumio
«,vtnmorexamo. iAlianciitra, qiMedefinuntin'o, & non formant
paC. v^iuuiinin or, vt gaudco, careo : al ia communia , quie defi-»
nunt in or , & non fprmantur ab adiuo in 6, & aftiue ac pa(fiuc
in orracione conftruuotur^vt ego chmifiorfe,^ egochminor abste. iAlia
deponentia , quxdefinunt in or,& non formanrurper aftimlm
o,necpofibnt pafiiuc .conftrni > fed folom a^ui, ncgc
feqnorvirintem V . e imperfonalium numero. Impersonalia alia
acfliua fecundum soQ^vc\,yx.tcdct,ie^ cet^ intertf j alia pafiiuic vocis^
vt atnatur curruur, kSi^ neutra. vUeaeftMahff. DcfiruUtbus.
SErnilia verba funr : qu» iiilycjiSonalihUvad.Uta, funt ! m
perfonalia, vt ti de^et p^tere i petfonalilaus verd Vf^tcioaaii Aiy%tMMeSjf0nite»t
i4magere., Rofc& oimperfonaliralia exadiuis funt , vt deleflat,
. ^qua cum in finitiuo vcrbo funt imperfonaiia i fine ero,adiua. Alia
runt neurra ^ vr inttrcfi , f^? conaenit\ pateiautquomamablatoiufimtiuo
funt perfonaiia, vt (jraiimiticalium CdmpMelU)
medicorum interfiint curationes. EtPecro conueniuttt TircureS' Sed
qux ncucro paffiua vocari pollcnc secundum Gramaticos^nuquamtiunt
perfonaliajVC/^i^i-/, wi. fcrit^plzet^ penitet^ racioaucem eft quoniam ad
afFeclio- » ncs refcruncur, quxopus adextranon rCifpiciunt^nec
perindeacboneoi. DifiinSio numero ferjonis. Numeri verborum
funtduo,fingularis vc drw<y, &pla ralis vcrf/7frfw»5.fimiliter
perlonas func tresm omni numero, in ilngulah ego amo , cu am4s\^ ilUamai;
inplu« ^i^samam9S^ wsamati$<tilkamanii V M g T iy N n V
. 1N omnibos rcbus re^eriun tur ift^ rre s per/biiac,& diio
Qumeri ex nacurarei>licec aiiquaadoincertisTerbis . non fincin fu^) 6c
in imperatiuis exnacorarei defiinc, 4c In intiniciiiis qux ad
imperfonalium cranfeuiic rationera. OecaJibusi0decUnmonibusverb<rrui^ ACcidit
verbis cafus.&i declinacioitlmni&j persona variac fitiem didionis
,'ycam0^ai^|)^amat : ficut ^ nomiciibos accidere nommos. JPr^cy^
deciinaciones verborum vafiancarficfic&nominunv.S^ cognofcuncur.
cx &cun(|a pei£>na| ficut nom^mifecundo cafivite.nu'
jijueinfirtitioo. Prima erg^o dccKnalii S^habec
Tecunda inperfonamin^ 4]icatiuimocii in ^;, 6c infi Ditumin^rr,
vt<iWiii,&^ff2^« Secunda, in ^i, 6c in ,Iongum| V t
^o^^r^. Tertia in/i,&in breuem , vt Itgis. & /r^w- Quarta in
/j, 6c irr, longum , vtaudts Uaudhe. SEd hxc fecundum antiquorum
dida funcrationeni, ctenim poteftprima declmatio conflituicx
fecunda perfonain es , &: infinito cdc^vt/um^inicrfurK^
acffum^pr/c- fum nefumyfubfum^profum^abfum^polJum^ &
cxteracompo- fitaexverborubftantiali6cpr.xpofitionibus.
Secunda habetpcrfonam fecundamin frj,& infini- lunim erre,
stferojers^ferrc : ^ compofica.vt7e/tff<^,<«i- /er» , offiro^petferOydefcrQ^
infero nffero^^ catera. ^ Tcrtia autem fit prima antiquorum ,
\x,dmas^rMfe% CVjarta illorum (ecunda, vt ^(^rQuin ta il iorunt tcrtia^
vt le^ii , le^ete^ Sexta illorum quarca, vt
4i«ri/i,^ir^i>t.. Deanomalii. Dantur irregularia a prima ^
vi\veto ^ huo & iuu^re , qncxmpr^etcriti.. funtanomala. Dantur irregularia
d ter tia , V c gattdeo gaudere , qu« in pncceritis non fcr- uant'normam
tertix- Etaqiiartavt vii,&9/A!r>qua: in prasteiitisdc
infiniti$ exerrant. Eta quinta vt eo^isjre : quxin tuturis
extra vagantQV) " vtii^fjU compofita
yufsnJc^^Ndijo^fcri^^iiLc.AQertio dt tm^n&itsverhMm, Art.
V. PR.oprium efl verborum in temporibus iigni£ca« re»
' )g Crammaticalium QimfaneB^] QVoniam a<flus funt
extenrionesfacultatum ,necfi- mul eflfe toti pofTnnr ^necefTc eft
tempuseifdemin efle quod efl fucccfTio rcrum , cx ente & noQ ente part&-
cipancium > vc m Mecaphy Ldocuimus.
Detemforisdifferentiis^ TR.es funt temporum diflFerentix,
videlicetpracfens,. prxteritunV, & fututum. Etenim aut res eft
nunc tn a^flu, & facit prscfensjaut fuitin adu ,& fic
pra:tcri- tum^uc eric & ilc eilfucura. TKiplextamen
pra:teritum «aliud imperfe£lum , vt ^nutSdm^^ivLd per&dum,' vtdmam ,
aiiud pl u fq uam perfediini,ve MyrifiM^resenimaatedin ccanfictt
,[attr nan(iui^.aix nMiIto ante tianfiuit. NOn potefl: reperiri
verbum , quod non habeat prac- fens & pr.Trerirum & futurum»
diftinda fecun- dum rem,]icet fecundiMn vocem qusedam
(intdcfe<ftiuai rtmemJni, odi^inquam , 6c cxtera , ex vfu fic
pronunciaia apud LacinosnonaMCeminahisoacionum linguis.
^etmfortm v^athne exfacuUatHHsl ET qnoniam omni^ a&ns aot
ind i ca tur per cognofci* thmm^auc tmperatur per
poteflatxoom^aiitoptft- ' tur per Yolitioam : propterea tempora
verboromad tres facoltates reducontor.f. ad|indicatio am imperatioam,
pc optatioafi^ PRacterea quoniamactus fubiungieiiradiui,vcl
deterniinatcveljndcierminatc, propterea addmnur tem- porum dtt^ ^lia:
radones .f. fubiun6ltaa & infinitiua, qux rcgantur ab aliis verbi
nononibtts. Est quidem practcritum, pr«rens,dcfuti!rum
tenipus, triplex,atquevt pars, autvtdifferentia fucceflionis rernm,
&quidcm contingit cxprimi secundum tres primilitates Metaphysicas, pcrimpeniriuum
,indicatiuum, 6cappetitiauni 5 qui vocaniurmodi fecundumGramma-
ticos, (ed nirois comraunrter : modus enim eft cuiufque rciqualitas
propterea nos rcduximus cosad primalita- tes. Sed
fubiunAiuum.&infinitiuam^qaoiiiam ad conipofitionem potius modorum fpcaant
dctcrminati vel indercrminatc fecandumpcrfoBas&flheperfonis, oro-pterea
hofce modostanquai hap^ndiccsvcrbisa ddcnh. dos putauimus: 6c non ficut
principalcs, queiI MUlinodum Grammaticis vfurpatur. temforum nwnero i» vnaquaque rafiine. DE INDICATIVO. Indicativa
ratio habet omnia tcmpora vz. praesens, ut ^atf)prqteritura,vt4m4 «r,futurumvt^w^^o:&itcrum
Criplez practeritum vz. imperfedum, perfeaum, 6c plulquam perfeAttm. Indicare.n.
eftadus cognofcit miprin. cipij. Cognioiaauteinrcfci: turadoxn|ija tcmpora.
Imperativum vero non haber nisi praesens nec futuruiTi, caretque preterito,
quoniam non poteft: imperariqiiotl tranfiuic, neque Deus pocefl; fa^ere
vr non fu^rnt , qtiia fl. bi contradicerec Itnperai^nus id [olum quod
nuAc-,auc poftea exir in a<f^um. Caretetiamlmpcrariuum
perfonis primis in fingul.ivi numcro ; quoniamfibiipfinemoimperare
potefl:,fedai- ten,nifi feipfum vtalcerumaccipiac,& tunc erit
quali fecunda perfona qui e(l prlma:(ic Peerus aic« quid agis
Pecre>& /'<frr^« Noncaretinplurali ,quoniammu)n imperio
rautuoafliciuntur. DE OPTATIVO. 0?c.uiuum habet prxfcns,prxtertum ,
& futurum : Jefidcrium .n- ad omnia fertur tcmpora ; dprainus
cccnim aliquidfaifTe, 6c elE%&: fore, habccque notas IIjo^ Subiunctivum
habet fimiliteromnia tempora, quoniiC poced/ ubtungiadquodcunquc verbuin
aliornm mo- d.orum,vt/?r ames^vel ver9mi/i^qu6 d amanerim^ itcm
eim' 4irHdremfufpifabMm .bccumamauero (ufpira Notandum quod SubiunAiuu
habcc pro noraly cnm- qu^orationem fufpendicdonecaliud verbum fibi
adiun- garpoftfe^velabfque ly nMirubittdgicuralceri Terbo»yt
%mwmefvtfatias^^ ti^\i<\vi^mnoX^xsk dor^m ia Logica. Lihcrpmmis.
6i Deinjimuuo Iniinidi sumeidamcria cem|idrahabec,
fed^ineperfb- nis, ciepcndent enim fcmpcrexfioico vcrbo : quod po^
teft multiplex efle & ad omnia teaipora r&Ferri', & quo Qiain
bxcrelacioeftindecerminatarum pcrronarumjOm- nibus enim peifonis
copulacur, propcerea infinidainio* di carenc diftindione perfooarum
:-di|riti)us enim tui^ te gtmofi \n$sama»ifit*ic iommmamttfifum ejjcibc
quxli- betpeifoDa cuiliberaddi poceft ,veiAu%mulaniia
f^mperiniiniciaaniexporcunc poftfe^vtftiom (oco pacebic. De
Gernndiis , parfia^iis, ^ fupims. GErundia,participia & rupina
non funt verborum modij/ed nominuin [imul vcrborum 'participa-
riones propcerea decis alia pars orationiseft coniicien- da ^ necvexbis
addcnda^ vcfececepriores- r »
PRa:cerirapracfeAa,imperfe<fla,& plofqnam perf^^a' nonfuntin
6peracims«f(ed'idem dmtria temporare-
prxfcntac, quoniam fubratione voliti nbn inul tiplicacur
prxtericioviicutfub toionie in(ttpat4« V .Subiundiuum
veir^^fatbetomnki pra^ilta; quoniam cuhi cfmni verbo alrerius
modrftibiundiondm^c&re po- teft. .
V Grftfttmatici4)on tntellbfiere
quodde/iderariuo,porius autem fubiun<Jliuodeeftpars pracfenris
cemporis, dici-' musenim vulgo/o amadiat aynaretfctucaminafii^ \ovcr^
r^i r^fo: quxnon re(flcconfundunrur apud Latinos, Sc vulgares etiam
peccant quoniam ly <i/w;rf^/ , nonad defi, deratiuum,1fed ad
fubiuncl:iuum verc fpedar^on enim^ pronunciatur,abfqucfubiun(n:oantc vrl
poft:,(]qiiisergo> iceromgrammacicarecur iioccoaiideraredeberec. H iij. QVa:rituf aucem , cur pr^teritum
multiplicatur, & non Fucuram &pra:rens ? refponcieo , quia
practc- ricum poreft non totaliterprartenfTe , & icerum
tot.ili- tcr6: tandemmultoante,potefl:diuidi Sed prxlcns ell nunc
indiuifibiIe, quapropter non potefi: diuuii. Sed quod imperte^fVinn cH:
prxfens pertinec ad ancecedens, veladfubfequenstempusugiturvnius tft
tempons.Sed de futuro non fic : aliud cnim eftmoxfttCuroni,aliud
poft, aliud longeporc.-SedGramadcinon acceperunc hanc^t- (tindionem
: qoooiam vfas loquendi apud vetereseioC- modiexpreifioncsnon habuir,
(icocde prxtericis^verun^ camenfociirum fubiundiui videcorefTe de fecuro
praec^ titorficgfo enim idem eftlaciniqob^vulgariter hav^ fatH^
ApudHaebreostemporai^ cmag LSCQQfafa» ; Jiii^ifif^irjforum ex
ordine. Erborum aliud primiciuum , vcDo:aliud deriua^
tiuum^vcdono. D M Iftin^io a]b ordiiie. eft fimilisei »
qose licnomi. num. DeriHatiuorum mulfiplidtas verhrum ex
verbis. Apud latinos verboru deriuatiuoru aliudeft inchoa-
tiuum,vticaleofitr-<if/S:tf jquafiincipio calefcere. Aiiud
medicacHium^vc acoei^o tmamU aenu^cur^qttai* (I
meditorcoenare. Aliud£reqoen€aci Qom)'VtalegoJi0i/^,ideft6eqttencec
lcgo :1 rogo rogito. . 6% paukrim diminutifcribo&c.
Deeft Launisinigiii. ficatitium^ dicimas enim vuigo da beuo
ibeoacciliare: da fiiro ftiraccfalare ftancbeggiare* Dermafia
njerborumtxnommbus. D£riuatio verborum ex nominibus iterimi
mulri- piexjalia a fimilitudine: vt a patre oritur/5*^r/y/i fiuc/^iimXtfj^^liaabadurei
fiueexiftenris^fiue mutacionc fubeuntis.vca (londcftcndfftff > a lapide
iapiderG<>, a calorecakfco^ QVoniam verbum fignifrcat
a^um : coiarcumqae autem rei eA adus : igicur a quocamque nomine semiignificanrepoce/lderiuariverbum.
HMc regttla valet apud Grxcos et italos QlgareSj fedLatininon
vfqueadeoipravfirunc. Lulliusta- meneUciceamexquocumque nomine
:namqueaitJio- mo, homificare homificc^tio^ homificahiie. Sed hdc ex
com- pofitione fit non ex deriuationc pertinct ad aclum agendj. Sed
detioatiopura e^ft ex formnli, vt lapiJef^
COy?fjetalIcficJiq^nefco/enefc» ^ifr'tre/(Oyfioreo^t< f!ofefro a flo.
re..Sedabhominenon dicitur^iwfo.ncca lupo lupefco,. 6<:tamenrecundum
naturam fieri dcbet:vnde vul^niiter a campo dicicur compeci^ijre^ a fen
^O^rz.fefje^r^f^Jarjr-Jei- ladonnain donnar/i ^Cicut L^tin t diciCOx
mafiMlifie/e ir^irf»m<f ri,4 mafcuio, & £emena. Qi^
autem nooas.artes^cudir, ppt^faceredj^riaario«> nes verbales ex
quocumque nomipe, ejr oiTini enim re . «l^reditur a^us exiftendi ,
veloperandi, vel imi^di Accu. Quid juid Grammaticiio boc
minusiapiant; DsdcrmatlQnc tanpomm extempoabus erhorum
Derivanturetiam cempora verborum fuc^edentia ex pra: cedentibuseiu(dem
fpecif i, vt omria praeterita ex primo practetito profcftp » ex amaui
enim cafcitur VF.rc dcriuanrur ex prseterita ex pnrteriro
pcrfc- non auceni cx imperfedo , quoj ennn iiiiper- fecluni cll ,
gencraie non porefl: fibi fmiile , irem fucuruni luhmnctiui deriuaturex
prxtcrico , quoniani dicit futuru.n fub rarione prxteriti , idem enim
iti^a%er§ DermanoexfraJenU: DEriuanturomnia ptacftntia
tcmpora exprjerenrifn. dicaciuo^vcab amp ,
amaiamare^tf.amem^UamarfJSc -ab amot^amareiOmafirf^ffiir^amarijVtilego,
''%^J<fg^ rem^ Derluatioex futuro. , EX fiituro
auccm invlicatiui . non videnturoriri alia fucura. Non enim ex amabo
dcnuatur amato, &c amem, 6camauero , &:. amacurum elTe, fecundum
voccm licccderiuantur fecundum rem ,quapropter in Iiiscon- fulendus
eft; vfus: ac forfan 6c quancicas /^llabarum primjirum.
Va formsttone verhriim\ VErboruni aliudfimplex vt Ugo: aiiud
compoficiiinV vc iramtego : aUud decompofinim > yt
nmtth" EAderarationedec Iaraturcompofitiorimphcitafqae verb Grumacnominum.
Decompofitumautem non ex compofitis, fed cx «ompofito & dcriuatiuo ,
^Utanfr «ri^i/i^ ex trans & fchbo : ex quo erat (chbiUo.
, COmpoficio verborum aliacft exduobusfeuplaribus verbis vtaii^tf^#»ex
caleo & facio ,alia eft ex verbo & aduerbio vtmabfMio
,fatisfati9^ alia ex yerbo U prarpofiwoiie^vt f/j^r/^ f*«jfiRf^,qua6extta
iacio^vtcum alio facio: alia ex verbo &
mminefrtfmSififo^maffttfgf, idejifaaofru^umt&f^idomagna.
OMniscompofitio ex nominc&: verbofignificat a- dionem
alicuius rci , vcl padionem , vt fractifico& confru^cor^arefaciOy^careno^Sclxcifico. Omnis
composition ex verbo & aduerbio fignificac qualtficacione m
aaioDis,reuaduS|fiUe aftiai|fiac ^ fti^mtVtfatiifdd Ot^Jdiu^^Omms
compofieio et verbo 6r verbo fignificit
adiis; edmonem,vt/r/^<f/r<7,(^uomam&adl;tts frigQris,fita*.
i mefldacah F ADditam^ftinhacregalaj?/^^ datur ^ quoniam non
videcur ex duobus vcrbis fieri compofirio^ quoniam duo adus coirenon
poflunt,fedfialcerabaU terofir,habebirurvnus vteflTentiaai^us,
alcervcailujfcu. ackio ficpaHjo eius Jicucpatec mftiic^fi ^ cd^P.^
Omniic ompofitio ex verbo &pr^pofirione,lfgoifrcat adum
cum relaciooe & refpe^ ad aliquaro efien- tiam,adi}uam,veldeqna, vel
cum qua » velinqua» vel' proptet quanr ,j vel per.aoam., vcl fuper qoam ,
vdi &bqj;ii^3ieleirca<|ittm,m eiuQs giatia»)edittir|!^An9W
QuorfiintpracpoYiriones rocrunt verbonim expraii- pofitionibus
conipofiriones fecundum naturani,. 'Scd (ocundum vocemadcertastantum
reftfinguntur. £xemplade verbifubftantiuicompofitjonibu$'. Verbum
fubftantiuum babet compofiriones odo;^. Diciturenim dyifw,adfum^ ideftad
aliud fum^quafi prac- fens. Et;^^/iw»ideftabaiioiom, quafidiftanSs&dirgi^
ibs abeo..Ixmdefum quafideorrom&m^&reparatum; Infum, Quafi in
alip fumi ve) jficas fum ^pricpofifiaeiiifni fep^umynria jfine qoando
yenit in co mirrjftHirquali incra aliquod iutn , vt procfeDs, vel
can* «qttamtuuans aifcnecefnirium. lcem 9ifim^ quafi ob aliud
rum,6caduerrumJScconixai fignificac euim ly eh oppofitionem quamcShque,
& qoamuis ngnificec cflecaufalc finaleincerdum,tamenia
compofictoneponitur vc cau&opponicar effeAui falcem relanui.
Pr^fam, quafi pro alio fum, vel pf opceraliudjidcft illud
iuvan£:/>f4r/»/»,ideft fuprafum jvnde prseefledicicur ,qui
imperac, 8cqui anteic. Suhfuyn qiiafi lub alio fum. Poffum quafi
poHieirc fum. Qujenim poteft, poft eft, potcntia .n. ex cilentia
manac, vcdeclaratum efl: in Metaphyf. Sclioc dico exvicompo-
fitionis.Datur &y»;'^r/«iii. comjfofimnihus verborum non
/ubflanr tialmmcumfrdpoftiombus. In verbisaliislongeplures
funcconipontioneszdicimus enime^eje^r/ff, abticio,& adiiciosqubnim
piimum Heni^ iScac f^aracionem per iadUm , lecundiim ver6 addi
tipnem Sicex ml/i«amicco,£cadmitco, quamuis^i/in ad- .4!^cco referacur ad
perfonam miccencem : in adiiclo v|r&
fti^eamyadquamficia^us^ficuc&appono. . Coniicio Sceoinniicco : Hmul
iacio.& firaul mi tco. Sed perdifcurfionemly coniicioctiam idem eft
atque con- lidero jquia qui multa fimul iacit intelledu,
fyllogizac: & committo quafi aken crado , quo cum mitto quid
faciendum,& fimilitercommicco fignificatfaciojfimulcum,
inftrumentisvel aliisrebusaliquid. Dacureciam circum- iicio,&
circumpono, qu^i^do (^rcjat^mljij^uiii xei quid ponimus,veI operamur,
Demitco&c dmiirfo,deiicio»& dffiiciohabcmus^ demiccereepim est quafi
deorfum miccefevVeLdealiomic- *cerc,fimiliter& deiicere&deponere.
Dimitccrcveroeft quafidiuifim miccerej & pocios ad ^verbalem facic
cdpo^ poIitionem,vnde dicimu? dimitcere quafi libcrare &:
par- cere,quoniam a vinculo &:obli2;a;ione dillbciamus miccendo. Dicmiusdifponere
quafidiuifimponere, sed cuni ordine, difiicere quafi diuilim iadare,
& fincordine j6c . hoceftdeftruerejquafi
deflruclurafeparare. Emicto, eiicio,expono,CAiello, dicuntur quafi
extra. micto, extra iacio , 6cexcra pono. Vn Je diciniusexponc- re &quafideclarare
quid cxcrarci niiplicatiooem &contexcaai, vbi res eft confuHLf poaimus eius
renrum. Prtereainiici Oyiminicto, impono; dicimusqaafiintus iacio,
intromitto , incus pono velinponitur qunfi Contraimmicco
Xinaliummicco^iniicio in aliud iacio. Dicimusetiamintermicco, incerponO)
incerficio» incerii. cio$quoniam incra aliquid miccimil$ aliquid,, quodfiil'
Ittd aliquideftcempus vel adio, cunc incermicco, eft
paufo»fimilicerincerpono, quafinitranegocium pono diT' feparans
iHttd.Sediat £rfin'n rft i nmpumre i Hiquod in ter aliad;vnde 'qiian3o
eft homo vel anjmal fignificat id» quod occido&macto , quienim ponic
ferrium aut nlmd diuidens,intraanimal ,reparat ipfumac
proindeoccidic dicimusetiam intcrmitto &: mtrofpicio, quando non
vi- dentur quippiam incroducimus ; nuc faltem intclleclun^^
licdidum,qaiaintus legic, incrofpicit. Diciturimpofens quafi valde potens
quoniam impccuofe potefb , dicitur iillicgatiui,,qnoniam ly tion fiKflum
eft o;7 , tSc de inde in ficut oUi tranfi in ////. Sedraro aut nunqunm
fiicit cum verboficcompofitionem, fed cum participio verbi,dicitttreniminnocensid
cftnonnocens. non tamcninnoceo: iuauditus, 8c cranficaCttSynon tamenin
audio necinucoc: infedus/ed non inficio,nifi fubalcero fignificacu.
Icem didmns obiicio,oppoao,ofFero : quafi^concra ia^ cio,
concrapobo,coocrafero » ecenim ly conna dicic op- poficionem contrariam;
&: dioeriam & priuaciuam) & To^. calem , ^ed oim dicimas
Qmitto , idem eft qua£re* linquo^quoniani^qttt concra nii dionem eft non
mttcic,fed definit mitteife : ^'dqai coiitiiiji |)6mcaliqa&l
&ciCCOD»^ trsmcflf dnmp riaatia)&. Trem proiicio procul
iacio (ignificar. SeJ propono pro aIiopono:5c non procul dicinnis
fccundum vfum.Pro- micco autc dicitur quafi pro alio mitco,»S: pro re
facienda mitco vcrbum pollicitans ,vel procul mitto, vndedicimus
promifTam barbam ideft prolixam, dicitur etiam permitcoideftperaliudmitto
vt fiarjyenim pcr caula- licatemdenunciar, percipioperaliudcapio, vcl
valdc ca- pio,quoniam caufalitasnotitiam inluflrat.Dicimus pra:-
micco ,ideft ance mitto , 6c pr^pono ideftantepono pofl:pono,8c
poftlial^oinon tamcn poftmitco^quoniam non eft iii.vlu,& non quia non
poceft fieri fecundunx nacuram. Icemreiicio,repono remitto jquafi
iacio,rctropono ideftpoft pnmam vicem , & rcmitto , 6c refcnbo, &
hoc verum , quandoly ,re, breuis efl: fyllaba ^fed quando eft longa
,dicitur,arcs, vc referc, ideft res fert : &: vtilitAs
fert. Amplius dicimu.s fnbiicio ^fubmitto j quafi fubjacio, pono
rub,mitto fub. B. enim fit.p.ecf, exfono (equen- tiSjVCfuppono ,&
fufFero. 5"ed bonus Grammaricuso-J riginem retmebir. 1 icimus etiam
fepono, femoueoj' quafifeorfumpono,8cfcorfum moueo,fimiliccr
feparo,. jk. fegrego , feorfum paro & feo-^um a grege. Itcm
fuf-- vpicio, q ua fi fuffum afpicio. Jcem fuperpono ,& fuper-^
>Jedeo, 5c fupcr, quorum erhymologiapatct. «Amplius traduco,traiicio,tranrpono,tranfmitto,tranC' lego,
cxtrans &:ducoi& iacio&c.H^catculimusexempla,vcinaliisidem ^cx:^^
fncere" & dtclamare, dicimusenim exdo das, abdo, addo,, condo,
dedo,edo, indo, obdo, prodo,fubdo, reddo , tra.do. Similiterexeo,is,habes
,adeo, comeo ,ineo, obea, pro eo,prareo, tranfeo. Quprum fii^nificata
ccfiabori- pnaliclongcncur, camenalToriginalihabent VIM SIGNIFICATIVAM ftrto
cnim fignificacperaIiudeo, ficucfumus5 Imperativum vero non habet nin
praessens & futdriim, caretque pr^tcriio,quoninm non poteft imperari
qiiod tran(M]it, Deqae Deuspoteft fa^ere vt non Fucrit, quia fi- bi
contradiceret Imperafnus id folum quod nuhc^auc ' poftei exitinadum;
Caretetiaralmperatiuum perfonis primis in fingutari numero ;quoniam fibi
ipfi nemo imperare poteft, fed al- teri,nifi ieipfiim vtalterumaccipiat, &
tuiic erit quafi fectinda perfonaqui eft prima?fic Petrus air , quKl
agi^ Petre>& fjc Peire, Non caretin plarali , quoniam muici
imperio mutuoaiiiciuntur.. m Optativum h.abet prxfcns^prxrer
tcm , .S: furiiruni : Jefi Jerium .n-ad omnia fcrtur rcmjiora i
npt.Tinus ecenim ali quidfuiire, 6c eir.', 6c fore, habctque nocas
fua^ Subiunctivum liabct fimiiiteromnia tempora^qaoniiC' poceft
fubiungi ad quodcunqae verbum alibram moi- d|or um, V t// c ames^vil
xffnm #if ,qu6d amatferim, i tem nini'4imaremfit?piraidm^tCei^ mamdU€ro
fuffirah* NotandumquodS^ubiani^niu habetpro noraly e&m^
qu^orationem farpcndicdonecairud veiTDum fibi adian« gacpoftfe,vei^fque
ly «Mfiibiudgituralteri verbo^vt iMtmefivtfaeias^ petaliqoam notam
co£ujatioonim di^ ^r^m taliogicai.
Liherpri/fUis. 6i Dcinjkmtiuo*
INiinitiQum etiiani tria tempdra habec , fed fine perfo-
nis, dependentenim fcmpcrexfinito verbo: quod poced mulciplex efTe & ad
omnia tempor;! r&Ferri , quo» piam bxcrclatioeftindeterminararum
pcrfonarumjom- nibus enim pedbnis copulatur , progcsrea infinitiui modi
Garent diuindione perfonarum rHijc^us enim tred^ te Mmdtt iwsamatiiJU •
& h^nnmaii^Mum^ effcibL quxli- betperfbna cuilibetaddt
pote(t,veff«fFamulantia fem' pcrinfioiciuum expofcunc poftfe^tiuiftn
locopatebit. t)e Cermdiis, parna^iis, ^fupims. Gerundia, participia
et supina non sunt verborum modij sed nominuin simul 5c verborum 'participa-
tiones ^ proprerea de cis alia nars oracionis eft conlicien- da ; nec
verbi$ addcnda, vc tecece priore^.
PIlxccritaprsefie£b,imperfe<f):a,& pluTqpam perf^Aa' non
funtin dperatittis^ fed idem omtfifl tempora re« praeientac quoniam fubxatione V6]iti
nonmultiplicacur' prxteritio; ucut fub Aftibiv
indicati, Subiuni^iuuni veirdhftbetpmnia pr^i^td^^ qubniimi cuhi
dmtii verboalceriusmodifiibittndioh^ fikcere po- Granmiacicioon
inteltexei!^ qiioddeftderattuo^potius «utetn (ubiuo^liuodeeftpars prsefentis
rempori, did mus enim vulgo/o amafli .h amaret fftti caminafii ,
iovcr^ r^ir^fo : quxnon re^lecuiUundunnir apud latinos et vulgares etiam
peccant quoniam \) amafei non ad uc<u deraciuum,fred ad (ubiundiuum
verc /pedar.non enim pronunciatur, abrqaerubiun<5toanre vel
pofl^nquiscrgO' iterumgramn^acicare^ur boc coQilderare
debere{:. QVxrituf autem, cur pweritum multiplicamr, & non
fucurum 5cprrerens ? refpondeo , quia praccc- ricum porefb non
cotalicerprxteriflre , & iterum totaliter et tandem mulcoance
,poteftcliuidi Sed prarfens ell nunc indiuifibiIe,quapropter non potefl
diuidi. Sed quod imperfedum eft prxfens pertinet ad antecedens, vel
ad fubfequens tempusi igitur vnius tft temporis . Sed de futuro non ficraliud
enim eflmoxfuturum,aliud poft, aliud longc poft SedGramaticinon
acceperunt hanc di- ftinclionem : quoniam vfus loquendi apud vetereseiuf^
modi expreffioncs non habuit, ficut de prxteritis,verun-
tamenfuturumfubiundiui videturefTe defuturo prxte- Tito-fecero enim idcm
eftlatincquod vulgariter haver\ fatt9. Apud Hxbreos tempora ficut magis confufa
l^ikttfiovefborum ex ordine. Efborum aliud primitiuum , vtDo.
-aliud deriua- tiuum, vcdono. Dlftinclio ab ordine eft fimilisci,
qujc fit nominum. Deri Hamorum muUipUcitas verborum ex
verbis. APUD LATINOS verboru deriuatiuoru aliud est inchoativum ,
vt a caleo ^xtcalefco, quafi inci ijio calefcere. Aliud meditatiuum,vt
acocno canaturio dcriuatur, qua- fimeditorcocnare. Aliud
£requentatiuum, vt alego lemp, ideft frequenter lcgo :i rogo
rogito. AUuddiminutiuum^Yt ajiri/^,/tfrW/*,a fcriip/criiilU 6$
pauktim , &diminutcfcribo&:c. Deefl: Latinis ma?!;ni.
ficatiuujn,dicimusenim vulgoda beuofbeuacciiiare: da Aico (bracchiare
francheggiare. . Deriu^ia wrborum^x nominibus.
DEriuatio verborum ex nomiaibus irerum mulci- plex jalia a similitudine:
vc i pacre onwpmiftff^ fiue pMtfix^YMizkhtjQi^ rei fioe exi(lenns,fiue
mui^cioD^ fubeopcis » vt ifronde fhnltfco ,a lapide lapidefco, i
ca^ lonecalefco.. regvlA. QVoniam'verbum
fignificat a<?lum ; cuiufcumque autem rei efl adus : igitur a
quocumque nominc rem iignifican tepocejd dcnuari rerb um.
HJ£c rcgula valecapiid Grxcos , & Italos vuIgaTCSi TedLaiininon
vf^oeadebipraviirunc. Lulliusta men eliciceam exquocumque nomine :
namqueaic,ho- TCio ^hQmificauhdmlficaHo^homificabile. Sedlidcex compositione
fir non ex deriuatione ,di: pertinetad adum agendj. Sed detioatioptoi
^flr ex.forman, stUpUef: t^^metallefio^U^nefco^fenefco^pt.
treJc4tj^W9jbcfloreUo a flo. re.f Sed ab homine non dicicur hoimeo^ntc d
I-upo lupefco,. & caroen ft cundum nacnf ficri deBcc : vnde vu I
gaiiter \ icampo ^^Cit^t9mpe(i<jiare^'2ihvit^xi^f U dmnaii^
lioiuutff ^ ficoc Latini dicitur mafculeftire &: «jlf^WfMri. dfnafculo,
&: fa;mena. Qoiatitem nouasartescudir potcftf.iccre
deriuatio- Hes verbales ex quocumquc nomine, ex omni enimre
egreditur aclus exiftendi , vcl operandi, vel imicandi Ucu. X^uid^uid Ciraminaciciinhoc
minusfapianc. T)i dcritiatione temporum ex temporibus
^erharum, DEriuanturetiam temparaverborum fucceclentia
ex prxcedentibuseiufdcm fpcciei^vt omniapfscterita ex primo
prxtetito profeAo, ex amaui enim oafcitur affMuc/jw^ amauiJ^e^i^mduerim^'^
Mmatierc^ amautje': VErc dcriuanrur ex prxtcrita cx prxtcrito perfc-
non autem cx imperf-edo, quod enim iniper- feLlium eil , gencrarc non
potcll: fibi fimile , irem fufurum lubiundiui deriuaturcx prxtc.rKo, quoniam
Micit futurum fub r.uione pr.vrerici , idem emm^^,/*^/* dc iii m ^
m m h a h x^^' DerMatio ex pujintii DEriuantaromnia ptasfentia
tempora exprxfenti Iti. dicaciuo,vt ab amo ^amaytmanm^mim^hLamaniSc
ab amoryamare^ amafeffiimeriamarifVt Silc^o, Deriuatioexfuturo. Ex futuro
aurem indicatiui , non videnturoriri alia futura. Non enim ex amabo
deriuatur amato,6C amem,&amauero ,& amaturum cfTe, fecundum
vocem licetderiuantur fecundum rem ,quaproprer in Iiiscon- fulendus
efl: vfus • ac for(an & quanpus iyllabaibm primjarum. ! formatione
virloriym$ Arc VU. . V Verboruinaliudfiniplex YcAs#:aiittd
compofiniinV t iramligf : ^nd decompofitimi > yc ttmttU^
'EAdem ratione dcclaratur compoficio simplicitasque verborum ac nominum.
Decompofitumautem non ex comporitisjed cxcompofitoacdcnuatiuo,
vClfrfK/- erMU ex crans & rcribo : ex quo erac fcribilio.
Compositio vcrborum alia est ex duobusfeuplun- bos erbxs vtmUfaw^cx
caleo acfaciQ,alia eftez verbo & aduerbio vtmakfatth/aOsfiiekj alia
ex verbo U prxpofitione, vt</^i^^ «»jB<^,qi> afiexira fado
»ncum alio facio : alia ex wbo & nomine, iftfa»iitj!(o^magnif €0,
OMniscompofitio ex nominee & verbofignificat a- (^ionem
alicuius rei , vel paflionem ,vt fruajiico &- con^dificor >
arefacio^Sc areno, £c Ixcifico. Omnis compoficio ex verbo & aduerbio
fignificat qualificationem adioni$,reuadus»fiUe
aditti|fiue "fzS baxiftfaiiifst UjtcJail^p fiLWk Afi^.
OMoMCompoficio eif yerbo 6t verbo figotficdtft Afi» editionem, vt/r/^<f><7,(juoniam
ficadus fhgoriSift ta^ menda tHh ADditum-edin hac reg^ala f tamen
datuf j quonianv non videtur e"x duobus verbis fiefi
compoficio^ quoniam duo adus coirenon poflunt, fed, fi alcer ab al-
tero fitjiabebitur vnus vteficntiaaiaus, alcer vcadujfeu- ftibo& paffio
eiusjicutpatec mfiigefipt^ntltfit.^ Omnis compofitio ex verbo
&pr^poficionc;( fgDifrcatradum cam relatione & refpeduad
aliquamefieo^ tiam,^qiiaib, vel deqna, vel cnm qua , velin qna, ver
Sptft qnamr.,j'vel per.qttam, vel fpper quam ^^veU
q)!lt>meircaqi]am» v«l enins gcatui^ jeditiirs^&it^^
QVotruntprxpoilnone.srotrunt vcrbornm exprjc;- pofitionibiis
conipofitiones fecundnm naturam.. Sed focundum vocemad
cern^jjipi^iiR-reftringun^ur.''': Exemplade verbirubftannur compofitionibusi Verbum rubftanriuum babet compoCriones
o£tb^ Dicitnr enim i/«w,adrum, id^^daliud fum^quafi prx- fens.
£r^4/to,ideflabaii^^.quafidi fiis abicHH^ v;,^,. ^i^-',r:v:
ixcmdtfim , quafideorfiim fum- & feparatntiH^ ; Infim^ qttafiitt altp
fum; Wl incns fttni .pcazpQfittaefiltfii. %|4|^u§u^^ quaodo venit in
com£ofitionf m« iinir/im
> quafi intra aliquod fum , vt praefens j vtl tan . tjuamiuu.ins
.nirnccefrnrium. Item oSfim^ quafi ob aliud
rum,&ftdtterruo).8cconcm iignificac enim ly eh oppofitionem
quamictfnque, Sc qaamuis ngnificec eflc caufale finaleinccrdum^ tamenia
compoficioneponitur vccaufaopponitureffeftai iaitem relatiue.
/^r^?/»»!, quafi pro alio fum, vel propteraKudjideft illud
iuvans:/?r^/«^,!defl: fuprafum jvnde praeefledicicur ,qui imperat,
&qui aLiceic. Sul^frvn ciuSiCifwb a\\o Cmvi. /'f^wz quafi
pofteflefum. Qaj enim poteft , port: cft, potentia .n. exeflencia
manat, vt declaratum efl in Metaphyf. ^hocdico ex vicpmpo-
iitionis. Datur Sc/^/^^r/ni». De compofinontln^s verborum non
jubSlofh ttaliHmcHm^rdfofitiomhm. IN verbisaliis longe
pluresfunc compofitiones:dicimas enimexjr^«:i0,
abucioy&adiicio^quorum primum fignir ficac feparationem
peria^um,-fecundam ver6 addi* tionem Sic ex ffiil#/^amitto,6c admiccp,
quamuis ^dva ad- miccoreferacur ad peribnam miccencem ; in adiido
v^& ftd ean^/^JmiamfiK iaftus ^ ficut 8c appono.
ConitoolwefKKiM^^ iacio,& fiiu perdifcurfionemly
c^mcioetiam idem est arque con- fidero ;quia quimulta /imui lacic
intelledu, ryliogizat: ^ commicto quafi alteri trado , quo cum mitco quid
fa- ciendum,6c fimiliter committo fignificatfa/ ciojfimulcum.
inftrumentisvelaliisrebusaiiquid. Daturcciam circqnv iicio , &
circumpono , quando <j4rca;amljii|um rd qqid poiiimusyvcloperamur, '
Vf,. Demicco6c dimitto,deiicio,& df6jdQhaBcm.us*,<ie-
mictereepifn qft quafi deorfum micce^revVeLdealiomit- *cere,fimilitcr6c
deiicere & deponere.Dimitterevero eft quafidiuifiin mittere. &
potins ad .Terbalein.fikcit c6po. Ttemproiicio prociiliacio {igniticir.
^cJ proponopio aIiopono:5c non proculdicinnis rccuiuiuin vruni.Pro-
mitcoauccdicirurquafiproalio mitco,iS: pro re facicnd.i mitto verbuai
pollicitans.vel procul mitco ,vndedici- mas prpmiflam barham id^ prohxam
, dicitur etiam jpermitt6ideftperaiiudmiitb'^Vc fiat,lyenrmf pcr
caufa- fitatemdenunciatjpercipioperaliuclcapio, vclvaldc ca^
piOyquoniam cauraiicasnociciaminludrat.Dicipnis prx* mitto ,ideft ante
micco pr^pdno ideftantepono poftpono,6c Doft lial^oinon tamcn
poftmitto^cjuoniam non eft in.viu,^ npn quia non potcft^eii
fecundan^ naturam. Icemreiicio,repono remitto ^quaff
latio.rctropono ideftpoft primam vicem , 5c remicto , 6c refcnbo,
iScboc verum , quandoly ,rc, brcuis cfl lyllaba : fcLl quando cd
longa , dicitur,arcs, vc rcferc , ideft res krt v ^ vciiicAs fert.
\ Amplius dicmui5 fubiicio , /ubmirro j quafi fubjacia, pono fub,
mitto fub. B. enim fic.p.etf, exfono fequen- tis,vt fuppono fufFero. ^Vcd
bonus Grammacicus originem recmebic. . r icimus etiam fepono , femoueo^
quari feorfumponb^&reorrum moaeo,fimiiitcr /eparo^ ,4^f«(gfflgo ,
feorrum paro-^ &feo-njm.a grcge. Iiem fiiH picio , q uafi ru#fiEin|
afpicio. Item fu per pono et fuper- iedeo,
rupcr,quorumcthymo!ogiapatet^\>5^^-:^^^^^ lego, ex
traris-I^Bfii^ti&i^^^^ ,5&S^^^ ' H/£cattuIimusexempIa, vtin
aliisidem k\:\s facere- & dtclamare, di c mms en im ex do das , a b d
o , add d,, condo, dedo, f do, indo, obdo, prodo, fubdo, reddo , trado.
Smiditercxeo,i5,liabes ,adeo, comco ,ineo, obeo,, pro eo,prxeo, tranfeo.
Quorum fii^nificata etfiabori- ginaliciongcntur,caiiienaboriginaiihabent
vim figni- ficatiaam ^fn^ Cfutn.fijgpificatpcr aUudeo,(icucfttmu8i
\ ' I «i per adrem', 6c aqua perbinum, compenecrando j
quod nim per ic , didbciatur ab eo , p er quod it , vnde e tiam
cUar incerlre :quomam difToIurio atomarum euncium in .
atiasreSyCompoficamdeftruic. Vnde perire& interireeft •proprium
compoficorum diffipabiiium £c friabilium, sdem concipe deperdo,
8cc, "DeTarMif to. PARTICIPIUM est vocabulum, pars
orationis declinabilisj fignificans effenriam fimul cum fuo adu, veladum cum
eflentia^ cuius eilactus^ D E-Gi-A A T ra IN hac definitidne
ponitur ^fcaMam fdfs oratiotjis detUnaiilis eadccum declaratione, quain
nominis,fic yerbiy&pronominis tradatione vfi fumus. Dicit
urfizni^ fe4m4ffeiu^tmmfi^a9u\ VfdtBmmmeffmiafimuttZd differencia
pro Qominis» qaod perfonam^ non efleiM^m dicict&nominisquod
fignificaceflentiam/en remabr> queadafuo i6cverbi,qaod
fignificata^lum.fednoncam eflentiafen re. Quapropter cum dico
;2df/l:m,figrtifico rem, qux nafcicur,yet aclum nafcendi cum re, aduara
ta- li aclu. Et ideo quot funcaclus,totidem funt participia .f. substantialia,
cxiftenrialia » operatiua, adiua, pafliua, Deutraiu,communia,&:
deponencia. Dlcicuf propcerea oarticipium , qoia capi t parcem fi-
gnificationis verDi, & partemnominis, vel pronominis, id eftadas 6crei.
Vndedicicur eciamnomen verbaie vel verbum nominale propter idem.
JUberfrimitsl 7/ Grammatici dicunt , quia pdriem eapit a
nomine^ p.tr- tremkverbo partem ab vtroque: a nominc .f. genera &;
carus -,averbo tempora&figmficA4ione!i«ab vcro» ^ue namecam £c
figurani- Pere^Mr^iiitelligiint kxnmrfet'ea/um vahecatem^ indidionts
fine. Sed bsecvarietas eriam eflin verbo» fednonitaatqueinnomine.
Ibi enimtTe. scafusfingula- riter funt, in nomine fex & pluralirer
etiam fex , ncc mu- ' tant prefonam ficuc in veroo. Vet tempora
intelligunt pra?fens,prieceritum &futurumjqua: aclumconcernunr. Sed
nomen figmficat tempus , vt ens eft, fcd non cum temporevt verbum, Per
fignififationem incelligic adio* nem vcl pafiionem ,&:inhocfaIIuntur
Grammatici:non enim afoloveibo habet partictpium fignificationem,
alioquin (igniHcaret folummodo adum Sed quia figni« > ficat efientiam
cum adu.nonhenedixerujDr, quod aver* bo (0lohabet6gnificQtionem:tquod
autemaddunt n$>^ .m^rnm ^l%«r4fiil*idefl: formationem fhnplicem
com* poncamab vtroquehabere non mal^ addant. Sed non* efthsBcnarticipkmifn
rario propria^fedinmodo fignifc . candiftbi vtrumque parcicipar, fbrfan
etiam pronomenr ^veirbiiniparricipat, omnisenim eflTentia indota
fuun». didum eft perfbnara,^ adu^ eftperfohahs, proprere^ dicendam
efl^quod pirticipatpronomen &verbam,ver forfan quia nomcn efilnrinm
fignificans habetaclnm ^flrcndifiibflanculiter.poceft concedi quod parrcm
capit a nomine,'cum reueraplusd pronomme capiac-' adu?; e* nim
exiften Ji,agendi,operandi,pr^tiendi fnnr potius per. fonarumqu.im effenuaium,
ijifi, vc pcrfouaurum. Sicdi liocinMetafii,. 72
gratnmaticAltutn CampaaelU, P Articipt» oriuntur ex verbis, 6c
terminantur inmo^ ' mina , vc ^Xitmabmm&tamam , mucata
verbaliin rfii/ noiiunalem. Confimilitcrm vulgari lingua. DeriHaihfarticiftorum.
DEfmuntparticipia in am & ia rus, vc^hians&ama^ curus :
& in tas 5c in ^«/,vt^inatusdc amandus Addemus, in
^i/ii,&iirffi^vtainabiUs & ainatittiiS) Vtt
iat*Ukrovidebimus. Participium ui
a4iii/oiiiuj:u4^aprimaperronapra:ceri ti iiupcrfedi .murata <fwin, v;,
vcamabam, amanb facir, in w, in /1»^ ,formacur a fupino pafliuo.vtamatu
fa- cic amatns, prout addic , r#/, auc in ,formacur a ge- ninuo
parcicipij in am^ mucatO|fi/^a ^/t/yVt amantu facic anundus.
INiingua^atina itarehabentderluationes paucisex^ cepcionibus
additis. Sednon in otniaiidiomatedan-- tur participia nifi vbi breuitas
Srfiicus attcodiior. Poccx tamen noftratesvti
ceperuntjdicuiltlHiim/Siitoi^ faH9, faBihili fucJiaoyfaBufo &
facignd^.quod poftremum cft mumsvfitatum. Atquidcm
deriuationesomnespoC funrfiericx imperatiuo per adiedionem ,& ex
fecunda perfonaindicatiui, fi enim<*«i^,accipiat,»j facitamans,
f\ tus^ amacus , fi, ndas araandus , fi tums , amaturus. Tut vertitur
intns eftin xa/,vcvifus amplexus , proutfupin^i jEjjrunr. Etideo redc
(^ranuuirici funina refpuunc. <'Duo func parcicipuex parce
edcntisai^umkhabentia» .Camaoa Ly Gc
Ltberfrimtis, 7i amans&amaturus,alterum prxrentis,alcerum
fucuri temporis.' Duo funcerinmex pj:rterecipientis aclum .f.
amatus & amandu5,pertincntiaad prxtentum 6c fucurum. .
Duofuncex partepocenria:,vt amatinns <5c amabite, cfpa^poiruiH:
muLtiplicari adkiue 5^pa(riuc per omnia cem. pbra , vc dixitnufi de
oomine loquences. Tfofofihodetemfortyus^ TRia enind
runttemporaparcicipiorum, pricfens,pr3p- tencum &futurum, quar
multiplicancurinadliua^ pafliua .f faciencia & recipicntia: excepto
prxterito» quod non poteft elTe adiuum.nifiin verbis communibus, ic
deponcntibus , vt (equens /equutus , fecuturus, lar- giens,Iarc;itus,5c
largicurus ,atque infuper quibufdam vocariN neutns paHlnis, vc gaudens,
gauifu.s, & gauifurus, tido ctiam , ca:no,prandco, iuro,placeo,
foleo, audeo* af- 'fuefGO, quieko,titubo,lnuboi fierienim pa/fiua
triplicf- teifdeberencyciiens fadtts&fiendus,iedndn eft auistfi
Vlb. ' Etquiaqubd eft in potenria eft fucumm.fittnrilma-
tittum & amdbile^adiuttm tcpaffiuttmin potencia&pof?* ieat
triplicari. ' : . QViECumque carent fupino verba,carcnt etiam par-
ticipio,in cus&in rus , vc<iircO| ftudeo yCompefco apudLacl
cafus exigentia. » PArticipia exigurlt cafus
{ttbrum verbonmi , ficot fiio in lotodocebtmlis, quando non fiimuntur
penitus nominditer. J)oH»i enim p^t^ft.efle nomen, ver^i De
fextu. Prasterea participia habent sexum masculinum ,vc foemeninum,vt^»
7<i^/,8camanda, neucram vt amatum j commune, ^tamantcm
,omne^VC<iwww>tiici- tur eaim Jiic» 6c hazc^ £^ hoc amans^
> OMniaparticipia iai«ffi& vsihtk
futittertixrieclinatioms nominam, in ntSt ia /«r in ifti & inijiffj
funcftcundas&primaSf ficutboaus.bona , bonttm,icaa- maturusjomacura,
amaturum dcc. '^- lyejorma. c
DAntur'fimpIicia,&comporita&'decompofira , vc- iegenSy
perlegens, &per leduriens , flcuc m ver- bis. £t
babent compoficionemilmihcer cu m nomine,cum; terbo^cum aduer bio,cum
propoficione^iicuc declarauL-mus loquendo de yerbis«. De
frttpojltione feu adn omine. PKxpontio eft V ocabulum indicb*nabile,
confignifi'. cans rerum feu elTeniiarum cum iuisadibusrcfpe-
aus&circunftantias. ^ ' ' " Ideoque nominf adhasrec figoificanci
efl!enciara. Uberfrmuil 7/ Dictc Qr
1^4«&tff^f»!/) ficoc decaeteris. DimviViniitlHiatlbi ad differentkun
decliii&biliam ooniinuiTi,verborurn, participiocunr8cp Fon6niiattm.
Dicitur conf$gntficans nfpecfui ^ circnnfiantias epentKt"
ruminfatsafitbrts : quoniamperfe non fignificat , nifi ad^ datur
nominibus: & non nifiper adum eflendi 6icxi- ftendi 6: ag;endi 6c
patiendi U. operandi pofliint res ad inuicem rcferri.
jDicicur cfseniiaram^ ad differentiam aduerbiorum qu« adtum
refpcAus & circunftantias dicunt, non rerum , 6c idcirco aduerbium
coniungitur verbo j pra^pofitio vcro tiomini,vnde re^ns vocaretur
Adnomium» quam prs- ponno:pnepomenimeftornnium rerum, qux antcce*.
dilnr iiue in nacttra /lue ia ^vocabuiis : fed^omini . praepioni eft
proprium huius partis orationis } quam ex %oz pra^fitionem vocamus Meliorem
ergo adaer* biuni nomenclaturam«Praeponicttreciam pronominiiSc
^rticipio, quatenus aiiquo pado fuht nomina etia»' ipfi.
jijfirno comfaratiM. Slcutiaduerbium fehabetad
verbom^itaprxpofitio ad nomen:hoc vno demptO|qubd non fimiliter
qualificac,necquantificat. Dlcitaduerbiumcircniiftantias &refpe< fbu$a<fluum;
&infttperqualitates, & guantitates, teroporalitates, iocaiitates«&aUamttiia
pracdicai Aentaha* Adno- miumautemreu prxpofitio ^olum
rc^pecbus dicit eiTcn- tiarum & circunftantias. Qvi:\lirate$ enim
qunntiratef. que , ciEteraque pric^V-mentalia indicanturabadiedi-
uis nominibuj circa frJ »flantiua, rii;nificantia efTentias, verba autem
adiccHiuia non vniuntur fubftantiuis nifi, participiaiiterfumpra. Dicimus
enim igo fnmiuryem^vsk esanuQSyVoseftis icribentes^&c. Omnis
entmadusre- foluirarin eiTeatiftni, & idei^ ner effeotiale yerbum
expri- muntorinnomine participiaU,6cciini<licimus cufnrie^
tftoMefiy fttmitucl/carrere^motteri nominaliter iqu^ tencis,
ad\useflqoaRkmres,&aoii vt egreffiortjfe, De numero
prApo/itionHm certos cafu$ exigentium. Prepositionum
an« trahunjLDxmifitt Ai^afomaccu- fatmtmi ,vt aiJ, “apud” , “ante” , “aduefros”,
“cis”, “citra” jCir- ca^ circitcr, “contra” ,erga,extra , “inte”^, “intra”,
“infra”,iuxra, “ob” ,'pone, penes, “pcr”, prope,propter, “pofl”:,pra:ter;,
fecun- dum,fupra, verfus, vltra. AIix vcro adablariuum , vra^ ab,
abs,abl'que,cum, coram, clam, dec,ex,pro pra;^ palam.-fine. Alia:
adnccufatiuum &ablatiuum, vrjn,. fiib, fuper^fubter. Alixa^ geniriuam
,vt inftar gratia. Aiia: genitiuo, &abIatiuo, vttenus, quodpoftpof]tum.
" nomim(ingulahferiHcabIatiuovt capuiotenus^ pluralii
veri,g;eniciua, vccrunim cenus« Ratia honun exiogica) & ex ^idisin
capJde nomine confbit DiJlinSfio frApopionum exJ^nijicatiQne.
hiu in. PHarppfitionumalias flguificant refpe^um ,alije
cumltaaciaiiio ALke sigmficanc r^rpedttm principijac! termlfium» qua
prioci[>i; xyt i^ex : principij jid termimim S ALiae fignificar refpedun^ caufae a.d
effe(^um ,&c ' contra,<)uarum
ALix (ignificantrerpedum cauialem caufx agentis vcab>a,ab5>
fecttficlum ; vti peo fadum eftfe* eulum.&ib.
Anxcatt& materialis^vt i&^^,-nde Juto ^dus eft .
homot&exelementtselementacum* 'Alise.caii&idealh^vtinftaf..
U >; A liz caufaefindis 6c perfedionalis^ vc propcery
Ugra- Alix omnium caufarum,vcp€r,pra:jcipue aucem ui>
ftrumeiiulis. Slgnificantium circunftanrias,alix
rignificantcircniiu. itantias
\oc^\^s\stsfnd^c\s^citra^vlsra,cnmm^tlnf^ fropK imxta^hiira^)^tfa^veffus
, fnpra^infra, in. Alix ctrcunflantias ordini s fetf difpofitionis,
&ficil3f yrtante^f^fypra M^fupr^ fifher^ tenmr yfn^iitter»
lias ojppofitronem vt « Aliapcmunftantkm fccimtis '«IBnmta&'v«tsegac&
^tit^^pUiabfgue^fratcrrCoratn^{dUnt^afiU^ " '
Dijiin&io ex fomatione. . Arc. IV- PRxporinonum
aliae fiinplicesvt^^jaliieconipofiia:, vtaduirfit$. Diiiin&io
ex Qtdine. Arc, V. ' . ITem alias primitiua: siprofe , &
i-//r.z'-, alix deriuatiux vc propui&cUiriut , formancur enim
comparatiua , 6c faperlaciua nominaex prxpo{icionibus »dc
umuladuer* v; Proprium est pr^pofitionum
compbfitionem fiicere cum verbis: non camcn omnium ^ vc^ipitraft^tli
dc verbiJi compercumtuiL IDe ad$ieriiio. Adverbium eft
vocabulnm ii^dec Unabile configni' ficanscircc inftantias pr^dicamenbjes
, &affedEi<^ nes,,modificad Qne/quea6lus. Ideui^ue lernjiqjr verbo adbicret, significanciadunL
,D^dume(lpiili9^q,U9d aduerbium dicitur quia flac
tttU3fc.mb»int|:cemnam9difiGationesadt]s,fignifi- ^ ti^verb j(»,dfcl4ratK7.
» DiciCMr^oyv &par5ordinis icKieclinabilis , ex rop gene* .
yg re,i&: clifferentiadcclinabiliiim. T)\c\z\xr
confiniificdns circun(hiLttat (sr Tnotlificittkne^ fi^ IhS'^
qaoniamomne prxdicamentiim denominansa^ flmn percinecadadus circunftantiam.qualificans
veroad mo- dunir . . . .DecircurjjlantthHs actum. Circumstantatium:
tempus, locus, eventus, magnitudo, numerus, ordo, similitudo, ficanimi
excen-. fiones. Dlcitur circunAare
quidauid non pertinct ad tC fentiam re, fed pertinetad eius exiftentiam ;
omnes enim res diuerfbrum prxdicamencorum circunftanr, quac Ain t
eiufdem prxdicamenri , non circunftan t/ed ef. fentiant , vt in Metaph.
probatum eft. Et quoniam alia funt eflfentiaiia ,alia exiftentialia rquar
pertinent ad exi- ftentiammagisdicuntur circunftare
,vtfunrrempus,lo« cus, correlatiua,5c cocxiftencia. De
adHerbtorHmyfpecfantiumad circmflan' • tias^varietate.
PRopterea aliafunt aduerbiatempprjs vt quande:, ho~ die heri^
cras^pidUyfoQridie^ quandiu,mod9,\olim^quen-:^ darn^ nupefynunquam^ mox^fdttUfper^pereniie^c*
Aiia funtaduerbia localiafignificantjaa^flum in loco vt ybi 5
hic^iHic^ iftif^ intusJorit Mfqttd,nttlMii vtro^ique^ fUutr^biqtte. A lia
ad localem ly^oxione^^vtqno^httC^ilkCyi^ttCi intro^ fora ^ttoieis^quocttnque
vtro^ue^nentrpqttu_, ^ /o Aiia moto de loco, vc
vndeJjinc^ilUiu^i^inc: vndijue^/i^ ferni^infcrne indtdcm.vtrinque,
A\i3Lipetlocum ^\t^ttaJ?ac, ttIac^ifiac^ qttaoisqUa!iie^e4''
demvtraque. Dancur vcrfus locum , viquoffiim, iUorfum^
dextrsr- fim inextrorfuni, Daacur 6c vr<|ue ^d locttin, Jtt^^nc^ffm, iUft^^
vfpi^ qu^ufqu9^hdcienii$. Alia fuDt euennis, vc/i^r/^ tf^nuna
J^nmtu, cmingen*, terSniceffario, Aiia sunt ad.ttCFbia
niagniradini$» vt/^ir/ki»,^ir«riiA»»»t faruum^ minianm % fherimum,
fumwmm^ atis^nimii^ntul- eumyaii ^uanfuium:m:tgiSyampli MSymintts.
Aliarunt aduerbianumeralia fignificantiavicesaduum, vt quoties,
totuiy ((mei^bts^ ter, quater^ dectes^ eenfes ^mtilies^ &c. ex
pronominibus numeralibus deduda. Alia func aduerbiaordinis ,
v^^rrw» yfecand^^^ytertio ^c» deinceps^dehi h\pofiremo^dentqtte
tandemydemum, Alia ordmis,&dirpofitionisfimul ,
quoniama<ftusauc 'congregancaucreparanc. Congregandifunr, (imul^ fotrim^ ceniunHe
, generatimyturmaeim^ vnluersh Separan. di faqt ^fiurfum^ ei^em Uimt friuatim ,
ffeciatim^ figulatim^ ' hfariamytr^ar Um>,fitatri/h^ ymultifariamidtt^ltiteF^
triflieiter. SpeOanciaadlimilitttdinem funt, tanquam ^feu ^pcuti^
puktignitvt qitomedu^ iimaim ^Jkmm De fpcHanfibHS ad anim^ etctenfioms^ Aekierbiapercinentia
ad animsc circunftantiamrunc multiplicia. Nam vei anmia alfirmat vei
negac eilefeu adum, vel dubitat , vel incerrogac,ve! vocat,vel
rdpondec: vel optat,vellK>reacur, vei eligit vel proliibec,
^exoftintbuslitrceanima: extcnfibnifcusad obie(fla,naf. canrur adnerbia»
(icirca verbumftaat: v^l fide re-|faQt inlceric^ionis, qu^ eqtrin^entoraf
ibni. Affimandiadilerbia 9m^fo,mi, etiami{rofc0i qtappc^
umfu Negandi aduerbia func, nov>haudimimm^ne^Hac[iianif
j^a^d^uaijuam neutiquan), Dubitandi funt,
fGrs.forfan>forfitan ^fortafsii I fortajfr ', Interrogandi (un r, r ,
quayt^quam^h im ,^muU npnm^ vtfnm^nunquifit^ quidnam, qutdne^
^i/idita, . lurandifanc , p^l, edeftil» eea^erthercU^
meierclf»nuintt^ .Vocandi fanc «i^fir/t^cea einquefiinc rerponde jidiin.
tecduinadtterbia. ^ D^monftrandi ((int, eccc^ tn^
eccnmjMleet^viddieet. Interrogandi vcf Wandiendi ,vt/tfJ^ji Optandi func,
0 ,Z'//»*Jw/V/,%*<^*w. "
"Hortandifunc,w^,rfgf,</^//^. 'E\\2,Gndi
p/*tttts/utit4s,p0Hfiimumiimd^^ttin. ^ Pfolnben4i,«^,f<iar. ^ K
Duerbia aiianjim f^rcunftant verbo >tanmiam tt> gni6Ccaotia,
qaodaifi Miiiniicejepr^d ^ledqoaF lifi^antaiEciancqueadaiil*<^alifici
Mio,veleAexparrea^m ^deQtis, vel f^fd^ pieort5jyel'«xparceinfiui?ni
ecdus. Aduerbia .qualitans ex parte agentis, funt puUre, doRe^
fortitif, ^.'ne.male, Gr^c^^Latjue^CUeraniane- dcp\cTum* que ex omni
nomine adifcliuo qualificante cHentiam dcriuatur aduerbium
quali4cansadujii;igitur (juotad^ iecliuatot aduerbia. r- RE^e didum
ePcex omniadieBiu^ firiadtieriim>iio* mina enim fubilantiua) tunc
&mt aduerbia cum, adiediuantuTj vccxCicerooefirCioeropianus
a&exhoc n fammaticaJium CampanelU] Ciceronianc
liciit enim adiecliuuui qualificacrem, ita aduerbium aclus rcj.
Dantur aducrbia qiianticatis, qualiracifque poficivia, vtdofl^^^ U
comparatiuai vc doiiius , vc fuperlaciuaj vc De aducrbits
affeiiionis ipfius a^us\ ADuerbu qualicads ex parte
a&ttvpertioentad a£. fe<2ionein eiufdem ,feualteracionem» Alikfiint
inten/iud, vtnutp$,m»Mimh^lt Mm^4imdum^ ferqu4m ,ma^nopefeyVehementer
^frorfuh fenUMf>mmuttb^ nmium/tnngCylate. imfens^. A
I i a fu II t re mi fli ua, q ux min u u n t a^lram , v : /2- nfinf.Pa
Litim ^vix, agrh pene Jeri yferm^i : fedentm \ a foco afoco fianfiatto. SiLcvnlgaiitcr.
;7a D Nax A T L a. Sciendufn» quodadie(f); iuanomina pertinentad
e/Ien ciam,quanticacem,formam, fpeciemjvc humaniis,
rongus^quacrangttlaris albu ideo aduerbiort|maIiud quanttficat
adttm^aiittdqualificac, aiiud format;fl/jud fpecificat » ic hasc omma
fttb racione affe^^ionis; di^a funt!6c qualifcationis. Qualitasenim eft
non foluns fub* ftantiae, (cd etrani quantrcatis,'& formse , &
adus,&^onnte^ .aiuro praedicamencorum,vtin iogicadeclaratumeft.
Icem intenfio , reaiifiiQ percinent. ad qualicacis3&.
magoitudinis adus. De Qrdineaduerhiofum. liaaduerbiafttD€pfimiciuA>ytti^i-aiia
denvati- aa|Vtfi!^i^& Liberfrimusl ^ Sj iJtf
formanone Adu4%biorum Itcmaliafiinplic
UjVt Ja^^^alia cornpona-, vtfM«* y^^^ lalia de compofica, vc^tf^m
d^Hifiimh Confi Jerandum , quodalia adiuerbia com^onont cum
aduerbio ; vcfxjfr>(^v/i,'fic ficaci:ali*cam npmine^ vc
maUftcuiy^W^cmk pronomine vrMf ^fr^/r^ltacttm verbo, sifMiifuciOf
maUfaciOt malo- ideft niagis volo. •GRammaticulicunt fex
cfreprxpofitiones.qux 1.0« nifiiacompoficionercperiuucur , videlicet
''ditdn^ re> fet itf«^r«», Veruncamen videncur ex parceerrare, nam
^ ai^eon^ fit prarpontio veniens eum tnmen\'^dis ori- carexdifiundim
t Scdi, exdiuifisaduerbiisi/^eic feorfum^ r^exf#^« saduerbio ordinis.,veipra:gofidone
;aa forfiui CXantefrapofiUue^ OMne aduerbiumaffedionem
aclusintrinfecam, aut circun (lanccm,figDihcat,tam m
compoficionCjCum verbo quam cum nomLne«Noa enim nominiiungicur ni«
ii per fubaudicum ver^un. DtcwimShnefcjftimM ar^aionisfsrte^ Comundio eft
vocabulum indeclinabile con/igni- iicans copoiam ellenciarani^inter
ierciatarum ad Sdf Cj rammaticaUum Ca mp.i ne lU, num
aduni) aut rerum & ficnul .acluam earumi»* terfe,6c
propcereainorationecboii|ngic c^teras partes orationis& fententias,
vcPecru^&Ioannes fuiit noroi'neSy item Petru»currit> &
loannes» POoiturvocabuIum fariapithnhittJeilin^i^&fex ge^
nere6e<)iflerentiacomii)ums, ficut in^efioi^nonc ad. Uerbij
&pra:pofitionis. Dichiir con,^^nI(7cjn s coPf$ldm cfftntirram
inffr fe reltt.f fumadvnum achim, a J ditlcrcnciam prarporition 11111,-
».^ua- rum aliqua flgnilicant coniunclioncm, vt cfl refpc(Jius
nonvcadadum aliquem coniun^:^iintur j vt Petrui ctnn Jodnnetji^ vbi ly
cum^ folam relanonem Ibci^cacis indi- cac. Scd 9etrui& loannet funt
hornineSy]^ & coniungit Petrjimicum loaiiiictll a2tUL enenJi,8c
quidem lyorm gua. Cenusfiini adu coniungit fpedac ad
cohiundionemj^ua* tenuscafiimregit,adpra:()oficionem, Dicitur vel tevMm
fimi/l^ & afhm earttm\ quonfatp pbC fnnt coniungi invndaAfi, Vel in
duabus: vt Petm eurrit, ^ /pamtes Uge» vbi ly, t^Petrqm currentem
6clpad- nem legentem coputat , 6c propterea Grammatici lii* cunt, qupd
coniUngit parte^orationis & fententia*s,vti&a* mo ti* ajtnuf funt
animal ^ & bomo eft racjonaljs vjcar^ito ijrationalis. Et ideo non
poteftreperlri coniun^ioin oratione fimplici vnius pr^dicati*5c vfiius
fiibiei3:i fimpbciter ft* vt homo est animal,tnqua nulla coniuoAio
eft/Oifibo- nms. cimaisim$di» fed verb^Us». S\
^econimclionis f^ccJantibtis^
COniun^tionumaliacopuIatinD^aliadifluncliua nlia aducrfatiua , alia
conditionalis, alia comparatiua, aIiarationalis,aliaillatiua, aliaoppx)ntiua,
aliaexcepti- oa, aIiatemporaliS5 alialocalis. .
DefinitiocopHlanti^, COpulatlua coniuncliojeft quar prorfirs
conlunDT res in vno aclu vel res adufque.Sunt autem copula- tiuic,
^yat^ffe^ac, (juem^etiam^^uoque ^nccnon^ vt^cumi fubiun^fliuifque feruientes
omncs. GOniungere & copulare funt idem , & quoniam c&- pulatiuaprorfusconiungitjhaberpomen
fui gene- 'Tis, per antanomafiam. i. Sed alix particulic non
corriungunt nifi cum aliqua di- wiiiifione interpofita. Cttmy&ut
^qu&nia?» fubtunchuo de- £cruiunt, funtcopulatiua:,y7w///7rf
C^^oci/Definitio difiun^lim^ Dlfiundiua efl qux copulat
vocahula & non rcs,vel copulatfecundum vocem, & di/Tbciat
fccunduni rem. Suntqueiftx.^a^VirAv/jfisrr /^tf,vt tuaur^chomo,
autbeftiarvelfcribis^vellegis. Et, velego rummaius; vcltues malus. Grmm^ticalmm
QimfamlU] Defimtiuo aducrfatiud^ numerus. Aduerfatiuaeftj quijconiungic-rcsvelaaus/cd
cil di- M^rCKn^^^^itueihonus Sednonintmmhus Pctrtis effc cio AusfitIoanesiniiodus.
Sucaclueriatiuac, fcd,at^«aiwc, tamen,verum,autem, vero aQ:, cxterum, atquejverunca-
men, nihilominus,Iicet,5cIicet, ecri,quamquani .qudm. fiis^tameifi.
Quaccunque coniunguncado criando. la vuI^Ari lin^ua ly^nij roium
"aduerfatur, Kunc addunc ^crcJ, (lenliter. ' ' De
conditionali. COnditionalisexqua: eft fuppofitione Facitcomun Aionem,ex
fi fol efl: lUoer terrani dies eft, ^uac con-diaioaaleiS/^Atf jwij^j »
\x\i,mxi\,\A^, if/iUbK c De comparatiua.
I Oniun^io comparacittaefl:cua:per aflimilacloiieim res
fimpliciter,velcum a^libus fim.ul interfecon-. iunaic .rquando ,vel
excedcndp , vt ficuc Petruseftdi^- dus jta Francifcus eft ignarus,vel
Pecrus cfi: doc1:us ficut eftbonu? , cam dodus quim bonu5 : vei magis
dodus quam bonusjvcl quam Pccrus. Sunt comparaciu^ fi^ut ,
uj, veht, veht:,vtr, vt^tan»^ Omparatib ^quans eft quarqualiracem
fapic incet V^rescomparatas > vc (icuc Pecrus eftalbus, ica
loannes <eft niger: vel vm tii es Piialorophtts quam Poifca ,
alia ponit io^qualicate«,vttU esma^lM>nttsqttamef tPe*
Ltbevfrimus. Nominaomniacomparatiua &: fuperkuitia
^qitoniam .inclirdancly magjs» £cly mdiiimk fttnc coqiuo^iua
oractb- Biim^ didionum. * rationalL * •
RAtionalis coniunflio efl: qucX disflum cum ratione didifeu caufa
dicUconiuugip^vc/ff e$ dfUMS ^quia^ JluduifiiCiceroni,
SuQcradonales coniun(^ione$,f »^r^f «Af,
tmim^fu^w^mtUsUi^iJideo^Ttftefia^uotUami^iU^ dem^fyMidem.
DeiUafmaconiUn&kW. Illativa est, auq^contungic anfecedens cum
conre- qnfncididoaircrumexalteromferendo ,vt Petrusefl- fendus,
ergo carusDco, runtillariu^ ^g^tur yergoy.ita" ^eexpofitimsi
EXpofiitiua quac rei non clarx coniungft clarifi* cationem, vt homo
.fKibilis^.idel^ pacens ridexe^ ^andtii Uber. Di
exceftiuis^,. EXceptiua eft,quae excipiendoaliquicTex
didaconi. iungirexpcetumei, vncfe excipitur^vt^?^?// homoed mtndax
, prater lejum Chi^Hm. Ec quadraguica accepi^, ynaminns, -Sunc
excepciu^niji^i juraec ef , xcepcoi^niii^ De tem^oralk
npEmporaliscouiundio cfl:,qi]arcomiingi'c resatqne A aAds per
cempons fimultateni, vc quando magi- ftec
legic/ffiiif^difcipuliaudiiinCs&poflquamveneriSjda-. . botibi libnim.
Sunc temporales, aMond^yfoftquam^tunci QVamuis temporales coniunctiones
(inc nduerbia, quatenusafficiunc.adum temporalitate: nihilomi- nus
quatenus coniungunt parres ora[ionis 6c oratiua-
£uias,perciaeatadcomudionem. Idcm dic delpcaii. Dt buUb^l '
LOcalis eft, quie aut res fignificat, vt lUnftas loco, vel
iungiclocalitcT , vc v:n tt inuent<f^ihite ludico» Suntautem
locaIesf<^^ vnde ,ijuo ^qua^^uor/utn^qu^* j<y^«^i6c aiix dum
comuugere poflunc, Vnt alix coniuncUones primiciuas
vc<2/ialixdenua. 0 s DipmHio ex diffofitiine^
' Itemaliacdir ponuncunn primolocooratioiiiSiVtifr,^Aliae so
AWx pon:ponuntur, voci»cuia cliunguntar,vt^tt;ti^;/4, Alix vtnijue
loco dL^unitir, igilur^equidcw ffahiw^ Ex formatione^
ITem quandam funt (implices*, n tamen^fttadani.ccm* fofitiC^atfamn,
C^u^flio dc nnmcYO ^aniHm orationis. QVxricuran fiiicplures oracionis
pnrces? no viucntur enim omnesfignifiaitinnrs per parces prarfacas
e- uacuari : fiqiudem articulusadliuc defidcratur, qui ap- pofitus
demonflrat non (oluni fexum , fcd criam quod perantonomafiam
,autpercflrentiam,autper proprieta- xm ed tale* 3ed hoc
verumeAinlinguaGrxca&vuU Sariltalica,cum enim dico P ietra ttno
^Qfnzh&co (iib. antiam Petri: cum dico P///r0//^0jr9,proprietatem
Pc- triper excelienriam declaro *. dc cum dicimus Chrifio ed^
gnelh^b ^giia di Dh : nihil excdiens dcimtis,tiec propriiL Sed dicendo
Cirifi^ k tAfftetto^ o ilfiglio di Dto^ prpf e- rimusquidfpeciale
decantatum,aut quod vere autper effentiam eik ,6cnon per fimilitudinem
(oiam v.tChryf. adnotapic/edlatinicarent liac particula. Videnid?tamiaicerii
eflc in hoc, quod Gerundium & fi.ipinumitadiftinguuncura nomine^Sc
verbo , vc par- ticipium fpccialem habcncmodum figniiicandi ;
idcirc4 inccr parces ordinis numerari debercnt. Scd forlan ad
participia reducuntur» veiex verbo &participio com- ponuntur.
Amandoenim amandi ,^amandum , parti- cipiafunt in Dus. Sedtamcn
verbalircr nia^^is fignificac quam participia. Sed cafus luabent &
formationema ' participiis. Similicer amatum» 6l amatu participio
paf^ uuo refpondent 'a&uique prxterieiy vt cocnatami $c pranfum
adliue fonanc j &:auxtliatuin zamattts w6 paf- vndefitper
decnincasioneni amaittm* M . De Oratme
confufaM^^ de Imerieclionc. Oratio confusa est indicatio quae in didiones
diftfn- guitur, rediniperfedisvocibus,& minusbenearn*
cttlaci> I iignificacaniiiii paffiones , ootiones, & affiediones
« JN hac definitione
ponitur sndicatio , quoniam aliquid pftendic vcprxfens omnisconfufa
oratio. Quar (ubiunguntur, ponunturaddifFerentiam oratio*
iiisdiiU0L£ti£* — Dicicur figmfitatpaf$Unc$^ n^$bms , &
affeBionei \ quo- hia ift« funt extenfioncs animx crga obie<Sla
extcndcncis (e pcr poteftatiuum,autper cognorcitiuum,aucpcrvo*
iitiuum: & ciuidem omncf cxtcnfionespcr hanc orationem, vocatam i
Qrammaticis IntmeaionmyAthmnt cxprimi,&defaclbcxprimuniur. Sed non
inomirf^ Iingua habemusvoculas itgnificantes carum^ncquceardcm;.
fedinains ali.ismchufcul'e, autdeteriufcule.
LIcetpa<riones,noriones8c afFeclioncs fint exdemin- omni
hnci;ua,& exprcflioipfarqm in corporis commotioneeadem'^?non^amen
expreffiopervocujas^ledalibi Aliar, SVntqurdjEfm^animas
extenit0ne9eardcm, quoniamtb einfdem^ci^iaiiimabtts i>maia.hoinisiiua
corpora tiher primusl pt informantur,&
eirdemobiedis paricer mouentur.Sed .expreflio notionis animae
reprsefenracurincorpore 6c in exprefloaerejinillo fimiliter,in hoc
diflimilirer , vnde afre(5tusdeliderantislacinc exprimicur p:r
voculum, vtinam; Italiccper vde^ediQ , Hilpaniccpcr tfx^/J, Gra:cc perci.
. . ' ; OMnis vox de fe folam anirai cxccnfionem exprimen s
dicicar compofica oracio : qux aucem cuid alii^ par- tibus oracionis»
nequaqMam* De exfrefsionibHspafsifinum^ - In lingua latina
pa/noncspotefl-atiuifuntpauc^Etalir quidem hortantis , vc ^j./, age,
agitc, A Ji^e prohibentis/ necautfroh, Aiixirafcentis^vcto/ffit^iv.
Ahaztimentis, VC ha^ bei : Alfa: animaduertentis » vc apagefis.
Defunc fperantis vocula:, bc irruentis, & imperancis , 6c
impocentis,(clonganimicaiiS|&audencis>6c;Cimenci$&Qi
\ TDeexprepiombHsnotionunt. '. .Notiones cognofcitiui iiTlingua
Ladfia^aliac fiincaf- ferencis,vc :alia:negancis
jvc»#a,/&<fip</. Ali« dttbicancis vtfifrfitnfcrfaan^
fprtafiU^oftaffe. A lix incer- roeancis>vCAvr,f«i//8^ffli.
AJisevocancis^vc^Mi, Aliac relpondencis,vc «• Alias admirancis, vc pafe^
hem. hWx demonftrancis, vc en^tece- Defunt auteminteriedioncs
memorantis,difcurrenti$> imaginantis, cogitantis, incclligentis ,
&: declarancis. M ij 52 rammMicalium
CampamlU^. De exfrimentibus a^eHionum l . . AFfeftionis
fignificatur per tiotas confimiles, alix* enim func defiderantis » vt
vthuim^i , /T. Alia: gau- dentis, vtr//.'t% h\\^\M^tm\svihau/heUy€h\.
Alix dolentis, wzheujjti.ah. k\\xv'\dentis\tah .,ah^eh. Alix
blandientisj.vt.^*;. Alix iniprccantis, irimalMm, ^ veh, c\\.\x etiam
enrexclamantis. Dcfunchisinteriediones aduerfantif ^qua: poceft
effe '^pagffif, &miferercentis-, quxapud Virgilium exprmii-
turperwi/I?/tfw, <S: xmukn:is5c muidentis,quas non in- uenimus apud
Latinos.Icem approbantis £cxeprobantis,haoc volgjaricer expnmimuspenfii^) qux
Latina non eft« t_,0..QVcimquam pofuerimus viiaam.ojjeus^^forfan.nwil-
tafque aliasextenfionum notioftrs inter aduerbiai hoc camen verum eft ,
vbi verbo adharrcntad modificandum afluni. Sed vc folummodo animi
exprimuncafFe- ^iones,percinenc ad forationem confufam.Nihil iuceni
prohibet,vc idemficin dluerfis fii;noriim ordinibus, vbi i
jbueiiasiuibeciationes, vt pacecin Logica» QVJT> CONT INETVB^-
in lihro fecundo. Oftquam parres Grammatica! dixi-J rnus,6c
orationis enumcrauimus par— liculas ,. tam perfe(fla: , quam confu-
fa: :reliquumeft defcribere conftru- (f^ionem orationis ex fuis partibus,
6c quomodo cohafrent declarare. Ec qooniam partes orationis
habentca. /bsjfexus, numeros, perfonafque ,illa: quac declinantur,
qua rarionedifponendx funt fecundum diCtas ipfaruniJK
afFe<5liones,operaepretiumeft dicere fpeciarim :nam in- declinabiles
particula: folam difpo/itionem requirunt CiJ.
Meiurmodieoncordantiis. De concordantia innationHmlwguis]\^qu^ denuo
inflitm pojfunt, Qucmadmodum in lingua Hebraica Itala, Arabua,
Hilpana, 6c Gallicana non dantur cafus nommum, fed loco ipfarum ponuncur
articuli^ficeciam mlingua Concmcinorum , Scaliarumoriencalium non
danturde- clinationes verborum aptanda: perfonis, neque te/npo-
rumvarietates,nequevarietatcsverborum aptandxcem. poribus : &: ideo
omne verbum eft inflar imperfonalis vei infiniciui. Diftinclioaucc
ficperaduerbia cemporalia , vc a dicercm, nHc ^mo^tmpoftefum^^ tmo^ante
amo Sicin perfo. w\%^'\nnt\ez^oam9tuamo^Pietroamo^ '\l^c\v\od non
dantur concordantio: temporum nec perfonarum,nequc cafuum fed
parciculx aducrbiales, &agnominales totam orarip- nem conftruunc , 8c
didinguunt mirifica breuitate ac dicendi facilitate. Quapropterqui nouam
linguaminue- nireftudec.hxc notabit ^&quxdida funt, dumdepar-
cibusoracionisloquereipur. T>e cancorda ntia partium in Latind
orationis firuiiura. Arc. I. XNoracione
diftinda femper declaratur aliquis acSlus de aliqua elTentia, fi ueadus
ille fic elTendi^fiue exiften- di, fiue operandij/iue quiuis alius.
§luar€omnis res^ cuius efi affus^ponitur in nominatiuo.
F.sfme cflencia^dequa dicitur ac1:us jetiamfi paf- fiuus,poniturin
noininatmocafu,qucm vocamus re£lum ,quoniam cx
ipfoflexionescafuum incipiunt,6c a<n:usexipfoegreditur,veitanquam
egredieas cxprimi-tur. Quareverbumcum nominatiuo concordah SEmper
concordat adus cnm co, cuius eft adlus fe- cundum naturam > altoquin
non|efiet c i ii s adus:pr6« pterea nominatittus cum verbo dicente adum ,
concor* dari? debent ih numero 6c perfona,' vtijr# am% i tu ama$ ,
Petnis amat^nos amamus^vosamatiSyiui amant:&c facie». in reli^is
tempotibus verBortim in omni lingua^ EXcipiuntur verba imperfonalia
,& infinitiua,in qui- bus non ponirurres, feu eius notamen in
nominati- \\o , nec concordat ergo verhum cum nomine fcm*
per. Dicimus cniai me f(Kniif^emrum;iAardf$i : & fao,tc
cffedodum,. EX textu reclc patet , quare verbum
concorddtcunj: nomincin pcrlona 5cnumero:quoniamafhiS'eftrer, Sed in
vcrbi.s imperfonahbns^vbi poftponitur infinitiuii •vcTbr.mnon verbi loco
, fed nominis,adiicitur,& tcrti^ femper perfonx fingularis quoniam
fi^^nificat aclum mo- renommi.s quali rem , propterca vidctur quod
verbum Bonconcordarcum nomine, 5c ramcn orationeconcor- dat. Cum
enim dico, mihi difplicct viuere , bc me deie- datfcribcre,&Petri
intereft legere ly viufte fcrihre^z. le^retmt loco nominis pofiri
innommatiuo & ideni fitntac vitayfififth , lecho , & concordant
cum verbo. Patetenim <)uomam fidico,
petriinterefdeFiio.benedico, jaonaucem, CiptrimtirifikSims^^^ murfmjfic^
"iiS GrdmmdticalMm QnmpamlU] falluntur Grammatici purantes
efle imperfonalepro^ pterinfinitum \y irjtereftSc deUFfat. In
ralaergoimperronaIiumquintaaIiter/ebabet,cuiv; 6\co^petrumtedctviLt , !y
enim t^edee cum nullo concor- -datnomine. eftrque verc imperfonaie. Sed
ramen fcien- <ium,quoddeberet concordare cum iy vita , ficuci in
vtt!ganrerinone«&in dliis linguis accidit. Sed Latini appofuerunt
geDiciaum prononiinaciuo^velquiainteiU ligitur aliquid ,
vtcumclico,aliquidbooi,6cnonboniiiny vel aclus, idefV^adus vitse.
Sedinfecundo imperfbnalium palBuorum ordineTes obfcurior
eft,dicimus cnim a mf/atisft titi. Sed fiquis confideret quod z&us
fatisfaciendi sl me egreditur , Sc qu6dcanfaadiuainablatiuoponitur quando
non vta- gens confideratur, redvcid, vadeegreduuracbio,ftatim
ceflabic dubitatio, In infiniriuisquoaiainC^iwpera
v^rbotiniriuo concor- dante cum fuo nomine regunrur , facile
intellj{^imus , quando non ponuntur, vt edens actum, fcd vt
obicdum: proptereaque in accufatiuo , vxCcio ego,teefse dofiBm^vbi
lyte efse doiittm^tdobiediuin fcientiarmea: , & propterea
omniainfiniriuaaccufatiuaexigunc,&cum dicimus,'ego fii9 fcri^ere^ly
fcribere b^bet vc^ Domenindicans obie* dnmadttsiaendi.
Quapropterin concuflaeftreguk,qu6did ,cniu$eft aduspropric, veicui
attribuiturvt proprium /|in nomi- natiuo ponendum eft, concordandumque
cam propdo a&u : ergo nomen cum verboconcordat in numero &
perfona^alioquin non eilet adus illius , fed alterius,&
cumdico,//^r^/<far0»f, refpicioplurale inclufum in illo fingulari
/«r^rf fecundum rcm, licet nonfecundum vocc. De
<^on€ordaMM sdieHm cnm Ju^fiantiuo* NOn modo
ac^iisconcordatcumeojCuiuscfladus, redeciam quaiicas, 6c
quancius.&^i^uidquid dbi .adluerec»yei inefty vel eftipfum.
Qu^rein omni lingua adkBiuum coneordat fuhfiantim. Quapi^opter
nomen adiediuuni cum fublUnriuo concordacin oninilingua^qaoniamaccidens ScprO'
/priecasei ,cmuseft accidens proprietafqiie.» conuenit» cordacque,(i ems
eft. Jn quibus concordat adiediuum cum Mfiantiuo^
COncordacaiitem in fexu « numero , 6c csfuJUferh' na»
dlcimtts , ez,o vir&mtSytu malier bona , manci-:^ Aium bonnm, nobis
boms^ vosmulieres bon^e , mancipia 4>ona. X fe ratio
pacec h n i u s concordantiaB. Sed aduerceiK dum,quod. apttdG5ammaticos ttonponicurconcor«
dannainperrona,quoniamparantadie<fliuae/re perfbr naramterciantm.
Nosattcempu camttsnttiliusefTe perfbnac ,fedeius, cttiadhxrentfubftattnuo
<»vel loco /ub- ftancitti.pronominis^perfbnam' fufcipere.
Q^apropcerin wi//»vf , ly bonus eft perlonjc primse , voi mali maU
• i-' eft,fecundaj, - PRa^erea etiam nomuuvidentur non
habereperfo, nam, fcd a pronominibus eam fortiri, trahique in
ipforum ordinem. Quoniam fecundum Mctaphyficam effentia non agit nifi
quatcnus habetexiftentiam Sc eil: pcrfonara:cr^o adum habet ex
perfonalitarc . propterque a pronomme, perfonam fignificantc,contrahuntur ad
personam. Igitur Petrur eft prima» /n i^^/rr eftfecunda , Pctmi autem abrolucceftcerda>
qiioniamno fiiiiclui£ perfonam. Y) econcordiardai'mi ctm
antccedcnte,quocl ufert^ Qubniameandemrem contingit
pluresliabereadin qu6> ,dum referc intelledus, non poceft eandem
rem replicare,ne fatietasfiat fedrefertipiam pernotamj, quamvocant
Grammatici relatiuum^nec aeeftvVtre'- latitfum concordet cum relato
antecedenci^ quoniarar idemfunc. Concordant autem in fexu , numcro
perfona , non autem incafUjquoniamrelatum non (^r-iiales habct a-
dus/ed alium eUcndi^alium agendi , aliuni patiendi ^DH fexu numero eadem eft
dedaratio. Sed de^per^- Ibna filuerunc Grammatici»ficutin
adiediuoiub- ftantiQb-^verumtamen eadem rationeconfnrantur cum
enimdico. tfo qui fnmbMs^ Hmf Demn : ly qoi SclybHmi fiint perfona:
primaf,quoniam aAus funt perfonarum , vt dicluni.cft, Non
concordancautera in cafu, quoniaui. Hf, 99 111 vna
pfBpofitipinp pnt-ffl- pflV j»/>us enef?cli,&inaliapa«- tiendi :
adus autem paneo^conpord.it cum agcntc , qttan^o adiU£pronunciatiit^^l|H^
noD palliu^ve in quo-Quapropter ciicimusci&«j^,^i^^^ ydo* fhs
efiyvhi ly ^tiim cfk pacien>^um eviiicationis» 6c hcma faabens eft a6tum
exiftendi dck^q^ , vnde iloo poflunt in eodemcafuponiremper^nifi
qiiiDdi^Bltfta^sftuj^ -conditionis , vt cum dico , Petrus qui eft
Gramm«iicus, erit diucs , vel quando fignificanturdealiquoadus, eo-
ilem fii>nihLandimodoiVt: cum dico.Pctrus aui eftGrammaticus ,dicabitur ,
vcl doccbirdifcipulos, vbi ^l/^ir/di- citaclum, vtinhqrenrcm Petro,
^^«ftfr^ acium^vc m Pc- tro operante : idcirco quam.quar « alcer pafTiuus
, iilter- adiuus,tamen concordantcum actu exili?njii •
6cjGraji>» ,niaticein modo fignificAndi.
OMnerelatiuamiacicontcioiiemdupIicem ,'8ceftfi« ciic cbniandjo
nominalis oncionum , nec poceft reperiri oracio fimpleXi in quamxelaciuum
ingredicur* Dc conftrudlione orationis. Ba; reruM comuniiione
difiunQhnefier aHumoftameJfeconSiruSi^m oratifinis. Quoniameirentia Breriimperie
(ttntimpermi%: pe»-' mifcentur aacem per proprios a^fttts ,
jlttmalieniin ^teram extendicur» £citenim ipfarttm finiplicitas^lM;
mulripIicirAs ,ab intellcdu concipitur ,per aclus inteU
leclus permiicetur £C vnitur,ill3 per mtclledium facia jnultiplicitas;
propteica ad declarandum res cumluis- adibus & per Adus coniundas 6c
difiundas eft oratio^, cuius miiidplicitas exaduum niuicipiicitate
couftabic. ^mt funt gmera aSuum tot $jfe regulas fit^ ordines
CQn[lrmndan*m oranonHm. CVmque fitalius aclus eiTendi ,alias
cxiflcndi^aliuS' opcrandi, aliusagendi,aliuspatiendi,alius mixtusj
proptereafuntfepcem ve^rborum ordines : dequibus re-. gulae fepcem
laciend^ fanc iecundum redam philofO'^ phiam^qajimquam Girammacici alicer
reotianc. Deregula verbarii^eJfentxalium^imHmor^^dincmcomirHcliomsQrationum
duceme. Art 11. PRmi um ordinem con ru d 1 o n i
s o rarionum effici u n r - verba (ubllanciua : qua: exigunt ante fe
& pofl fc no- minatiuum proptcrea » quod prx-dicatum
fubflantiale nonlequituradadura eflcndi sed continctnrin illojvc
b&m9efi4mmaUvh'iK\\xoT\myi ly ammjl eftic^cm qnoJ ho- ma,aAus eiFendi
nqn facit differentiam mccr id quod:.' jnr«Lcedic& qaodfequicar ad
verbumr^/ eandemconBruffiortem verbumej fentialir,.
quandofrddicataUnm acadcnukm ' permod$meJfendL
PR3rtejrea.quidquid pr^dicacur, vtfubftantiale vel per- m^ttsR
iuib{bDciali$» licec noa fii, nifi feconduia
roccm^pomtiiretianii innominatiuo, vt homoeftalbus, lycnjiTi
^fi^af /hacret homioi accidentaliter.ec non cft idem quod homo. Sedtamcn
pracdicatnrquafi cnsidem: qaoniam eft idem in perfona,licetnonin
fubftantia, vc inMccaphy. declaracLii. Sandem conilruBimem
facere "verba accidentalia qHando aBus non e(fentiales per modum
efsenhaiu connotant. O-Mnia verba ctiam non
fiibflantialiaquarenus irn- plicanc adVum eiTcndi , quanmis pcrtineant
per fe.prim6 ad exiftenciam, velaclrionem vel pafTionem,
etiamexii^unc ante&.poft nominatiuum ,vtPetrusma- aet
martusjlcoincedit grauis, Mulicrextatp/ompia:; anti^uiladabattcur
nudi. Vnumefseverb Hmfub^MnHum] On vidcrur verba
fubflantiua feu efTentialia, i\c di- _<n:aquoniam adumefTcndi
rubHantialitcr aut ac- cidentaliterexprimunc^cflepiura vno,vz./' «^^^'SoV
declinationeshabecod Grattfknacjfcis^etcnim ly viuo^\^o
mamviuereeftefle,non {bmper fubftantial? eft.vtliic, tu viuisbom^^
Sedincerdum accidentale, vt in viaisfccUxy tuvithvitamUn^af^amy hoc cft
habcs^veledis vitam lon- gxuamutem quoniamdenominanturTesab his quac
ha- bcnt extra fc, & non mbdo ab his, qux funt , vt dicimusy
Tetrus eff NeaptUtamtt ^t^ pilcatus, eft fortanatus : propterea ly habeg^
dieic/flw , & ly fiim hahu per commuta-tionemfignificationisi
ricucenjmooihabetarmadicitur armatus,ita qui eft homo dicitur
haberehumanicarcm habcreefrerationale, cum'vcrcfitranonalis6cnonba-
bcns ratiojaale i hinc Gxammaticj ponunc# loco haz,.
here.vtmihi funr pccani^: 6c tu cs mihifaflidio^cum vno^'
& cumduobus daciuis, &iioc cum pronunciacur eflec«- xtftemialicer.
Qupd enim exiftic in alcero efl,$c alcerHni*. h^recreu incn:: namcum proounciatureilenciaciuepo-
ntcurinrede ^viejfi fum ftamio/u^^^ic cuesmeumiaiti* diam«
Cur fHbBmtkium dicit ^opcfsionem^ ITemlyefldicicexhac radice
poflc/noncm, notatquej quoniam connotachabcre, vzlibethic ejl Peiri^xqua.*
ualecenim l.uic,Petrus hahcc hunc hbruni feu cpcur*
jnuni|6cPecrusc(tcocurnacu$« .
Decompo/ttiuaftsm. CQ>m»o(itSLirfitm , vcadAim^abfum » defiim .
itiifam pra^ni, profum.fubfum , regunt cafus prxpofitionis componentis
com/«w,prxter adfum, quq datiuum .rei^it quomam xquiualec accufauup cum
ad,6cmutaac ^llecum exiflere . ^ Omnia "uerb^ redm ad
ffihjlantimt^; OM n ia^erba refoftuntar in fabftantiuam,
fam,es,f/?^ quoniam qaidquid facic aut habet mz patitur , ed:
idipfum S, faciens,habens,autpatiens, idem crgo valer, cgocurro,
quodegofum currens,proptcr caufas dictsts ;inMetapk.p.i. GH.ammaci ciincipiuntfegalas.con{lru(H:ionis
a pri« ma a^iupram , & falluncur, Prias enim eft effe fe-
condttmnacaram,6c deinde exiftere , 8c deindeager^» iQoamobrem verbum
eiTeaciale pr«cedit« LiberprimHs. Yo^
ItemTecundum dodrfnam. Prius enim eft nomina- tiuus cafus quam
dccnfatiuus} & (impIiGior eft ontio, in qua nominatmus pr^cedit
&rubfequirur;quam in qua fequitQra6bus:a finiplicioribus autem & prioribu
sinci. piendumeft. Z)< regula verhorum exi^entialium
\fecmh Aimordinem conft^ru^ ignis ducente. Secundum ordinera
conflrudkionis efEcmnt*yerba(f^ g.uficantia ajftum exiftendi : quij ante
fe exigunt nominatiuum rei exiftentis.poft fe vero ablatiuum cum
prxpofitianein ^pmneenim «juod exiftit^jextrafe exilUt inalio.. Qut>t
modiexiftendi. D
Tcunturresexiflereinalioproprie,ficutinioccxex- cepnuo efTentia:
deduc^las ad exiftentiam extrn cau- "IjEtttfuam,vt munhse^ tnfpafio\
ex hocextenla eftcxi- "'^nti ia { in temporc , vt Perrvi e9 m
hocauno^ ad in.. . iubieao, vKalbedo %n parictc ,ad in caufa ,yf
fBntiW' lyeo^ & leui in lun^his Abr^.hac : ad/« cfeUu\ vtneuseft
in' mindo Ad m roro,vt inTn^hnro jr/r/'';
^#//aiawr^,auesinaere. - /Mhes hi modi eflendi indicant
principaliterairt 'connotatiui exift^ndamyextepto^ effe in^caufa ,
8c in effiedu, vbifaltem fecundum loqaendi modom coiii-
notant. o o4 (jrammancaUum Camyanelu^ Dewrbigexi^entialibus fnncifaliter.
VErba exiftentialia funt exifto, exto , irifiim , priBl cipalitcr.
Ac cunda verba conccrneiuia aduivi -exiftendi dcducunturad ifthxc.
Qiiapropterinanco, fedeo, moror, dormio, iaceo,ca- ftra mecor,6c
cxtera huiu/modi,exigunc poftre,abIa-<: jCiuum cum pnepofiaoue Ux. Deconnotantihm
exifienti^ m^ I^H^ceFeaomneverbunfi figoificans dSendi aAiim agendi.Scpatiendi,
quacenusdmul exiftenciam con- cernunc,exigunceofclem cafuSjdicitur enim
homo pati in anipna,agercin foro,gAuderein ccckii i ; 2c
intelligere in Deo, loqu: in rapienda^^ira.q.uodiiuiluiii eft
verbum, xjuod non poflTt poft fe babcrc abUitiuum & in: quonum
.omnis aclaseciamcxiftit & poceftrignificari, vcens^dc Vjc
.exiftefls. GrammatkaUter dumtaxat exiSicn- SVnt verba qux foluin
GrAmanricaliter connotanc exiftentiam . vthomo eft rationaiis in anima
, Seo eftiufticia&inanimaii renfitiuam. Secundum rem jenim non
eftiufticia io Deo, fed Dea^eftiufticiatneque rationa|e in anima. 6^d
^niaia eftrationalis^prouc ixk Mecaphy^ docuimus. %^egula vcr
borum a^uatiuorum, tcrtium ordinem n Hru^ionis fercns. Ertiumordinem
efficiunr verba fignificaociaadunci operandi immanencem , qttt
proprijbvecacnra^us» l ' roi "& verbaeiusa(fluatiun ,
^ exi^untantefenominatiuum, & poft fc ablatum abique pri pofifione
fignificantc aftuationem eflenra: nominata; , vc ego aiuo aaiore^tu
moueris niotione arbor virec virore. Qyamqtiam operatio ex prima
impofitione indicee adumtranfeuntem in opus& operatum extcriusj
tamcn & aTbcologis & Metaphyficis folet lumiproa- Auimmanente: qui
non cMuiaexteriorisreiacquirL-n- vcl penicnda:, vcl quociiibec operam-ia:
: Iioc cnim pertinetadadionem. Sed proprin: enticacisconferuatio-
ne ac manifcflatione: 2c propcerca proprie vocarura- ^lus-.&eius
verbum efl acltiarc: iJcirco verbaha:c ccr- tii ordmis acluatiua dici
poilunt, etiaxnfi firammatici hoc voc^ibulocarcanr. uomodo
omms diSio figntficms auf conno^ tans a^lum^ aut.per modum adns fe
ba^. tens.ponitHrinahlarmo GAu(a!formaIis ,quonianf eft
a^tts.materlx, &a£tus (brma: , eius imnuMiens opus eft , &
inftru- mentum,quonilm modtficat iaidlionem ficuti a(5lus, &:
omneopus & res fis^nificans modum & aduationem6c i)arcem,ponitur
inatilatiuo i maxime autcm fi exvcrbo cftjautverbum defe formar, vc
i^/r^"/ ^'//cr^. Ahlatiuum autem hoc vercnonefl fedvocaridebec
a<?\:uatiuus cafiis quem feptimum dicunt Grammatici lioc
olfa.cie.aces^ non enim aufcrc, fed dat forinalicer. Tcimus in
ablatiuo quidquidadum figDificac:quor iiiam a^snonrecipitiir 19
iU{9>iedeitis«ft yquod aduatur \ 6c ideo' nullam exigit
pr.-Epoficionem refcreii- tem ad aliud coexidens. Ncque vuit
nominaciuum, qttoniamnonefl:icl,quodaci:iiatur,red efl vel formavet
"perniodum formxeiusiidcuco ricutcaufa formalis po« niturin
ablatiuo feu porius acluatiuo dum fuam caiu fationem exprimimus,ita&
aclus. Similiter inftrumen tumin ablatiuopontCttr «quon^am modifTcac
a^ionem 5caftuacadcertum modum operandi ivtloquorlingtta, fodio
ligone,' Ecquoniam verbum fignificat a^um cum . ponicttira^^us
nominaIiter»ablatiuumcxigit»vt€um dicimus viret virore ,agicaclione,gattdct
gaudio ^idcircc^ (X\\\m\is^^\c(l cxverbo. Diximus , auc ^
verhum de fe fQtmat , vt nonien formac nomino i & amor amo. •
Prxccrea omiiispars qux aclum cdic,cum tribuitur ' adus coti
,ponicLirin ahlariuo : vc homo intellip^ic animo^ Chriftus pacicur carnc
, cjaandofe habent ad fimilicudi- nem formx.vei organi,cam coniuncli quam
feparati. OMne noihen fecundum natutam per MetaplivfT-
cumformat de feverbum^quoniam omnis effei>- tialiabetj)roprittm
a&tim^licct Grammaticaliter tion fit!nvf«,vtabhomine oritur
hojnifico, &^ calorec:». leo,ec calefacio,&aausacforraa>
vndeformatur.po.. rjicurin abLuiuo ;&principium,quo ngicur/ .
RArio cu V ic hocaflTertum^etemm homo-op^ran» fecundum qupd homp
didcurA^ww in fe , rn^carc , alcerum calor calctacere , &rcalerei
8ciudex iuw ' dicare^&Rexregcre^ ScUgonligonizare,
&.ocuIusoeu- hzare : verunl fi nomcn pure ciTentiam dicic , non vc
ope- . rance, formatur exadu fme efFcclu ad excenora,vt Petrus
C^&pWp^^^ corpptf^Qum.autem ad esLterioia pof- * icj^
rigicur adus , vel per moauni tranfeuntis elicitur in obieduni, a idi tur
verbum facio , quoniam princeps adio* num significant bre(l^vthomifacio^caIefacio,!a:r!^cc\pe-
. trifico; AAioefgoquateRuseftadusagcntisvt ngenns, ctiamponiturln
acluaniio vtcalefa^n^ioncignis caicfacic formactiaraqna ap^it,
vtigniscalore calehicit, vcl cali- dirate, item piincipium agcndi vt
effentialitasi dicjtur - . cnin^annna iuielligeremtelicc1:u, &
mtellcdione 2cm* ' " ' telIecbip.o,(S: intelligibili fpecie ,qua: fe
habet per rno- u*arn informantis 6c inflrumenti , 6c
comprincipijadiQ- telligendum Hint LogicidiAinguuncagcntem, v/f»^i
' Verbafrimo aSuannia efsetriflicis ordinis^
V£rborumaftttaQtium,quiedamrpe<£!btitad potefta- tiuu,
vrpoffiim,valeo,viuo, vigeo polleo, queo,ne- queo, caleofrigeo, morior,pereo,intereo,
areo,vjreo,la, pidefco,horrefco,tremeo,ruOiCrefco,decrerco, cumeo, audeo,
abundo,egeo. Quardam ad cognofcitiuum, vtintelIigo,fcio,ncfcio, icrnoro»
reminifcor,ratiocinor,imaginor, nofco,intucor, Yidco ,audio,odorory gudo^
fapio,deiipio, obiiui[cor, jt^cordor Qu^edam advolitiuum»vtvolo,
nolo, amo odi, cupio, opto>lxtor»graculor 9m^reo>trifl:or, doleo, gaudeo,fruor,
vcor4iocor, iucundor» afBcior, cruci Qr, ri<Ieo,lacrymo/ur« piro»
inhio, & qjox ex his detiiu|ntttr,& componun* cnr, • . . Qvoniama
ftuseliciunrurexprineipiis^principiaau- . tcm ex primalitatibus trious
> idcirco func triplicis ordinis, &cum pronunciantur per modumaclus,
j ..adluaciuum poftulant,non foium dengnantemacluum, sed^ obieilorura ^
vndc occafipaeni trabic aftus. ics GrammaticaUum (ampanelld, citnus
enimego gaudeo gaudiomagno ;5^egogaildeo dodriuis, Scarbor
virefcitvirorey&virercic aqua:6cin« telHgo iflCeiieauSc intdleAione
,6c fpecie intelligibilij videovifuvifione& visibili.
Sedcum.ifl:iaausreferun- . tur ad obieda non per modum adlus , fedper
modum a- Aionistuncfiuntacliuaverba ,de quibusdicemusquod
exiguntaccufatiunm , vfec^o video vifit-^ilcmrcm. Sunt aucem vcrh.i
neurropaiiuia dida Grammaticisquxpaf^ lioiics^ afFcclionci
iii;ivficant/edqua: notionesponun- tur interacliiia non rcctc, oiiinis
cnim ndus pcr moduUT aclusdebccdici ncutro paUuium in iproriim
dogmate: in noflro aurcmacluatiuum \non enim fola pafTioinccr-
nenir fcinpcr , fed cum notione , 6c afFedione fxpiiiim^, Prrrrerca Grammatici
refpiciunt liceraturam^vndenno- rior «6c Lxtor, & lacrymor,fiint
iliis deponcntia ; nobis autemacbuantia non fecus ac vocara neucropadiua,
fic adiua apud ilios ex a&u ;,gc non ex a/lionj;,, Principa-*
lia autem £wea{f9ffmn,Zftl9i ^ 'vqJo^cxict^ concerne Dtiov
ftntliorum. PR.xirrca omne vcrbum ouatcnus conflruitur cum forma aut
inflramento^aur acflu, cxijzir al^Uuuum, quaniuis Gcm
principaliri2;nifiGatu rubllannuum,autexi- fle ntiale,aut acliuum, aut
pafliuum: diciiv. v. s cn i m fcr^bo pennadc fcriptione : doceo libris,
doclrina : tacio manu, fac1ionc,cruce, Paciorpallione,
cordej,crucc^iteni. aiHciorgaudio&aiiicio Uc. Regfda de a£tims
qtiartum ordinem coniir$t- ,£tipmse J^cienUtim.
ACtiuaverba funt,quac figmficantacflum caufx tran'
feuiuemmexc^riora obiecl3,propcerca^ue VQca^ ^og^ min
at^lionffm , 5c idco exieic norninntiiium Cdura^ nc;en- tis,
&acculktiuum reifacl^Icupatieutis, vc fol calciacit lerram»
Slcut a&useileadi edefreQCialitacumieii pHmalirafu
adiatra^exifteQdiveroe^rttmdem adextra: aduandi- aucem priQcipiorum
egrediencium ex primalicacibus per refpeftum ad propriam conferuacionem i
ica a£lus agen« di eft prindpioltmi > ve excenforum ad obiefta, ac
proiiw dein caufacionem. JFundamennm caufarHm.
QVnproptcr fiunt fexcaurarum gcnern , vidclicet cu- clnjLim^
pa/fiiuim, qnx egrediunrurcx poceflati- uo : ideale &:Formale, quxex
cognofciciuo principio jfi^ Hale £c perfedionale,quflBexvonciQOr ,
tioexigmdicafusexcmfarumr^, ET quoniamcaufa agens effi , qui
aljquid facic , a quaaliquidfit ipa{huaefl, quasaliqW* paticur, yeidc
quaaliquidfic:ideali^s eft inrkarcuius aliquidfic:forma« lis eft ,.qtta
aIiq]Liid fic : iinalis eft propter quam aliquid ficr perfedionalis eft
fecundum quam aiiquld perficicur, vet benefic:inftrumencalis,*per quam
aliquid fibocca» fionalis, vndeincspicmoriuumcau &ad
cau&odum.. TtAterea raiio de ca p4 caufi, agentu.
PRoptereadicimus, qupd caufaagens femper efi: po' nenda in
nominatiuo& in re(!iO)Cum a(flus cius in ip- ia expriniitur: vc
(oi calefacit cerram s ci^m veio inpao i\o . ' ^ramr^^^iticai Hm CaffiparielUj tienceexprimitur,vcabageiue,poniturinablatiuo,cum
prxpoGcione vel rf^, vc a Sole calefic cellus. Secunda dc caufa ^aticnte.
^r^Mniscaufamaterialis&paniua, quando ex primiponicurm abhuiuo
cum pr.vpoHcione de, vc de ligno licianua 5c de argcnco phia- la '
quando vero exprimicur caufatio agentis in materiali &pa(rma, ponitur
hxc caufa patiens in noniinatiuo, v£ licTnumficianuaafabro^ &PetrusverberaruriFrancifco,
rargentum vertiturm aurum A nacura. Tertia de causa idcali, Mniscaufaidcalis.
quandoexprimicureiuscaufatio vc ipfa caufat jponicuxin &eniu.uo cum
pnvpoficio- ne inft?ir,vt LupHtn terraft injiaf dentis tn
animal/^vel cr.maclub eiiisiri/iccufaciuo cuin prcxpoficione
ad,vc/;<?- mo faUus eft adimaq^inmX'^'*' Aliquando eciam in
accu- faciuo cum praipofitione fecundum^vc/^^f omnia fecundum
exemplar, quodtibi monfir atum\e fi ^quxwt enim vt bina- rius ab vnicate
, exemplatum ab cxcmplari primo : &: hic ortusperly/?^«»<i«wexprimitur.
Quartadecaufaformali. Mnis caufaformalis', quandocxprimitur
in caufa-, ^^ionc fuaponiturin aduatiuoabfque prsepoficione, vt
paries albedim fit /.Similitcr etiam id,quod eft cau- faformxdum
formalitcr exprimitur,ponituriin ablati- xio i vc pariei calce (it aUus :
5c Francifcus cibo repletur &aluus fcecu tumcfcicicuius fenfuseft,
repleturjrepie- tioneacibo,velcibi:8ccumefcic tumore a foctu;vt ho-
mo intelligit intelleaione intelleclus, & Chriftus pa-% titur
carne,ideft palTione carnisrquod in logica confide-
r^iredebebamus. Libcr primtis.
iii ^Hinfa de canfa Jinali. Omnis causa finalis in sua causatione
poniturinnc- curatiuo cumprcTpofuionepropterrxgcrambulat
propterfanicatem ,5cmedicus propter pecuniam medi- . catur: vel in
genitino ^ cum \s grcit^awz vidcndi tuigra- tiaegohuc acccfii : 6c hxc verafuntdc
caufa finalicon- fummatiua A.tcaufi,cuius viui perfediuo
autcorrup-i tiuo a(flos deftinatur ;ponitur in datiuo: dicimus enim
e- C^oferuio Regi :hxc res placcrmihi :tu noces Fabio:au-
xiharisPetro. Etquidem qnoniam omnisadus ad al- teriusvfum potcftedi
,idcirc6 omne vcrbum poteflha- beredatiuum: vt tibi emo gladiiim :tibi
amo vxorem; tibi doceo filium. Pctro occidi filiam. Semper ergo da-
tiuum aliquamfinahratem vfusindicat. Alicjuando finis connotnrus ponitur
cum prxpofitionc pro in ablatiuoi. vt eo iVIc/Ianam pro li bris, &
occidj pro rc tauruin, ^c. Ssxtade cauja perftxliorjali'
CAufa pcrfe<Shionaliscbncurritcum finali:5c propter-- ea poni
foletin gcnitiuo cum ly gr^itu : aliquando ?^cuformali, quoniamintroducla
forma in materiaacce- • tlit perfcclio • ?c proprcrca ponirur in
abhitiuo, vc 'lorro perficiturdifcipiina, 6c caufadifciplina;, ^ augetur
a:ta- rc : fons fcatctaquis^ligo pohtui*v/u, aut rratia vfus, aut
.'^Jvfum. Septimadeinjirumentaii' OMneinftrumentum naturale &:arrificiale
ponirur inablatiuo fine prxpofitione, quando fumitur vc modificans
acflum a^entis caufx, cuius efl inflrumcntum vt cgo fcri bo manu vcl
penna. Sed quando fumitur etiam vt coagens : tunc ponitur in accufatiuo
cum prxpofirio- ne per ; vt Rex per mihus prxliatur. Nam 6i cauia
agens :GfdmmaticdiumCsmpAnelU; €tiam in accufj.ciL!o
cum ly perMct poni! maximeau- temfi non eft principalis.
ApudHcbi\tosautem poni- turin ablatiuo cum pra;po(jcione/;7,vc/«^<^fa/fl
mo$ian* fui Urdanm , quacenus m eo agcns agic. Ociaua de
Qccafwnali cauja^ CAuHi occafionalis; qaoniameft moriuum
aliarum caufarum ad caufandiim , poniturin ablaciuocum prxpolkionc
f V , vtf.v raptu Helenx conflacuin eft bei- lumTroianum: ponitaraliquando^a^vc
*ib ou<j ifcd vt in- xluic racionem a^^encis. Principium quoque
iuftaroc- cnfionis ,aqua nicipic caulatio ioler nmihter poni , vc
cx nHhdici , cx inuinis rixa , cx Lipidc via, 6c hot m^. talimhomm,^
6cexfonteaqua« ^ppi^MJiMdi
fHHiijjionSteUmento. PRincipiaergo 5celementaetiamin ablauuo
ponuni. tur cum ly ex^ vr ex dominico die feptimana : & ex
li> terisoratio. ex terra^c fole lapis lignum>&acs&c.
Eie men tum enim eft id, ex quo aliquid fir : 6c mateda
aliquandoponiturvt elementum. Principium yerd ell
id^exquoaliquidefl:.QVoniampnmaiitateseminentcrcontincntin fc ipfis cauias^l^incipia.
&elementa^omnes didlos caius recipiuntiti
rutsadibusmirificeQtiflinAis^ficuc in Metap« 4cclaratum eft, De
primoordtnea BiuorufH. POrrb fia(5liuum 'verbum cxigit
nominatiiuiru rfia- {(eocis,^ accuraciuum pacicntis »
omaiafigniticantia ft^ionem f Liberfrimus. '
fu aftiooem tranreantem in patiens^ pertineb^uxvt ad ph-"
mamregulamaaiaorum, ^ iSedqaaedam dircAe funt in hac recTuIa quoniam
eram adionem dicunt, vc</^j,/</a<^,6c compofica
exeis,Ccc- (^uiuaicntia.De wrhs aSimis primiordinis. aclionem
pote^atiHiimportamibus. Sunt autem quidam adns dircdc poteftatiui &
exe- cuti ui : vt pra:rerd icla vi ii ; fico^occido/oluo, Iigo,incipio,
finio r,t:nero,pano,iuftcro , tcrreo, timeo,quero^ amitto
capio,ceneo|iib£ro» reliQquO (moueQ,|: ero,for.. mo, defVruo , iiipero ,
cogo iacio , pono , depono , collo^ planco,ptit(;^ro,remiao, inrero»pinro,&
quidquid peni- netad rem >u(licam , & arcificum: ecenim alif
a^Uones- func naruralef,«liaEartificiales .'iisaddefequori medicQr^
&criminor« DVoniam aclio proprib efl: efFufio
fimilicudinis a- gentisin'patiens:fimilicudinum ver^ alianaturalis,
vthomo generatliominem, & calor calefacit ^aiia artifi- cialis vrhomo
fcribit , anc fodic,autd omi^'cat,facit n- do aliquid fimile fibifccundum
ideam: idcirco vtraque adtio fpedat ad primam regulam diredc,
Vndeerranc Grammatci ponentes in tfuarta peutror^m verba fignt-
ficantiaadiionesrafticanastcum verius fi!)ta<fiiua,qaam amo, &
lego » (c emo, &c. Simsliter indeponen tibus. Deadiuis
primi ordinis aCiionem. cognffcintU XX tv
tmi r ia verba pertinent ad adionem cognofc i ti
ui,qux tunc vere.eft adiocumad excenfiora progredicur Vc de c
i r. r o . vi o c e o /cnl) o j moneo ^ c «elo^re uelo^maoife Ao-,
ligncreFero. QaaQdoauremnon progreditur ad exteriora sed irn. manet, artamea)vcreiata
exterius profertur tunc fpe- Aancadadiuorum ordinem fecnndario I vtfcio
.ignora» memini}Video,audio, olfacio,gufto,intelligo,lego,caileo
iapiOiCogito, opinor,imaginor,credo, affirmo, nego, exi- fiimo, pendo,nofco,
confiaero» Addemeditor|recordor» €ontempIor,tmitor^&:€. ' ,
Dlfferenria eHinter aciionem tranreiinrem»& immn- ncntem
Qii3cenimtranfit vercadioeft, vcc{oceo,&: declaro:quaenon trannc
componitur ex a^flu Sc paXsione BC a(flione. Si
qnidemhomoparicurivifibilidum vider, acfimula^lumedit, exfpecie
viriibliremobiedunofccs, &c quia ex. Anriii i>i i fprcfe bPictgS
ad obiedium exteriDs ferturiproptereavp caturaaio»^ verbum
adiuum,fefl nonDure,igiturfciQ^videOxexi(timo >&c. (untaftiua
fe-.- cun^ari3. 2>^ a^iuis ordims , aSlioncm voliiiui
imfortantibus^ ALia verbaadiurrpnmi orJmis
rpe^anr^advoiitittlS quardam prjiiuno a(flionem tranfeuntem
fignificantia,vcmanduco,nucrio,caco,futuo, mingo, appcco, ad
requor,declino, verfor^inrideo, quxdam (ecundario fignificanca Aionem.nam
perprius affec1ionem >vcamo, diiigo, fperno,voIo, cupioj(K{i.erurio, aueo,ambio>opco^,
<lieiUero>: Adde fiaoiilascorj triftoc, &c
Liberprlmut. EX praccecienti declararione rumiturhorum
vcrboru nocio : nquidem adus volitiui 5c cognofcitiui fpe-
clantpotiusadaduationcm quam ad adionem. 6ed quia referuticiH
adobie4!2a,iaduunc vlm a-diuoriun.ficquac pri- mo.rcferontuj, vt manduco,
bibo^fatuo,funtprimoa- ^Uiaprimi atfeclualis ordinii?: qiub flutseni
fecundo, fe- cundo^vtamo. Noaenim amor ttktmr adexcranifi ^uia
^rimo obie Aum mouecpoceftatiuum motio. neficmdiciumin
coenofdciuo^-Scl^^p^^e^userga ie^fcum in voliciuo j de quibus iri
Mccapffi^ DE SECVNDA S F,eci 0 a^HuorHmjictmdum Grdfnmktkos
reguU correHio. . ' ' V£rba adi ua fecudi ordinis apttd
Grjunmacicos func qucx rpec1;ancadiudicium ancad commerciumope-
iraciui principij , & propcerea eziguncagencemperfonam mQominacitto»
rem paciencem in accuiacitto :addicur ^tte terdtts iafus ablathius,
quando nominanir prectum^ aur ciimen de quo ficittdicittmpauccominercium
; vc ego accufote crimitie furri,&emo librum carolinp. Kun-
quamatttem pDnicurgenitiii9isnifi prae intelle&o abla^ ttaom|fe
babencis quafiinftrumencalicer. GRammatici faciuncTecundamadiiuorum
fpeciem: qua: exigarnominatiuum agentis rei, 6cacciirariuu
patientis,&genitiuumpro certio cafu^fignificante rem quaficadio^pafljo
ipforum. Sed reuerafaUuncur. Noa. enimaccufo,reprchcndo'^tfifimulo ,
moneo ,voluncee-- nitiunm. Nam cttmdicO»accttfo€eiiirci;moneo
tedo* Qrammaticalitim CampanelU] loris intelligitur crimine
fcu culpa furti, 6c paflionc doloris:omnisenim adio edicain alteram
habecinftru- mentum aut modum quo fit. Dicebamus autem quod
caufainflrumencalis femperponicurinablnciuojfimilicer quidquid ad
inflrumentationem aciionis fpedac , & ideo dicimus.cmolibrijcaroleno,
vendoprecio magnoprqciu- enim nominacuSc inftrumentu ,quoficempcio5c
vendi- tio vulc abl. 6c cum Grammatici ponunt non nomina- tum
prctium m genitiuo^vt cmoma<iriiy tarui,quanti^pIuTi\ . mmorii
^iuaritilibet^ &c. fubintelligitur ly pretio^ inablati- uo,id efl:
emo prctio tanti. vbi ly tanti ponitur neutraliter 6c non adiec^liuc ,
alioquin diceremus tanto, vndc Virgi- lius. Moc Jthjcttsvelit ,^magno
mercentur AtridiC, Ac quidcm Grammatici dicunt magno hoceffc ptetio
magrtl fonderiSjied w4<^«ocum pro ly ^r///«:dicimusenim'mmori-
pretio,maiori,paruo.magno^quanto, quantocumque-vc peritis in lingua
obviameflrSimilfW dicimus,magni ^fVi. ino,magni facio , floccifacio ,
floccipendo , pilipendo , hoceftpretiomagni, pretioflocci&pili. Sed
nondici- musx>/7/^a^^^ ,fed Ti/ipendo; quoniam in neutrum non
tranfit ly t/////j vt aliqua prctium counotantia. P^crl^a
iHdicialia, ^ commertium con-' notantia.: VErba
fignificantia iudicium^funt accufo . pofiul^ accerfo,
defendo,rcprehendo.incrcpo, admoneo, punio, damno, broluo^ca{iigo ,inflmulo,
arguo,conuinGo, incufo, muldo. Commercium vero, cmo, vendc^, venundo,
veneo jmejcor, & deriuata , compofitaquc exhi.v,. r BE T EI^T
SPECIE cafiopem,rigula^ €orre£ijo.. Verba rertix
fpecici 'adiuorum pofl: nominatiuum agen(is5caccuratiuumpaticntis, exiguntda-
tiuumreiillius, cuiusvfui applicaturacflusifcmpcrcnim fehabct vtifinis
vfualisadionisfiuein bonum,flue in ma- lumquidqLiidponiturindatiuOjVtcmo
tibi librunvido Petro diploidenn fcribo tibi epiftolam; • -CAufa ob qua
dathium exigititrinhacregula prima- - rio» efl: qukt finis^cui
applicatur^ vfiis acflion is 6c adVaPi lei, da.niiain «xigit: vt
dicebamu» loqu^ndo de caufi^, ^propterea verba iftapofriincvockri applicantia. Dcverhorumterti^
JpMeimtdnplmtatL.. Verborum fini adionem applicantium , quacdam funt
poteflatiui operantis,vt do,promitro, prxfi- cio, impero , fubiicio .
mitto , impartio, admoueo 3 &: fua compofita deriuatiua, vt
arquipollentia. Quxdam fpedantad cognofciciuum.vr decIaro, oCkcnrdo,
monn:ro, fcribo,dico,fero,arfirmo ,nego,fuadeo,& . fua xquipoUentia^c
compofuaScderiuatiua. Qtuedafn fpecfcanc ad volitiunm , vr commodo,
foluo,arrpgo,concilio,&ccnfimilia,apud auorcsnotanda. Exiguntverbapixfataetiam
ablatiuum cumpr^po*^ fitione pro, qoando mofatooni fi n al i caufa;
vfualis connoi»'" tatar^vtfi/i^» tdipiMUtmfrpUif^t & pane^
pro cibo, s*Exigunt etiam accufatiaum cum praepofirione*^ ouando
applicario vfusadioniun longum trahituryvi y oeftino> fcribo&mittcoUtcras<«/iP^,nedumi<iM
. irs- . QVamquaniiflafint verba apud Grammaticos da-
duiim exigenda \ nihilominus omnia verba pofTunc datiuumliabcre quandoactionem
& aclum , &, paffio- nemcum applicatione confignificamus, vt cibi
eftpe- cunia,emo'tibi folium , doceo tibi filium Grammati- cam.*
fpoliotibi aucm pennis: perfequor tibi inimicum. 'CVatulof tibi pro
magiflratu^&fimiliterly pro potefliii omni vcrboapponi cum motiuum
applicationis, vcl fi- militudinem circum loquimur ^vtmitto ad u p^o
lihis ,6c habeodoJoremprQ voluptatef - DE Q^VJT^TA SPeciE a^iuorHm
JignifiuinhHmdufUcfter aSlioncm re^ula ^ correiiio, - • Verbaquartac
fpccieiadiuorum SIGNIFICATIONEM UNAM cumduplicipafllonepropterca exigunt
poft fe duos SLCCuiatinos-.wtego doceo fcGrammaticam. A<flio enimcaditin
te, &in Grammaticam :in te WmiiKUiuh in Grammaticam/flfAv» H^cregula
declaratione non indiget .fed animad- uerfione : quod proptcrea
accuiatiui duo fubfe- quuntur,quoniamad:ioin duo cxprimiturnn
receptiuum videUcet paflionis, & in id quod flui t in adione ab
agente inrccipientem. Hoc autem jn Metaph. meliusinlligi-- mus.
Adio cnim docentis fert Grammaticam,vt padens; & qui docetur accipit
eam, vt terminus huiufmoai lationis. V Ltherfrmkfl,
VErba ngnificanciahanc doplicemadiomsdifferca- ciara
Ajncdoceo,mon?o,poftriIo,orQ,confiilo c«'- lo,^c omnia compofita &
«qui|?ollemia,& diriuaciira iftormn, ^ vt4> lurimumad
cognofcirioum videntur^fpe- ae j fuDC etiam aliqutf/ qua5adl|ai>ir6m
exrcriorcm fpeaanr>vrye.ftia,: indo<S«uo f qu» volun t duos
accura tiuds. : Sedcum reii , qua v«ftfmus, fumicur inflrnmentalu
ter^ponirarinablariuo, 6c fpcaantad quin^amfpeciem- . ytvefthfiiexuo
tefannU, Etcum non ponituranimatus accaratnius, vtpatiert. -
tisrei/ ed vt cui applicatio fic ponitur in datiuo»Yt'w«- D JS ^^JN
T A:S P E'€ Tb aSiuomm /ignificanttutn a£iionem , ^ •
falf^nem,^idquo fit a0m. /-\Viinx fpeciei vcrba aftiiia
fignificantaaionem itx ,<WaIiquod..paxiens , & fimul id, quo
excrcerur aftio ic- pi^terea poniturablatiuum poftaccufatiuum fine
nre-. po itionc , vt ego Ippl^p tepannis 5.&,flnero
JibriSi&jHvl jy ETiara infiacrcgula (Jrahimaricorum
pnTcorum a- peritur r^tio , cur in ablariuo-ponitup iti , q u oci n
on , eft agens. peque patiens : quiaividelicec; inrfucit itti/^-
,»ejnioftrumci?ti,&modi, &foxm«. .l ^'-^. OMnia verba, in
quibuspoft'patieiHcmrem,adJunt i^o (^rammaiicalium CampdnelU)
velpa{nonis,pertinent ad quintam fpecicm. QuapraT prer quxcumque
pofita£uncinrecuiida fpecie^ ipedant etiam ad qiiintam.
Suntaucemyerba,!qviint«x principalicer^veftio & fpo- \\Q
,6tomnia acguipol^nria eorumiiccttiimpleo ^ceiia- caocumruis
arquipollencibus, ic-cm iuro,&i«do,6c ipsrorumiCqttipoIlencia. S^miiiter
augeo 6c minuo, cum fuis aireclis, purgo&inqaino «cttmruisconfimiiibtts.
Secundario aucem /pe^anc ftd banc reeutam pmnia verba cuiufcunquc
fpecieiScordinis^quando exprimunc modam vot fornfiam auttnllrunoencMm
actionts , vel paf- fionis , vt rcribolibrum penna iafficio te e;audio
,planro vincam palo : Munio & cxpugno vrbcm armis;.muigo ^
ir.riCQ te verbis/ef^ionbigladioL,6cc» DE SEXTA SPECIE 4^iuorUfn
^rpgnijicannum aSionem f- fionifque illanonem.mm p> ^napio^. ^
caHfa/unde habetur^tanqHam j . inde habiiam.Erba fextaefpeciei
^gnifi<;ant a^onem , & id^t|ao cau(a vel occafio» vel principium
aftionis eft : & propcereapoftaccu(ariuum €xigitabla*im?m cum
pr«- pofitionei, vcl t/^,vei «"^vt ego audio ledionem '^ma^
Vbniam caufa ^rgens^excepro Dco, occafioncm, ^^velviTn fux
cadfationis ib*unde accipirtpropterea illud quod eft occafio(»'yel
principium» Vel caufa csu^a- tionis in a^i^ p^nietii' iin. abUtiuo
cum«ff^. Nota fan^ - pnnci'f»acioniSt vt dic^um
eftinregQlisi^ommunibp^cx MetajiliY ratibtt^ yt flifca QramfnacicSmi
rTiac'ftro;eft magiildF cauia il2dpii^<tblnan& f fi&tedainenT«»/e(l:
eiiimi Q - laberprimus. $zr 'enimliindam^iuni
principium :5c hatiiio dquamapii. tto :^u«tenas eft cau& cootentiua
aqiue» Sed vt etiam 4natem{t9,4iicimti«i^ ^iiPiUdfm^tri^ Sedvtetiam
ele- mentariS)dtcimtis etiain^ (Sc expuico , Sdneftoccafio-
nalisdicimus Agnmemndn bellom conHauir ex tiiftu • ; V^rba fextiH
fpcckL AD hanc fpeciemprincipftliter pertinenc omnia ver*
bafigmficantiapi^tcraAioiiem Ccpaffionem , id, a..qaQ
habemttsoccafionem,veI caufanonem,veI princi- piacionem ac^iioni^ \ vt
audio , intelligo , 6CGonumilias ^vtoblacio , guftp, lego , icem liaurio
, wd, moiieo , diui*
4o,pdlojrapii>vabdicO|faahpp,Hcapio,endo« Prxt^rea fecundarib fnnt
fauins regtflac omliiaverba,' in qtiibusadiiciturpoftaAionis
Sepamonisremaetiatiirea eau^tionem conferens » vndedicimus , nfft99 tthi
mahni A^Tjr^nno , H emo Iibrum|dccato^Jibrario , cupio^^/ h
emoiumencu. ELemo.ueo libruma^ienramanibus» Defiftima fpccie wrhrum
exigentwm tnji'- mifmumfr4>accufanuo^ SE ptimam regulam
addUnt eornm verborum >qua: lo- copaiientisliabetinfinitum verbum, vt
fpero, cupio, fcio, volojdebeo iieRomam » legereledionem : 6v hxc
omnia fignificantacVum animximmanentemaquo tran- fiensorituraliusacl:us;
?C idcirco ponicurilleioco adus, iftelacoefie^us^^propterea omojeverbum
poteft ad hancregulam pertmere«qnoniara aAu5adumin%r|^«c Omnia
verbaadprimalitates Mctaphyf*cas {^e^bn- cia qux runtpocentia/apientia^
amor,iuntprima- riorpeccanciaaci hanc rcgulamjquoniatn ex
eisoriuntur a<flasincranei, &exhisextcnfiones ad obie<fla-qui
func cciam adus ,vcvoloambuJare, vbi ly voU adum intcr- num amoris
dicic, dCdtmhfilare ^Aum cxternumcxillo. Prxterea omnia verba ad
obieda primalitatum spedantia,
fimilicerinfinitiuumhabcntproaccufatiuotfunt aurem ohxQckOiypafsihile
verun & l>pn»m^6L Aia ^quipollcn- tiaj vt polnbile eft, vcrum
eft,bonumeft ambulare, & fu* oppoCitSiyVt
tmpostfalfumifrulum. Cxtcraautem vcrba po(funthabere infrnitum , vt
fa- cio te currere. Sed quatenus fimul & agencem rem ha- bent
loco patientis, vt doceo te fcriberc. De
papiuorumverhrumreguU. Art. VI. OMnia verbahiibentia
lireraturam & fenfum a^^iuu; fiunt pa/fiux literaturac per additioncm
r, cuin» fuisdeclinationibus^&exigunt rem p.itientem innomi-
natiuo ^quoniam refcrturvthabens ac^umi & agentem m ablatiuo cum
pr.xpofitione, canram aftiuam, nQtante, qu^,eft A,ab,abs,quoniamagens non
vt agcns ,(ed vc aquoemana! paflTo repra:fentatur. Dlc^um eft prius
, quod caufa pofi^ca in actuagendiV nominatiuumexigit&reclum: quoniim
hic figni- :^ficateditionemadionis,adautem quod patitur, accufa-
^^tiuumrquoniam inipfum fercura<f^us Nunc autem di- • -cimus,quod cum
patiens ponitur vt recipiens adum, *exigitredum,agensver6quoniam tunc
poniturvta quo eft adus , ponicjr in ablatiuo cum A.vA^h,
dcfipianti- ' buscaufalitacem. Etquidem dicin-rtis omnia verbaaAi.
7»! ff cundu & vocem fieri pafiiua, vtamo, accufo, do, do- iceo,
audio, fpolio ; cxii s enim fit amor , tiUrprimitT
doilor,siUili^/fpolior,fperor. At qua: folum fcnfu funt ^aanon
fiuntpaffiua, vtfcquor.auxilior. & deponcn. tia TOcata latinis :
tamcn in j^ng«M^ vernacula fiunt vti- . i)uepaffioa^ Similiterquxvofie
ijyMU adiua^fod vt gaudeo, vapulo,abundo , feruio,&alia neutra
vocata Giammatlcis, ooii fiant pi|^Ef|a: ^i^mtts enim qood lit- '
texatofam , U jr^tatem ^ed^VKi^^m vectuntur in paffiuam. donfiderano de aliis
c^hs-pajsitioru??^, VErba a^fliua verfa in pafTiua prxter
nominatiuum patiencis rei, 6c ablatiuum agcncis^quofcumque ca- fus
recipiunt^jaoQ mutanc, fedretinent, vti quando exant aAiua,
ALiquando v«fba pafsiua ponont agentem rem in datiuo: vt PUmi jboc
do|nia poHtumeft , ideft d pUutit* AliqUandoinaccufaBUoapporita
prarpofitio- ne p<T,vt res, agituc per eofdem creditores. Sed in his
da- tlOttsponitorfokis.cnmagenscaoraeft fimolilla) coint appHcatio.
Accufaciunmvcricom agensponitor iaii- qiiam mftrumenrum vtin prarfatis
patetexempli?. Ali« quandoponicurablaciuum fiiie ^fieporitionej
verbama- Ximcautempra:pu{Itio, verbo|adici(citur* De verbis
vocatis nemro pafssuss. Art. VIU SVQtqu.Tclim verba
apud latinos vocata neutro-paf- ua, quoniam habent literarurnm non
paffiuam, vt va- {>ulojexulo,Uceo,veneo , c]u« exigunt calus
confiini- iom pafsiuorom « ?t di/afitL v^tf$iani kmdg^^it.^it^ Secundum
rert non fuftti paffiaordm tHimeraexplo- dendayerbahacc,c|Bam vis
pAf,iuam litmtoffam noir habeant:nonenimvox facit pafsionem , fed
fignificatio Coniimiliaveneo&Iiceo, fuftcvendoF:rapulo v^r^ beror:
exttloyceleger.. FIo eciam dkitur neutropafsiuumapud
Grammatn" cos, qaoniam verc pafsiuum fccundum rem cfl,fi
minusjTecundum vocem. Adduncenam fido, confido, U nubo, au.lco . foleo •qux
potiusadionem vtaanmdefi» gnant : U exigunt cafus,applicationi , eo
refpcau reoui-. fKos. .-i Devtrbis^ voc4t$s mutrhi Arc. VI
11. Verba d jcu^turneutra^qu^ ^ec adionem ncc pafiicjw- nem fignincantapudGrammatkos.
Sednonprcb-' pcereaneucra dicendi erant,cum &aaumcircndidcei-
xillendi dicant, &finonagcndinec-patiendi5Vt/*»i,^ ' (jorreSio
Grammaticorum. Verborum proprie neurra dici debent,qu.T aduni
acluatiuum modo figmficant» 6c funt pcrrinen- tiaadpoccfwriuum, ad
confcitiuum.&ad voIitiuum,de t^uibus diximus fupra. Quapropter pofTum
,6cfcio*,& gaudeo cum fuisafledis jfiintvere «auaciua
feuneutEtL dequibusfupra. Pxinu reguia
Crammaticorumcleoemhsfpeaatafl . verL)a,e{rendine^iim
Hgnificanria^^^ exiftcndi. Secunda , (\\)x cil, egeo.abundo.carco,
perrinet ad a. ^uatiua prophc. Tertiaqu(j eH:,
reruio.profum. noceo.defum , &: alia,
qujeapplicacionem/lgnificJanraclusadalirjuid f^e<^anc adad ionem fine
paffione explicaram , fedcuni applica- tioneadilludin cuius gratiam fit j
vtferuio recrj^confido" tibi,noceofiliis,^c. qua^verbaaAionem
fi^^nTficanr Sc<.V nonfonnanr pafTinum^quoniam nondicunt Kcxfcrui-
turameifcd R:egiferuirur,quonfam taeeturpaiicns^ec-propterea,imperfonalirer
folum firpafsiuum. Quarcare^ulade. rebus peninentibus ad
Agricuitu- ramaclusexplicantia,func verc acfliua, quoniam eriam
patiexisexponunCj& propcerca fiuntpafsiua omnino vf aro,5caror. Quintaquai
tertiasperfonasIiaF>e'nt/ingularis, tantu propcerpa,quod foJus Dcuv
poteA illos edcre n(flus , po. tius ad Theologoj quam ad Grammaticos
fpedlansi non 'rite.deciaratur. Cum enim dico , Tonat , ningir,
pluit Iucefcic,grandinar,adverperafcir, non folum Deusin-'
telhgicuri fed etiam rempus, diluculac enim fole tem- pus : ad
vcfperafcir rencbris rcmpus: irem fubaudirur natura apud phiIofophos,irem
necrec;ulaeft ccrra pro- pterhanc rationcm. Nam efl creare/blius Dei :
nihilcy- rnmus creohabet omnesperfonas: itcm rorareefl flcut
pluere:m fcnpturisautem dicitm, Rorare cceU Aerupn,^
mbespluantiulium^.^v^o reguUipforum cflfallax. Sed^ vfus, & id,quod
/ubauditur confulendi funt. SextaregnlavbiafFc<fbionesanimi&
corpornmcele- brancur habens verba, gaudeo, doleo , virco, albeo , caleo,
frigeo, tumeo, areo, conualeo, a:groto', & c.Ttera
huiufmodi.pertinciiradaauantium,fpeciem:de quibus fupra. Dc
vtrhisfigntjicantihm motum. Verba fignificantia motam cxig«fit
nominatiuu^ rci edencismotum.&poftrenuTlumcarum^ quan- do non
paflionem fedrefpecius locales adducunc,fcii pra^pofitioncs
exigencescatum. Qjiot fknt figmficdntia motum &
eiufmodi. OMnis motus cft ex cermino aquo ad terminum
ad quem per medium, idcwco triplicis fpeciei Cunc ver- mociua, vt
difcedo deforg ,tranieo fer viam^venio in tempUmitixc enim^gnificant
motumdcloco,&motum per locum,& n\otum ad locum. Quxcumquc verba
iis adiunguntur , iunt ciuldem fignificationis , item idem verbum
poccfl: tres iftosadus connotare, vt, de vinca per viridarium eo
inciuitatem. Verbadeponentia func: eiufdemgenerismotiuiphiri-
ma,quxadhanc regulam pminent, vt gradiar,trans- •gredior, proficifcor,
&c. Quomodo omnia verha reducHntur ad^ra^ fcntem
regulam. PKxtcrcl omnia vcrta quatcnus fignincant motum,
polTunt cfle luiius regula?, dicimus enim fcnbo ad rontificem,6cde
Pontifice,& pcrdifcipulum ^quatenus enim fi<2;nificant terminum ad
qucm, autmedium ,aut id, Jequoficadus, fiue illud ficvcterminus, fiuc vt
materia, <iequaqiioniam cerminia quo eft connotatiua fimilitct
^xic;unt cafus cum prarpofirionibus confimilibus, vc de albopf ries
verricur in nigrum pcr atramentum Qua- propcer 6c
acliua^pafnua,&:omniaverbaad hanc re--Liherprimusi ur gukmtrahantur
per refpeiflus confeqneotes aAiinisTe plunroiini aatem quae oe
fefignificaat muutioiiefn U - . motuni*
^cv€rbis,mcatiscommtmittis^ Art. IX. VOcatit
Grammadci verba commaiiiisfc , quas iitenr' toram habent paffiuam,&
poflunrfieri a Aiui & pa£- Sxti conftrofcum «afibt»» vt
laij^rsampledor^Teneforl cxperkWypmuotor,ofcttIoi^icriminor,,n^
Hxc ficapud btihos: n vfti uiath m idiomacibusalii Honitem.
Dedt^onenttl>us/verl)ii, .' ' Aft. 3C,'" •
Dlcontur apuJ iWtinorum deponenria qnaK baBenr liceraturampaniuam
Scfignificationem adiuani^c proinde acliuc coDftruuntux^nec ta.men
omnialigmfi. cantadioneni, . I Sedc|uncdamaduationem , 5c propterea
volunt poft feahlaciuum, vcvcorjraor, pptior, vercor, 6cconrimjlia.
z Cina:^-%niiicant aftum cum re non de qua/cd . cuiusel'ta<flus, egrediens
ab inrelle<?lu,vtrecordor,ob]i- uifcor. rer.iini^^co. qiia: propterea
exiguncgenitiuum< \ ,3 Qoaedain figniiicanc adum cumapplicanone, $cpro*
/pterea poft fedatiuum voiunt, viauxiljpryf».i^agQr:» me.
'diCOfjminorJrafcor. Quxdam fignificanr^i^ipipm, tc id q\iod patixur: «c
jwopterea exiguijt^)i?jndcacca6tiuw^ rw,c6ntiinifcor» loquor^
ptacftolor\ feteor, &cacteTam^ItP,qiK)rupiqij(E '
proptereaibUtiuttin exigQDr9'Vtlan:or«chltor, ftoma- chor»
vcreciindor, cxpergifcor^iiidignor^niorior: & silui, qu^e alios
carttsexigtinc. prottcadus r^fercttr > mxea regiu ia^ J it^s de caiitesxMilMnr^6ttao(&^^
Qjrdaai quoniamfignlfiaantmotum ve! pcrroodum IV. nus, exijunccafus
cum.prcX^pddcionibiis connoranti- ba^vl'.^ ioco ad locum per locum vel
cum alio, vcl Con- .tra aliud, vcl circaaliud^vtgriiiiv-YsP^^^^i^^^Jo^^^^i^Juc^or,
apicor.nafcor, philofophor , verfbr.ncgotior,hallucinor <auillor
^auguror, 2^ nmilia, qua: apud Grammaticos , umcrantur :qux ex
prxpoficigims.ftatMra.qups^earus .exigunccoaii;noiiftran,c. '
'iim^erJoriaUum^ * J^Mporfonah'um acliuxvoci.*; primusbrdo confVrurc
'jLtntffe^^dr^^f^^fi^^^o^ infinitiuo,vc /V/r eCtvel .Jncereft,vel
referticribere ad vos. Infininuum vei^o re- 'gic
cafumexpra^fcriptisre^ulisflbi debitum, Ratio reg'ila; eft, c|uoniam
verbafuncperfbnaliatfe fui ' >acara;; Sed cum addicut Ibco perfon
p',.patiehiis vel !ftg0n tis al i qu i s adaspefv erbu m
infinicittte facalcaci s, ideii , \t\it cermihatse c^niiiQfticAns.eKpxeflus
nec,effiiri& iUcidaseftperG*n^ccerciac,&: propcereaotjnpia
imperfo* ' nalt^ habere dicuiiair rc^orh tercias perfonas Idco
omnium pcrfonarumv..M 1 n ifeflun 1 e<t: ert!rri'i|uod q uando pohTtor
tfomifn 6c nonadiu p?r
verburtfitifiA}tum,fIuntperfonalia,dicimus eni^ Pctft
tnfe^^f^tnflihrs vcl nosPecn incerfumus: non ii*?^"^^ dicam ,
^ef^rvnu^ ob aliam cau.fam. «jC^uarea;jtentpo(luIeflc gemiiuttm ,
nonintelligic ni fi ' . quaii Digitized by GoogU
Ltherprimus. i fip xyii alium cafum rubintelligtc ex
parte vei bi vcl nominis. fiquidcm Refert idem ell ac Reifen: 6c
proptereadicimus Pctri rcfert fcribere, ideft , res Petri fert fchbere .
iritere(f veroidemfignificatac in rcen::& proptereadicimusPc-
tri interefl:, ideft» in re Peiri c(i fcnbere. Quj autern.lv ivter
confiderant non in fua originc, & accufatiuum ci
adclunt,(ubinteiiigunc Petri inccrciyioc cft iwerreiVe- Probatur
aucem racio daraiquoniam cgo tu, fui , nos» tc vos,6ccuiiis, non ponuntur
in genitiuo.fed inablaciuo fiBOiioinolingulari} vtmea,taa,(oa, noftra,veftra,&
cuia refert > feu iotereft , hoc eft i» fe meA cfi^ in tta eft^o^c,
vel forfaA in nominatitto cum Jff/ert\ vt me^ refert, ideft fef
mafert xefmLJkn ^in accu&tiuQ nentropluraii vt ' meaintereft, hoc^iff/^mf<f#)^w
Etproptereaeft vultnominatittom neutrale vtmeoai
eft»tuuraeftfcribere»cum pronomtnaprimitiuaponuii- turderiuadoi* ,
.T>efecundo ordinc imferfqnalium. INfecundo ordinc ponuntur
pertinet, attinetJcfpc-. £l:at,cum accufatiuo &
pr<Tpontione.c^i/& infinitiuOf iqco nominatitti , vt ad meipedat
fcribere : at fl nomina» tittUmadeftfunt perfonalia,vtad
mepertinentlibri-.vtin- tellig?ttexiirfBnitiU(i>;
quoniamindeterminatum fubiuit* £kittumeft,deponderc indetermlpationem
petfbn«t& proptereafieti imperfonalia Hase triaverbaadpoteftau
tiuum tedncuntnr. Nam attinetex</M compo- nitor : pertinet exper
acM^: quoniam pofleffiorei eft ad benim 8e perherum : ifpeAatvero a
fpicio , quando q uod alicuius eft ad ipfVim conoerfiooem babet.nuc /ir
per po. teftatiuum, vc poiTefrio, fiui per cognofGitiiium,vcad
ipeftus» iiue per Toiifiuum^ vtajndcum,^ QUiieficumc Ji 0 De
tertioordinemfcrfonaliHm. TErtuis ordo fimilicer fir imperfonalis
ex infinitiuo fubiequence.-quoniam continetverba quxfignifi-
cacapplicationemaftusjn determinatir&proprereavulc datiiium cum
infinito ) vt mihi plicctleq^tre 5 & concingit mjhigauderc ^fed
vbiadfunc nomina fiuncperfonalia, vc mthiplacenthhrt , d(3lentdences
& omne verbum fignifi- cans appiicacionem vlus^cfthuius ordims; vd
rcducicur adhunc. quarto ordine imperfonali$m.
QVartUJordoimperfonaliumeft de primaadiuorum,, r^xigit
cnimaccufatiuum ciiminfiHicoioconomina- iiui^ vc deleffat //«^ii-r^
dececfcribere, iuuatcurrere;- acfiapponas nominaciuum func perfonalia,
vtmedec. virtutts^iti cundis ergocumceademratio. D^quintaorMneimperfonalium^
QVintps ordb con ftruicur cum accuaciuo & infinico
fimiliccr,vcpoenicet,puder, cxdec,miferec,oporcer:
ecenimfignificacpafiionem illaram ab obiec^lo^ quod /1 efta<^lus,nabet
fe loco noininarim , \tmettdct ftHderc-At ireft res, ponicur cum
genitiuo,vcw<f tadit fti^diiiSi qiudc - iiocgcniciuum regiturab aclu,
velabaliofub intelIc<n:o nomine,quando egodico,me
paertitctpeccciroru.rubau-. dicurajfluspecatlT&me rcdet
ftudiijubauditur exercitiu iludij,6cfnemiferer mfirmorum, fubaudicur officioinfir.
rnormii rJiVahqnam ennn ponitur genitiuus, p.i& qiij^prjp
intelligataripfius,vel vtfepfe probacum dl in rcgulis- prioribas : vt
videasomnia verba imperfonalia ciTeper* fonalia,&pertrneread
efTendum^vel aduandom ,vela- g^juliinuf el gacicndum^touliil
vltra:Scquid^ad aftua^ Liherprtmus. n\
tionem affedionuin rpcchanc verba quinti oYdiris .-'^ ca
tranfeuQCin nacuram adiuorum|,dnm obieda coniide- raacar, quaceniisaificiunt
faculcaces mouencque. De imferfinalihus Pafsiuh^ Arc. II. \
IM perfocfMiai^flioac Vdcis exiguhlf^atibum agcntis caofac ficoc ^asterar
paffiua :£c poft fenoiiadduntnb-* m{natiaan[i,alioqfiiii nerenc perronaliiifcd
quemcum- qu^aliumcafum ,ddmmodo paflionts non recepriuum, fed
vfus, aut applicationis,auc circunftantix , vc a me fer- ttitur
i?^^i',icurin filuam :6c propterea Hunt ex verbis a £tiuis,&: neutris
appficatiuis & motiuis , 6c exiflcnriali . bus, vt n 0 cet ttfyamb
uUt nr Jta tuf ^xxon^wtQm dicimus^</Rf- detvr^ ^ux.mctalle[cittif qiioniam
iftorum palTionon transit: neceftplenc paflio : fedmimanec,&eft quafi
adus aduansverba deponentialicf t fecundumrem po/Hncef^
ieiimperfonaliapa(I]ua,vcpacec intuenci omneslinguas, tamen apad Lacinos
non nanc ob vocis 6c iiceracor^ im- pcdiiiiencom.
Deimferfonal^ineutrisL ' BEnefit
malefic,racisfic.diciittn3riniperronaUa ne«- cra^quoniam nec cum adiuis
nec com pafliois viden* tnrnomerari apod Ladnos^fed com neucrit:&
tamen iecundam rem veri paflioa fonc, licet non fecundum vocem
,&quoniam applicacionem connotant,exigunc datiuu|ii,vc a me benefit
egenis , racio ex didis pacec: in alii$ omnia imperrouaVa fiunc paifiua
non aucem ne ucra. ij2 ^rammatUahHm QampanelUl
De wrBisfirmhbHs^ SEruiliaautcmverba non funt perfonalia nec
impef- fonalia , quoniara induunt naruramcorum ^quious-
addunturadinftniriuum : funt autem I acc, incipio,dcfi- uojfoleojpoflum ,
debeo,dicimus eninv, tg^di^i^ psi^f^ tentiamdgeriili mt debetpanitert,
Ratioeft quoniam TCr- bxtfb non fignificaucadus pteaos , fed aUonim
aftttmn aliquid » videlicer principium , aut finem , auc mo^ rem ^
6c propcerea illorum aAwim nattvam fcquuiif. fur idicinKM enim : eeo
incipia legere , qnoniam adiu^ qui eft/p{m ati<|ttidefteios inceptio
:6c propfertaad oa». totametoatiahit ur. Seddeind e di^iT^y^^ jjP^/^f^*
ttwug» ^dcjtaJittnim a^om-fnotadus. Sedfi adosferuilis eft
plenos non>cran/ir in nnturam iaiini ti ; non en im dicimus, vuh
t^^ere , fed ez4 v^U me tadtrs^ diamus meporeftra^dere
,'obimperfe6lioncma- ftuspotendirfed non dicimus, me valett« dere,ob
pleni^ tttdincmadtu^k VakQCis^qaj nopaliejaacurdfci Dalium.i^-
Deinfinitiuis. PR.opeereat QfinitioftTo!unt
anteft'areiiif3ttfiium,quoi niam regunturabalio verbo: cuiusadum
excipiunt tanquam cadentemin fe,vtin perfonam patientem ,ct- iam fi
non fit p^ticns-yVt certumellmeanuire >vbiadusccr- Cirudinis^cadit
fupcrmeamancem; ^*' Quando verbum aliquod carcr pra^terito vel
futuro in^ fimco» refoluiturper lyt;/,aut^flc?^i,in
fubiudiuum.quo-^ fiiaQi^vccrqu^ alL modtts comua&iis
ciibos£umis in porttiHMtionibushic detcrminate,iniinitus vero
inde- tciminatc,vidiaumeftpriu$. . 'GErundia reguntur anomine
fubftantiuo, & fic funt gemtitii caftistauia prarpofirione ^c/,
^ihicaccu- fatiui :aoti«,vel^r# v«iil#,^ficabiatiui, per (eautcm nu
htl fttfitiiifiparticipium verbi nomimrque,& aliquando
famttotBra(beaaQ^iii|iiando robftantiuc exiguntr^ue dtfasfiipfum vcfbonwit&com.fe»
pr a e ytf ti^ mus], Mib4/Mif#ir/i#&i; pomn«r
IfsnwiterinalibtiniaL SVpina edam
funt participiorum rcs , fed indetermi-- natoruni,niore infinitiui, &
propterea reguutf t ab a«- lio nomine & verbo ram adiuai Vt ##^jiu/w»
}jqiiam • Departtctpns.. SEit funt partfcipiaiecondtmi rem , tria
paAiia.vra^ mabiiej amatQm^Sc a.maDduni , & tria adiua vtanu^
tioQmamans 6c amatlirus. 'jtriuiSiU enim eft q uod poteftt Jim^ri
refertur a d ai|iariQonl e qubd pdteft amare. ^*. ffU/«» eft quod ado
amator , 8c refcrtur ad amans l^a. *4iM<raA^eft qQod^mabiror^aot debct
ama £c refert' :tQradaimaforQmgd
eA;^de)imqM (i^cumqttealiterTeffrrtvfiifflrQi*.' Grammatici non
a^nofcunt amabile &amatiuum, xdificabile& aodificariuum
inter|^rticipia:& fal»- lunrurrh^c eoimparrem^apiunt a nomme^
partem^l* verbo : & res;u^nt cafus fuorunl verBorum : dicimos
eofte^ knif^misiUe ^ te Sedam^nttnm non dicitor con^accofi-
lus fapi t qiikile verbo.namtt* ly dmam cum fumitur
nominalicer exigi c genitivum, non accusativum i vt Petruseft^j?;??^!!!
tui^ fed etiam aliis par- 'tictpiisaccidit. Participium autem fucuri
pafMui tranfir, ingerundiumex pncporicionibus 6i fubftantiuo Aibfc-
quenre nomine. Hmcvidemusquod quaniam a reegreditur adusid- circo A
nominc e^^redicur verbum jOrtab^^JiM^-rjfcui^rJ^d pacre pacrizo ,
deindeakvcrifquc participiwm , quaii. do res cum fuo adu concipitusfimul
, & a partkipiis ee^ runjia ^rupiiw^.infiaiiapiMBiiti & fucuri';
quidquia ;G/aj^wwWiJswaniimaduerteni)esiiliterdocedf Ji: QTArM
E-N. CVnt verbaneutropaffiuatriplifli aAkoparticipio in- ^\ip^it^ytetmmis^ci^t0Hii^C9nat^rw$i
& duobiis pafsiuis, vtftrwl«jSc«e»if»i«/,v Ddeapparetqu6d aaiuum
prarte-! ntnmdeeftplnnmisverbis/icutpafsiuum pr^^fens aliis multis.
„ Qja^auchornm paffiua Aoufiunt, pnm is cribus jRint
QQtiten^^pladens,pncims , dr^UcUurMf , folens, folU trtf,&
fclitarus.qiiomodo autem agnofcuntur ex nacurj* adus paf ionis,&
adionis, &^dqatfonis,& exifteniic no- iUerimus,vtfupra.Utiuorum.
Comparadua propijereaeKiguntabI^tj9iinj,^Hodk4 ad quod comparatqr^i^^Jb^xi^fl^^
forma , &iBenfani: vt tf^l^iilfgSift^^mySi aoiemp^o. natur ly quam
cttm no^i^tiuoiijftcs ^minam Pe^ truf, fubintelligitur
verbuihfubfliandale.viij^/rr^Ai^ SVpcrlaciua vero exigunc genidunm
pluralis numo-' ri^velreipluralicarem includentis, vc
taescUa^ims ' jjj
rcfertur nifiad numenim. Sed ii dical , forti/simut fuptr
i2^«u;;«7j,tunc fuperlacionis adus bene ex^rcetur bfer prxpoficionem
CKcunilaneialera, vt diiaUin*'eft.Vcum depraspQlicionibusageremus.
; DerationeparH^ tpiorumin/nmerfah QuidquidGrammatici dicunt
de nominibus parti-- ciuis & vniuerfalibus , pertinet ad dddrinarh
de pronommibus: omnia enim hxc fiint*pronomina ioco propriorum
nominum pofira. Smiilicer &parronimicaj vcdi^bum cll: ihi/unc pronomina
gentilitia, vc prLtmieies^ cefartanns , dommicanus , quncaliquaDdo abfque
substantiuo incclledol nominum racionem habenc adiecliuo- rum.ficucfuoin
locodiamneft. Ratio denominationis iftorum ex Granimadcoroni vfu
agnofcenda eft. Ratio , qiia gemciuum aucablatiuum cum pf jef ofitio
• ne exiguht, patet cfr rfegults coratmunibus : dicimus cnim *
fmsye/fmm» tc^idsill T^ii/, quoniam de numero vnuili
vnDsfubaudimns. Flgurarum alia ConftfUifkionis,alia
verboram^alia fen- centiarum. ' De Figuris verbo funi Jc!rencenf1arum
diximusinpoa- tica.Rhecoricajad hasenim artespcrtinenc.
Fi^ura conftrucflionis propria GrammaciCorum eft cum A
commudicdnfui^tudine ioqp^ndi iratiohabfliter' difcedunc; -
^iiv^Sdj-i^ ^^^^r^P^ vods^fifrvt/ifrli^ww/^ic ^ffmMhiitQ MUrmt %ens
aWa : vt nefiU ^suimfenke tnhisniHatmnimlldmt In Iii)guavuf{;ari
pforiinacftli^c ' fiigiva,nam pro poiiitui v^fsc v^Proicpfi;
cttmtotuminpartibttspracfainicar,n^i7?i^^ pulifiudinr. aliasphiiofephU^aliui
Grammaiifm.C ftudet. 5 Aotipcofis ponic ca.iuni pro cafu clegancer
vc chtm ^quemdeiifiinokit qitauurbai dcdit. Elegancius aut
prxponirur relatiuu vc , quem dedtfii eunucham^ quas tnrbas dedtt,
Ecquidem dumaduspafllonisrejpicicurplufquam adlionis ponitur in
acctifatiuo cocum nomen cum pro- n o m 1 n e . S\m\ zcr^uorum eqei Ith ro
rum^ ^i^t^ndkUi eoim egeadiplusad fe craliic quam dandi. 4
SUabifauis eft,quidam Gr/^coFu loquendi modas:(e4 cameaapud nos
fpaifieati^ dici poiTec & fic cum adie- itiuum
prxdicaciVopalaturftbiedo fubftantialiter^Cc / pr^dicati
fubilaatiuum ponitnr in abkdoo vel acCofiu Uuo.JtiBfsaligsdeniiti
ViliiniiiMs «lioc eft bahes dinies ^tf«ia<Ujiiivel,
ifff^«ijtffiytanquamin(bomentaIi, .ant forraali prsedicato,fpecificat enim id
qoo tu es tahs fi. liejormaliterfiuein ftrurnencalicer.iiiue parcialicer
: dici« mus enim acdrtffks enfem\decorattts Uteris^ drc. Evocatio
ert cum pronomen cacetur, & eiuslocum /upplec nomen , vc trots
reytmuSyifxo nos iroes. Zeugma est cum
vnumverbumveladie<fbiuumrcruit i)Iuribus,vc P*em
d^Hamni^alcrudelisefl' vbi ly^-z^eciam y funt vicem gerit. Similicer
& patet fltj /stntdi^wk vbi ly digni tii^m ly ^igfliri,Iocum
habei^ 7 Syllepfis eft» qoaiido fin^larisnumerus comprekesft-
ditor iipiurali tanquam k dignioh» vt Vux & miutetfr^ bdsitnr.
veirexusmafculinus comprehenditfacmininomy vt Ren & Regbsdinfiifinn.
AltqaandQ etiam nettcram,ve ienss & memeipiumfimetenli. Sed in
Inanimatis neutmm concipit maibalinttm, & fcminimim , vt ficus
ficulnea , ic fyrumjuni iena «^cimos & Uhr , ^ velnftds funt
cerf^ riviilia/ide(ivtiles. Appositio fic quando fubftantiuo vni
aliud apponicur, vceius dcclaratiuum in eodemcafu, \i yEffodiuntur
opes^ irriumentamalorum, Quandoaucem noneddeclaratiaui Xokcppmio
g.eui€iuo,vc fuo in loco dcdarauvnus.
«SSgH^SS?» -sg^^^it _^!8g^j^2» iag0 Oftquam
dclocutioneTocutifumuSideScri. pcione ,CC Leflione fermo debecur.
Siquu dem Grammacica eft Ars red^ Ioquendi,5c fcribendi , &
legendi. Triplex ergo illius a£kus ,videhcet,dicere»rcribere,&:
legere: iic^t primum f\t folum per fc adus : fcribere enim 5c lc-
o-cre eiufdem accidcntia propria. Vefimtio fcnptionis^ Vldeturquidem
/5:r/W,e(Ielprum ///r^rr permanens: Jicere ^uiehi/in^ee tranfiens',Hoc
autcm ex rece- ptiuoinftrumentaH^nanautcmprincipali.accidit. Ani-
ma recipit principalicer orationcm,tenetque : fed per a<5-
rcm,6c cartam, vtpcrinftrumentaldicenris^ AcJt autcm^ cumfic
tenuis, figirrarque nonbabeac proprias , recipiaC'^ qae facilealienas,
non retinec ob fui inftabiliraceni , pro - prerearertnoineoeftfcriptio
cranfiens. Nec nifi feniel audiensanimapercipere poteft. Vtautem pluries,cercuf-
que,& obliuioni non obnoxiusfermo fieretjperlapidem, autlignum,
autaliam quancunquefolidam,conflantcrn« que molemjdeoquepotencem
feruarefermoncm^qui in acrecuanefcit',loqm ^gyptiusTheutli, fi Platonis Philebo
credimus,adinuenit : licct ruccenfeant lilijquod negligentixcaufam
ftudiofis dederit. Lucanus autem Phocnicibusidadfcribit. Philo £cIofeph
ancediluuittn» Enoch excogicafle induabus cohimniS| memocant.
Llcerxergo infolsdo auc inTimc^ vc charaAeresRo^ imnnrnrn
inrrfa r mir iininr TrTypn^jnphnmm notula^ferreir^saacranLnhacin pagina
excolonscetri» velrubrileneatx fucco. ' . Jiiimitatione rernm
in di^ionibHs (f fcriftiombus^ . Art, IL
^^Esinnatutapofitac imitando idcas Diuini inteir, Jfe<fbusrunt
venu: ctenim,ait e§ fuiffkl^^ j^j fimtlitttdo, Inteliedushumanus
iniicandares,qoa9^ ^^(ferciDit, ac proinde intcUigendo eas, ficuti func,
ve- ^xuseft. Concej^cus enim obie<aavvndcrconcipicur, eft
£millimtts«S^mo yocaiisimitacur canceptiones,feu no>
l4onesmeiici$ii|9a£^ inJPc^cicalacijlsd«^ jhonftramiis.. ^j^i^ caodem
fism voQjencK^ propcere aqvie^ramn4o,eas figuras imii^ri conuenitf
quasocg^Mndo menci^ oociones perinftnimenca vo^ ~ t;gucgtf «l^ngaam^ palac
um^ab Libertmius. in ittt fpirAto figuramus. Hinc
Alphabetum elcmentA vocis explanans inuentum eft. A t varium , atoue
multi- plex apud nationes mulcas ^ qupniam imiuri iaem variis
jnoduusinuenere. Jmitstio per cbaroBeres. ALij quidem vno
charadere fcribant vocabulum v- num i 6chocduphcitercontingit,vel
delmcatione imitando, ica'vc ver. gr. O, fignificet panem . & t^,
vmum. Sicut Chinenfibus vlurpatur jexquibus iliedodior.qui plures
charaderes fcic : quoniam plura vocabula 5c res* Afcenduntftutem
charaderesquailadodies mille. AUj verivtunturfigura confimili,vti€gypcij
,vel rym* bolicaiqueinadmodum Chaldaci Planecas, &iZodiact
/ignaiisnorancanimalium guris, qua in eircuii parti»
builocantur^aatillorumaliquid pingunt,TtproTauro corjiuaTauri» caudam
l^eonispro Leone»j6f<b. Sicut Aftronomi spfbrum haeredes adhuc
Ytuncur; queroad*^ modum i£gy pci j myflicelaibunt pro Deo^diaraAeiem
•^lis.qui Dei ftatua eft i pro vbertace comucopiam, Sce. parti^um
vocis indiuiduastvc^ebrxi, C£idti^^^||amv Gneci^vemntamen
charci^eresfcn. pferutitf enim,qux fola arteria
profeninta^Thltpii^Hiififcfa^^ quod camen inO,& /jfoliim
oUrct^Stliif^, redi^s pro vociilibuspundis , vtunturj corifonantes
autem figuris, quacfimiles funt inftrumentis,quibusformantur; vtAf^
quoniamlabiis compreflisfbrmatur, pingendum efTetfi- gurareferentelabiaduo,C,
ver6, quoniam sumiratelin- gua: tangenre dcntes fiiperiores formatur,charadereid
fingente delineandum : ficut in Poetica docuimus:. vbi quomodo cxreri
charaderes formaBdieiTent a lin gttaruminftitttt9iibu»9<C^ui
fignificaiiopt deferuirear, cpi]ifidei^uimi»^ ij^ Ut cum
fic cenuis, figurafque non babeac proprias.recipiat- que facilcalienas,
non retinet ob fui inftabilitaiem , pro- ptereafermoineoeftfcriptio
tranfiens. Nec nifi feniel audiensanimapercipcre poteft.Vtautem
pluriei,certaf. qae|6c obliuioni non obnoxiusfermo ficretjper
lapidem, aut lignum, autaliam quancttnquefoiidam,conftantemI
qttemolem,idcoque potentem fcniarcfcrmonem, qui in aereeuancfcit», loatti^gyptiusTheuth,
fi Platonis Philebo credimus. adinucnit: lic^t fuccenfeant illi,qu(>d
uegli^enriacattfaro ftudiofis dederit. Lucanus autem
Phderiicibusidadfirribit. Philo &Iofeph anrediluuiuiiv Enoch
excogicafle in duabus columnis, memorant LJcerxergo infolido aut infunt, vt
charadcresRoI - /manorum in cera^ a wt a wKmg ^-nrTypographorum
liotulx ferreas jaut funt, vtfaacin pagina cxcoloristctri» ycl rubri
leneatacfucco. Peimitatme rerum in di^tionihs fcriftionibus
Resionana apofitaeimirando ideas Diuini intelle- Ausfuttt vene:
v/ri/^i etenim ,ait Aug fuifffin- iipij fimtlitnd0:
Intclle<fiushumanus imitandores,qua» percioit, acproinde intcUigendo
eas, ficuri funt, veruseft. Conccptus enim obicao ,vnde concipitur, eft
fimillimus. Sermo vocalis imitator conceptioncs, feuno-.
lionesmentisivtinprimo libro, & in PoeticaJatiiisde* monftramus.
Scripturi tandem fcrmoncin vocalem, proptercaquc fcri bendo , eas figuras
imii«iri conucnici quascxprjraendo raenttf notioncs pcr inftrumenta
voim Lihertmius. inicre fpirAto figuramus. Hinc
Alphabetumelcmentt vociscxplanans inuentumeft.
Acvarium,atciuemulti- plex apud nationes multas j quoniam imitajri iaem
vanis modufisinuenere. Imitatio per characleres. ALij
quidem vnocharacflerefcribunt vocabulumr- num i & hoc dupliciter
concingic , vel delineatione imitando,*ita'^cver. gr. 0,fignificetpanem.
& f^,vinum. SicutChinenfibusvuirpatur jexquious illedodior ,qui
plures charaAeres fcic : quoniam plura vocabula 2c res. AfcenduntAUtem
charaderesquafiadodies mille. AUj verovcunturfigura confimiIi,vt
./£gypcij ,vel fyin* bolicajquemadmodum Chaldxi Planecas,
&iZodiaci flgnaiis norantanimalium figuris, qua in circuli
parti» buslocancur,autiIlorumaIiquidpingunt ,vtproTauro cornuaTaurii
caudam Leonis pro Leone, &c. Sicur Aftronomi ipforum ha:redes adhuc
vtuntur; quemad^ modum y£gyptij myfticc fcribuncpro Dco,charaftcrem
Solis,qui Dei ftatua eft j pro vbertate cornucopiam, &c. ^ Alij ijTiitantur
particulas vocis indiuiduas: vc Hebrasi, Chaldi, Latini, Grxci,
veruncamcn charecflercs fcripferunc parum imicances. Vocales enim,quar fola
arceria proferuncur,fimplici lincafcribendaefiTent: quodcamen
inO,& /^foliim obfcruatur. Hebrarivero rediiis pro.
vociilibuspunclis, vtuntur jconfonantes autem figuris, quxfimiles func
inrt:rumencis,quibusformancur:vcAf, quoniamlabiis compreflis fbrmatur,
pingendum elTet fi- gura refercnce labia duo> C, ver6, quoniam
sumicate lin- gua: tangencc denccs fuperiores formacur, charadereid
lingence delincandum : ficuc in Poecica' docuimus: vbi quomodo cscreri
cbaraderes formandieficnt a lin- guanimin{licucoribus,5c^ui
fignificationi deferuirent, confidcrauimus. Dcnfimerofii Hramm,
I^expreffionem Jdeoque lid vi^ti oclo in primo Libro illosreduximas:quorum
viginri duocon fbnantes, ficdiAxJqaon.iam inftrumenrom verberancium
aercin concurrurormmcur. Iiein quoniam coniunc^! non pod (unr,ni(i
perv )cales- vc Pbco m Sophifla^uiur. Anibesetiam vifTinci oda h.ibcnt omnes
conlonanccs pro corundcmronorum diffLTentiis exprmendis; inquoa-
. bund.inr/Trcs auccni vocales . quibu5 ramen vtuntur vcqninque ,
ficu, orJincqLie vanantibus. Hvbrrt vigioci duas conronantes,fiquidem pro
vocalibas , punckis. vrn n ni r j Vjixh i Xj q i i i i Vf mmm 111h ' i 1
1 f i r m fimplicibus, ' vtipfi purant^-tt^Spic-fl^d cOftmA^^^rfi^
in^lar. Nobtsaureminlcaiica fingtiahac ratione torefl fcntdiphchonc^i
,ouot vocalittmcopulstjVtplanum eft, Galii prunbiifdipnrhongisvtuntur.
Grxci vieintiqua* ea6r habenfftedras • qnarum fepcem funr vocales ,
quoi. niam {),& Jf, ftrifti &lc;apud eo$ , ncar& in
aortra Vulgarilingua, prbferancur/ Natfones excedenres hunc numerum
viginci o£bo, ftorfvidi, nifi Iaponenfes,qui quadraginta ocko Htteras
habent i quod cquidem inde eucnircpiito .'quoniam cotifonaTitesduas
conflanc in vn.im, qiicm adinoJum nos X , pro 5 , 6c.C, vtimur. Sic
. poirjmLU hccerasifias duplicf*s (-acere: vr pro , Z , .fic
character vniisraiiiis pro i?, r^^\m:\s proP, ff, ^cSicwii .
vci'niir^?^. (Sc rr/Ti. 9. pro cnbiis fircensiacque i pro da.ibusi^c.
obuia iunc /vlla^:vrnm varietatcni peroeiidenci •• fiquidem,
vtdiclum eltin primo libro.aliae lyllabxcondituunrur ex vocah vna . vr
ahaeaddunr irocaliconronafitm^TC^^^ali^ dmr^v^ Ba\9i\\x trcs^
vt(^'SaIisquaruor;vc ^/«^aliacquinque>vc /f4n/,aha:fex,
yc//r/^/.NaIfibiatttepltts vcucvocaUiQtfiindiphtbongis, Lther tenias,
/^t G ^riii-inoram verS Sc Polonorui-ii lingn.i feptcni 5c
oclo coiiloiiaQCevvnivoci^ .lih^Uiu Caius ranon^^in in Phy-
fioio^ia ^iximus. iNfonreitU camen AriftoteJes fyllabas poHe
exfoliscon^bnancibusfieri docet}nulIumenim fo- nani habene, aiCiexvocali
«caiadiUncconfonanclo. Poflontenam literqper pun<fH
miilciplican.-vr Ara^ bes 6c Hebraei faciunt, vt P^c^m pundko icruiat pro
du- pltct P ^CivaAxttt & vocales : ynicuiqee ergo regula eflr
vfus: Philorophisautem ratio. vt
B.egiila{igurandarnmlU?rarumi DRhentin fe lirc^T
appiri^ntamhabcrc elegantcm, claram,diftin(flioncinab inuiccm pcrfpicuam.
lcem occLiparc mo hciini Ipanum, nec fe inuiccm impedire. Proptercn
vocaIc^punLlis,& ficu vtiliorcs,quam iiguris.
Formodcharaderes-A^abici, mirhieUpr.ptenn fpa- tium niiilrum
oc4?upant. Occurruncpun(fla htiic defe^ dui. Hebraici graucs fd non adcodiftincl
i,nec figu- racu faciles; Lirini diflincki ,clan : arnonfatis
elegan- tes : Gr«ci,clari ^ forjiiofi> exigui, niodicuni
pccupantes .fedexpa.rte^coihplicati-. . Aliarumnationum Alphabefa
conrulancnr. T IcercTLacinrc pro liceri^ tancum valcnt^Grarc.T
pro ^liceris & numeris i y^lpha enimdicic A , & vnum : Hc-
braica:proliceris,& numeris,6c vocabulis: Aleph enim figmiicat /t
^^vnmHyU princiffem , Bech n ^(^uo.dcd^mm &c.Propterea ex
JitehsSLabbiniphilofophantu*aoi^ivi^AQagrammata eliciunt, : '(jrdmmdticalium
Cdmpdmlld]D^ra Mnefcribendiper vfiratasHteras. Quoniam careinus Alphabeto
mionali imitanw prorfusinftrumenca 5 nec rperamtts illud nifi a
nou^ lingua ccondicore^qui vocibus res^& voces chara^leri-
bttsadamuflimmncecur. Ynde facilferebusinrpedis ip^ fisdifcerenrfiomines
ducefimilicudine^ l^gere, fcribe. reque!donecergo^liiigttam,&
charafteres proprios Plulofopbisedereiipndacur, vteodum conTuecis in
fcri* bendo. Proquofcqucnccsdanturcanones. I Literasclarasa
propnafigura non defcifcenres deli- ' neabis , vna continuaca dimcnfione
•, ou{eiiU^pier> vndc fjcilius duci.poce(VprrroTaTft calamus. ^^-^
X Literasmaiufcufas Scminufculas obferuabis in omni ' lingua ,
qu.imuisHcbrxis id non vfurpetur. Maiufcuiis vteris in pnncipiis
orationis , 5c in omnis perio Ji princi- pio ,&nominum propriorum
cxorjiis. Dicimub propria Jndiuiduorum, prxfcrcimhumanorum , rcrum
nomen .^curam fortiencinm indiuidualem • vt Perrus honio ytc
Bi^ttneUns ^aais. Icera earum rerum , de quibus fcrmo teexitur,
quaccunque fint> eric maiufcula exordiens Bgura. Cum enim trado de
SoIe,autdc Aqua,attt d« tnde in'Phyfioiogia > dico Sol , Aqua , Iris ,
in toto rra^ : &atu. Nomen aucem D ]g I tjRtiii|^^ pie^f^^^
^bendumdbcec. Omneslicerae vnam diAionem
(romponentes , nmnl ponantur ; nec incer eas pond:umtnec fpatium interttcni»-
relicebic,ad retinendam figno rei vnitacem. Onwaee- nim cns necefTaric)
vnum eft. Dantur in vulgan linj^ua apudnos, & Arabeslicerarum
copulaceiufdem vocabu- liiatextrcmxfigurccprxc edentisextenfioadprincipiuni
ponfef^uencis,non inepu» (iperfpicuicacem iedionis uon i /4!
intercurbat: alioquin fuc;ienfln. RedeTypographiim-
ittfmodicomplcxus omncs fuflulere. Si]uandoin fine verfus non
poceft rerminaridic^io^ Arabcspriccedencem excendunt. Si poceft finalis
rcci- pere excenfiones : (in mioLts>amplian(medias. Alixve- r 6
nacionesapponuDcnoeulas, quibus abfoiucain non eC- ie di^onem, fignanc,
vc in noftra fbriptione apparec. Vbipraccerea nocabis, qaod vna
licera^qu^ eftin finj? ver- rusfpacittm non habec>in quo fc ribatur,
noti eft pohen* do vck principio fequencis: fed vel coarftanda
cxcecis» vel incegra fyllaba, ficamen non eft vnias cliafa^eris,
afportandaad fcaitends verficali exordium, Francis ca* jnen
concrariaseftvfus. Omnesdicliones^&fingulscreorfum abaiiis,non
per punfta incerpofica, fed perfpaciola diftinguantur.necon-
Fufiofenfuumfiac. SpaCioIa vcro incer liceras ciuidem didionis finc n:q
ualia : ne videancur didioncs dua:. Caufa breuiracis folent,vbi duplicanda
efi: eadem licera,apponerepundum Hebn-ci medium in omnicon-
fonanti> nos titulum fuperponimus :fed foliimin N-^tC
Ji/,dapIicacionem exigente,6c folu fuper vocalem , aut Ciaefiiram
confonanti caufa breuitatis. ScdaUceralijipia Vtuocar.
Confulenduseftvfus. Nam,f>fr, fcribimusfic 9^fr^%^pf9 Similicer etiam
vfus eft in dickioni. bus feruandus. Nampro didione liceram
^liqaando faibimus. Siquidempro enim,fcribimus.«.pToautem ,4.
vcrique pundacam ; pro verA jv. confimiliter ali- qoando paacis
liceris^pro mulctSy vt pro vniaerfidicer J&lr> pro,^0tf8lM,qm.
£ft|eciamTfus Arabam,vtalifereamdemritera[fi>rm^t in principio aliterinmedio,
aliterinfine.Noftrate 5fblum JW,infinedefledunr:nam pro w. vtunturi. sxlnquaz,- % Obrcru<\ndum eftjneeadem
abbreuiatio alicer alibi fignificec: fienim confufionem paritr vnde
rudicer qui. dam, locopfr,&/>r4',vcuncur/: & fiquis
nouamabbre- «iaturam intrudit, perpctuo ea^Ttarur^femel ramen ita
fcribat clar^ ; vtin allis di&ionibusi Uaptimaicrijua fitlumen»
aneUnf. Ponende eciam fuoc noculx tonorum, qui dicun tor ftccencas,
vrpronunciadononaberrec. Suncaucemcres, actttus y qui acuit,
eleuacque ryllabam.:grrf«/i , qui depri- iTiit:
f/w;/?fxrt/,quicomponiturexacuto, & graui. Pki- ribusabudanc
Cocincinenlcs, quoniam hiis iuonofylla- ba, funtomniavocabula.&plura
iiguihcaiic,pro pluraii vanetaceaccencuum. Teflc P. Borro. fo
PonicuracccncusTuper vocalibus: quoniam vocales func lyllabarum
lubflantia , &: anima j conlonanrcs ma- teriaiicer fe habent^^
acadeatalicer quodammodo yei tanquam corpus. T I Cum aliqua
vocalis in fine didionis -caditper (yna<'> ]a:pham«vtimurin
lingualtalicaaccencu furfum retorro« Graecisquoque v(iirpatur,l.at Lnisrar6»nifivbicadit
femiuocalisapud Lucretium) qui dixitp/^//7ii'; ^uhte:frj9 ^
A^2^ndix ach. Art. da^' X. CHalda:i> Arabcs, Hebrc-ei a dexcra parte
fcriptionem exarantad fi niflram Grxci, Lacini, 6cali) ccontra. Contenditur
vtrum redius. Antiquicas, auchoricafque facra: Iingu« fauet illis : iftis
vero Phyfis. Magis cnim fecundiim natttcam eftab iniperfc<5lo
Scfiniftro adperfe- ftum dexcrumque ire. Metaphyiis e contra.
PxaEcedic enim femper op timum perfeftiffimum | trahens materia^
lia deimperfedoadpecfeftum. Slmundi poficionem
fpeAesPytha^oricoricu,qnem nos ^diim fcribimus,noftra pofirione imitari
debemus: Scriptio enim qiiidam mocus, coclimotum imitans : dex-
trum efl: polus Borcus : finiflrum Auftrinu?;. Etficnos, ad Occiaentem
vultu (pe^Slantefcriberc oporter. Ergo
inciperemusahniflroaddcxtrumjimitancesmocum latitudinis, tanquam fiex
Auftraliplaga cocpiiTet huiufiiiodimocus-ficuii iuPiiyficisf ucabamus.
iQ^auccnipu- cac tat^ncepifle folumyerfusauftrum moueri
ab ini^o^vci . nunc viciffim mouetur 5 vtique a dexcro
inciperefcriptio- nem putat. Ac fi , quod Mofes in caftraraetatione
ob- ferua c , obfeniemus idextrum eric Occidens: Ariftoceli vero
Oriens. Ecexhisimitacioaptamagls. Scriptor enim loiv^itudinismotumvelocera potiufquclatiaidinis
obferuac^niam Lunaris. Propterea ficfcribeodo , & qoi vultumhabetad
Auarumjcribicadextro nd finiftrum, ideftaborcuino ccarum, inricuGraEco
& Latino. Ete contra in ntu Chaldaico. Qui ad Boream fpedac, ab
oc- cartt in Latino, abortumChald<jo. Aliiconfideranc commoditacem
lcribendi &facilita- tcm. Qu«meliorconftac a fmiftroad dcxcrum :
quoniam matlusa centro circunforentiam fcrtur,vbi muenit fi- nem,
Actamen poteftaddi tertius & quartus modus: vc
fifcribasabalto-acimumpagin^, vtin rolo 5. lohan. La- ter.
Romaefaftamvidinuis. Ecin verfibusfybillinisfic C contw. Hinc noua
qu^ftio, & confimilisrefolotip. Defarmione ^ 'ferfficuitateperfun^4
,lk neajkue ojienpi, Art. IL IN
ftrudttraorationisinteraeniuntpunda:6c pun<fium cum iineola adunca ;
& lineola illa fol t taria , Hoc autc ia<tefic,qiloniaojracio
criplex : alia fimplex,vt ego fcribo: aliacompofita,vtcgofcrLbo : dum cu
diaas : aha decom-^ pofita vt Epigrammt»& liias Homeri, oratio
Ciceronis pro lege ManUia. Quammali» trlbus,ali«m!ilti$>a
pluribus «cplorlmis conftant periodis. Oiatibfiropllci nullum patitur
punaiJm, necdiftinaidncm, nifiyocabu- lorumperintercapedincspania $:hacvtuntnrLogici,vt,
€mnh homo eflanimai tationdle, Omtio Compofita diuidir turin duas
coniundas per copulatiuam riotam*.vt £j# i^riwtfjd^^^w&^velperdi^^
vt^h^di^vel/gr^'* iMUVflmngit\vt\ per cowdk\ov\:i\Qm:vtJtvenerisadm(
daboiibiltbrumxwx^QT\ocAcvc\^vt,vbithef^turus, ibi cof : aac per
tcmporalem, vc,f maqtf.er le^tt.ciifcipv^ Uatidinnt aut pcr comparnniium
. vt , y^a//fl/ wrfr/, /rff/ 2^^;7// //2 - ; aiic pcr caufaleii-i : vc ,
qMniamn^n fkit^, JhrtUfcttntcampi ;auc per rclatiuam i vc, mercaiores
lucrati sunt muhtimquitamenUborauerum., Erhofumficdifttn- dio
perlineascommaravocatas. Omio decompoifcA conftat cxperiodis plurimisipe-
nodusemm fir, cum ex finali Dunao. velexordioinfinem; oracionis
perfedxabfqiie ruipenfioneaudientis peruenimus. Ibi pttndum &cimus: omnesergo
periodi pund^is adftringuntur,vtinprima CICERONE Epiftola. Egoemni
•ffici9^ep4iih piefdte ergdte^Cdtefis fatisfacio emmbus i mihiipftnunqnam
fatisfacio ^ &c. Ac pcriodus diftinguitur percola&commataapud
Ciceroncm.Cola funcparteg. periodi maiorcs : quarum quxlibetquafi perficitoracio-
nem,&in dido exemplo terminatur in ly omnibttt, Et horum diftmcflionobisfic
per punda duo ,auc perlineo- lam cum puncflo. Commaca vero func parces
mmores, cx quibils cola conficiuntur Ucetnon omnia femper, vt i
iodiAo exemplo. Vbi poftquam dixttammofffcioySiddityacpoiiufpietdtey
quod diAinguicur a prioriparte periinea. Confideranda^ eftetiamiquod vbi
diffidium maius eflincer commaca,ap-- Sonendum efl pundum cnm
lineoia: vbiminus, lineoia': iie putido. Similiter in diui fionek
compofitorum^ ali^. quandopun&ocum linea^vt«^ ntdgWerlegit ^dtfcipvU^»Jiffis/:aliqnando
duobus punAis :yt^Rexcafiigauitml^ Iite$'qttifugeriimdepr4i0, Hinc eft ,
guod antea^uer&ri- uamponuntur pun6i:adtto,(i nonett completa
periodus> in vno: Quando maximcaduer/acur, vt.Pctrus rfido^ui:
fedfilius eius ignoranS' Aliquando lincola , vc, Petrus c$ doHus
quidemjednonvalde, Similicerancc relaciuamcft lineola in
modicOjVCj/^f/rflJ, qtticurrit^moaetur. In mulco,. iuncpunda.vcfupra.
Similiccrponicurlineola anteno- tas cogalaciuaA^quaado copuUs
i^.u^gitivVtt^^/Wfiffrir Mmi«^quado non mulcumy poofta,vt,/rr/r0ir eMrru
: fii propeM 9(eafum, AliquatiHo nihil , ii Yalidifsimc copulac ,
vc, Petrus evnditus darui nohilis^ fed & Scc. idqiie magis,vSi deeft
copula,abefto 5c lincola. Ponitur eti.irn puntflum^vbi
didioeftnota; & ngnifi- cacpcrvnam literam ^vcM-T. CicerotiSc D. Francefco:
&vbi per plurcs vc Cic. pro Cicero : 6c Franc. pro Fran - cifco.
£ciahisv^lecconrenfusrcj:ibenciuxu,§crauo bre« uiecacis. Ait.
I. LEgereauccm,eftocuIis,qu fc npra.-crunt-^colligcreiit
mentc,ac mox per linguam colleda icerum pronun- " ciare. kaque eft
circulus , ex dicere , pcr (crthere^^le^en ad tpfum dtcere, Ocuins fen(us
lcdionis ziauduus didio- flis. 1 Qui ergo iegic,prius
difcaccharaderum iignificationes & pronunciacionem. Quasdacninicum
gutturc,vcvoca- lia quxdam lingua , & paiaco , vt confonantes ,fic
femi- oocalcs ;& quacdam labiis, vc mutx , pronunciancur. Si-
militerquid valeanc punda,&afDiraciones;doceadifunr, qui
legeredifcuntfiuxta phmi iiori pr^cepca. 2 Moxquemfonum , quacvocaIis,cumquaconfonan«
ce, faciat* Vinculum enini confonantiuin vocalis efl.
Faciliatttemaddifcttnt, ficonlbnanseundem fonum fer. uet cum omni vbcalf.
Hincfic,vc, quoniam carcmus altero , C «non poffint facili noftram
nationis aiien^ linguam,addifcere. Alicerenimpronuncio, C,cumA,
& alicer C, cum E, fimiliccr,G, vt norum efl:. Vnde deri- uationcs
verborum ,&cafusnommum fallunr.Cum au- differRegis itcluopi;
filius,//g4^, pronunciabac,/r^Aw, i (^rammaticalium
£ampanelU] dcriuationem falfam exofus. Ec pro C(£Co , ctUo
diccbar^ vc C , fecundum eflet primo fimilc. Nos aucem ha:c
non cogitamus, vfu dudi: 6c quia; pueri noftri nefciunt dubitare/ed
authoricate trahuncur. 5 Prius quidem fimpHcibus ryllabis,vc^<^,deinde
com- pofiiis.vc j^r./, airuefcanr. 4 Tandem vc didiones cocas
pronuncient didindas, iK)n n>ixcascumalii$,proucin copuiando dicere ,
aiTue- faciendi func. Mox enim vfus, vc celeriterlegant, pre-
ftabit : veluti Cithara:di, vbi primiim elemenca, & difcri- niinafonorum,&confonantias
calluerinc, in eifqueaf- fueucrinr. 5 Item quomodo
pronuncianda interrogatio j quomo». (io admiracio, &quomodo
lcuisoratio. 6' Item inpcriodi finc paufindum. 7 Item
diftmguant legendo cola commata, illa ma- gis,ifl:a minus.vcfen fum aonco
Qfundant, necdifTocicnt:- Verumque enim ti 6'fu m . Quiautem
carminalegunt, carmincis pedibusqua/f incedant,nec fenfum obfcurent
mctriamore : qui pro.* fa5,,numeris,qui Philofophica grauiter. Item quar
abbreuiationesfinrin vfu, & quomodo ci notandar. Alia: enim aliisnationjhus. Item
quibus acccntibus lint pronunciandicr yllabap. vltimc,& penultiniii:
: 6c monofvllaba in vocalem deii-- nentia : & hoc ad quautitacem fy
llabarum fpedac, ex Ar.:, temecrica, - Quxvoces quibus verbis
defcribendis func apcx^ ior; Saecicaiuuenies. CVmirouamlinguam
difcere legendo cupis :pone feriacim vocabula noca cu^ linguj^, cor,quoc
funt Ju terxeiin^quamaddifcisiicavtprimxlicer^vocabuiorana
Lihertertius. laceant fecuhdum fcriem Alphabeti difcendi.
Diclio- nesautemtux lingux iiceris propriis priLis,dcindeaIie-
nisalternadm exurabis. Tuncenimmirafacilitacein vno
dic.quibufquclegereaddifcet. Gognitaemmfttntiumi- aaignoratorum. De
eHfjtic^ iane ferfnonum Granmaticali*
TOn modo GrammtticiTidetnr offidum ,tradere' 1 A| rcLtionem rcAi
loqucndi & fcribcHdi & Icgepdii fed infnper declarandi
fcrmoQCTO.fiUC di^kumfiucfcri:- ' ptum a quocunque autorc.
2 Hoc quidem verum , quoniam omnis- Autor Gram- niaticus primo
eft,& mox Philofophus Ivhetor,L ogicus, Poeta, Mathemacicus, Hirt:oricu5,Mcraphyficu\
Thcologus, 5<c. nemoenim fcribicin quacumquercientia^nifi Grvimmatico
5c congruo fermone. At plujr^ pr^Iumit Grammatica, Philpfophica^quam
ciuihsi 3 A t cum omnis fcientia-popriis quibufdam vtaiur vo«
cabulis,quxapud vuigusaliumfaciuntfcnfuni, res quoquede
quibus.traclaniigDOtacfUDrvu)go^inTheolo^; ^ & Aftron. patet. PfopjCf
rca non puto Graciunatici efte .ciuilis.omnes fenitoncs enucleare ,fcd
tahnnn vulgires familiarcs .quiin cpilloliti^l^Q^c^jbntineDtur.
Adde eciamin Po^tis & Oratoribus^^To|i(1Ck.i.deot^^ Ij em^
propius ad vulgi inftrudionem adcedtmr. Nihil oniinus dicendum , quod exponere
poetas 6d oratorcsnonfitisvalent^nifiquiarcem poeticam &: 01 a-
toriam etiam didieere ; ergo noii pun Granamacici eil oratio
ipfbrum. PlaroetiJin cracilodocet impofitiones
vocabulorum jTon efle Grammatici, fedfapientjflimi Dialedici, idjjft
Mecaphyficireriiinuentoris&fcicntiarum ordinaroris-, 6.
Pxiuseniaioportecicj^ Ctfeta&deiadc notpinarebut^ i$o
U, f ci t i s i ni p oncte : Gramma tic us ^tgo co n ferua c enu cl
ea t hon|inuenic ncc imponic. Inueutor bombardse dcdic hombardx
nomen, 6c noui hemirphenj Amcncus Anie- ncam
dixic.&jlouispedifrequosplanetasvocac Galileus " Mediceos : non
quidem ex reinacura ifedpkcUo hum^ ino/xpeque cafu.
Nominaquidemdcbentabipfisrebus nooninatts ex« primii vt bombarda a bombo
ardente huius inftruroend» &lapisd ia:dendo pedem,&fol quia
roloslucecSed quo- niam rerum eflenciae latent, & proprietacesfcfnt
inn Qmi- natae»8cconfu&: &c philorophifenim
inueftigtitoresco* gunturvuIgariTCt fermone. &Principesad
libitumfine arteimponuntnomina>& iie, dcab euentu
,ra:p&:noa potcflcercafcientiafieride iproruimpofitione
nccfa<fta leruari quamuisinhoc Hcbrari fint cxtens ccnaciores*Icem
quoniam quotidie voces corquencur ,mucilancur,
breuiantur^producuncurj^cransferuncur.vt iy, loannes in Hcbraro, aicicur
Ican Gallicc;, Ans Germanice , Gro. uanni in Ecruria : lanniin Calabriai
CianniParcenopeis: crefcitdifficulcas. Grammaticus ergo non declarabicquiddicaces
rcrum pervocabttlafignacarum^haccenim pertinenc ad fcien*
'tiasillarum renim:fedtantummodo vocom fignificationes, & ftrudttram
orationis. Vnde Plato, profanosvo* * catjGrammattcos,
qmTOcabulaTheologorum declai»- repraefumunt, magisaatem
fificirridere.Idem S. Greg. f Propriaautem Gtammaticomm declaratio
eft ety* inologia,qua*nonrefpicit quidditates « ad quas
nomina imponuncur^fed vnde imponuncur.Cicer.i. Acad •& qua '
decaufa, «Sca quibus&quando, fipocis eft. 10 Ecquoniam vocabula apud
alios Aucores aliarum fcienciarum & apud vulgus aliis tempoiibus
aliter SIGNIFICANDUM apud PLAUTUM aU erat jrcuU Sc quafi ollay APUD
VIRGILIO eih naxima xdm regiarum. Item lusapudlu-
rifpcritose(l/ifjtf,apud Oeconomos eWhoJiH ^wndc vulgo feruis distributio
quocidianadicitur/ii rim.Qujt Phy ficis eft r7ifw>i.f,Lo£;icis/tr^f/mW;^//^,
Soloni/rjc, itcm hypo^.t/jsMedico c fl: fedimenf^m v rinq: G rcXci s e fl
h(Iantia indiuidua Thcologis perfona perronn auten:i Comicis e^laruabLC,
Propterca Grammaticus iflharc onmia scire et declarare deber, 5cquarealijalitervtunturi^confu-
ffonem/ermonis tollere qaantum poteft. n ItemfigttrasGrammadcales , etfi
poteftedan^ Rhe^ thohcas&pocricas dicec«&cbnfl:ni^onem orationis.
6cvaTiof diceodi modos rem eandemi & eiiocleandi de linguain Ungixam
:id quod dicitorinr^rpr^cacio; la Vcitor enim grammaticos etymologia:
interpretatione, dercriptione, 6cdefinitioneali (^ando, fioecircom' Locutione, quando
vocabulum ceriumnon habet vel res vocara, eftignota. Etymologia
docet;vnde vox imponiturV& quaratione. Addetquc! quas pafTa eft
mutationesapudmul- tos. Interpreratio de lingua in linguamfert notitias,
bL de proprietate ad metaphoras et ceconiierfo. Defcripno REM
SIGNIFICATAM PER VOCABULUM MONSTRAT ex effedibus et similitudine aliarum et quiburcumque
potefl adminicolis. Definitio per similitudinem, ic dissimilitudinem
proprias, est entialeiqnevr per genos et differentiam et circomlocutio pertni|Ica vocabula unum
deciarat. 1% 'Jteni notabit Grammatieos synonima, vnioo<sa, jtk
qoioocai;^ 6c denomination^s. Ad qoas redocitor dertnatto vocabi^bt»i»i$[ Vul^
& cafoom ex noroinaCt; cioo.6c temporom.ex priHnf^teritis &
fotorit,vtnotar jGcIliosnon femei» Icem'compofttione$,& parcico]as; emimqtievfQSyVtin
i.lib. notacom est. Item qua pars orationis eft quje libetdidio, qUem Iocum habet
inuruura: 8cqucm cafum exigit, &c. Dccarminis et accentus notitia dicemus
in poetica, quienccefTaria eft Grammatico ad docendum pronunciationes.
Item de figurisorationis in Rhetorica esl: fermor quac necessaria rTunt ad
fermones eorundem enucleandos. De figuris vocabuloxam &, ftrudura & liocin; Ibco
cJttac syntagOtta,; j4ffendix dc phi UJophka lingua
infiitutione. Slquis novam linguam philosophica constituere
vellet formare literas debec consimiles instrumentis et sufficiences abfque
variatione in copula vocalijum cum consonancibus, vcm r. lib & in Poccica
docuimus. Imponere nomma ex reram nacura & propriecacibu Verba omnia ex
nominibus deriuare & vnius cbniugationis omnia excepco substantivo & omnia
cempora onmibus cribuere et ordinare ea ex adibus essendi, existendi, operandi,
agendi, et patiendi. Parcicipia pra:cerici, et pnefencis, se fucuri cam
adiua quam paf Hua. caniaiSlu aliaqiuun pocencialia. Pronomina omnia iuxca omnes
species suas et non a dissidentia. Adverbia exmodi$, locis, temporibus
et circumstantiis a (3: cum addere. Adnomia vero ex circunstantiis et re spedibus. Coniunctiones
temporales, locales, sociales, difrocxale$,
continuativas, conditionales et alias ut
suo in loco dictum est. Casus omnes distindos in fine, et articulos
ponec æquivoca, synonima, et metaphoras ab olebic: cunitis rebus proprium dabic
vocabulum, ut tollat confussionem, quas videtur pulcracum sic vitium in oIitum:
hac omnia in libris hiscecribus liquido constanc, et ex Mc- altius
constant. Ars mensurandi versus in poetica posita est syllabarum quantitate sufficic
quod Grammatici feribu QC rationes autem a poetica pecancur. Tommaso Campanella,
al secolo chiamato Giovan Domenico Campanella, noto anche con lo pseudonimo di
Settimontano Squilla. Tommaso Campanella. Settimoontano Squilla. Giovan
Domenico Campanella. Campanella. Keywords: utopia italiana, lingua artificiale,
lingua perfetta, la lingua d’utopia, lingua utopica, l’utopia di Campanella, il
problema del linguaggio nella utopia di Campanella, grammatica la prima parte
della sua filosofia rationale, citato da Vivan Salmon (Keble, Oxford) per il
linguaggio inventato per megliorar il linguaggio volgare. Grammaticalium libri
tres, Parigi, vietnamita, armeno. Deuteron-esperanto—Highway Code -- Italia.
Campanelliana civitas solis CIVITAS
SOLIS – Taprobane – Sri Lanka -- -- Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Campanella," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Grice e Canio: la filosofia romana sotto il principato di Caligola
-- il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Porch philosopher, martyred in the reign of CALIGULA
(si veda) and mentioned by BOEZIO in his Consolazione della filosofia. Member
of the Porch. One of those who opposed Caligola. When Caligola ordered C. to be
executed, C. is said to to have thanked him, and to have gone to meet his death
calmly and without apparent concern. He is admired for his exemplary demeanour
by Seneca and BOEZIO Giulio Canio. Canio.
Grice e Cantoni: il Kant fascista –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Gropello
Cairoli). Filosofo italiano. “Kant”. Filosofia
fascista.
Cantoni: l’implicatura
conversazionale delle literae humaniores -- Romolo e Remo; ovvero, il mito e la
storia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Cantoni; I call him the Italian
Hampshire! Cantoni philosophises on ‘anthropology’ and he has not the least
interest in past philosophies, -- only contemporary! – Oddly, he reclaimed the
good use of ‘primitive,’ meaning ‘originary,’ and he has philosophised on
pleasure and com-placent – also on ‘seduction,’ and eros. It is most
interesting that he reclaimed the concept of ‘umano,’ when dealing with
anthropology, as he considers the ‘disumano’, and the ‘crisi dell’uomo,’ and
also the ‘desagio dell’uomo’ – He has philosophised on the complex concept of
the ‘tragic’ alla Nietzsche – and he dared translate my métier and Fichte’s
bestimmung as ‘la missione dell’uomo’! – Like other Italian philosophers they
joke at trouser words and he has philosophised on ‘what Socrates actually
said’! My favourite is his treatise on Remo and Romolo in ‘mito e storia’. In
opposizione alla tradizione storicista, idealistica crociana si occupa di
cultura e storia usando contaminazioni sociologiche e antropologiche. Per
queste aperture venne considerato uno dei maggiori promotori dell'antropologia
culturale in Italia. Nel solco del maestro Banfi e uno dei maggiori esponenti
della scuola di Milano. Oltre ai numerosi volumi pubblicati fonda le
riviste Studi filosofici e Il pensiero critico. Fu allievo di Banfi,
amico di Sereni e Formaggio. Nella cerchia di amicizie di Banfi conobbe Antonia
Pozzi che di lui si innamorò di amore non corrisposto. In una lettera a Sereni
ella scrisse. Non riesco nemmeno a trarre un senso da tutti questi giorni che
abbiamo vissuto insieme: sono qui, in questa pausa di solitudine, come un po'
d'acqua ferma per un attimo sopra un masso sporgente in mezzo alla cascata, che
aspetta di precipitare ancora. Vivo come se un torrente mi attraversasse; tutto
ha un senso di così immediata fine, e è sogno che sa d'esser sogno, eppure mi
strappa con così violente braccia via dalla realtà. Sempre così
smisuratamente perduta ai margini della vita reale: difficilmente la vita
reale mi avrà e se mi avrà sarà la fine di tutto quello che c'è di meno banale
in me. Forse davvero il mio destino sarà di scrivere dei bei libri per i
bambini che non avrò avuti. Povero Manzi: senza saper niente, mi chiamava Tonia
Kröger. E questi tuoi occhi che sono tutto un mondo, con già scritta la tua
data di morte. Un'ora sola in cui si guardi in silenzio è tanto più vasta di
tutte le possibili vite. C. define come primitivo quel pensiero sincretico che
non distingueva nettamente tra mito e realtà tra affezione e razionalità. In
questo senso "primitivo" assume una valenza psicologica più che
antropologica. Il pensiero mitico, scrive in "Pensiero dei primitivi,
preludio ad un'antropologia", non è "arbitrario e caotico", ma pervaso
di una razionalità, una razionalità fusa in un crogiuolo affettivo. Yna delle
differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel
fatto che il pensiero moderno ha una chiara coscienza della relazione e
dell'intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da
una all'altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v'è un
conflitto tra la scienza e la religione, l'arte e la morale, il sogno e la
realtà, il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte
queste forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi
non sempre distinguiamo, ma possiamo pur sempre distinguere. Questa mancanza di
distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitive.
Quindi sogno e realtà trapassano uno nell'altro e costituiscono nella loro
saldatura un continuum omogeneo. Si ocupa occupò con prefazioni, traduzioni, curatele e
altro di Kierkegaard, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Spinoza, Fichte, Renan,
Hartmann, Huxley, Balzac, Jaspers, Banfi, Durkheim, Sofocle e Musil.
Altre saggi: “Il pensiero dei primitivi, Milano: Garzanti); Estetica ed etica
nel pensiero di Kierkegaard, Milano: Denti); Crisi dell'uomo: il pensiero di
Dostoevskij, Milano: Mondadori, Milano: Il Saggiatore); La coscienza inquieta:
Soren Kierkegaard, Milano: Mondadori, Milano: Il Saggiatore; Mito e storia,
Milano: Mondadori); La vita quotidiana: ragguagli dell'epoca, Milano:
Mondadori, (articoli apparsi su
"Epoca"); n. ed. Milano: Il Saggiatore); La coscienza mitica, Milano:
Universitarie, (lezioni dell'anno
accademico) Umano e disumano, Milano: IEI); Il pensiero dei primitivi, Milano:
La goliardica, Il tragico come problema filosofico, Milano: La goliardica); La
crisi dei valori e la filosofia contemporanea: con appendice sullo storicismo,
Milano, Goliardica; Filosofia del mito, Milano: La goliardica); Il problema
antropologico nella filosofia contemporanea, Milano: La goliardica, Tragico e senso comune, Cremona: Mangiarotti;
Società e cultura, Milano: Goliardica, Filosofie della storia e senso della
vita, Milano: La goliardica, Scienze umane e antropologia filosofica, Milano:
La goliardica, Illusione e pregiudizio:
l'uomo etnocentrico, Milano: Saggiatore, Storicismo e scienze dell'uomo,
Milano: La goliardica, Personalità, anomia e sistema sociale, Milano: Goliardica);
Che cosa ha veramente detto Kafka, Roma: Ubaldini); Il significato del tragico,
Milano: La goliardica, Introduzione alle scienze umane, Milano: La goliardica);
Che cosa ha detto veramente Hartmann, Roma: Ubaldini, Robert Musil e la crisi dell'uomo europeo,
Milano: La goliardica, Milano: Cuem); Persona, cultura e società nelle scienze
umane, Milano: Cisalpino-Goliardica); Antropologia quotidiana, Milano:
Rizzoli); Il senso del tragico e il piacere, prefazione di Abbagnano, Milano: Nuova,
Kafka e il disagio dell'uomo contemporaneo, con una nota di Montaleone, Milano:
Unicopli). Attiva tra 1950 ed il 1962 e
edita dall'Istituto Editoriale Italiano
Lettere d'amore di Antonia Pozzi Carlo Montaleone, Cultura a Milano nel
dopoguerra. Filosofia e engagement in Remo Cantoni, Torino: Bollati Boringhieri,
Genna, «Il pensiero critico» di C., Firenze: Le Lettere, Massimiliano Cappuccio
e Alessandro Sardi, Remo Cantoni, Milano: Cuem, Reda, L'antropologia filosofica
di Remo Cantoni. Miti come arabeschi, Fondazione Ugo Spirito, Antonia Pozzi
Antonio Banfi Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Remo Cantoni Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Remo Cantoni
sito di Antonia Pozzi, su antoniapozzi. Filosofia Letteratura Letteratura Università Università Filosofo Accademici italiani Professore
Milano MilanoStudenti dell'Università degli Studi di MilanoProfessori
dell'Università degli Studi di Cagliari Professori della SapienzaRomaProfessori
dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di
Milano Fondatori di riviste italiane Direttori di periodici italiani. Haverfield. The Study of Philosophy at Oxford A LECTURE
DELIVERED TO UNDERGRADUATES READING FOR THE LITERAE
HUMANIORES SCHOOL. Lectures are seldom published singly unless they have
been read on ceremonial occasions to a general audience and to which their
style and subject are suitable. My present lecture is not of that kind, since
it is addressed to mere pupils, or ‘under-graduates’ – those below the minimum
qualification here at Oxford, the B. A. But I am delivering it to
undergraduates beginning the study of philosophy at Oxford, since H. P.
Grice thought it would be a good idea, especially for those pupils coming from,
of all places, Italy. The purpose of my lecture, then, is to set out in the
plainest words the main features of that study. It aims at emphasising
three points. First, the need well known to all, but realised by few, of the
chronology of philosophy (e. g. Locke – Hume – Berkeley) -- and still more of geography (Cambridge
to the south-west of Oxford), as geography is now understood, in any
study of philosophy (where is Koenigsberg?). Second, the character of the
Oxford philosophy course as a study of rather short periods – say, philosophical
analysis between the two world wars, to echo the title of J. O. Urmson’s essay
-- based on a close reading of the authorities: H. P. Grice, and his
followers. Third, the relation between Italian and Oxonian philosophy – none --
which by their very differences
supplement each other to an extent which learners and even teachers do
not always see what is not there to be seen. At the end I will say a word
or two – but not in Italian! -- about the connection between this course
and the training of future researchers. Some of my colleagues, who kindly
read the lecture in typescript, told me that, if published, it
would help “those Italian pupils” and interest others elsewhere who have
to do with the study of philosophy. I once had a pupil who began his
Oxford course by reading for Classical Honour Moderations. Reasons which I
have forgotten made him change his plans after a term or so. He took up
Pass Moderations instead and I had to teach him for that examination! He
was very confident that he could surmount the Pass hedges
with complete ease, but I had soon to tell him that the work he had
done for Honours would lead him straight to a heavy fall. He could
translate Berkeley alright, or most parts of them. But he had just no
idea whatever of getting up its content – what Berkeley meant --, and when
one asked him the usual question, 'He meant what? ', he was
beaten. The difference which my pupil found to exist between Pass
and Honour Moderations is almost exactly the difference which, even after
recent changes, still divides Honour Moderations from “Literae Humaniores”.
This difference is not so much, as the language of our Oxford statutes
might suggest, a contrast between the classics on the one hand and Ordinary-Language
Philosophy on the other. It is, rather, a variety of the old difference
between Aoyoy and e'pyoz/, between the language which is the form, and
the fact, which is the content. I am told that, in reading for
Honour Moderations, a man learns how to translate Cicero – or “Cicerone,”
as the Italians miscall him -- and to imitate his style. I know, by my own
experience, that he hardly ever learns what Cicero MEANT. A pupil may scramble
through any page of the ACCADEMICA with whih he shall be confronted, and
you’ll soon find out that he is utterly unable reproduce the matter of what CICERONE
meant for any purpose whatever, and if you ask him in detail why Cicerone
called the thing “Accademica”, the chances are that he does not know – or
worse, care. In reading for Greats, a man goes almost to the *other*
extreme. Whether he can translate CICERONE into reasonable Oxonian becomes a
trite point. What he has to know and what, I think, in general he does
know, is what Cicero MEANS – not just in ACCADEMICA, but in the concept of
the ‘probabile’. He may not know it with all the refinements and shades
of meaning that an accurate scholar such as Grice shall detect, but he
does get a sound general idea of Cicero's meaning – if not his ‘implicature,’
as I say. His danger now is that
he neglects the form. He is bidden to compose ‘the essay’ on a philosophical
topic every week for FIVE years! These essays are only too often ayamV/zara
e? rb irapaxpfjpa, agonised efforts at the eleventh hour, and, even if
they rise superior to such human frailty and are result of exhaustive and
deliberate reading in the dark chambers of the Sheldonian, both teacher
and taught tend to set more value on the essay’s *content* than on its *form* --
or deliverance: lots of ‘ums’ to be expected. Sixty or eighty years ago
the “Literae Humaniores” School was considered to give a special training
in lucidity of language and in logical arrangement of matter. That has
gone into the background. Of the three great intellectual excellences which
this School might develop, powerful thought and profound knowledge and
clear style, the third now counts as least, if you can believe me. It is not a
good resul, but it is a natural one in a course which is so closely
connected with concepts and facts. Facts are the first need of the
student of philosophy: who wrote the Critique of Pure Reason, and why? Why
did he choose such an obscure Teutonic idiom to express his vague idea? He must
know 'who did what when,’ and hopefully, ‘where.’ Indeed, if he knows the
facts of philosophy in the order which they occurred (Anassagora after Anassimandro),
he can often reconstruct and interpret the long history of philosophy for
himself. There is a vast deal more value in dates than the most early
Victorian schoolmistress ever suggested to her classes. Half the mistakes
and misunderstandings in our current notions of modern Oxonian philosophy arise
from some belief that events – i. e. the publication of books, etc. -- happened
at OTHER than their actual dates. Much, for example, has been written
about the causes of the decline and fall of the Roman Empire, but why did
Marcus Aurelius addressed his memories to HIS SELF? Among these causes the
depopulation of Italy and of the Roman Provinces has been quoted as one
of the most important reasons for the creation of Oxford. But, when one
comes to examine the facts, it appears that a great deal that is urged
under this head is a transference to the Empire of an agrarian evil
which belonged to the Republican period and which probably lasted
only for three or four generations. Those who hold this evil wholly responsible
for the fall of the Empire, start with a chronological blunder, and
naturally do not reach even a plausible solution of their problem, as
Nerone would! So again in smaller problems. The critics of the Roman
Emperor CLAUDIO, the ancient parallel (as is generally said) to James I
(who reined over Oxford) usually omit to notice what sorts of events
occurred in what parts of his reign. As it happens, dates show that he,
or maybe his ministers, began with an active and excellent policy. They
boldly faced foreign frontier questions which had been neglected or
mismanaged by their immediate predecessors. They took steps to amalgamate
the Empire by romanizing the provincials. They carried out numerous
and useful public works. Dates also show that, after some six or seven
years of good administration, they fell intelligibly enough into
evil ways. We might indeed apply to Claudius the idea of a
quinquennium of five years' wise rule which is usually ascribed to Nero.
And curiously enough, if we go to the bottom of the facts about Nero, we
find that the outset of his rule was marked by no want of unwisdom
and crime and that the notion of a happy first five years is a modern
misinterpretation of an ancient writer who meant something quite
different. Begin history therefore with the plain task of knowing dates and
facts. Write them out large if you will, and stick them up over
your bed and your bath. There is another simple-seeming subject which
students of history, and above all of ancient history, must not neglect.
I have mentioned the old question, ' who did what when ? ' There is an
equally important question, 'who did what where?' It is no good studying
history, and above all ancient history, without studying geography, and
geography of the right sort. The subject is, of course, held in little
honour even at some Universities. Cambridge lately issued a small
series of maps to illustrate an elaborate work on mediaeval history. On
the first, or it may be the second, of these maps, London is shown to
be 33 miles from York and 43 miles from Paris, while the sea
passage from Dover to Calais is about 4 miles long. This is, no doubt, an
exceptional view of the world. But our ordinary attitude to geography is
little more satisfactory. Very often, when we admit the subject at all,
we confine it to lists of place-names and of political boundaries, which
are mere abstractions and convey nothing definite to the average student.
Or else, under the title of geography, we bring in the important,
but quite distinct study, of the topography of battle-fields, a
study which is not really geographical, which is specialist in character,
and which is suited properly to those who are particularly interested in
the details of ancient tactics and strategy. If we are to make any-
thing of geography, we must get beyond this. We must treat it as the
science which tells us about the influence (in the widest sense) of the
surface of the earth on the men who dwelt upon it. In the
earlier ages of mankind this influence was enormous. It was far greater
than it is in the present day : it was greater even than in the Middle
Ages. In the youth of the world, in the days which we are still apt
to picture to ourselves as the ages of innocence and unconstrained
simplicity and pastoral happiness, man- kind lived in fear. He knew he
was weak, weak alike in his conflict with nature and his conflict with
the violence of other men. Whenever he advanced a little in
civilization, in wealth, in comfort, he was beset by terror lest hostile
outside forces should break in and destroy him and his civilization
together. If he looked back over preceding ages, he found one long tale
of wreckage, of nations that went down whole to a disas- trous
death, of towns stormed at midnight and destroyed utterly before dawn, of
unquenchable plagues, of con- suming famines. These evils came from many
causes. But among the causes the character of the earth's sur- face
is by no means the least potent, though it may not seem the most obvious.
Man had not then learnt to tunnel through mountains and traverse the
worst and widest seas, and thus ride superior to the great barriers
which nature has set between human intercourse. Nor had he acquired that
coherence of political government and social system which can sometimes
defy moun- tains or seas and successfully battle with pestilence
and hunger. He was ruled by his geographical environment. The
form in which this environment affected him was very definite. It was the
broad features of the earth's surface which then especially influenced
mankind that is, the general distribution of hills and of plains, of
moun- tain heights and mountain passes, of river valleys and of
gorges breaking these valleys up, of harbours and rocky coasts, of trade
winds which brought or failed to bring rain. All the simple and general
physical conditions which affect comparatively large areas in a more or
less uniform way, were felt to the full by the Greek and Roman
world. Illustrations of their influence are strewn broadcast over the
shores of the Mediterranean. That sea itself provides perhaps as
good an example as any. To-day it is a sea that belongs to many nations
; one dominant power in it is not even a Mediterranean state. Under
the Roman Empire, it was the basis of one state whose capital lay in its
centre and whose provinces lay all around it like a ring-fence. The
cause is to be found in geography. The Mediterranean is not merely,
as its name implies, a sea in the middle of the land : it has more
notable features. Though it is the largest of all inland seas, it is also
the most uniform. Its climate is the same throughout its length and
breadth ; its coasts are equally habitable in almost every quarter ;
therefore, it easily attracts round it a more or less uniform population
and men move freely to and fro upon it. It is no mere epigram that
Algeria is the south coast of Europe. Moreover, as modern strategists
have noted, it is dominated, as no other sea is, by the lands which
surround it and by the peninsulas and islands which mark it. Therefore,
it was singularly fitted to form the basis of any Empire strong enough to
control so large an area. It aided the formation of the Roman
Empire. It determined parts of its constitution, notably its semi-federal
provincial system. It provided the unity needful for its trade and
language and intercourse. We can mark the influence of this sea even in
pre-Roman politics. Though it was then divided up between Greeks,
Persians, Carthaginians, none of them were able to hold a part of it
without at least aspiring to extend their sway over the whole. Only in
the present day, when political unions have become stronger and
more coherent, is it possible for geography to be put in the
background. Let me give two more illustrations. To-day Italy
is a south-eastern power: she looks to Tripoli and the Levant, she finds
her outlets and she passes on her traffic from Brindisi eastwards, and
her sons are scattered over the eastern Mediterranean. But geo-
graphically if I may repeat a saying which is trite but nevertheless
valuable ' Italy looks west and Greece looks east', and in the
Graeco-Roman world this fact counted. Thanks to it, the earlier Roman
Empire, the Empire of Augustus and Claudius and Trajan, was a west-
European realm, and its greatest achievements of conquest and of
civilization lay in the western lands which we still call Latin or
Romance. That French is spoken in France to-day is (if indirectly) a
result of geography. Once more, under the normal conditions of
to-day food is brought to our great towns from considerable distances
along railways or good roads. We are not much troubled by geographical
obstacles; we find human nature a much worse impediment, and a
strike hinders far more than any mountain or river. In the ancient world
as indeed in parts of the mediaeval world when food was carried along
ill-made roads in / ill-made carts, towns were impossible unless
food-stuffs could be grown close by, and landed estates could not
be worked at a profit unless markets lay within easy reach. Throughout,
we see the Greeks and the Romans face to face with an external nature
which dominated them as it does not dominate us. If they were not,
like the prehistoric races, living in ceaseless dread, they were
slaves to rudimentary difficulties. It is these natural circumstances of
geography that we cannot omit from our study of ancient history. Hang up
your maps beside your tables of dates ; draw maps of your own, and
if you would remember them properly, measure the distances upon
them. I venture to recommend this method of studying
geography along with history for a further reason. It is the best way of
studying geography itself which ordinary students can use. The pure
geographer too often wishes to teach the facts of the earth's
surface as facts by themselves. He wishes, for instance, that the
student should know the whole configuration of France, its mountains,
rivers, geology, minerals, before he proceeds to realize the effects of
these various features on the history of the world. That is all
very well for the specialist. But, as one who has taught geography
in Oxford for a good many years, I am convinced that applied geography is
far more easily learnt by the ordinary man than this more
theoretical and abstract science. By applied geography I mean the
geography of a district studied in definite relation to its history, with
definite recognition of which geo- graphical features mattered in one
age, and which in another, and which in none at all. This method
involves that association of ideas, that learning of things in con-
nexion with other things, which is in truth the most stimulating and
helpful of all aids to knowledge. Here, as elsewhere, the motto of the
teacher should be o-vv re 8v epxo/jLvc, not in the sense of the teacher
marching along with the taught, but of two kinds of knowledge
helping one another. 4. From these preliminaries of time and space
I pass to the actual study of ancient history in Oxford. The chief
characteristic of that study is its limitation to short and strictly
defined periods. Among these periods several alternative choices are
intentionally left open to the student. In Greek history he may read, as
most men do, the Making of Greece and the Great Age of the fifth
century. Or he may combine the fifth century with the story of
Epaminondas and Demosthenes and that curiously modern figure, Phocion,
though, for some reason, he will here find few companions in his
studies. In Roman history he may study the death-agony of the
Republic and the beginnings of the Empire under the strange
Julio-Claudian dynasty. Or he may confine himself to the Empire and
follow its fortunes till the end of Trajan's wars. Or thirdly he may read
though few care to do so the tale of the conquest of Italy and of
Carthage, the days which formed the great age of the Republic and the
glory of the Senate. In any case he is confined to one definite epoch of
no excessive length. Secondly, he will read this epoch
carefully with many and certainly all the most important of
the original literary authorities, and these he will read in the
original tongues. The study of a period of history through the medium of
translations is one which finds no place, at least in theory, in our
Oxford ancient history. This is a point, perhaps, which deserves
some notice in passing. In the present condition of classical
studies there is a strong tendency for men not merely to study ancient
history but even to research, with a very slight knowledge of the
classical languages. In the local archaeology of our own country this
tendency has existed for centuries, and' it has been usual to work
at Roman Britain without any knowledge at all of Latin. Abroad, the
tendency has been growing of late years. I have had lately to write for a
foreign publi- cation a paper in Latin on some Roman inscriptions
and I have been a little surprised at the Ciceronian words which the
editor of the publication has pointed out to me as too likely to puzzle
present-day students of Latin epigraphy. Now, it is probable that an
educa- tional course which studied Greek and Roman history through
translations might have a distinct, though obviously a limited,
educational value. But it is idle to pretend to go beyond a somewhat
elementary course without knowing the ancient languages. This
Oxford course has been made the subject of many criticisms. We are told
that history is one and indivisible, and that fragments cut out of their
context not only lose their educational value but become
meaningless. We are told secondly that it is absurd to omit all the
momentous occurrences which lie outside our limited areas. We are told
also that by confining students to one or even two periods we prevent
them from acquiring a variety of distinct interests and discussing their
various periods together and widening their respective outlooks. Of the
first of these I shall say some- thing in a moment. The other two in my
judgement amount to very little. It is quite true that our system
omits a great deal. But there are after all only two ways of learning.
You can learn a little of many things or you can learn much of one thing.
Unless you are a genius or a reformer you cannot learn a great deal
about many things. All education is in a sense selective. Here, as
so often, much good may be done by the free lance. He prevents our
selections from being clogged by pedantry. In the end, however, there
must be selection. Lastly, the third criticism, that the use of
limited periods limits the total width of interest and discussion among
the body of students, does not I believe apply in the very least to our
own system with its alternative periods and its extraordinary range
of general knowledge. Moreover, I am clear that, if a
limitation of periods has its evils, it has also solid merits. It has
been generally the English tradition to prefer the plan of learning
much about one subject to that of learning a little about many, and the
warning Cave hominem unius libri used often to be quoted by Oxford
scholars of forty or fifty years ago. It is a good maxim. For it
does not simply warn us against the tortoise who hides in his shell ; it
points out that the dangerous enemy is he who knows one subject with
exceeding thoroughness, who controls one weapon with absolute mastery
and precision. The student who really works out one short period of
history, knows one part at least of the ways of human nature. It is
impossible to over-rate the practical value of such a bit of accurate
knowledge of how men move and think and act. Moreover, as
educationalists are constantly and rightly observing, the power of thoroughly
getting up a limited subject, the complete mastery of all the relevant
details, is a very valuable power in actual life. It may be
obtained in other ways than through a brief period of ancient
history; it could not be gained by a study of ancient history at
large. 5. Ancient History is singularly suited to this method
of the intensive culture of a small plot. If the period chosen be not
very long or very ill-chosen, it is here possible to combine the
following advantages. First, we can bring the student into touch with
periods of the highest importance, periods which are full of the
most diverse interests and which allow the most different minds to
expand on political or constitutional or economic or geographical or
military problems. Secondly, we let him come to close quarters with the
great mass of the original authorities, whether written or unwritten,
so that he can compare the account of any event or problem which is
given him by Grote, or Bury, or his own tutor, with the actual evidence
on which it ought to be based. Thirdly, he can work at historical
writings written in the great style and really worth reading as
literature. There is no part of mediaeval or modern history of which all
this can be said with complete truth. There we have to face multitudes of
charters, family papers, legal documents, broadsides, which are far
too vast a chaos for a student to overhaul in the course of his
University career, and to compare with the conclusions based on them.
There, too, our authori- ties are for the most part not even literature
by courtesy. When we ask for original authorities, we are given
not a Gibbon but a mass of matter which has no value save as the
husk, too often the tasteless husk, outside a grain of fact. In ancient
history, when all is said and done, when the longest list of ' books to
read ' has been made out that the most conscientious tutor can devise,
the total will not exceed the powers of a reasonable student. You
will find, indeed, when it comes to lists of ' books to read', that the
philosophical teachers, not the historical teachers, will go to the
greatest length. 6. I have only one criticism of my own to make :
our limited period does ignore the unity of history. We ought to do
something for a view of history as a whole. Let me quote a historian who
is not, I fear, as much admired in Oxford as he used to be, the late Mr.
E. A. Freeman. He was a writer of the old school, on the one hand
much too fond of battles, sensations, emotions, and even rhetoric, and on
the other hand much too dependent on written sources and too cold to the
charms of archaeology. Perhaps his true greatness lay in the
realism with which he taught some of the greater general historical ideas
even though he hammered them home with a wearying emphasis. One such
idea of his was the unity of history, on which I will quote one of
his utterances : We are learning that European history, from its
first glimmerings to our own day, is one unbroken drama, no part of
which can be rightly understood without reference to the other parts
which come before it and after it. We are learning that of this great
drama Rome is the centre, the point to which all roads lead and
from which all roads lead no less. The world of independent Greece stands
on one side of it ; the world of modern Europe stands on another. But the
history alike of the great centre itself and of its satellites on
either side, can never be fully grasped except from a point of view wide
enough to take in the whole group and to mark the relations of each of
its members to the centre and to one another. These are true
words ; how can they be reconciled with our limited periods ? It may
occur to some that we lecturers should prefix or add to our ordinary
courses some special hours on universal history. Time, however,
would hardly allow for more than eight or ten such lectures ; the
lectures themselves could hardly be other than in some sense popular, and
it is possible that they would be better read in a book than delivered as
a dictation lesson. There is another remedy in each man's hand who
cares at all for the historical side of his Schools' work. He can read
what he likes of other and later periods of history in such books as may
suit his own taste. Even on the lowest plane of motives such
reading would not be wasted. It may be less true than it was, that Greats
is concerned de rebus omnibus et quibusdam aliis. But it is still true
that there is very little knowledge which does not at some point or
other help in the understanding of Greats' work. It is a School in
which a man can ' improve his class ' by not reading directly for
it. Let me now pass to the two individual topics of Greek and Roman
History with which Oxford students are concerned. People are apt to think
that they are just the same. The educational system which has
dominated Western Europe for the last three centuries sets the Greek and
Latin, language, literature, and history, side by side, as subjects which
may be studied and taught by the same men and the same methods.
Even now it is supposed in some places of instruction, that a man
who is competent, perhaps extremely competent, to teach Greek History,
will be equally competent to teach any part of Roman History. But we are
begin- ning to learn that Greece and Italy are not the twins which
they seemed to our forefathers. We know that the Greek and Latin
languages stood in their origins far apart ; that Latin, for example,
comes nearer to Celtic than to Greek ; and we shall have to
recognize something of the sort in reference to Greek and Roman
History. But here fortune favours us in a remarkable and indeed quite
undeserved fashion. For these two subjects are in reality so dissimilar
that their very differences form a rare and splendid combination.
Each supplies what the other lacks. Together, they remedy many of
the evils which arise from the limitation of the periods studied. They
differ, firstly, in the character of the original authorities for the two
subjects and in the different historical methods which the student
is constantly required to use. They differ, secondly, in the actual
events which they record and in the kinds of lessons which they teach.
The one shows us character and the other genius. The one confronts
us with the city state, the other with the full range of problems of a
world empire. The one exhibits the different forms of political
development proper to the brief life of Greece, the other the principles
of constitu- tional growth which was gradually unrolled in the long
history of Rome. 8. First, as to the authorities. Alike in his
Greek and in his Roman history, the Oxford learner has to deal with
a large part of the original authorities for the periods which he is
studying; he has to study those periods with definite reference to the
evidence of the authorities, to appraise their general value and to
criticize in detail the meaning of their various assertions. But these
authorities are by no means uniform. On the contrary, those which he
meets in Greek History and those which he meets in Roman History
are startlingly unlike. The history of Greece, at least during the great
age of the fifth century, depends on two first-rate historians, whose
works have reached us intact, and who form the predominant and
often the only authorities for the series of events which they describe,
Herodotus and Thucydides. Everything else that we know of this age can be
hung by way of comment or criticism, foot-note or appendix, on
their narratives. The evidence of lesser writers, of geo- graphical
facts, of inscriptions or sculptures or pottery, may be and often is very
valuable, but it is always subsidiary. This is especially true of Greek
inscrip- tions, which I mention here partly because I shall have
presently to say something of the very different character of Roman
inscriptions. By far the largest and the most important sections of Greek
inscriptions are lengthy legal or financial or administrative documents,
such as in modern times would be engrossed on parchment or printed
on paper. They are, indeed, just like those documents which the student
of early English History finds selected and edited for him by Bishop
Stubbs. There are, no doubt, other Greek inscriptions, such as tombstones.
But the epitaphs of Hellas can rarely be dated ; they rarely belong to
the historical periods studied in Oxford, and they rarely say enough
about the careers or official positions of the dead, or of their
heirs and kinsfolk, to be used for historical inductions. Like Stubbs*
charters, therefore, Greek inscriptions are best suited to provide the
foot-notes and technical appendices to connected literary narratives. It is a
curious and a pleasant chance which has given us for a unique period
of history both admirable narratives and a copious supply of
supplementary inscriptions. Turn now to Roman History. The Roman
historian has a different and more difficult task than his Greek
colleague. In the long roll of centuries which form his subject, the
literary narrative and the subsidiary evidence are often defective and
seldom united. Not one single writer is at the same time a great writer
and contemporary and continuous. The Republic has been described
for us by authors who either, like Livy, wrote long after most of the
events which they describe, or who lived at the time, like Cicero, but
wrote no con- tinuous history, while it is painfully true that most
of the ancient writers on the Republic have little claim to be
called good historians. Nor is this all. These writers, good or bad,
Polybius or Livy or Appian, are very imperfectly preserved ; our stuff is
fragmentary. We have to deal with a mosaic that has been shaken in
pieces : we have to form our picture out of patchwork. Nor, lastly, is
there supplementary evidence to aid us. Archaeology throws singularly
little light upon the history of the Republic. Excavations, like those
of Adolf Schulten at Numantia, have shed some light, and there is
no doubt more to come when Spain has been better opened up : more also
may perhaps be gleaned some day from southern Gaul. But the Republic
was one of those states which mark the world, but not indi- vidual
sites, by their achievements. Such in Greece was Sparta : and, as Thucydides
saw long ago, the history of such States must always lack
archaeological evidence. The Roman Empire was in many ways a new
epoch. It is natural that the authorities on which our knowledge
rests should be in some respects unlike those of the Republic. Continuous
literary narratives are still few, and their value is not very great.
Like many important political organizations, the Roman Empire was only
half understood by the men who lived in and under it or perhaps, as
Kipling says of the English, those who understood did not care to speak.
Not even the greatest of the Imperial historians, Tacitus, appreciated
the state which he served and described. He gives his readers, for
home politics, a backstairs view of court intrigues, and, for foreign
affairs, a row of picturesque or emotional pictures of distant and
difficult campaigns described with a total absence of technical detail
and a surfeit of ethical or rhetorical colouring. All the real history
of the centuries of the Empire was ignored by almost every one of those
Romans or Romanized Greeks who essayed to describe it. Moreover, this
literary material, like that of the Republic, is broken by all
manner of gaps. We have painfully to reconstruct our narrative out of
detached sentences and chance frag- ments and waifs and strays from works
which have perished. On the other hand and here the
difference between Republic and Empire comes out clearest the
archaeo- logical evidence for the Empire is extensive and extra-
ordinary. No state has left behind it such abundant and instructive
remains as the Roman Empire. Inscriptions by hundreds of thousands, coins
of all dates and mints, ruins of fortresses, towns, country-houses,
farms, roads, supply the great gaps in the written record and
correct the great misunderstandings of those who wrote it. Most of
this evidence has been uncovered in the last two generations : the
Empire, misdescribed by its own Romans, has risen from the earth to
vindicate itself before us. The largest part of this new material is
supplied by the inscriptions. A few of these are documents, such as
form the bulk of the Greek inscriptions which I have mentioned already,
and of those few some five or six at least are perhaps of greater
importance than any other in- scription, Greek or Roman, that has yet
been found. But the great mass are not in themselves individually
striking. Their value depends not on any special merits of their
own, but on the extent to which they can be combined with some hundreds
of other similar inscriptions. If Roman History is the record of
extraordinary deeds done by ordinary men, it is also a record of
extraordinary facts proved by the most ordinary and commonplace
evidence. The details directly commemorated in the tombstones or the
dedications or similar inscriptions which come before us seldom matter
much. It is no great gain to learn that water was laid on to one
fort in one year and a granary rebuilt in another fort a dozen
years later. But if you tabulate some hundreds or thousands of these
inscriptions, they reveal secrets. Take, for instance, the birth-places of
the soldiers, which are generally mentioned on their tombstones. Each
by itself is a trifle. It is quite unimportant that a man came from
Provence to die in Chester or from Asia Minor to serve at York. But,
taken together, these birth-places tell us the whole relation of the
imperial army to the Roman Empire. We can see the state gradually drawing
its recruits from outer and yet outer rings of population. We can see the
provincials beginning to garrison their own provinces. We can see the
growth of that barbariza- tion which befell the Empire when it was
compelled, in its long struggle against its invaders, to enlist barbarians
against themselves. From similar evidence we can deduce the size of each
provincial army ; we can even catalogue the regiments which composed it
at various dates and the fortresses which it occupied, and can
trace the strengthening or the decay of the system of frontier
defence. It is true, indeed, that inscriptions of this character are not
very easy for students to deal with. For they have to be taken in
unmanageable masses, and they often involve remote problems of dating
and interpretation. But selections, such as those of Wil- manns or
Dessau, will help the learner through, and the short courses on Roman
Epigraphy which are now given in Oxford will start him on his road.
I do not know whether I shall seem an unbending conservative or a
hopeless optimist or a liberal who is trying to make the best of a bad
business. But the facts which I have just stated suggest to me that,
in respect of the training which they give x in historical method,
Greek and Roman History, as studied in Oxford, fit into each other and
supplement each other in a most happy manner. . Almost every form of
authority, the first-rate narrative, the second-rate abridgement,
the stray fragment, the long legal document, the brief in-
scription of whatever kind, all the varieties of uninscribed evidence,
come before him in turn. He has to consider and weigh these, and, whether
he proposes in after life to research in history or prefers the active
business of trade or politics, he will gain much by the criticism
which this task imposes on him. To survey many state- ments made by
fairly intelligent men, many accounts of complicated and obscure
incidents, is to train the judgement for practical life quite as much as
for a learned career. We talk somewhat professionally of archaeological
evidence. It is well to remember that, if that evidence had happened to
refer to the present, instead of the past, we should call it economic and
not archaeological : so much of it refers to just the things which
engage the reader of an ordinary social pamphlet. If Greek and Roman
History thus supplement each other in respect of historical methods, they
do so still more in respect of the historical problems of political
life and of human nature which they bring before us. In one or the other
of them we find most of our modern difficulties somehow raised, and in
many cases one aspect is raised in Greek History, another in Roman.
In the first place, there is the contrast of character and genius, which
is really the twofold con- trast of individualism as opposed to common
action and of intellect as opposed to practical common sense. Greek
History is a record of men who were extra- ordinarily individual,
extraordinarily clever, extraordi- narily disunited. Our Oxford study of
Greek History, divorced as it is by chance or necessity from the
study of Greek poetical literature and of Greek art, lets us forget
how amazingly clever the Greeks were and the place which intellect and
language and writing played in their world. Roman History, on
the other hand, is the record of men who possessed little ability and
little intellect, but great force of character and great willingness to
com- bine for the good of their country to produce a result which
was not the work of any one of them. The history of the Roman Republic in
its best period, in the great age of the Punic wars, is in very truth ' a
long roll of extraordinary deeds done by ordinary men '. This
aspect of it is, of course, less prominent in the later Republic, the
period of revolution, than in the greater epoch which we here so seldom
study. But it reappears with the Empire. Though the historians of
the Principate generally talk of nothing but the Princeps, we can detect
throughout a background of hard-working, capable, probably rather stupid
governors and generals in the provinces. If any one wishes to study
the conflict of genius and character, that conflict which a hundred years
ago the English waged with Napoleon, and to realize the defects of being
clever and the advantages of being stupid defects and advantages
which (I am bound to say) are overrated by the average Englishman he will
find this in his Greek and Roman History. There are few lessons for
guidance in practical life and politics which are so valuable as an
under- standing of this simple-seeming subject. Again, in
respect of constitutional history, Greece and Rome supplement one another
in a useful way. The history of Greece, and especially of Athens, is
too short to include a long and orderly constitutional development.
But it does teach a good deal about the nature and value of those paper
constitutions which are in reality political rather than constitutional,
but which play their part more particularly in the acuter crises of
almost all ages. Rome, too, in the earlier part of the death-agony of the
Republic, in the generation which began with the Gracchi and ended with
-Sulla, saw several of these pseudo-constitutions. But the Athenian
examples teach us most, if only because they are the work of an
intellectual race, which believed firmly in the value of things which
could be written down on paper. Rome, on the other hand,
shows that slow growth, here a little and there a little, of
constitutional life on which true constitutional philosophy is based.
Nowhere can we find so near a parallel to our English constitu-
tion as meets us in the flexible order of the Roman Republic and Empire.
Nor is this all. Of most con- stitutions, as of our own, we know the
maturer years, but not the details of the birth and infancy. But
the Roman Empire is, as it were, born before our eyes. The cold
unostentatious caution of Augustus may, no doubt, have left his
contemporaries a little doubtful whether the old had really died and the
new been born, and the scanty records which have survived shed an
uncertain light. Yet the fact is plain, and the manner in which it
happened. ii. And thirdly, Greek history sets forth the
successes and failures of small states and of ' municipal republics
', while Rome exhibits the complex government of an extensive
Empire. For the present day the second matters most. Perhaps the world
will never see again a dominion of city-states. The fate of the Polis
was sealed when Plato wrote his Politeia and called for
philosopher-kings. It was more decisively settled when the Romans
discovered that men could be at once citizens of a nation and citizens of
a town. The failures of the mediaeval Republics of Italy and Germany
to maintain themselves against the stronger powers of Emperors and
Tyrants simply emphasized the result. The world will have to supply
otherwise that intellectual and artistic splendour which has been the
finest fruit of the city-states. But the administration of a
great Empire concerns many men to-day and in a very vital manner.
Our age has not altogether solved the pro- blems which Empires seem to
raise by their very size the gigantic assaults of plague and famine, the
stubborn resistance of ancient civilizations and nationalities to
new and foreign ideals, the weakness of far-flung frontiers ; it
can hardly find men enough who are fit to carry on the routine of
government in distant lands. The old world was no better off. Too often,
its Empires quickly perished ; too often, they survived only through
cruelty and massacre and outrage. Rome alone did not wholly fail.
It kept its frontiers unbroken for centuries. It spread its civilization
harmoniously over western and central Europe and northern Africa. It
passed on the classical culture to new races and to the modern
world. It embraced in its orderly rule the largest extent of land
which has ever enjoyed one peaceable and civilized and lasting
government. It was the greatest experiment in Free Trade and Home Rule that
the world has yet beheld. I have limited myself in the preceding
remarks to ordinary matters which come in the way of ordinary
students. I am well aware that we can add to the Oxford ancient history
course other and more delightful vistas down the by-ways of folk-lore and
religion, of anthropology and geology. We can trace in Herodotus,
quite as plainly as in the Oedipus Tyrannus, that sub- stratum of
savagery which underlies all ancient and most modern life, and which lay
closer to the Greek, despite his intellectual refinement, than to the
less humane but more disciplined Roman. We can plunge into the
labyrinths of 'Middle Minoan' and classify 'protos' from all the coasts
of the Aegean and the Levant. We can trace from geological ages the
growth of the continents and seas and climates which made up the
background of the older Europe. These things are full of interest, and
for some minds they are both a relaxa- tion and a stimulus. They are not,
I fear, so well suited to all of us. There is, indeed, enough in the
nearer fields of ancient history for any student to fill his time
with the more obvious subjects of politics and geography and
economics and archaeology. He may even, if he wishes, find in his
prescribed books an opportunity of beginning to prepare himself for
research. He cannot, indeed, as in the Modern History School, offer as
part of his degree examination a dissertation on a subject chosen by
him- self, and I am not quite clear that, if he did, his thesis
would be worth very much. But his study of original authorities may teach
him not only how to weigh the statements of men for practical purposes,
but also to note how history is built up out of such statements. He
can even carry his examination of original authorities far enough to
approach the region of independent work, and to go through some of the
processes which are connected with the august name of the Seminar.
But, let me add, this historical course which gives the man who
wishes it a glimpse of what research work means, is not, and cannot be, a
full preparation for it. For that a further training is indispensable,
whether it be in archaeology or in any other subject, and that
training cannot be included in the ordinary curriculum, since it is only
a tiny fraction of the whole body of students which intends to, and is
fit to, pass on to research. The ordinary course lays the foundation
of general knowledge, without which it is useless to attempt any
advanced study. The advanced work prepares a few competent men for
original and inde- pendent research, and the function of the
Seminar in Oxford would seem to be to train such men, if they will
stay here, after they have finished the ordinary course. I had once a
pupil, an American, who wished to work for a ' research degree ' by
offering a disserta- tion on a subject in Roman History. He asked to
be allowed to attend two courses of my lectures, one a general
sketch of the early Empire, the other a some- what more advanced
treatment of Roman inscriptions. After a while, he asked if- he might
drop the latter course ; he had, he said, already heard a good deal
of it in his own American University. When I replied that in that
case he had better drop the elementary course also, he told me that this
was mostly new to him. It appeared, on inquiry, that his teachers had
given him no training in general Roman History ; they had taken him
through a series of important inscriptions, had explained to him the
persons and things which happened to be mentioned therein, and had said
nothing of other persons and things which chanced not to be
mentioned. This is, of course, not a fair specimen of University
education in America. It is, unfortunately, a rather good example of the
mistakes often made by those who are too eager to encourage advanced
study. I am told that I ought to conclude such a lecture as
this by practical hints on the way in which men should 1 read their books
'. The one hint I care to give is to attend to the matter and not only to
the manner. There are many devices which will help in this. It is,
for instance, an aid to some students to read their ancient texts
twice, in two different languages, first in the originals and then in
some translation, in English or French or German, using these translations
not as ' cribs ' but as continuous and (in a sense) independent
narratives. But different men work by different methods, and it is not
always easy to give sound general advice. An individual teacher may aid
indi- vidual men by advice suited to them personally, and his
personality may inspire whole classes. But general advice, a panacea for
every learner, is a rather dan- gerous thing. It is not, indeed, always
much use to give it. I remember a friend of mine who once attended
such a lecture as this. When I asked him what prac- tical good he had got
out of it, he told me that the lecturer advised his hearers to buy
pencils with blue chalk at one end and red chalk at the other and to
mark their Herodotus in polychrome. He bought the pencil : the day
after his examinations were over, he found the pencil still uncut. Remo
Cantoni. Keywords: Romolo e Remo; ovvero, il mito e la storia, Carlo Cantoni,
filosofo, Remo Cantoni filosofo, mito e storia, implicatura mitica, la morte di
Remo, prejudices and predilections, umano, preludio a un’antropologia, umano,
umanismo, literae Humaniores – literæ
Humaniores – Lit. Hum. il primitivo. Il
mito di Remo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cantoni” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Capella: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Capella Marziano Minneo Felice Capella, africano di Carta- gine, di
religione pagana, scrive il "De nuptiis Philologiae et Mercurii" in
nove libri. Il titolo dell’opera (che è una mescolanza di prosa e di versi
e perciò è simile a una satira menippea), si applica propriamente ai due primi
libri introduttivi, in cui si parla delle nozze del Dio dell'attività
intellettuale (Mercurio = Hermes) con la personificazione della erudizione
enciclopedica. Principale fonte di questi libri si ritengono gli scritti
teologici di Varrone, mediati probabilmente da | Cornelio Labeone. Il
contenuto vero dell’opera, che è un'enciclopedia, è costituito dai libri
III-IX, in cui, sono trattate le sette arti liberali considerate dall'autore
(grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica),
presentate come donne che accompagnano la Filologia. Marziano ricorda
altre due discipline incluse da Varrone nella sua enciclopedia (medicina è
architettura), ma non vuole considerarle.Può darsi non sia stato il primo a
procedere così, ma è probabile che da lui il Medio Evo abbia preso la
distinzione delle arti del trivium e del quadrivium. Marziano deve avere
preso a modello l'enciclopedia varroniana, che gli è anche servita sino a un
certo punto come fonte; ma è probabile che abbia attinto principalmente a
lavori spe- ciali più tardi. Sebbene sia una compilazione priva di valore
intrinseco e piena di cose male intese e anche di contraddizioni, l’opera di
Marziano fu studiata appas- sionatamente nel Medio Evo che l’usò anche come
testo scolastico, la commentò e la tradusse. Per la storia della filosofia
hanno importanza, più della trattazione della dialettica (1. IV), ciò che dice
il libro VII (De arithmetica) sulla sacra monade, identificata a Giove e quali-
ficata altrove pater ultra mundaniis. Essa è il padre di ogni essere, è il
seme degli altri numeri e da essa sono.procreate tutte le altre cose. La monade
è prima che siano le cose esistenti e permane quando esse si
distruggono, perciò deve essere eterna. È così presentato un monismo
che dalla forza causatrice di quella realtà ideale e in- telligibile, fa provenire
sia i puri numeri che gli esseri numerabili che si collegano a quelli. In tal
modo dal- l’unità prima sono generate la diade, che è riferita alla materia
procreante, e la triade che conviene alle forme ideali e all'anima (in quanto,
secondo Platone, include tre parti); e dalla diade provengono gli elementi che
in- sieme costituiscono il mondo, che come tale ha per nu- mero il cinque.
Questa derivazione dall'unità è molto confusa, ma si collega evidentemente alle
teorie del- Neo-Pitagorismo. Secondo Macrobio univa in sè il sapere di
Carneade (neo-accademico), di Diogene (stoico) e di Critolao (peripatetico) ;
aveva conosciuto tutte le scuole, ma seguiva la più credibile : ciò fa pensare
che aderisse al probabilismo di Carneade. Marziano Capella Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Retorica, illustrazione del De Nuptiis
Philologiae et Mercurii, Biblioteca Apostolica Vaticana ms. Urb. lat. 329 f 64v
(seconda metà del XV secolo) Marziano Minneio Felice Capella (in latino:
Martianus Mineus Felix Capella; Madaura, IV secolo – V secolo) è stato un
grammatico romano, noto per il suo trattato didattico De nuptiis Philologiae et
Mercurii che ebbe grande fortuna nel Medioevo. Indice 1Biografia
2De nuptiis Philologiae et Mercurii 3Riconoscimenti 4Edizioni e traduzioni
5Note 6Bibliografia 7Voci correlate 8Altri progetti 9Collegamenti esterni
Biografia Le informazioni disponibili sulla vita di Marziano, che si faceva
chiamare Felice o Felice Capella, sono molto scarse e in parte dubbie, ricavate
da allusioni autobiografiche presenti nelle sue opere. Mancano informazioni
cronologiche e nella ricerca sono state espresse opinioni molto diverse sulle
date della sua vita; le congetture hanno oscillato tra la fine del III e
l'inizio del VI secolo, e oggi si ipotizza di solito il V o l'inizio del VI
secolo. Marziano nacque probabilmente a Madaura (secondo quanto riferisce
Cassiodoro). In ogni caso, sembra che abbia trascorso la maggior parte della
sua vita a Cartagine. Anche le ipotesi sulla sua professione e sulle sue origini
sociali sono speculative. Si è ipotizzato che provenisse da un ambiente
contadino e fosse autodidatta. Secondo un'altra opinione, più diffusa nella
ricerca, egli apparteneva alla classe superiore. Da una formulazione poco
chiara, si è dedotto che fosse un proconsole in Africa. Non è inoltre
chiaro se Marziano fosse cristiano. È da notare che la sua opera non contiene
alcuna allusione al cristianesimo. Questo silenzio e alcuni altri indizi, tra
cui la descrizione dei luoghi abbandonati degli oracoli del dio Apollo,
suggeriscono che egli fosse un seguace dell'antica religione, i cui contenuti
principali volle riassumere nella sua opera. I ricercatori hanno persino
sospettato una velata spinta anticristiana.[1]. De nuptiis Philologiae et
Mercurii Ci è noto per il trattato didattico indirizzato a suo figlio, Le nozze
di Filologia con Mercurio, noto anche come "De septem disciplinis" o
"Satyricon", scritto in forma di prosimetro, ossia un misto di prosa
e versi di vari metri. L'opera è peculiare per il suo impianto allegorico, con
l'ascesa al cielo di Filologia accompagnata dalle arti liberali per sposare
Mercurio, ovvero l'Eloquenza. I nove libri dell'opera sono così
intitolati: Liber I: De nuptiis Philologiae et Mercurii Liber II: De nuptiis
Philologiae et Mercurii Liber III: De arte grammatica Liber IV: De arte
dialectica Liber V: De rhetorica Liber VI: De geometria Liber VII: De
arithmetica Liber VIII: De astronomia Liber IX: De harmonia Le arti liberali
sono ridotte dall'Autore da nove a sette, poiché, dopo le dotte esposizioni
delle arti del Trivio - Grammatica, Dialettica, Retorica - e del Quadrivio -
Aritmetica, Geometria, Astronomia e Musica - alle ultime due, Medicina e
Architettura, non viene permesso di parlare alla festa nuziale, che si è
prolungata troppo. L'autore utilizza varie fonti nella compilazione della
sua opera, fra cui Varrone Reatino e Apuleio. Il suo non è certo un latino
molto raffinato: la prosodia talvolta lascia a desiderare e molte metafore
appesantiscono la narrazione. In età medievale e rinascimentale vennero
effettuate aggiunte e rettifiche di ogni tipo al testo originario. Essa
risulta, in effetti, una specie di enciclopedia dell'erudizione classica
diffusissima nel Medioevo cristiano. Un noto commento fu pubblicato dal grammatico
neoplatonico Remigio d'Auxerre che lesse Boezio alla luce del consimile
filosofo Scoto Eriugena. Riconoscimenti Il cratere Capella, sulla Luna, è
stato battezzato in suo onore. Edizioni e traduzioni Martiani Minei
Felicis Capellae Afri Carthaginiensis, De Nuptiis Philologiae et Mercurii et de
septem artibus liberalibus Libri novem, edidit Ulricus Fridericus Kopp.
Francofurti ad Moeunum: apud F. Varrentrapp, Martianus Capella, accedunt
scholia in Caesaris Germanici Aratea, Franciscus Eyssehardt (a cura di),
Lipsiae in aedibus B. G. Teubneri, 1866. (LA) De Nuptiis Philologiae et
Mercurii, ed. Adolfus Dick, 2. ed. 1925, 3. ed. Stuttgart Martianus Capella,
ed. J. Willis, Leipzig 1983. Le nozze di Filologia e Mercurio. Introd., trad.,
comment. e appendici di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani 2001. (EN) Martianus
Capella and the Seven Liberal Arts, edd. W.H. Stahl, R. Johnson, E.L. Burge,
vol. 2: The Marriage of Philology and Mercury, New York-London, Columbia, Martianus
Capella. Die Hochzeit der Philologia mit Merkur, ed. Hans Günter Zekl, Würzburg
Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre I, ed. critica
e traduzione di Jean-Frédéric Chevalier, Parigi, Les Belles Lettres, 2014. (FR)
Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre IV : la
dialectique, ed. critica e traduzione di M. Ferré, Parigi, Les Belles Lettres,
2007. (FR) Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre VI :
la géométrie, ed. critica e traduzione di M. Ferré, Parigi, Les Belles Lettres,
Martianus Capella. Les noces de Philologie et de Mercure. Livre VII :
l'arithmétique, ed. critica e traduzione di J.-Y. Guillaumin, Parigi, Les
Belles Lettres, 2003. (FR) Martianus Capella. Les Noces de Philologie et de
Mercure. Livre IX : L'harmonie, ed. critica e traduzione di Jean-Baptiste
Guillaumin, Parigi, Les Belles Lettres, 2011. (IT) Martiani Capellae De nuptiis
Philologiae et Mercurii liber IX, introd. trad. e comm. di L. Cristante,
Padova, Antenore Le nozze di Filologia e Mercurio, a cura di Ilaria Ramelli,
Milano, Bompiani, Scoto Eriugena, Remigio di Auxerre, Bernardo Silvestre e
Anonimi, Tutti i commenti a Marziano Capella. Testo latino a fronte, a cura di
Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, 2006. Note ^ William H. Stahl, To a Better
Understanding of Martianus Capella, in "Speculum", Bovey, Disciplinae
cyclicae: L'organisation du savoir dans l'œuvre de Martianus Capella, Trieste,
Edizioni Università di Trieste, 2003. Brigitte Englisch, Die Artes liberales im
frühen Mittelalter (5.-9. Jahrhundert). Das Quadrivium und der Komputus als
Indikatoren für Kontinuität und Erneuerung der exakten Wissenschaften zwischen
Antike und Mittelalter, Stuttgart Glauch, Die Martianus-Capella-Bearbeitung
Notkers des Deutschen, Tübingen 2000 (Münchener Texte und Untersuchungen
116/117) (Max-Weber-Preis der BADW 1Sabine Grebe, Martianus Capella, De Nuptiis
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Vol. 1: The Quadrivium of Martianus Capella: Latin Traditions in the
Mathematical Sciences (Columbia University Press: Records of Civilization:
Sources and Studies, 84), New York 1971. Mariken Teeuwen, Harmony and the Music
of the Spheres. The Ars Musica in Ninth-Century Commentaries on Martianus
Capella, Leiden Voci correlate Agogica Altri progetti Collabora a Wikisource
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Capella. Capèlla, Minneo Felice, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Gino Funaioli,
CAPELLA, Minneo Felice Marziano, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1930. Modifica su Wikidata Marziano Capèlla,
Felice, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Martianus Minneus
Felix Capella, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Modifica su Wikidata (LA) Opere di Marziano Capella, su Musisque Deoque.
Modifica su Wikidata (LA) Opere di Marziano Capella, su digilibLT, Università
degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Modifica su Wikidata Opere
di Marziano Capella, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata
(EN) Opere di Marziano Capella, su Open Library, Internet Archive. Modifica su
Wikidata (EN) Marziano Capella, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata V · D · M Grammatici romani Portale Antica
Roma Portale Biografie Portale Letteratura Categorie:
Grammatici romaniRomani del IV secoloRomani del V secoloNati nel IV secoloMorti
nel V secoloScrittori africani di lingua latina[altre]
Grice e Capitini: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia).
Filosofo italiano. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he
prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and
Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I
am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally
implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno
tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento
gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano. Nato in
una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per
necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La
madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del
campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per
ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi
della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno
anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da
autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto
lavoro di approfondimento interiore e filosofico. In questi anni legge
autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura
letteraria e filosofica: Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier,
Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard
(profondamente influenzato dal Vangelo), Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In
questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico
indiano. Vince una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di
Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini
critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una
"merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie
ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In
uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo
al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa
diversa dall'istituzione. Nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il
periodo trascorso a Pisa, C. matura la scelta del vegetarianismo come
conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della
Normale diventa un comizio efficace e silenzioso, un'affermazione della
nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista. Insieme a Baglietto,
suo compagno di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni
serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna.
Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di
tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare,
scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale Giovanni Gentile, per
reazione, chiede a C. l'iscrizione al partito fascista. C. rifiuta e Gentile ne
decide il licenziamento. Sergio Romano scriverà: «Gentile e C. si
separarono poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri.
Il filosofo disse di sperare che "le future esperienze gli facessero
vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e C. rispose
che non poteva fare altro che contraccambiare l'augurio. Fu certamente una
rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si
voltò verso Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse
"Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo. Croce;
in riferimento a lui C. scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Croce è greco-europeo, perché la civiltà
europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto C. torna
a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Compie frequenti
viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici
antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti. A Firenze,
a casa di Russo, ha modo di conoscere Croce, a cui consegna un pacco di
dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno
seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di
un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i
principali riferimenti letterari della gioventù antifascista. In seguito
alla larga diffusione del suo libro, C. promuove assieme a Calogero un
movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un
progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di
uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il
Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli
Rosselli, dalla morte di Gramsci e da
una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle
attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Amendola, Bobbio e Ingrao. La polizia
fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente
liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla
riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro
mesi C. viene rilasciato, grazie alla sua fama di religioso. Quale tremenda
accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei
religiosi», commenterà più tardi. Nasce il Partito d'Azione, la cui
dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. C. rifiuta di
aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio il rinnovamento è più che
politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica
e dell'economia. Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei
partiti, C. rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla
Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della
Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di
opposizione morale al fascismo. C.viene nuovamente arrestato e rinchiuso,
questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato. C.
cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di
decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di
Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla
libera partecipazione dei cittadini, uno spazio nonviolento, ragionante, non
menzognero, secondo la definizione data dallo stesso C.. Durante le riunioni
del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi
liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al
dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte
dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e
tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse
città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi,
Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi. Aldo
Capitini nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul
territorio nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e
con l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione
su scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere
sperimentati con successo nelle riunioni dei COS. Nel secondo dopoguerra
Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come
Commissario), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle
fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove
ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università
degli Studi. Parallelamente all'attività didattica, politica e
pedagogica, C. prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa,
promuovendo il Movimento di religione insieme a Tartaglia, singolare figura di
sacerdote scomunicato ed audace teologo, che però se ne allontanerà. Il
Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale,
che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa"
(Roma). Pinna, dopo aver ascoltato C. in un convegno promosso a Ferrara
dal Movimento di religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è
il primo obiettore del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di
Torino e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna
subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo
congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Si dimetterà dal suo
impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si
trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di C..
Dopo l'arresto di Pinna, C. promuove una serie di attività per il
riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma il primo convegno italiano sul tema. Il
Centro di Orientamento Religioso (COR) In occasione del quarto
anniversario dell'uccisione di Gandhi, C. promuove un convegno internazionale e fonda il
primo Centro per la nonviolenza. C. affianca ai Centri di Orientamento Sociale
il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas
(una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui
trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i
gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei
COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla
cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e
impegnato alle questioni religiose. La Chiesa locale vieta la
frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando C. pubblica
Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri
proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, C.
stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni
cattolici come Milani e Mazzolari. C. organizza a Perugia un convegno su
La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo
Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto
al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento
delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana
italiana". La polemica tra C. e la Chiesa Cattolica continua anche
dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa
per il Concilio. C. insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e ottiene
un definitivo trasferimento a Perugia. Tra i fondatori dell'ADESSPI,
l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. C. arriva
a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa, lui
profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le
idee. La prima Bandiera della pace Bandiera della pace
portata da C. nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso
la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. C. organizza la
Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si
snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora
proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la
pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della
pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. C. descrive
l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato
che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione
dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non
lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle
noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato
della Marcia». Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Calvino.
L'impegno di C. per la pace infranazionale e internazionale (con particolare
attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione
con Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della
guerra e le vie della pace. Negli ultimi anni della sua vita Capitini
fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i
principi di quella che lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e
delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In
questi anni C. promuove anche il
Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione nonviolenta",
l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene pubblicato a
Verona. Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore della
nonviolenza, C. non si sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte
le proprie energie alla sua attività. C. muore circondato da amici e
allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime
energie. Il leader socialista Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto Capitini.”
Una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, disponibile per
ogni causa di libertà e di giustizia. Mi dice Longo che a Perugia e isolato e
considerato stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro
corrente, e C. e andato contro corrente
all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per
una sola vita umana, ma bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del
C.O.R., insieme a Thomas. Il pensiero Religione e laicità Il
Mahatma Gandhi C. aveva l'abitudine di definirsi un religioso laico. Egli
accomunava la religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la
spinge al cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione
religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti
di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la
morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di C. dalla Chiesa cattolica,
complice del regime: egli sosteneva che col Concordato la Chiesa avesse
legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze squadriste e, in
tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte alla maggior parte
della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione religiosa. C. è molto
distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per C.:
per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa
da quella corrente, C. preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio;
per la stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di
fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. C. si dichiara
post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma
ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza,
anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la
divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere
cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non
dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le
Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha
insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo:
"fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu
in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i
limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi.
L'imitazione di Cristo secondo C. non è altro che realizzazione della propria
realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, d’Assisi,
di Gandhi, di Tolstoj e molti altri. Persuasione, apertura, compresenza,
omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Michelstaedter e da
Gandhi, C. indica la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda
credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di
persuadere gli altri della bontà del proprio ideale. L'apertura è
l'opposto della chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e
l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso Dio. Un concetto chiave
nella filosofia capitiniana era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e
dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi
nella creazione di valori. Nella vita sociale e politica la compresenza
si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione
tutta prende parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa
pubblica. La nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il
concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi
e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime,
ma anche un modo di essere violento e autoritario. Il liberalsocialismo
di C. e di Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di
Carlo Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime
fascista è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno
studiato ed insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che
lo precede temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta
antifascista, in Italia e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive
in modo diretto nella tradizione socialista. C. per liberalismo intende il
libero sviluppo personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di
valori. Il socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel
lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia.
Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli è una delle eresie del
socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (Piane),
si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai
totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e
l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta
dalla guerra. L'educazione e la civiltà L'educazione
"profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è
capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di
sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà pompeiana-americana"
intende biasimare la mentalità materialista che vede nel lusso e nel possesso
la realizzazione delle persone. Il "tempo aperto" è il tempo libero
che ognuno potrebbe destinare alla discussione, alla socializzazione, al
raccoglimento, all'elevazione spirituale. A C. sono intitolate strade in molte
città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa, Milano, ecc Riconoscimenti
A C. sono oggi intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e
tecnologica, un centro congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno
dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre opere:
“Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti
della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto della storia, La
Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in Atti del
Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La realtà di
tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria Internazionale
di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi,
Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione aperta,
Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la
religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione,
Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria);
“Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani,
Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore,
Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano
(rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma);
“Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti,
introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti
sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e
religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, Guerra
Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza,
Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della
nonviolenza. Antologia degli scritti, Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere; "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con
Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di Martini). Lettere,
"Epistolario di C., 2"con Dolci, Barone e Mazzi, Carocci, Roma); La
religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La
meridiana, Molfetta); Lettere; "Epistolario di C., 3"con Calogero, Casadei
e Moscati, Carocci, Roma. L'atto di
educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.
Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo
Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.
Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari. Lettere; "Epistolario di C., 5"con Bobbio
Polito, Carocci, Roma. Lettere
familiari, "Epistolario di C., 6"M. Soccio, Carocci, Roma. Un'alta passione, un'alta visione. Scritti
politici; L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia:
il potere di tuttiL. Binni e Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. La mia nascita è quando dico un tu, quaderno
per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di
Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e
Fondazione Centro studi C., Firenze.
Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di C.», Il Ponte
Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi C.,
Firenze. La compresenza dei morti e dei
viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con
Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Educazione aperta collana «Opere di C.», Il
Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro
studi C., Firenze. Note Incontro con il
"Gandhi" italiano, La Stampa; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale
soprannome è condiviso con altri, come Dolci e Corbelli C. ricorderà: «Gentile era impaziente che io
sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano
(per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli
italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor di più davanti
all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io, mangiando a
tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia
novità». (citato in Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo);
Romano, C. e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera; C., La
compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano; Da Le lettere di religione in. C. Marcucci,
Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana; Angioni, Tutti dicono
Sardegna, Cagliari, Edes. Dal sito del COS fondato da C. Testimonianza di
Luciano Capitini, figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più
stretto di C.; Vigilante, Religione e nonviolenza in C.; Martini, C. e le
possibilità religiose della laicità, Nuova antologia, Firenze (FI): Le Monnier,.
Aveva reso visita a Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a
Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia. Per un approfondimento, vedi i seguenti
testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano; Bovero, Mura,
Sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma; C.,
Liberalsocialismo, e/o, Roma, che raccoglie una serie di scritti; Premio
letterario Viareggio-Rèpaci, su premio letterario viareggiore paci; Craveri, C.
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Bobbio, La filosofia di C., Religione e politica in C., in Id.,
Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Areddu, La via italiana al
gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. C. ed Bloch,
in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica; Zanga, C.. La sua vita, il suo pensiero,
Torino, Bresci; Capanna, Speranze, Rizzoli, Mario Martini, L'etica della nonviolenza e
l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Martini, C. ispiratore di
Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e
spettacolo", Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e
nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone; Martini, I limiti della
democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi, Aldo
Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro
Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos,
2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini:
considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze;
Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di C., Critica letteraria. Napoli: Loffredo;
Martini, Mazzini, C., Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in
"Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta.
Biografia intellettuale di C., 1ª ed. BFS; Pisa, BFS; Martini, Laicità
religione nonviolenza, in M. Soccio, Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il
Segno dei Gabrielli; Martini,
Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore,
L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo
Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo
Capitini, Assisi, Cittadella; Sanctis, Il socialismo morale di C. Firenze, CET;
Pedretti, Spirito profetico ed educazione in C.. Prospettive filosofiche,
religiose e pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Milano, Vita e
Pensiero; Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo
Capitini, Firenze, La Nuova Italia, Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini.
Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen; Cavicchi, C.. Un
itinerario di vita e di pensiero, Bari, Piero Lacaita; Martini, La nonviolenza e il pensiero di C.,
in, La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella; Zazzerini, di Scritti su C., Perugia, Volumnia. Caterina
Foppa Pedretti, primaria e secondaria di
C., Milano, Vita e Pensiero, Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della
nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, Vigorelli, La nostra inquietudine.
Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal
Pra, Segre, C., Milano, Bruno Mondadori; Martini, Lo stato attuale degli studi
capitiniani, in "Rivista di storia della filosofia", Paolini Merlo,
La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una
categoria religiosa, in "Itinerari"; 'Erba, C., in Id., in
"Intellettuali laici", Padova, Martini, C. oltre il quarantennio
della sua scomparsa. Una rassegna, in "Quaderni dell'Associazione
Diomede", n. 2,. Mario Martini, Capitini, maestro di rigore intellettuale
e politico, in "Il Ponte"; Martini, C. e le possibilità religiose
della laicità, in "Nuova Antologia", Furiozzi, C. e Matteotti, Nuova
antologia. APR. GIU; Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: C. tra d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo:
rivista di storia: 2, (Milano: Franco
Angeli). Polito, Pietro, editor; Impagliazzo, Pina, editor, Bobbio:
testimonianze e ricordi su Aldo Capitini, Nuova antologia: (Firenze (FI): Le
Monnier). Martini, C. e le possibilità religiose della laicità, Nuova
antologia: (Firenze (FI): Le Monnier). C.
(Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4,
luglio-agosto. Danilo Dolci Pietro Pinna
Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza; Abate; C. Treccani Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana; C. in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Aldo
Capitini, su sapere, De Agostini. Opere di C.,.
Associazione "Amici di C.", su citinv. Puntata de "La
grande storia", su rai; Tesi di laurea: Calogero, C., BobbioTre idee di democrazia per tre proposte
di pace, su peacelink. Predecessore Rettore dell'Università per Stranieri di
Perugia Successore Lupattelli commissario Sforza Filosofia Politica Politica Filosofo Politici italiani Antifascisti
italiani Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secolo Attivisti italiani Educatori
italiani Nonviolenza Pacifisti Persone legate alla Resistenza italiana Poeti
italiani Politici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei
diritti animali. con C. Questo disegno di mani intrecciate in
una stretta che cancella ogni differenza di razza. Guttuso l'ha inviato a Capitini
con l'augurio che la marcia della pace sia un gesto che faccia
profondamente riflettere gli uomini e dia loro quel senso di
responsabilità che non hanno. :he la "Normale" a Pisa. Dopo la laurea
e assistente ri... di. Momigliano, quin- co- di segretario del
collegio te, universitario. Ma Giovan- al- ni Gentile mi ordina
di pa- iscrivermi al partito fascista:cia e io rifiutai. Venne cacciarle
to. Torna a Perugia e visse on dando lezioni private. Il suo ìon
studio e uno sgabuzzino me della torre: i fascisti (co¬ in- me poi
faranno anche i ele¬ vo- ricali ) cominciarono a chiamarlo il gufo. Ma
era un gufo che da fastidio, che tene contatti con antifascisti
come Pintor, Banfi, Flora, Alicata, Ingrao, Corona, Bufalini,.
Ragghianti, Dessi, Natta, Spinella, Casagrande, Agnoletti, Ramat,
Calogero. Allora eravamo entrambi radicai-socialisti — dice Calogero —:
ma lui in senso laburista, io rivoluzionario. Venne arrestato e
portato a Firenze. C’era una trama in tutta Italia, ricorda, ma non
riuscirono a scoprirla. Dopo tre mesi di carcere, e rimesso in libertà. Con
l’aiuto di Croce pubblica “Elementi di un'esperienza religiosa,” che,
come scrìve un giornale e allora letto e meditato da non pochi
giovani che poi si ritrovano nella guerra partigiana contro la repubblica
di Salò e i tedeschi. E di nuovo arrestato. Dopo la liberazione, pensa
di iscriversi ai Partito d'azione. poi non ne fece nulla . Ha un
programma troppo limitato, di tipo radical-repubblicano, che non
della non-violenza. In Inghilterra ne fanno una ogni anno, a Pasqua, ricorda,
da Aldermaston a Londra. Il corteo e lungo 5 chilometri: camminano in
silenzio assoluto, soltanto un tamburo batte le lettere “d” e “ n,” disarmo
nucleare, in alfabeto morse. Addirittura, le marce sono state due. Una
è partita da Aldermaston, Tal tra da Wetherfields, dove si trova una base
della Nato. I due cortei si sono fusi a Londra: c'è stata un'imponente
manifestazione davanti al ministero della Difesa. I dimostranti
erano migliaia, rappresentavano europei tutti uniti contro la
guerra del nostro inviato MAGAGNINI rale alTuniversità di Cagliari. Parlate
il meno possibile di me — dice —. Non è che io sia modesto, ma ho
paura delle contraddizioni. Sono su con gli anni, non posso camminare
per tanti chilometri. E’ seccante, ma è così. Organizzo la marcia è
non vi partecipo. Quand’ero giovane, invece. Cera un pretore ad Assisi, un
amico mio, un anti-fascista. Ogni giorno, si può dire, lo andavo a
trovare a piedi. Parla svelto: a prendere appunti, quasi si fatica
a stargli dietro. Piccolo, grassoccio, nasconde gl’occhi vivi sotto uno
spesso paio di lenti: tutto in lui è passione, energia, vitalità. A
Perugia abita in un attico, con un grande terrazzo, che superando
la parte nuova della città guarda verso Perugia, settembre PARTIRÀ’ da
Perugia, il 24 settembre, la prima « marcia della pace italiana. È una
marcia breve, 23 chilometri in tutto, fino ad Assisi. Ma non per
questo avrà minor significato, un minor valore. Vi parteciperanno
migliaia di persone: verranno da tutta l’Umbria, dal Lazio, dalla Toscana,
dalla Liguria, dall’altre regioni d'Italia. Cammineranno quasi in fila indiana,
sul lato sinistro della strada, per non turbare il traffico, perché da
noi solo per le processioni la polizia si mostra larga di
maniche e di vedute. Cammineranno in silenzio. Per loro, parleranno i
cartelli. Tutto per la pace, niente per la guerra. Più scuole niente bombe.
Viva la coesistenza pacifica. Libertà per i popoli coloniali. No all’imperialismo.
Liquidiamo il razzismo. Per la pace e la sicurezza disarmare la Germania.
Scuòle, case, ospedali : non armamenti. Fianco a fianco,
inarceranno comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani, socia 1
democratici, radicali, uomini di ogni partito e di ogni condizione. Da
Genova, persino Un terziarie francescano ha inviato la sua commossa adesione
: verrò anch'io, non si può soltanto pregare..Padre delTiniziativa
è Capitini, filosofo. ALTRI nomi? Rossi, Donini, Ragghianti, Peretti Griva,
Gavazzani, Spini, Jemolo, Segre, Lombarde Radice, Borghi, Bucchi,
Carocci, Benedetti, Arpino, Guaita, Butitta, Zavattini. Sono uomini
politici, giornalisti, musicisti. scrittori, pittori, giuristi, docenti
universitari : sano tanti, non posso ricordarli tutti... Non
credevo che la iniziativa venisse subito cosi compresa : persino
dalla India mi hanno scritto, persino protestanti, quacqueri,
obiettori di coscienza. Capitini non ha avuto una vita facile. Perugino della
generazione di Gobetti », come ama definirsi, nacque da una povera
famiglia. Suo padre era il custode delia torre del campanile. Ero tanto
povero dice -rry che studiai in ritardo il latino. Frequenta
Anche in Olanda, nella Germania occidentale, negli Stati Uniti, nel
Canada, nella Nuova Zelanda fanno marce della pace. Da noi, in
Italia, niente. Così alcuni mesi or sono, durante un incontro fra amici, l'idea
divenne decisione. Ora, per raggravata situazione internazionale, essa
sta per essere finalmente realizzata. Quando parla delle adesioni, C.
si commuove. Sono tante, tante: ho ricevuto centinaia di lettere.
Un ragazzo mi ha chiesto se può portare un cartello con una frase di
Anna Frank. Benissimo, benissimo, gli ho risposto. E' lo spirito giusto.
Mi scrive gente del popolo operai contadini. Questa invece è di Guttuso (e
mostra una lette- campagna incredibilmente verde. Vive con la
vedova del fratello. Il suo studio è una stanza nuda, quasi un solaio,
con una stufa a legna e enormi finestre: alle pareti, grezzi scaffali carichi
di libri. Si dice socialista, ma non è iscritto ad alcun partito. E' uno
studioso di questioni religiose, ha pubblicato numerose opere, una delle
quali (Religióne aperta) è stata messa all'indice. Anti-cattolico, ha
fatto di Gandhi e San Francesco i suoi maestri. L'idea della marcia
gli venne molti anni fa, quando fondcPil Centro italiano. C., docente di
filosofìa morale a Cagliari, è l’organiziatore della marcia della pace, che
parte da Perugia, 11 24, alla volta di Assisi. à 15. Aldo Capitini.
Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi
conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – praesentis –
praesentia – presenza -- diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu –
Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi
noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library. Capitini.
Grice e Carbonara – l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza. Carbonara Avant, do
lutter pour la libertà de penser et pour l'indépendance de sa patrie, il
avaiti pour s'assurer le pain du jour, endnré toutes les rigueurs
matórielles et sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti plus
vigoureux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la noblesse
d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à la foia touchó et
fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'ivemeut et
inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’a publiée lo
lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. con tutti i suoi difetti, i
suoi errori e, diciamolo pure, la sua oscurità — un vero
sistema. In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto
quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità: idea ovunque
presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli
svolgimenti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni direzione soluzioni,
buone o cattive, a tutti i problemi teoretici e pratici. Carbonara.
Grice e Capizzi: l’implicatura
conversazionale della topografia di Velia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of
philosophical intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be
dumb! Capizzi knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and
so is his philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma
madre,’ ‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational
implicature which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo
del dialogo’.” Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per
l'accurato studio storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone,
Girgentu, Roma). Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del
pensiero occidentale del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica
alle interpretazioni di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto.
A questo scopo collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di
inserire i sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico,
il committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla
tradizione orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di
Carabellese. Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano
intorno ai filosofi Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi
per l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento. Coltiva
due interessi paralleli. Uno, da storico, per la sapienza italica
arcaica, che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele.
Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero
nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente
accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici
alessandrini, Hegel, Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una sistematica
falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss,
McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi
speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo
tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo
gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne sul mito
antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli sulla
sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a
scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei
sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici,
occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola
città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu. L'altro interesse, preminentemente
teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare
liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di
passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella
comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la
conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi
di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e
"tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una
struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come
l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle
singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai
modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in
vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è
quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e
che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di
alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del
dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto,
non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato
sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto. Altre saggi:
“Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un
attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del
dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di
Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione
delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la
doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La
porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi,
Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela
filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo:
il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze,
La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura
dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica
della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo
tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma,
Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale”
)Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni
dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari,
Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale
internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi
pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la
polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate
demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’?
L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla
scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche
del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci, III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi
Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide,
un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e
Parmenide", "Sono/fui;
sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente
profonda" in Il Sublime: contributi
per la storia di un'idea (Napoli); "Trasposizione del lessico omerico in
Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche",
"Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici
attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una
delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata
soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo
accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia.
Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi,
te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact,
Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks
that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of
the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This...
I Romani, nel cui alfabeto figurava la V, non ebbero problemi di trascrizione:
influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24, modificarono in
tal senso il Vele... Dichtersprache und geistige Tradition des studi sul pensiero italico, IPOTESI ELEATICHE.
Elea: nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era
detta Velia o Veliae dagli scrittori latini (a partire da Cicerone ), Eléa da
quelli.. La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema (=
Filologia e Critica). Edizioni dell ' Ateneo, Roma Diese Arbeit hat zwei
Kapitel, die mit „ Il proemio di P. e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni
Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia, Alcmeone fu... 132; Catalano, '
L'Asklepeion di Velia ', estratto dagli Annali del Pontificio Istituto
Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara », Napoli, a pag la homoiòtes e
l'atrékeia, proponendosi di trasformare Velia (prima aggregato di corn, di
villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile. L'uomo. IL CARTESIO DI
GIANNONE. Un grande storico della filosofia C., La porta di Parmenide. Une
interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménid à la lumière
des fouilles de Velia. Eléa commencées par Napolil'uscita retorica dal dilemma
tragico C.. feste quinquennali Zenone ricomparve in città, e il...Pozzi PAOLINI,
Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a. C., La parola del passato” e
ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato
alla Velia reale anche in una metafora (p.... che si preoccupa di riu- -- nire
una città sotto una costituzione aristocratica, omogenea e proposta di una
diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi... del corpo sociale, doveva
conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle
loro ricerche scientifiche, come la scuola medico - astronomica di Velia. 1 tra
le vie e le porte di Velia, recentemente dissepolte; e i " mortali
ignoranti ” del fr. 6 tra i nemici non metafisici, ma politici, che insidiavano
la libertà della polis velina. Antonio Capizzi, incaricato di filosofia
teoretica presso l'Università di... un superdio – chi siede di fronte a te e
ogni moeclittico è già il proemio: di recente C. (La porta di...MACCHIONI Velia,
e Renzo Vitali (Una ricostruzione del Jodi ). poema, Faenza ) una allegorica e... da
dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui
dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole
appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Velia si accesero quando
Napoli pervenne a identificare la strada e la porta di Parmenide e,
contemporaneamente, Gigante pubblica sulla rivista “La Parola de Passato” una
nota, «Parmenidee», che attira l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse
grazie agli scavi condotti da Napoli. Si gettarono allora le premesse per una
progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone. L’emozione dei
visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui C. si dedica a
proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta
del sistema viario che collega il quartiere meridionale con quello
settentrionale, di cui fanno parte la porta rosa e la porta arcaica, con il
conseguente disvelamento della topografia del sito, stimolano C., a una
rilettura affascinante del “Sulla Natura” parmideo. C., La porta di Parmenide,
Roma, e, dello stesso autore,
Introduzione a Parmenide, Bari. Il lavoro qui proposto è il risultato di
anni di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla
discussione con Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e
alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla filosofia italica sono
debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le
origini di questo specifico interesse su Velia, devo invece risalire agli anni
universitari pisani, alle lezioni di COLLI (si veda), nel periodo in cui i
volumi della “Sapienza italica” stano vedendo la luce presso l’editore Adelphi.
Il primo impatto con il filosofo velino avvenne infatti nei riferimenti alla
discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della
filosofia, nonché attraverso la lettura del “Parmenide” platonico, proprio in
occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e
recenti editori dell’opera del sapiente di Velia: Tonelli e Giuseppe. Prima
dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione
delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica si è concentrata
sulla restituzione di un testo che tenesse conto dei contributi originali degli
editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni,
una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le
qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità
possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non
attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo
parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi-
sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche
metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di
proporre le mie idee sulla posizione del “Sulla nautra” nel quadro della storia
della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della
presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero arcaico (ovvero,
della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore
di Rossetti, a cura di Giombini e Marcacci (Aguaplano, Perugia). Parmenide e la
περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di Pozzoni, Limina Mentis,
Villasanta (MB). Il lettore trova nel commento ai frammenti e nella
introduzione generale un’ampia difesa della lettura cosmologica del “Sulla
natura,” ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di
Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora
del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio
lavoro mi sia concesso ringraziare i miei genitori per il sostegno che non mi
hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi,
e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è
dedicata. Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio, Parmenide e autore di
un'unica opera, “οἱ δὲ κατέλιπον ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας. Parmenide lascia un unico scritto (DK). “Sulla
natura” e un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la
titolazione di “Περὶ φύσεως”: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν
φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο
Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν. Parmenide intitola il suo poema “Sulla natura”. E certo
in questo poema tratta non solo di ciò che è oltre la natura. Tratt anche delle
cose naturali. Per questo non disdegna di intitolarli “Sulla natura”
(Simplicio; DK). Che in effetti tale intestazione puo risalire a Parmenide è
sostenuto da Guthrie, sulla scorta della parodia che ne fa Gorgia con il suo “Περὶ
τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως”. E comune la convinzione che, prima dei sofisti, la
designazione di un testo avvenne attraverso la citazione dell’incipit, che dove
risultare particolarmente incisivo, con l'indicazione del contenuto, preceduta
dal nome dell'autore sulla prima riga del testo. Analogamente a quanto
registriamo nel caso di Erodoto. Il trattato ippocratico Sull'antica medicina
riferisce la formula indentificativa -- “περὶ φύσεως” – sulla natura -- almeno
ai testi -- Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν. Empedocle di
Girgenti, e gli altri che scriveno sulla natura (De prisca medicina). È
opinione ampiamente condivisa che essa funziona, a posteriori, da etichetta per
classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema. In questa
direzione è possibile che, in particolare, la “Συναγωγή” di Ippia contribusce a
fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui
appunto la nozione unificante di “φύσις”. La denominazione “Περὶ φύσεως”, il
termine generico “φυσιόλογος”. Si tratta, infatti, di uno dei primi sforzi
dossografici, un'opera molto utilizzata da Platone e Aristotele intesa a
selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gl’enunciati
trovati in ogni genere testuale (poetico e [Guthrie, The Sophists, Cambridge, Naddaf,
The Greek Concept of Nature, SUNY, Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per
il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa. Balaudé,
Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei
Presocratici, a cura di Sassi, La Normale, Pisa. Gorgia ne avrebbe portato
avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli
insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia influenza direttamente Isocrate,
Platone e lo stesso Aristotele..]6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne
convergenze e stabilire linee di continuità. In ogni caso, al di là della
discussione sull'attendibilità storica di quel *titolo*, non è contestato il
fatto che fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in
altre parole, in ricerche sulla natura delle cose. Sebbene risulti problematico
accertare se coloro che chiamiamo «filosofi» fossero consapevoli di contribuire
a una specifica impresa culturale, sottolineandola nell'intestazione o incipit
dei propri contributi, è tuttavia difficile negare che si fosse diffusa la
convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura – la “φυσιολογία”
-- iniziata con Talete. A quali contenuti ci si intendeva riferire con
l'etichetta “περὶ φύσεως”? Quale significato è da attribuire a tale
espressione? Secondo Naddaf, che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con
ἱστορία περὶ φύσεως si dove intendere una storia dell'universo, dalle origini
alla presente condizione: una storia che abbraccia nel suo insieme lo sviluppo
del mondo, naturale e umano, dall'inizio alla fine. In effetti, origini e
sviluppo sono etimologicamente implicati in “φύσις” o “natura” di “natio”. Nella
forma attiva-transitiva, “φύω”, o “natio” – “nazione” --, il radicale del
sostantivo significa «crescere, produrre, generare». In quella medio-passiva-intransitiva,
“φύομαι,” (nascior), invece, «crescere, originare, nascere». La prima
occorrenza del termine sostantivo astratto femmile “φύσις” – cf. “natura” --,
nell’Odissea, si registra nell'ambito delle istruzioni, da parte da Mercurio a
Ulisse, per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé,
Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy,
in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici.] ἐσθλόν)
contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe. Ulisse
racconta come Mercurio, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta
medicamentosa, “μῶλυ,” ne illustrasse la
natura – “καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε.” Per un verso, in quel contesto, il
sostantivo astratto “natura” o “φύσις” può apparire immediatamente sinonimo di
εἶδος, μορφή, φύη, termini ricorrenti in Omero indicanti la «forma»: è per
altro evidente, tuttavia, che quanto Mercurio rivela non riguarda semplicemente
l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive
qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Mercurio
si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto,
bianco. Omero o Ulisse utilizzano il termine astratto “natura,” quindi, per
denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo
anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la
radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo).
In questo senso il termine astratto “natura” – that Austin hated (“The De
deorum natura, -- what else can Cicero speak, and in what way is this different
from De dei?) “natura”, o φύσις occorre nelle più antiche citazioni della
sapienza: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ
ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν
ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ
φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα
ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται. Di questo logos che
è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia
subito dopo averlo udito. Sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si
mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali
quelle che io presento, analizzando ogni cosa SECONDO NATURA [KATA PHYSIN] e
mostrando come è. Ma agli altr’uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno
da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno
dormendo (Sesto Empirico; DK) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ [la
natura, secondo Eraclito, ama è solita nascondersi (Temistio; DK). Sebbene
nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione “κατὰ φύσιν” sia per lo
più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza»,
incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico
sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno. In questa accezione
la natura o φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn ha marcato,
invece, come la formula del frammento di Eraclito attesti già un uso tecnico a
ozioso del termine “natura” nel linguaggio contemporaneo, per designare il
«carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe.
La comprensione della «natura» di una cosa – e non la comprensione della cose
-- passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo.
Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita nella “natura” o
φύσις: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio
alla fine – con tutte le sue proprietà» Se ora torniamo al trattato ippocratico
sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza di una
produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal
contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς
οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο
δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν
ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano,
Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques,
«Philosophie Antique» (Présocratiques), Kahn,
Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett, Naddaf] περὶ φύσιος
γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως
ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ
φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ
φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e
sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di
non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda
curare correttamente gl’uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia,
proprio come NEL CASO DI EMPEDOCLE DI EMPEDOCLE DI GIRGENTI E DEGL’ALTRI
FILOSOFI COME PARMENIDE CHE SCRIVENO SULLA NATURA: che cosa sia dal principio
l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che
quanto è stato scritto da medici [FISICI] e filosofi sulla natura abbia più a
che fare con il disegno che con la medicina [L’ARTE DEI FISICI]. Ritengo che in
nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non
attraverso la medicina (De prisca medicina). L'autore, evidentemente polemico,
marca in effetti lo scarto tra indagine medica – da parted ai fisici -- e
indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera contrappone all'approccio di
coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè
speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν
μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della medicina
(ARTE FISICA), in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso
del tempo e l'osservazione. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione
alternativa che egli anda criticando, possiamo leggere un altro trattato
ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse
da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι
λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο,
καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10
καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει.
Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare,
rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e
sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa
sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela
quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui
polemizza l'Antica medicina – ARS FISICA) nella tradizione della ἱστορία περὶ
φύσεως: lo schema adottato è infatti il seguente: Originaria caoticità e
indistinzione di tutte le cose; Processo di discriminazione degli elementi
(etere, aria, terra); Formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra
formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente
costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione
teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del “Della dieta”, De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς
ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ
τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν
ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι·
εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ
ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul
regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere LA NATURA a di
tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio,
riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella
composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se
poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere
all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la natura di tutto
l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento medico. Ciò
implica evidenemente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ
τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’
ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν
κεκράτηται). Conoscere LA NATURA comporta, insomma, risalire alla composizione
originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al
principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua:
Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν
μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e
tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il
potere di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco
e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra formazione biologica dell'individuo
umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione
dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze
relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici
12: l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la
cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste
indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente
al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica
della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici
avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica,
prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella
narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre
passo del Fedone platonico: Naddaf, ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς
ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ
μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ
τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente
affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava
fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi,
perché si corrompa e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della
fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista
Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già
riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che
chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla
generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna
cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica,
Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della
esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale
rappresentata dalla propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo
non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere;
contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per
Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione
del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate
in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo
scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13.
Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione περὶ
φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro
accidentale di un non-specialista come Senofonte: Adomenas, Plato, Presocratics
and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso
filosofico nell’età dei Presocratici, οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ
ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν
πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ
τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma
nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio.
Egli infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera
della maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti
chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei
fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili). Non solo appare assodata - a livello
di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca
«sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la
funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e
ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως
[...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea"
che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è
infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος
ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους
πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ
καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A.
Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une
catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet, Qu’est-ce
que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) Beato è colui che alla
ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né
contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando della immortale natura
l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine fu composto e in che
modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso,
addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra
contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della
«natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di
formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso
omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione –
l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un
processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non
può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il modello
peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha
certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la
tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia,
infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono»
(τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di
tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς
ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ
οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης
τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων,
καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης
φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro
essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono,
permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni,
questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo
credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale
natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di Aristotele,
la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella riduzione
degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della φύσις
soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ
φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano
coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica natura,
quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica), all'unità di una
sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή)
delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella
ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν
τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς.
λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν
τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς
κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι
κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν
τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι
τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν
τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου
τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως. Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose
che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene,
infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti
elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i
cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui
le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse,
infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo
l’ordine del tempo. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto
qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla
alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del
movimento eterno (Simplicio; DK). Senza
scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano
intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine
del Milesio: l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων)
sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione –
nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία),
costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro
generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι)
la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria,
attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών),
secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la
causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i
contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le
osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ
φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia
originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno
anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger,
accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla
ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica
medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi
in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei
processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti.
Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus cosmologico:
οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς
καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ
ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης
ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς
ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν.
Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa
il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che
modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio
dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia
sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad esempio calda quella
del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo
modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, Trad.
Carbone, BUR Rizzoli, Milano). La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi
filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata
intorno a: 15 J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London, Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze (i) natura e
proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); individuazione
della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); modalità di generazione
dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν κόσμον
γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema
parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne
citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto
probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono
univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le
affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ
Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης ἐναρχόμενος
γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo di lui (=
Senofane), Parmenide iniziando appunto
il Peri physeōs scrive in questo modo» (Adv. Math.). Si tratta ora di capire
entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di
Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία
Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di
Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della
sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del
Sofista, che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19
dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce
di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione
è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν
διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα
τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide
e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti:
quanti e quali enti esistano. L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari,
e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono «tutto a
corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (οὐσία)
«nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε
καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema.
L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il
riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα
e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν
ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα
γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος
εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi
sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta]
che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta
reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e
procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri]
sono due - umido 17 Su questo punto Cordero nel suo commento a Platon, Le
Sophiste, traduction et presentation par Cordero, Flammarion, Paris; Palmer,
Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford. e secco ovvero caldo
e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio. È appunto all'interno di
questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente
che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del
“monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non
ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla
discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due,
gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι
πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς
μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche
prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato
"tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista).
Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente
funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito19:
nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la
scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui
principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea
le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ
πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι,
τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν
φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ
Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di
accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide
in direzione delle origini. Su questo il commento di Fronterotta in Platone,
Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano; Palmer, πολλά, καὶ οὕτως
ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά
Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno,
e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece,
sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e
consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non
esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di
simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto sottolinea
la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι
πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον
χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi
propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della
dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo
rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi
passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone - la
riduzione della dottrina di Velia alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con
un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide, nel
Sofista: Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι
βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, [Sulle fasi della ricezione platonica di
Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit..
22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη
μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le
parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di
ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di
più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò
che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà
parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del
cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ
δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς
ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς
τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν
περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς
ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ
οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ
φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης
γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura
congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di
Palmer sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i
viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure
possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni
parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di
tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più
bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno
per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era
rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da
sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno
di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato
prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione
e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione. Indizi lessicali che
invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di
entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il
precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25,
la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata
sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica
(ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità
degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale
condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι)
- secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione,
traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano. Passa, Parmenide.
Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24.
24 Su questo punto Palmer, Brisson, Introduction a Platon, Parménide,
présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris. esistono
realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a
loro volta costituite da componenti elementari26. Eccentricità di Parmenide
nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica,
Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro che
sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a
«coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi
(nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della
discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα
τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ
τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε
τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a
sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi
della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come
di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per
conformità alla natura, Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi
seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς
συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι
τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι
μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον
εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una
discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi,
infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come
uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano,
invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento,
facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il
tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla
presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui
principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto
trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla
ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi
«sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς
ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in
effetti, lo avevano pensato incausato27. In De Caelo si sottolinea
ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν
πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους
καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ
φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον
δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι
καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα
καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι
δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας
δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω
μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe sono espresse
e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro
dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo
sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni,
infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero
che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che
ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si
esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che
parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti
ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa
e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano
esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono
delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza
o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti
riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo
esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo
rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di
«generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti
«ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di
un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ
προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come,
secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e
fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver
coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso
«l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a
ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui
Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy,
OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da
Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato
l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele
avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni.
27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo
di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς
μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης
καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε
τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν
εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν
ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην
συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν
ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio
aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è
il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che
affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che
l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo
rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica,
su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di
mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che
affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale
tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui
pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È
significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio
commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto:
τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας
ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι
πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν
ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς
τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς
ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane),
Parmenide - figlio di Pyres, velino da Velia - percorse entrambe le strade.
Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo:
piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di
aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di
spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi
siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK
28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la
valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla
prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura
nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto
per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν),
cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la
produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo
senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di
pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare
ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν
ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30. 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano
1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di
Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i
commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro
(secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle -
«ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e
Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς
φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di
vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31
e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue
le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo
successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le
principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie
aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra
registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si
sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del
sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi
diversi33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da
Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς
ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche
«sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων).
Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν
λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di
determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην),
come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a
essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta
riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi
«all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene,
Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo
riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è
stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla
cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf,
op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza,
David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal
universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The
Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its
earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione
della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura
ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol.
II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità
(τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel
Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di
Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus
"aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo
grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i
cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere
(ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria
(ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e
non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ
μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così,
secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς
31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose
che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità
(πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo
Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς),
ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di
una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un
autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica,
relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν
φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν
τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ
τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν.
ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ
>’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ
πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν
καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide]
non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio,
pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo
"essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per
uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in
quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile
vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge
l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei
mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con
cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus
Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente
significative perché intervengono a correggere l'interpretazione
"melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui
«Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν
ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il
platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della
realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in
precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo»
(διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista
arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ
στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ
τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ
σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν
φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν
Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la
tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in
effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta
anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti,
come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno
scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28
B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione
dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da
quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra
sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la
"eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma
della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας
Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ
ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι),
la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è,
infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla
totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua
posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto
essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ
τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον
εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς
ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν·
διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che
ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino
necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che
ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che
fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere.
Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto
essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose
che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come
principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la
tradizione del pensiero arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto
secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S.
Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia] risultano in effetti «elementi
dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto
ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza
dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei
φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione:
«ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας
ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva
come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente
consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e
sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica
IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea
(dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà
riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν
coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici»
avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più
generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς
οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita
ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου
[σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso
dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per
la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in
considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente
sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni»
(σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla
reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo
Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione
veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν
τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque
anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e
hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come
«coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον
φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che
«indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν,
Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla
natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione
circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito
«all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la
natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella
sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni
«sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν
καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας,
καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι
γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον
εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato
secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati
come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che
delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera
origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e
l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università
degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di
vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che
non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga
da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono
che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191
a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui
principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν),
Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι)
come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ
τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro
erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας).
Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la
difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato
la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα)
36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo
conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È
significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin
dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione
posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza
dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di
Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως
nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente
riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi
eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971,
pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci
fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso,
Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto
ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la
seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la
nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009,
p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας
e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente
di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula
«indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad
accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38.
Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν
λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν,
ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν
πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας·
ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ
παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e
spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe
seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile
e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in
questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce
dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti,
invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et
corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua
paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di
«razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare
sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità
scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La
generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M.
Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale
abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio
frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione,
introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104.
38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν).
Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed
"epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la
determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine
gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν
πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le
letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero
«l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον)
«senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές),
«saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ
πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le
incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del
mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto,
omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale
ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una
trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude
con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto
dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita
riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua
accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41
Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54.
Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva
come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia
dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è
espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des
Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine
260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare
comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and
Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op.
cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di
Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo
squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione
dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα,
B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al
«percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος,
a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio
programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con
il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν
αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν
ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ
καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄
ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della
pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e
le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua]
natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e
come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45
L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I,
4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai
precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che
l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία
sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come
appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è
allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda
sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo
dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente
conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza
cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα
πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι
διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità
ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale
credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle
opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti
(B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà
genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le
infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e
comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza
antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα
τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ
ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’
ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ.
τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε
θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più
inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra
camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin
quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli
dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con
animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra,
quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137)
θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve pensare
cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν
δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo
opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce nella
contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur
limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica -
per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini:
letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης
εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è
certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità
delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia
funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile
(δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): a dispetto
dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una
sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile
credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto
di vista espresso negli attuali frammenti, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως
tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti
di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας
δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων
ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono
state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte
invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il
nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento verosimile Eppure il passaggio
tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν
λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν
ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso
affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni
mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare
(B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si incrociano le due
prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale
opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica
della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo
rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non
essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ
ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄
ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza
morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii)
dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e
potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che
la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα
φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del
tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali
possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca
alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli),
può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su
«ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole,
essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa
parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo
scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide
nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che
Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ
μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ
Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a
Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica;
per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti
risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK
28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ
Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ
οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui
chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte
ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna:
Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per
una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero
Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione,
testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in particolare
pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition of
Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006,
pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico
della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva
biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata
da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature,
cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è
infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente contrasto tra la condanna
della confusione "mortale" tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι
ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali
esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma
di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο
δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono
(B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche?
pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν
- ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due
forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono
andati fuori strada (B8.53-4), e la sottolineatura (nel già citato B9) della
riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ
ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε
καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La
distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi
consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza
della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di νοεῖν
(comprendere, concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di
espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica con il ragionamento») - degli
attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il complesso della realtà colto
come tutto-intero); (b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di
conoscenza è indiscutibile nei frammenti attribuiti alla seconda sezione - che
possiamo definire "empirica", dal momento che si concentra sulla
natura delle cose che incontriamo nella nostra esperienza49. In realtà il
quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa
che deve indurre cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza
razionale» (via d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto
diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera
esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui
dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel
commento, tale rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, estrinseco
rispetto alla comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo
propulsivo dell’opera, la condizione di continuità entro cui le due sezioni
assumono il loro senso e il loro statuto50. Un elemento andato perduto nella
ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato
citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione
culturale dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo. L'oggetto di
tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta, nei frammenti sia come
risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op. cit., p. 241. 50 Su questo
punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de
Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez
Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄
οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν
δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o
non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una sintesi
intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: λεῦσσε
δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera come cose
assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti,
che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni
direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo secondo caso, la
costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza degli enti,
prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄
ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da
passato, presente e futuro – degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι
48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo
opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del
discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea della
tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale
delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che
sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e quella
peculiare alla concezione arcaica del divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono
sempre», Iliade I, 290)51. La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi,
come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che
scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·
ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario:
essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la
verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola
divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν
γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo,
così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge
all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα 51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e
della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero
origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la
[sua] natura (B10.1-5a), e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e
cosmologici (in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις
δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη
πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde
ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli
astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste
sulla necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità
e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette,
d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle
denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso
di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta
dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo opinione». Essere e natura in Parmenide Nel
proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato -
Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον
βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν
οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν),
ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον
πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e
assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione,
pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia
fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il
non-essere. La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto –
apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico,
sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo
ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una
considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come
uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni:
nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati
fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di
dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi esplicativi.
Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei
frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in
termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei
«segni» di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ
δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti
nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte,
della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni
direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte,
anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo
denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ
πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς,
πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ
μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e
queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose
e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe
alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo
autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e
autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la
quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole
della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo
del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello,
fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52,
sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono
a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism
and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P.
Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.;
D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da
una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham,
“Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge
Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e
articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham,
Explaining the Cosmos, cit.. Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di
cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse
approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo
ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi
riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri
indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo
sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di
Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza
di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54. Il
materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del
Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul
testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo
immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco
occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad
ambienti pitagorici 55, e che, analogamente, tradizioni del testo si
affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore,
dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo
di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica,
ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia
attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che
cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi
dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54 N.-L-
Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la
direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987,
p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua,
Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di
Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a
proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta,
replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita
il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16
(Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza
postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in
una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del
frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo
derivino da Platone 57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58,
non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato
utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante
dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per
l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI
secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare
la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di
analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di
prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A
Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto
dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come
unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita
estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua
epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che
direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio,
Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος
ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58
Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum,
Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι
παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ
Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei
aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere
uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto
parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro
filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio
(VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI
secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo
d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come
Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la
possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62. Le fonti e i
loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia
disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto
e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali
istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee
appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno
(II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene
Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti,
ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.),
Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.):
Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op. cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p.
2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56 Fonti attiche Possiamo supporre che
le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo
Passa64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano
a memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del
materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e
Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V
secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione
e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua
volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici
che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli
insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato
tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e
Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur
avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite
ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici
nella loro lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche
- Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso
a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non
siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3
volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco
accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di
differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può
essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte
tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi
risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F.
Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età
dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp.
288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek
Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal
Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo
usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto.
Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni
alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La
recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già
in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato
interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico:
modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo
doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso
accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la
spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i
neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da
Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione
"accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema
disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che
Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver
attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si
sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione
"dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni
da compilazioni70. 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione
dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo
più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata
in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei,
Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo),
dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò
questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata,
abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la
cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo
tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà
pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De
historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e
soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da
pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti
ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il
primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del
Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come
fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di
ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che
egli citi da fonti attendibili71. È probabile attingesse a una tradizione vicina
o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano
coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle
alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione
plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene
Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della
validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche
da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico
testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento,
con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle
fonti)73. Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel
complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò
che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia
l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per
sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον
- fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in
parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun
affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da
ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli
Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli
dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio
(III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p.
27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3.
59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui
gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo
fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe
escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del
Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di
Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il
solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale
alternativa a quella attica77. In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la
citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua
interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte
intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso
italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il
testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente
da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a
conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile,
dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da
esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver
attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza,
sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa
costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella
sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che
fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7
(vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo
lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti
isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31.
79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume
invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3,
B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino
alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di citazioni:
gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32,
B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82,
ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si
concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti,
probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in
considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il
testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e
derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene ormai
modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione
del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la
ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della
propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare
di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich),
forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86,
di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di
Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e
Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni.
Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i
due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87, esemplari
di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione
accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente
discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon,
op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84
Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag,
Sankt Augustin 20012, pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35
ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca
dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529
dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e
l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe
(531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran
(Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo
il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam,
(iii) in categorias, (iv) de anima89. Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli
attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in
effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori
successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a
rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero
di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare
che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due
redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e
Proclo)91, a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono
l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti
fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema
sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato,
nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza
citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide
sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità
dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio
l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un
indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi,
p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi,
pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς
αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος
καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον, ἐπὶ δὲ τῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν όμασται τὸ ψυχρὸν καὶ
τὸ ζόφος καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi
si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per
questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la
densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Dopo
B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato
incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην
τι ῥησείδιον, di «un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il
commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene,
riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)!
Whittaker94 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva
presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated
source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede
dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva essere
discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla problematica
situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di
Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii. Passa
ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore
neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo
esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto
nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in
the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae Citato da Passa, op.
cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως",
«Rheinisches Museum» Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος
γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός
τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ
μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ
διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non
essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande
Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro
ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi
versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una
pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti
fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro,
l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di
informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un
modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre
dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza"
platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la
convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in
prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ
Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν
δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa, op. cit., p.
25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano
questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di
Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di
Mileto. Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa,
come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco
avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in
prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a
ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che
Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia
della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto
storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi
dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore
del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si
riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola
platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di
Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99.
Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di
commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da
Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia
della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione
del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino)
imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti
interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una
verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra,
Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p.
145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più
lucidi testimoni100. Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico
(cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica
dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la
valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e
Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori
presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei
pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere
gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come
anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le
citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la
possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema,
che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri
settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della
presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di
adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un
possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una
probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti,
alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto
utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G.
Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita
di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e
l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della
filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia
e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista
e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene).
Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che
riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102
Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105
Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa,
ibidem. 107 Ibidem. Edizioni del testo consultate Per il testo e la traduzione
ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die
Fragmente der Vorsokratiker, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526
[indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana,
quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di
Reale, “I presocratici” (Bompiani, Milano). P. Albertelli, Gli Eleati.
Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari
[indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e
testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane.
Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A.
Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli]
Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a
cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione
come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A
Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo
l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and
Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965
[rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento.
La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld,
herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de
Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L.
Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa
aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las
Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla
discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei
manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème,
présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H.
Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale,
anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante
le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la
direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai
critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la
discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione,
francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien]
Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by
D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione
come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze
indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio
introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991
[non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio
commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il
commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch,
Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch]
Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté,
traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo
l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction,
présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale
1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura,
introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano
1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la
discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi
con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels,
Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser,
mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von
D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897)
[rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente
culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema
sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’Ordinamento
della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram
Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles),
Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura
Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo
l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide,
Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010
[indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The
Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics,
translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge 2010
[indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali risulta
ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word,
Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London
1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008)
[indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 69 Molto utili per la
discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des
Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo
l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo,
Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi
di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale,
per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è
strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller –
R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume
III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R.
Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento
bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento
B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan,
“Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic
Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229.
Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux
chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione
del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo
come Passa]. Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and
Eleatics. An account of the interaction between the two schools during the
fifth and early fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge
1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M.
Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy,
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Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius,
Parmenides. Some Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides,
herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione
originale 1934) M.C. Stokes, One and Many in Presocratic Philosophy, The Center
for Hellenic Studies, Washington 1971 M. Pellikaan-Engel, Hesiod and
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ama nascondersi. FYSIS KRUPTESQAI FILEI, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano
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Onomacrito, Adelphi, Milano 1978 W. Schadewaldt, Die Anfänge dei Philosophie
bei den Griechen, Suhrkamp, Frankfurt am Mein 1978 G. Colli, La sapienza greca.
Vol. III: Eraclito, Adelphi, Milano 1980 G. Wöhrle, Anaximenes aus Milet. Die
Fragmente zu seiner Lehre, herausgegeben, übersetzt, erläutert und mit einer
Einleitung versehen von G. Wöhrle, Steiner, Stuttgart 1993 Ch.H. Kahn,
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(editors), Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos,
Ashgate, Aldershot 2002 A. Laks, C. Louguet (eds), Qu’est-ce que la philosophie
présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du
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SUNY Press, New York 2005 G. Rechenhauer (Hg.), Frühgriechisches Denken,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005 La costruzione del discorso
filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della
Normale, Pisa 2006 C. Rapp, Vorsokratiker, Beck, München 20072 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine
misteriche, Pomba Libreria, Torino 2007 Die Vorsokratiker, Band I (Thales,
Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer, Xenophanes, Heraklit),
Au- 74 swahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M.
Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2007
[indicheremo questa edizione come Gemelli Marciano] A. Bernabé y F. Casadesús
(coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid
2008 The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W.
Graham, O.U.P., Oxford 2008 Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009 Die
Vorsokratiker, Band II (Parmenides, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente
und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano,
Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 G. Wöhrle (Hrsg.), Die Milesier:
Thales, De Gruyter, Berlin 2009 [Traditio Praesocratica] Die Vorsokratiker,
Band III (Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia, die antiken Atomisten),
Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura
Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2010 Il quinto
secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S.
Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011 La Sagesse Présocratique.
Communications des Savoirs en Grèce Archaïque: des Lieux et des Hommes, sous la
direction de M.-L. Desclos et F. Fronterotta, Armand Colin, Paris 2013 Con la sigla
LSJ indichiamo H.G. Liddell, R. Scott, GreekEnglish Lexicon, revised and
augmented throghout by H.S. Jones, Clarendon Press, Oxford. Frammenti testo
greco e traduzione italiana. Le note al testo si riferiscono a problemi di
determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi
di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1,
ἣ κατὰ †... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει
>3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν
-, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς
φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι
κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται
μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ
παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua
originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein,
1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce
l'arbitrarietà. Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente
corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη
(L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ
πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da
parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture
plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ;
Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si
veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a
χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di
considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ.
5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il
κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo
plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della
aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da
Passa (pp. 99-100). La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. πεῖσαν
ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι
[20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν
11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν,
ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, [25]
ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo πυλέων
trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di
Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a
Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels,
nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di
conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata
da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che
conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10
Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo
codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello
stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in
verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero.
Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei
(Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p.
85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba
doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si
veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico
attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in
un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato
συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι
συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di
editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse
basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il
segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e
tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano
riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide,
che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia
contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν
- ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ
σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE
riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J.
Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378):
«the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici si
giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver
confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione
data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da
un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non
sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che,
meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N
abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte
(ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi
difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato
appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di
Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ
sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome
relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la
mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu
originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel
proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di
Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da
attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende
la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri
editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto
divino. La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. Secondo M.E.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in
questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla
«nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ
forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p.
77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels
1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη,
evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In
considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe
definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la
maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Marciano] ἠδὲ βροτῶν
δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21
χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23. 19 Degli ultimi versi del
proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse
citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico;
Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e
ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος
(«ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte)
del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito
(tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero,
Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di
Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος
(che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld,
Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa)
preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile.
Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità
della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore
acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra
l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema
che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio,
che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di
Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe
invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei.
Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer
(op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math.
7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la
liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione,
riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico
dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la
lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato
come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti
illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato
vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la
forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione
del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione
autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.
22 Nella sua edizione del poema Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come
δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad
aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv.
1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In
Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30
Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II,
366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos
VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta
ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23
La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre
il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più
preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281
ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei
presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω)
non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8),
incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba
comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα:
in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno
del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa
forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin
dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4, 1 Il testo greco riporta ἵπποι
ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e
Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo
Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il
verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio
all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo
(impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del
presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio
ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse
effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui
nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione
(passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria
attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»).
G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di
scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464)
osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»:
Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza».
A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe
in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad
averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è
avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il
viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo
che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore
di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È
plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che
parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo
sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano
(Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero
all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura
del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è
già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4
L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè
un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato
un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp.
65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos
(The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments,
Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5, dopo che,
conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21)
sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è
quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del
pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario
greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto
durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5)
denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso;
le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema
ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto
precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per
una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del
proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza
dall’Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 104; ora anche Il
migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne,
Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e
all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno
dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie
in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che
Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio
interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica
(connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di
comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano
il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος
δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p.
170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico).
Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico
riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola
del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il
Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti
escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che
precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p.
387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di
iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς
φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come
rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo
cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è
richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta
†... †11 l’uomo sapiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente
riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un
contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora,
come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides &
Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto,
essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni
giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare
l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta
del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona
di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso
bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre,
sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων
(maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v.
22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte
del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla
divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso»
suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita
l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la
divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος
come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli
omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida
su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da
identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea
XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che
portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da
considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo
coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo
cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando
(Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla
Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima
direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo
possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato
celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al
testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte
degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per
tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ
(Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero,
interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del
dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν
> (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero
portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’
ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha
sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ
< σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In
questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος
δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea
il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»).
12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner,
Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della
tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la
Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per
altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla
percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze
preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso
avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die
menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da
Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza
visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica
è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe
rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella
stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea
come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta
narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già
avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e
Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova
dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la
paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la
situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con
la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso,
come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il
poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di
tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare
questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla
successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente
introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal
momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di
luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza
nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di
conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5]
trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un
sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il
poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo
racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti
in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle)
e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima
ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione,
sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un
difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark
Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per
incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un
effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe
essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di
guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto
sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι,
riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»:
supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute»,
«molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e
le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro
trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata
spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato
all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo
sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha
la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o
nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o
cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un
carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la
figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue
esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti
(v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono
un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile
contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al
carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così
traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a
canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto
dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al
carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche
(Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a
86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati),
mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo
abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a
esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso
stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della
σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche
«surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e
altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva
– sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice
concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento
pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che
πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di
πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto
non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι
determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle
Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono
all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento
esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες,
appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe
aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il
riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del
fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del
padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita
dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in
pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo
ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini
sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia
del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι
– secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione
corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della
Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale
luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine
δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della
casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία
esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso
del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi
con le mani i veli dal capo27. prigione dei Titani): la casa della Notte - in
cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata,
oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In
questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei
sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo
il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi
passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra,
ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri,
p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata
l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro
della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike,
Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero
intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle
Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile,
tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione
mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in
Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato
come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso
immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto
al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura,
analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo
infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice
oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος
può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce»,
ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche
per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata
la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione
appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata
dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς
φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite
possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora
appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di
rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ,
alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata
successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon). Ma la luce
potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come
resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade,
dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p.
173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare
l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2)
con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i
battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto
scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto
della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460),
invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος
rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è
destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di
Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ
Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte
oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745).
Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι
κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta
nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a
Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle
Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57)
suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα
ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione
aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto
dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale
πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande
portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien,
p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2)
riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon,
per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede
che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono
condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione,
incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a
viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale
lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX,
312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero;
uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit.,
p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i
versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il
quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla
tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la
Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta
del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo
dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba).
Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte
e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole
(sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta
varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione
distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli
usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare,
secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene
effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale
κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati
segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109):
si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ).
La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e
attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a
un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.)
è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un
analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In
relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che
οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il
suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi
esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας
προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται,
οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα
γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν
ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di
varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la
porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma
sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa,
attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti
nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35. Nel poema di Parmenide
troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero
(Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo
potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la
collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna»
piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta
intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della
struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un
vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due
porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione
interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella
regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta
sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che
toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán,
O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura
eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra.
Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora
suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La
scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p.
453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è
quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il
soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene
che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso
esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che
con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe
(come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός
(«soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli
estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver
avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno»,
replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8).
34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli
editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con
acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»),
di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι).
Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36,
che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39. [15]
Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso
molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico
del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα
(«porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come
correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella
tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore,
sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749;
VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che
anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti
del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è
tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la
ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e
Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di
natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe
garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente
segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei
versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh
πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione
è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di
segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come
sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su
questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos
(p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle
retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa
direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto
proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe
quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana
(Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz
autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il
pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39
L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe
riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta
(Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto
è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike
regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe
spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti
plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo
πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso
associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la]
persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello
togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44
produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo
ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46, anche la
scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza
dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la
descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato
dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di
una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo
Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato
come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali
del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di
chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello
stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è
documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a
Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei
precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione
χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è
in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia
(740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della
voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della
titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151),
comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide
sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece,
rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia
petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con
la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo
da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non
ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E.
Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta”
dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune
illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in
italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella
avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente
si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le
fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi
accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma
sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada
attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada
principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine
segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non
è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione
sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore
religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di
interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per
l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è
interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia
(Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera»,
«ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era
chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente,
Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa (p. 53) ha di recente riconosciuto
in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La
filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la
θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come
Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in
Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese
Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp.
337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a
Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto
con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi
analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia
di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis
des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso
che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ
(Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In
particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza
ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana
del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit.,
pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su
Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma
rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto
di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla
figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e
così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali
guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di
identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era
quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In
alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide
evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161).
Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op.
cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti:
(i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico;
(ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come
θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema
"epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che
questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario
viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove
l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine
(Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a
testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere
nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo
greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26:
«spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono
impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di
partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p.
8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine
vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta,
potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli
interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente
raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il
figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un
legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i
giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a
Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe
titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo
sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola
accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε
a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il
termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato
a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da
accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»),
con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso,
dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono,
giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva
a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli
uomini57), ma Temi58 e Dike 59. Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63
apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da
sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in
questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι.
Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles
1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle
Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος
designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per
indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e
governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari
(op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe
δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione
che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire,
figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per
indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo
preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e
Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più
preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o
«destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione
τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire
dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della
strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato
lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento
coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È
probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico
conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος
δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade
popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era
una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore,
nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e
Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento
rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle
Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti
dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata
per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle
parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due
dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e
impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di
necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti
(p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità),
rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma
cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce
valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano
(«also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse
solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione
iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino,
quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato
nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero
e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro.
Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo
di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una
necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una
costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno».
In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere
è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op.
cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per
la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62
La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è
significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione)
della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le
articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi
personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità
«tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il
valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero
«imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva
ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon
(p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel
contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer
(op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce
con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik
(Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della
preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e
non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e
soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare
«riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In
effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi:
Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato»,
vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità
sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette
soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a
chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale
manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere
e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già
Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3),
poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν
ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa
opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno
agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili.
L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori
presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ
φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi
hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti
(Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha
fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere
di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate,
accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί
τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della
inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il
proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso
contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da
Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale
rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala
l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei
reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora
da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina
appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea
del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico,
soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe
fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso
proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66
Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben
rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος,
se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»).
Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν
δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione,
Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής)
a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come
la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος),
in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua
esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile
l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte
sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è
che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone
e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il
significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche
l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque
denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati
in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a
un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda
palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali,
uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a
quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente
tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός,
sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È
significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità
all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella
letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in
cui non è reale credibilità70. connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ
può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la
fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in
riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p.
199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951,
p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la
sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ
Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme
linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68
L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per
adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale),
«incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»),
suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato
tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας
(«opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere
divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς,
v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei
mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare
il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι
– che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva
registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e
scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i
«mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per
esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche
(p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un
punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come
portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali,
impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo
l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν
ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è
uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un
lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione
che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il
termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die
Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100
Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74
fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori
attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore
anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις
sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di
«trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia,
non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto
della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da
congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco
omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più
tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero
(p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per
introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel
nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe
sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà
essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un
altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show
the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the
opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p.
211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto
precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero
specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue
(in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima
soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile
la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una
proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti,
come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe
stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in
Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p.
302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un
valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si
riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti
(«le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα,
quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il
senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione
(corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι
ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι),
ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni
semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si
raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce
piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74
Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne
le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le
cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio
di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro
contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di
vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu,
p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose
che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai
mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati
intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204),
che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice
dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali
ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono
accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui
i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria
dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t.
II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la
formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in
contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una
formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione
autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il
doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto
al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento
aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα
e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ
e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine
sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo,
nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si
preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e
all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In
questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ
δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da
loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per
spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76,
tutte insieme77 davvero esistenti78. 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito
può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle
erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide),
ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala
Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato
che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il
verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto,
opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico
pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una
prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di
quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di
Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how
what they resolved had actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato
come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere
espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore
pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente»,
«accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente»
(secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà,
si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come
irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una
sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito
(O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43)
cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει...
(anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero
opinioni]. Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e
δοκίμως comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio
sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è
coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità,
plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile», «approvato»,
«stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di «mettere alla prova» e
«approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di «come
conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek-
evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit.,
p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι),
ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso
di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario
acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77
Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una
formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su
paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica.
Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them
together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso
platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ
παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In
alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto»
(Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la
funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco,
delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha
giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le
letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come
participio e non come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ),
ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà
che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà
permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω,
κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως
ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ
-, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8
- 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo
da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i
codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria
scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da
verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal
punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel
testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava
l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati
creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota).
Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero
(N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur
Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione
di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di
Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva
come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante
rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come
in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli
Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di
Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La
formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova
solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I
codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio
παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88.
Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7
Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I
codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι),
quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in
Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8
Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam
116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la
forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in
Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione
Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il
significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non
si può raggiungere». 106 Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una
volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata
nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio
un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2
Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si
rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX)
ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che
ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura tradizionale.
3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come
di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6).
Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la mia
parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera,
invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te». 4
Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il
latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di
completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è realmente,
effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la
parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è
autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a
cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32). Parola, quindi,
intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos
(p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel
contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In
questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore del termine è quello di
«discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo progressivamente, nell’uso
post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di
«resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla luce di tale
evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre con
«story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato,
C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o
genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune
ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo
senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su
Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un
aspetto essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La
pensée de Parménide,, Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler
autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura
delle mie parole dopo averle ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte
assonanza con Odissea XVIII, 129: 107 quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8
per pensare9: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti
dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni
interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole legittime»
(Conche, p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca»
indicate costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In
effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal
relativo significato. 7 È interessante segnalare come il termine ὁδός – che,
nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia
solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si
sviluppa un’indagine per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea
di «direzione di vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è
possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in
riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In
Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un
peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op.
cit., pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per
giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre
l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica
all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come
l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico
di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria
ricerca rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being,
O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del
termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è
(B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di
ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5)
rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare
una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno,
assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto.
L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che
non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op.
cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per
l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito
aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato
letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di
possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La
scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non
essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive
congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività
di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È
possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle,
dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ
νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa
dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι:
«Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir». La
Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide,
e propone, di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le
interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e
quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva
e finale dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer,
Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren
Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in particolare il
problema dell’impraticabilità della seconda via per il pensiero. Contro la
lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4.
Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari
interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come
«comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia
dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e
più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.).
Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per
designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che
Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro
significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia,
l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente
Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e
una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding.
Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il
verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra
l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10
L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν
- ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente
corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo
contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa
(retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In
questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16
(a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è
possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario
non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo
Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono
due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito
a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero
introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa
italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali,
servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva,
manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il
migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi
con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι,
«essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore
(esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra
i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y
a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non
attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento
per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come
soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13
Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non
[c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il
non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι:
«che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio
5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per
attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva:
«che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che
non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le
sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp.
131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der
da laPomba) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le
premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être».
15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad
Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È
dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in
apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami
persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5]
l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19. Proprio20 questa ti
dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella
affermazione appena introdotta:«è e non è possibile non essere». 16 Il termine
κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via»,
contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione
di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già
segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale»
e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più
esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso
7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una
formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce
alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola,
intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio
omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato
da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della
realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare
naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è
necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών
può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς,
assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in
una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come
conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in
espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be»
secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di
χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e
interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio
potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una
possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione
proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8):
«l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito...
l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito».
Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da laPomba)
“es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le
Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il
est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή,
che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per
marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti
cosa fattibile25), né potresti indicarlo26. transizione nel discorso della Dea.
In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν
con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella
frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare,
evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito
nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è
contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4:
mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν
«lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via,
Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato
secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare –
attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso
attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero
«imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si
tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto
essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è
scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in
B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo
il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la
realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό
μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177)
essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato
in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione
τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso
precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via,
necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è
attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω
(«fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo
commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo
a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da
ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità
che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La
traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in
segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso)
manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112
Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del
motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un
viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere
οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti
parlarne». 113 DK B3... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente
Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5;
Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey,
Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due
luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa
cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford,
Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con
valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe
kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller,
rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien
(pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità
sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν)
ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet
une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same
thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa
soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi
oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già
attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op.
cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte,
seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del
greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ
predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che
tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto
del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα.
[35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è
quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»),
variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is
(there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la
prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire
razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a
νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz
(K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy
(Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical
Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi
«comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema
di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica:
sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima
(p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire»,
cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione
che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno
con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la
continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una
perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già
proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in
questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις·
[B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché
quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che
dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ
κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II,
335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum
Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de
Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione
sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con
la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli
editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I
manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει
sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente
antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp.
34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει
in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona
singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un
esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al
pensiero4 saldamente5 presenti6; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero
(Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare
simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità
associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla
precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne
accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra
parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico
significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità,
trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose
lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo
materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e
nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così
la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra
l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile
legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238)
suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo
lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente
riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo
direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento»,
ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα
dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe
appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio
βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come
suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso
giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30:
τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non
restare con sguardo esterefatto. La collocazione dell’avverbio fa pensare
tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo
d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di
stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130)
rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7, infatti, che
l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine
dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma anche un
modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione Graham (Explaining
the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University
Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura
a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio
DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζονες μέζονας μοίρας λαγχάνουσι destini di morte più
grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere
terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più
gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando
la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto)
della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non
impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe
espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις,
«troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il
participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo
come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con
articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169),
Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in
effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere
dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della
traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was
heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul
duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere
di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe
scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due
valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha
insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso
verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il
participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente
l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che
sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη
(B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί
sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il
cosmo11, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2).
Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità
degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto
concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato
verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma
farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come
il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio
πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro
avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore
spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi
presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del
mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra
espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto
«nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in
order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la
Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non
alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla
formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo
«in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando
κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5
ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In
Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i
codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci,
dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK
28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a
basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back
to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso
complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37),
suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν.
122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ
ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †...
† 5, 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten
congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la
riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia
accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di
Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori.
3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp.
101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più
affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ;
il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B
e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una
lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente
accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄
ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il
pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al
rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»).
Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia
Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del
discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd
insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω
πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso
affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni
mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare.
L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di
B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più
riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄
ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In
Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv.
8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i
suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la
propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58).
Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra
i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται,
dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe, secondo
Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione
manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso
avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la
derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della
espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di
πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento
intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si
trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi
parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di
πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p.
47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia
correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo
la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come
sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di
Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi
editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e
pensare1: «ciò che è è2 », è necessario3; essere4 è infatti possibile, 1
Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da
Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν)
introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora
più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero
(ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra
traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari
costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce
Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono
registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή
regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro
articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare
ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante
interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de
Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι
(ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è».
Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce
diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b)
χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è
articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che
siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon
(pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν
εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone,
Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è,
di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being».
Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ
di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui
dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»):
così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per
mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli
tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di
necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare
in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su
questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5, invece, non è6. Queste
cose7 io ti esorto a considerare8. riducendo così l’impianto modale dei primi
due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4
Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti
il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione
dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati.
Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito
sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri);
«infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being»
(Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura
potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano
τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si
accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei
soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi
versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto
perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per
riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come
infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di
possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni
sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che
sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che
sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien
e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»;
«for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in
questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera
frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una
cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in
questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere,
intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come
μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere»,
intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare
l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità
dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo
essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to
be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc.
Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è
convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con
l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare
l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per
prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10, e poi da quella11 che
appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien
(μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in
entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is
Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale
a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004)
e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene
improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p.
113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ
εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is)
is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la
traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά
(accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al
contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2
precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è
necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione
sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9
Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel
considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός
διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione,
e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude
Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν
τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del
non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a
costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold
you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti
distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo
lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni
interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso,
per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in
funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127
[5], uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente
errante17. Essi sono trascinati18, 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il
pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto
Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere
in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la
posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione
che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il
tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in
particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della
κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la
loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες
οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non
conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti
alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico,
l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che
Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si
riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e
in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo
essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità)
incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica
il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse
espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia
mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di
aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di
impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella
costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini,
ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli
uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte
alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove
è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon
(p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός
distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale
del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione
πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della
«mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la
mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo
sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20, per i quali esso21 è
considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24. 18 La forma verbale φοροῦνται
rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei
«mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol
marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento
uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la
stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα
sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza,
tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea
intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con
l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente»
erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri
anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21
Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato
Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per
sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da
riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp.
115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide
dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una
costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον
πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche
misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui
τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha
attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit.,
p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla
opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il
passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a
νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da
contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale
πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose»,
ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo
οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien,
Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83)
segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide
riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo
παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7),
indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali.
Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della
presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza
che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una
interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di
DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ
τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso,
armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa
interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston &
D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il
termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle
cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito,
invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK
B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2
εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα
καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα.
[vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis
Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele
(EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ.
Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ
(Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio
riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di
Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene
Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The
Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga
discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone
(seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4
Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131
Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che non sono4. Ma tu da
questa via di ricerca5 allontana il pensiero6; 1 Coxon (p. 190) osserva
giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare,
per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del
successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di
τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto
τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto
precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa
a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera
dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci
ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»).
Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso
dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle
citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista
(241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται
βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ
ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla
prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che
il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un
certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A
rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il
suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso
lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando
l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ
argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero
(Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato
l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così:
«Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si
richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso
espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán
(p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei
sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia
violenza9, 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ
συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ
συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9]
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la
contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano
vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli
opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In
Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono
l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver
allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge
[citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via
che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1.
Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra
l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui
impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza,
organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono
citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale.
Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i
due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia,
non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle
interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi
scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio,
l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia
del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e
contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα
(abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda
condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe
autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe
da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄
ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11
[5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16
precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche)
per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine
generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas
(op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce
la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto
riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei
nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri
scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con
«molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con
«induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia
tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel
senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217)
osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità
e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα
e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le
collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6,
infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella
stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192)
sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la
lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua
proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo -
«risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77),
il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto
a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come
riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due
aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la
solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il
linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza
ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri
organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma
l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo
sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità».
13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel
senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi
impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce
«entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del
termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di
μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale
(emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema
(B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος
è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul
parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra
λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di
cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a
differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla
verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di
recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale
significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος
avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli
preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in
genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a
contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero
(By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia
ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata,
e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente,
argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando
l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare
un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e
funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος.
Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come
significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano
(pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha
ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già
implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la
forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie
tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando
correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata
completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche
riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo
della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo
πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si
riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da
Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di
combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza
dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo
- rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me
enunciata17. Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides,
cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it
must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won
over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come
«giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e
Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata»)
alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai
passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con
«enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la
presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti,
tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine
cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo
lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J.
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic
Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio aoristo come
«when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla
scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII, 111), che il verso
iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα).
Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia
improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici
DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte,
rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa
(p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover
accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i
codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ
τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra
gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4
L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento
alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e
Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente
accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella
V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita
dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές
(«è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien
e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula
introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia
ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30)
in un caso solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso
commentario, 6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε.
Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è
per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come
suggerisce Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale
parmenidea a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec.
a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai
codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in
PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo
secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti
antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν 6, ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄
ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ
ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον,
φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta
anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον.
La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον
del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le
trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον,
ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il
suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον...
πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le
implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ
τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri
(Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno
proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher,
Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον.
6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio,
Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον.
A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non
sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà,
ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν,
συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione
difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni
codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo
più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9
Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel
significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha
riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici
attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula
analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp.
80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν,
sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto
riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ
ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ
γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
[25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe
atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello
operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da
ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di
concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può
avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον).
La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102),
ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con
qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio
rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle
implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso
della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di
Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende
πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una
minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten
propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò
che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi
abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata
nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄
(EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei
codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel
commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il
testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον
ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής.
ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν
οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς
ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei
codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16
Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio
(Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di
Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico,
resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con
varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6
Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές·
μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge;
d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute
ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile,
propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile
appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori
(Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk,
espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con
buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές
riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione
da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in
cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito
all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo
scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta
da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν
ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien
(p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per
precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito
da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F;
143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri
manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40]
γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143,
23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice
di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo
esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto.
Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is
not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per
aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né
esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che
(con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende
(integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31)
– οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a
favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si
trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del
frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione
dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una
libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque
suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema
disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87,
1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone
(Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di
Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1
EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29,
18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di
difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono
tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται
(Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri);
(ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli
accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa
seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti
secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180
e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ
(α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci
sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον,
τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς
πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ.
οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν
ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30. [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio,
In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a
χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la
forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea
Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo
dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide
impiegasse la stessa formula πελέναι... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a
χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν):
l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels
(1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26
La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori.
Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε
ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten:
i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La
lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo
secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un
relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo
determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ (espressione
omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di
Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è
emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4 «è»,
rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione greca
(aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la
connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie,
esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei
mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene
chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto
lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Burnet),
ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left
to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in
B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso»)
proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il
valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso
di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti
posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the
Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore
di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p.
541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon
de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo
oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il
contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via,
resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore
della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non
significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda
il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra
σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla
convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze
dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi»,
«segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi
anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione
lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non
perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα
sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di
essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la
via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα –
rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma
della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di
conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la
determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un
rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili
deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi,
piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il
Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg.
Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des
parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p.
142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e
inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere
non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i
segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il
kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel
momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il
termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p.
219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza
superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore
anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina
successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di
σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici.
Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del
motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere
la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia».
Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i
segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara
Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in
effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare,
mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano
si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope,
dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del
mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità.
Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα
e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve
interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per
giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι
τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo
oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in
questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai
mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza
nascita8 è ciò che è9 e senza morte10, fuori della loro portata. La Robbiano,
per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe
ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione
essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e
Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della
dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere.
Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza
dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere
razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν
καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς
come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán
p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b)
intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and
imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable»
(O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La
costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto)
indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia
il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e
dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo,
manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui
il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p.
95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto:
Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una
loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o
di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ.
μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον,
λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν
σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso
indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio,
dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che
tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α: στοιχεῖα.
παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo
indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita
(Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma
che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe
stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός
τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il
termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p.
97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura
greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον
in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga
all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale
dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo +
aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della
esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν
come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta
di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più
astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con
valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è
anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di
essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto
sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo
al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato
atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione
dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti
si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10
L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa
privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)».
Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di
Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide
ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella
testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in
riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ
ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale
sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono
Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe
significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori
arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni
caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle
tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto
intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo
come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità
implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12
Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di
μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il
valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha
significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221),
collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia
426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione
sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di
“nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine
μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque
veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi
μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere
distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due
(Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο
(B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della
contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς:
"monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai
vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of
Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione
è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον,
sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel
significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità,
immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto
con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle
successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ
τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι
μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente
da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R.
McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un
tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook of
Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008,
p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a
esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere
pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe,
quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza
di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147),
tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo
avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα
φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici
erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai
misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές,
indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico,
evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa
alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui
apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza
misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale,
Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον
dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri
(pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto»,
riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un
tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30,
4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di Parmenide
è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93). 15
Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai».
Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione,
riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come
indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe
l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo
verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes
d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le
tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si
riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè
se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni
iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice
escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non
sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il
fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente,
senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p.
207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota
un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136),
«l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata
temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe
una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso).
O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν:
la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto
ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare
la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere:
l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti
temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel
rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e
futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere
sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della
“atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo,
Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103
ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica
consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali
(tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e
implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si
sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un
condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo
Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è».
In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di
Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del
tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere
non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento.
Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una
continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una
esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe
conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale
pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the
Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149
uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in
forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza
ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del
passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con
l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois»,
accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava
l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero
parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è
solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui
l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere
piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p.
215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi
come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la
cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente
rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione
platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner
preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon
osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il
termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui –
qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota)
legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato
modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe
«all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177),
Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune
a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno
ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές,
ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice,
ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il
precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso»
(Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima
serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni
dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco
dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione
argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare
dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con
«origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul
valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich
(Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo
passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le
divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non
permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che
«non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30, [10] originando31
dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita)
la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La
formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso
dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su
direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce
senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo
(αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito
riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli
infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica
situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato
le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano
equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la
seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle
sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede
un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla
negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla
razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe
rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione
introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno
dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27
Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit.,
p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential
generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί
χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale
circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo
per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da
O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo
avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in questo modo la forma
«irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa) veicolata
da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον,
che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa
dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal
nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal
nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per intero o non sia per
nulla37. 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o
«crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può avere funzione
disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco
letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder
später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o
prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or before» (Coxon),
«plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è
comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che
[\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10
avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion
sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché
si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe
della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la
centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il
«pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è
espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse
marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un
qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe
offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p.
194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più
presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come
manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in
alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il
“principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché
esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre
McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica,
che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è
potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la
tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la
conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il
senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più
naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a
quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre
l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo
valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua
funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la
discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio
(esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In
questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà
forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è
giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ
οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da
considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la
formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per
niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via
(adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude
non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere
e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non
costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la
krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38
Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo
comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro
passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ
Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι
(οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti
sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si
genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non
essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata
anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con
chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic
Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il
testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ
τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι
τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες
ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον
μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων
ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν
γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’
εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a
esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le
catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori
antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno
indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come
spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in
effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si
genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è
impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera
(perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa
deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze,
affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39
L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza»
(Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni
caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine
da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199)
rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto)
avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un
riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un
ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41
Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono
«oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος.
Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei
codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al
non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea
introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i
precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare
ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che
segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è:
nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere
accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual,
accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a
qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo,
introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146).
44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza
mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge
dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15]
ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è
dunque deciso, secondo necessità49, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e
sia reale52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti,
che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163)
– il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è
definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura
l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa
garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante
dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide
(Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico
giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità
logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171),
Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che
è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει,
per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν.
47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola
ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a
marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È
esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν.
In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di
richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a
proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della
corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»:
rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale.
50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono,
a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione
dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι).
51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che
non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso,
non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che
non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla
Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e
sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon
(p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής
(B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53
in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti,
non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà
oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide
la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima
generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede
in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla
verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di
Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51)
Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la
formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la
Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via”
può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel
poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a
Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci
sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi
come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è
sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati
sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5.
53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν,
e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in
cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende
diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come
into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what
becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata)
di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») -
invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa
eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto»,
«essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si
colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο –
aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a
una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a
essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo
emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche
Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi
verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo;
ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60. aoristo, si riferisce a
una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità:
se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien
(“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153)
osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole
intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla»
anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente
Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è
ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero
che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come
«essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la
condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza
dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione
(O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139).
McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione
nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può
essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora
possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità.
Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa
arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura».
Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere
durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται
(«è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita)
sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella,
adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo
emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta
e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno
intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione
aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono
sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al
problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non
si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo
Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60
Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche –
l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche
ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus
generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p.
196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι
(«imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la
via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era
impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è
divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che
possa impedirgli di essere continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la
corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la
generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere
investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97),
secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro
la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe
appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via
negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è
effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come
osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla
seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare
divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di
Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo
segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione
interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne
seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come
Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza
svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p.
203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv.
22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»:
ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ
διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον,
da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo
stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti,
contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore
avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o
omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale,
«interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende
impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114)
ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι.
In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa:
mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo
l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il
valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197)
sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding
together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di
meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69. [25] È perciò tutto continuo70:
ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. del verbo a quello dell’attributo
ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala
come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di
individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di
estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per
rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204)
sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso
avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν
come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full
of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò
che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere
(uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la
continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is
adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso
dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò
che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura
complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν
πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi.
Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il
contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione
ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e
Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος
come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha
nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p.
197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v.
22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel
successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe
equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale
indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria
occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno».
McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la
relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si
tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua
ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di
difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce
l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente
collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73,
immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi
segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει
la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta:
l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo
leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non
è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso
al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la
molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti
Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino
il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò
che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di
molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan
(p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una
interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel
contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore
progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74
L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da
quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non
suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di
muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán
giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον
si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su
questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata
– a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale
insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei
grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv.
27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere
ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν).
Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel
contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa,
limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la
questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di
ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità
fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il
«movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti»
(πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione omerica
di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto
di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una
posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma,
quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza
fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione
genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»).
Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui
che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti.
Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La
locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un
autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è
questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della
freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in
Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi
limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e
πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto,
"e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229)
segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio
«torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è
evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della
relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la
possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si
ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a
un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda
arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo
«mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo
omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon parallelo per
l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο,
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose
chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77
Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere,
diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero
implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v.
4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12
A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον di esso non c'è
principio [...] immortale e indistruttibile. 161 Identico e nell’identica
condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84, 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è
possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and perishing
have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo
caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio
del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come
l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si
allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga
distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non
con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in particolare
la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del
valore di πίστις, intesa come convinzione, convincimento che scaturisce
dall’esame condotto correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico
uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la
prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso
dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce
di privilegiare il significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ
μένει è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e
«restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207)
insistono piuttosto sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale
(come confermerebbe l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle,
Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua
portata più generale rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende
escludere dall’essere. McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una
nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è,
riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in
questo senso «identico e nell’identico» sarebbero implicazioni di «è
pienamente». Anche le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» -
supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di
essere in quel modo. 82 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26
di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει
ἄλλοτε ἄλληι Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si
addice spostarsi ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva
come καθ΄ ἑαυτό possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche
«indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle
Idee). Nella sua prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85
dove è86 persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione
plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere
in quel modo. 84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le
posizioni di Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito
eracliteo, di Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30
sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119)
osserva come la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v.
29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e
autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare
all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e
identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al
rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo
della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον,
che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200),
il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al
v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono
limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio
tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece,
preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non
temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι
μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa
legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene
(Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι
μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime
dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso
siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è
tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi
variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere
militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la
stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto
intorno lo rinserra91. temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il
radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan
(p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi
esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di
essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è.
88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è
figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán
p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione,
traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel
suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione
intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9).
Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in
Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di
necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W.
Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene,
Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione
come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964,
pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri
termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento,
schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere
che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine
proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare
appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι
τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del
cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la
funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in
termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione
κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης,
nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente
necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero
«nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui
vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la
tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali.
L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan
(p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento
ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de
Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non
incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II,
pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει
θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν·
ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ
δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il
canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima
dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad
esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di
Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per
cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio
ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν)
il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il
significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e
può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto
preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la
perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il
ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile
matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον
nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto»,
«imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e
l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il
valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che
legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians,
The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World,
Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882, pp. 426-66. Mourelatos (p. 121)
sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia
un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας,
come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento,
realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di
viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe
il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94
Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la
costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e
il pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio
sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere»
ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci
troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere
(τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in
effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto».
D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea
ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di
tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus
che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche
Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto
convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le
implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […]
né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi
non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è.
Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del
testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine
Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp.
121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il
verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza
sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso
avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò
significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della
redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen
vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il
testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre
fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e
pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia
a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari)
implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili
altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A
Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio:
nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41.
97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande
discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i)
«thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there
to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p.
203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché
non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101, come un richiamo di
B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98
Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta
conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò
che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che
è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla
scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche
l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti,
ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come
congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La
stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought
[apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the
same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien
(«C’est une même chose que penser, et la pensee: “est”»), Conche («C’est le
même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la
pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula
pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa
lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il
pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for
conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist
Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire
e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there
is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das,
was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore
finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist
eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de
quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente
McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato
l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una
sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che
sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte
varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono
rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al
quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp.
123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been
expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia
opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La
Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo
τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta
quindi: «for without Being you will not find understanding in that where
understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà
altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere
intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109, has been given
expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula
implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe,
insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova
l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare
le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più
naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che
risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen
findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota),
πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere,
ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo
senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le
due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La
formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104
Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità
di pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di
altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105
Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a
giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν,
la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di
metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due
connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità,
reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto
segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è
probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così,
l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della
costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp.
171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento
che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua
traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si
appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς
ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che
fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112
e mutare luminoso colore113. natura è data come nome a questi [processi di
mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque
assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ
πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli
editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è
singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα:
genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo
nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è
variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop),
attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real
world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo
riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato,
come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha
tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo
(blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo
greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi
decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui,
in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria
comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo
noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38
argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è;
i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali
pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente
(veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei
loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come
generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide
sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le
designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere
stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella
espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa
«spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica
nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115
estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a
massa120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma
solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il
secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon
(pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to
bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9)
della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono
soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά
ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di
«complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire
quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può
omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale
(come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos
(pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia
progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per
raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo
πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo
estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo
(Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza
di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha
convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali,
letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso
metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime
occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali,
ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il
contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo,
valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva
l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di
riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le
apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe
l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da
Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme
davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a
τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una
prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170
suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che
rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente
una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a
σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può
tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da
intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente
all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta.
Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp.
213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non
dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di
una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si
tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua
misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma
della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente
tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di
astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la
tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva
a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per
estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla
sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν
riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe
un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio
perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha
sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν
– e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma
archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel
tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare
a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere
fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è
veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione
per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione
εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide
qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη),
la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è ancora
da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta non sia
direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di
ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda.
L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal
centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non
sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro
l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine
geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe
senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore
più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De
Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966):
l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide
avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere
sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà
fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico,
occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici
della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212)
ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme,
attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la
somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere,
è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità
della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il
termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con
Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e
che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso.
Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con
μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento
alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera),
marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed
eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν
ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda
con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη),
dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda
palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza
(Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa
«spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e
Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»:
forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla
periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna
in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come «uguale
a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico
dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di
Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si
riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui,
invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125, da una parte o
dall’altra126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di
giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è
129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132. di equidistanza: ἰσοπαλές
esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in
questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità
dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano
anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10)
osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli
esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta
uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ
ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più
né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128
Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente
interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che
è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e
Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso
(traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano.
Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere
aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον
ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la
pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide
ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando
l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi
differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere
il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) –
per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la
ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta
proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle
ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la
circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il
v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso
da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo
modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro
i [suoi] limiti rimane135. ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione
(riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il termine
ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico
religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri,
associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era perseguita, come
sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit.,
p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione
del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia
della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere
diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi
o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide
afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che
esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti.
Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel
senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il
quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere
quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una
lettura diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un
oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134
Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come
«ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di
qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di
affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150)
traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un elemento dinamico, in
tensione con la precedente connotazione statica dell’essere, presentando
l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi come un
respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato
dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità,
dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον
ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων
ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν
- ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο
χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ
πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ,
πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8. 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη
come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας,
forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di
Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία;
alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ
in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il
verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν
(rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto
rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi
fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che
suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il
testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande
acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa
forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν
(«raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della
cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario,
il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon
(p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come
opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla
fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον.
Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe
allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto
verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam
145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella
trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra
gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del
verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore
nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I
codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori
hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2; da questo momento3 in poi
opinioni4 mortali5 impara6, l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può
ingannare11. 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può
riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada.
Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si
potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche
come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio
tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι
παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o
«considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del
soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con
«opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione
sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242)
sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere
all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto
partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed
esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza
dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza
dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ
(«apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con
un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta
dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere
κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da
preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien,
p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226)
indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione
ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV
secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la
composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come
«composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua
congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve
esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère
("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur
Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come
complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del
mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in
Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che
funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente),
precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione
originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello
specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e
della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a
ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος
significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in
avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto)
il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le
affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di
per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in
quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo
possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di
responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai
pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p.
218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe
contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo
riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111).
Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le
implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole
che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur
impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà
evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος
viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la
propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201)
il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per
il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare».
La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se
trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza
fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un
complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con
«seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso
dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore
(come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto,
l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della
formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a
due16 forme17, ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la
tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare
veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia
che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle parole della dea o il
loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo
senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα
(«simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi
come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe deliberata e
maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e
Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da
parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia" innocentemente
(senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo
pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12
Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto
nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia
comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani», cogliendo una
connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv.
34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per
esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali» possano
essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto «alcuni»
(certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa?
Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la
sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e dei
successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis
(Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente
dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la
Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso
(B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο,
ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato.
Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe
da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso
κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si
potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe
costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο
(«due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar
nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai
loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora,
considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da
κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa,
invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They
estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας
come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes
pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase
molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea
anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non
possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto
del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili
essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel
contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di
vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la
traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per
nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe
essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») –
tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di
intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque
tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di
Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma
della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe quello
di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi
decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due opinioni,
vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5).
14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 354) ha di recente
sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in quanto quel che
segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv. 51-2:
assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di
"restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che
segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di
vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica
un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄
ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose
saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo
stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ
μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον
ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono,
e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli
uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di
restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo
effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è
indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto
in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16
Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia
una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato
nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di
B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246)
quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due)
sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente
la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare
direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ
μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò
che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella
stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte
la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of
categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By
Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms».
Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del
successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e
Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of
Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di
μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un
osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà
alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario
[nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21. 18 L'interpretazione del
valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina
nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri
da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende
rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto
essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme
come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere
nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di
fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in
quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην
(non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un
punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e
non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i
contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano
stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una
senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right
to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una
terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius,
Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford,
intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre
(oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata:
«mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so
much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due
forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa
sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta
possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già
nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e
approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener
Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name
two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli
uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo
in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso
avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione:
μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί.
Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono
riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata
traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica
grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung
dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine
einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in
diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura
sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a
Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp.
169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di
τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122),
dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες)
e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19
Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi
della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo
scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla
relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus,
Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp.
117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito:
sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide
utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν.
21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»:
conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso
del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello
status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare,
πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante
che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In
questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai
pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura
dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo
ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto
un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp.
104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno
fondato la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che
sono immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24
opposti25 nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini
di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere
e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e
ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati»
concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle
«opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una
nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa
esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto
dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere
– secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche
in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso
soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto,
per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece
scelsero... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto
indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non
è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la
Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24
Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente
«cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e
στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i
«segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di
«elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25
Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio
(«in modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate,
«relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece,
pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in
relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e
di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine
δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe
che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene
che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto:
risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per
sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più
sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di
«segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld
(p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma
etereo fuoco29, che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione
identico31, coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle
proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione
avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221)
ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto
che il fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia
luce-notte rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti
pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the
Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente
Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς
αἰθέριον πῦρ risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere,
infiammare») come «celestial light», originariamente indicante una condizione
del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla
regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός):
nel tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato,
finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora
attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi)
sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο.
30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo
il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa
Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione,
soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare
poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp.
207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» -
sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con
la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri
fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di
spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su
questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et
philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza
della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono
parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i
Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld
(p. 140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la
nascita della nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non
identico32; dall’altra parte, anche quello in se stesso33, le caratteristiche
opposte34: notte oscura35, corpo denso e pesante36. proprio «auto-identità» e
«non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi
concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite
della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie
cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e
non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il
gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di
cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν
[...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non
la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The
Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld
(pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella
delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete.
L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude
ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto.
Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit.,
p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno
dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non
si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale»
sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva
confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p.
240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e
κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come
τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del
verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e
le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere,
percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare»,
«conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche
«absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro»,
proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo
ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42, 223)
preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in
francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata:
«dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa
essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò
potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su
questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle
caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità)
richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda
(per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri
degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di
Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano
come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico,
ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile
dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p.
143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle
due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii)
teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune
autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie
nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del
mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una
cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5),
l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di
«segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un
campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per
indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale
διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183),
riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come
διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un
aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere
ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and
Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un
intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di
mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le
espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del
tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è
importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e
Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον:
«this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il
significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo
Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza
è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in
analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa,
Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno
radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque
di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di
leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323),
piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente
il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp.
CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς
ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis
(Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività
del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello
(appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria
intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo
conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos
(p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di
positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i
mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato,
probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p.
183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa
che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva
(p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine
(disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere
come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone.
Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52
(κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della
falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in
effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente:
l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi
personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il
destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di
interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea
attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte
agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana,
ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς)
è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44. suo. Un
aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ,
in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere
rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole
a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro»,
modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to
be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp.
262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per
indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide
impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni
lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la
parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una
«voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione
ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile.
Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera
(B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da
risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe,
secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun
sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso,
anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare
(seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo
frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro
semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a
«decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7)
interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente
altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di
"saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati
"gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si
riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis
come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare»,
«superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al
vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel
superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno
(«outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori
strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la
traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva
l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento,
il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma
pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è
quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato
quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida
nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado
di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea
aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la
cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán
(p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che
la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che
l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare
Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam
180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται,
corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e
notte sono state denominate1, e queste2, secondo le rispettive3 proprietà4,
[sono state attribuite] a queste cose e a quelle5, tutto6 è pieno ugualmente7
di luce e notte invisibile8, 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto
e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce
e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose»
diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della
molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά
secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ;
Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende
riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come espressione
semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono state
attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può
essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende
dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις
avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello
di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le
«qualità opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66)
vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel
contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la
dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche
linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon
sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore
associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς
si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν
può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle
cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e
tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura,
così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p.
233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta
questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un
tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol.
II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu
(p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e
ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla 10. 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come
«insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da intendere nel
senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8
L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte,
opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων
si può riconoscere valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di
recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come
i due principi debbano essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come
preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso di una equivalenza
funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK
31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti
tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza (non quantitativa) di
funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono alla composizione del
mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo
(Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare
una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è
stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo
senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler,
Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz,
Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven,
Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer:
«poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since
nothingness partakes in neither»); (iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non
esiste alcunché che non dipenda dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero,
Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o
all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli:
«poiché niente partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza
soluzione, in quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore
imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu
(p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse
si manifesti l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα
πάλιν [...] εἰ δὲ μηδετέρωι μέταμη δέ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle
due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla
questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo
studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui
esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul
pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι
πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο,
ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων.
[Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli
editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno
corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice
di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma
ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195
Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma
dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8, 1 La forma
del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il
valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura
programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il
termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come
«nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o
l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne
la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei
costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare
tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita
dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento
alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa,
illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo
intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura,
rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse
all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più
densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella
lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento.
5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής
(con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής
con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già
detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire
all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260).
7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni
odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe rendere – come fanno
molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος –
costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto
la capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto
la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il
significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo, inoltre, come
fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον
(mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les oeuvres
destructrices du pur flambeau du brillant soleil» rinviando alle funzioni
cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica generazione del mondo, la
loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui il fuoco solare
si purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna, 196 e le opere
apprenderai periodiche9 della Luna dall’occhio rotondo10, [5] e la [sua]
natura11; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge12, donde ebbe
origine13 e come Necessità14 guidando lo vincolò15 a tenere16 i confini degli
astri. esso diviene funesto e dunque dissociatore della mescolanza e
distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo medio) ἐξεγένοντο, alla terza
persona, è riferito a tutti i termini elencati in precedenza, e non
semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe altrimenti alla
terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre ἔργα
περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo generico e
fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel
contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito
del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7
giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di sottolineare
la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso
περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha il valore di
«occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente al gigante
dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono di fare
alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi con il
suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla funzione del
cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé
l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la
Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla
spiegazione a partire dall'origine (Conche, p. 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a
governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν
πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità;
qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230)
sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in
conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν):
torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri,
p. 262). 16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione:
avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον
καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2. [Simplicio,
In Aristotelis De Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I
codici AF riportano γίνεσθαι. 198 [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere
comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente forza4
ebbero impulso5 a generarsi6. 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce
probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2
La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste».
L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per
Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος
ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a
quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che
tutto attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così
forzando in circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo
un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di
forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea
degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che
sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo
di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza
immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema
cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1
πυρὸς ἀκρήτοιο2, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ
τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5]
πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3
Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis
Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ),
πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο
(adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori
contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien)
preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista
paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà
metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις
(DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei
manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten
e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e
Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori
(Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a
Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld,
Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco
Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili), di congettura bizantina. 4 La
forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE),
μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200
Quelle1 più strette2, infatti, si riempirono3 di fuoco non mescolato; le
successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una porzione6 di
fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo
στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK
28 A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235)
osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio
dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza
dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel contesto della
citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e
non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende
comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più
strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone più vicine al centro del
sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già nell'edizione
del poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia
coppia, che costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia
di corone non mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro
Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta
solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia
corrisponderebbe alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente
(indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto
intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata
in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa
decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla
formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς
significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere
l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così
Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a
στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone» si alluda.
Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle
corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di
"elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone
"miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente
(ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore
dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la
Dea8 che tutte le cose governa9. 6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si
dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara
negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è
ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al
centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda
sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la
δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις
< ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα
καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle
corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere
con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della
Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio,
evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ
τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον
ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ
α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta
in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha
suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων
parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν,
τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta,
l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione
δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente
connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una
divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le cose
ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12, [5] spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il maschile al
femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere
razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato
di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto
governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede»,
«sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è
all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»)
rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua
epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare
(Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente
alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo
sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il
senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος,
traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi
esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις
è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito»
(Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il
poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in
genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν
(il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione
pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo
elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto
Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio,
In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204
Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di
B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel
contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur
lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo
a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella
δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del
verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque
la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ
γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma
νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ
φάος. 206 di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1 Il
composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte
visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del
tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di
notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto
νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon
(«shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica,
Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano
(evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga
interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte
nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato
accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come
B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di
rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα
τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio
rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi
all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la
sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος
δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu
il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro
[dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere
letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna
(luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente
gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva
Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce
propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται
ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria
(ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος,... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές
[Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole,... colui che va
intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della
Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato
Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide
(νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco,
Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre
volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe
letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p.
276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della
relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna
innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in
Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di
fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς
vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον
[εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi
dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si
sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è
quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è
effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione
genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra,
semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia
alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di
diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco,
Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una
allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ
ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5
· τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί·
τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21;
Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis
Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam
(parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος
(«ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di
Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien,
Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici
aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2
Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E)
aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega
Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche
scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della
scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative.
3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν).
Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán,
KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer)
preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in
proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων
(«dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito
dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e
Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di
recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata
l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto
παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La
forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto
riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in
volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4, così il pensiero5 si
presenta agli uomini6: poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al
verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state
proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del
v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς),
ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto
implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις
βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della
«mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις:
quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere
le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις
trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il
termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione»
(Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di
Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione
variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche
in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica,
dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del molteplice a
unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il
termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo»,
bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo
come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale,
come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui
Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli
«organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben
rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy
(B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II,
p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia
immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4
Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di
membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo
umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte
direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo
caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua
215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9, condizione
in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il
loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non
ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore
descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν
καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa
ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων
φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)».
Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora
anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo
νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e
φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente
la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in
ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli
altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un
tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la
stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien,
Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale,
che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό
il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle
membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν
καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo
in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις:
«costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189)
intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo,
operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua
traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo»,
secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che
prevale10, infatti, è il pensiero11. 10 In questo caso intendiamo πλέον come
comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος
aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si
ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte,
ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce
secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro
che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán
(pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo.
Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il
pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i
componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di
Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal
momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87)
interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in
the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M.
Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von
Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come
pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e
ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das
Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il
risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ
2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν
è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo
di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ
(Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come
inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due
forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di
Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς
μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως
ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito
nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi
andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque
simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus
Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine
pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt
semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV,
9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e
maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3,
che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non
diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche
affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6. 1 Dalla parafrasi
di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui
Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero
entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad
Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di
Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza,
qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei
genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex
sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p.
254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue,
rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò
differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare
il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come
suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in
relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto,
contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti
possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici
normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In
Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε,
riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è
correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1, secondo opinione2, queste
cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6, 1 La formula οὕτω τοι è impiegata per
riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la
"lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2
In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava –
come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come
«secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in
δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza»
(Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il
senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la
propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè
di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che
appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di
tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere
che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo
(τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva,
Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις
τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon
(p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che
appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è
qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della
trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente.
Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli
occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine,
la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del
verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la
terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito
di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21
B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro
(e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste
cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto
a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν,
μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la
determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν
di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8. A queste cose,
invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La
formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora»)
contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al
participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente
diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di
futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento
dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria
crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi:
«cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii)
subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio:
«una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore
avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire
senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il
poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa
rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo
contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una
ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama
puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce
«la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12
L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα)
di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere,
crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. Sesto Empirico,
unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla
natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ
Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις,
τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ
< αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως
γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò
il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse
come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le
distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri
physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il successivo commento
(§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio
filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato
la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione
metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel
senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in
fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν
τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ
δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ
δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν
τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς...
κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις
Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ
> ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν
‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς
ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη [22] ἐπαγγέλλεται
δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς
ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας... ἀληθής’ [30], τουτέστι
τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi Parmenide dice che
le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali
dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità,
[intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione
guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le
fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito
laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie,
attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9),
che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10),
poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la
Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14),
[intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo
accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di
verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e
l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè
tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine
del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è
reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea,
recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e
possibili suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la
relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla
competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno
di un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che
appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la
conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le
fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte
compromessa, Diels valorizzava in particolare1: (i) il modello della
speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato
soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua
stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle
Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν
δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero,
ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della
“doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra
miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287
ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero
termini e immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre
correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione
più antica, lo studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in
genere, rilevando tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di
«riforma» (Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia
ionica. 1 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische
Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer
revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin
20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels
richiamava l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del
misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora
trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica
(«rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la
propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo
della «narrazione in prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di
Incubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ
ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε
τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ
ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό
ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι
χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι
βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ
Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui
seppe dire chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente
nelle questioni divine, tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare
la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era
così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che
suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene
un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere,
formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella
grotta di zeus Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si
intrattenne in sogno con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la
Giustizia (contesto DK 3 B1. Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio
Epimenide (nei suoi Καθαρμοί, in particolare) sarebbe figura esemplare di uno
sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in associazione con
fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie, i sogni, i
sacrifici), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione e della
relativa iniziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno,
del contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia
genericamente orfica avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto
il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale
orizzonte culturale, il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da
suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai
moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai
frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il
fraintendimento proponendolo come mera introduzione d’occasione o tributo
formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità letteraria e
compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato per un mascheramento
allegorico della propria concettualità (assumendo l’implausibile veste del
poeta!): è necessario invece conservare al testo la sua polisemia e al
complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore originale2. 2 Ogni
edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo
interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L.
Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di Mythe
et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le
«Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anche l’introduzione
(“Parmenides and His Predecessors”) di M.J. Henn al suo Parmenides of Elea: A
Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text,
Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione sul tema
“The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric Style”, dedicando
molto spazio all’analisi della struttura dell’esametro parmenideo. Una
riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ φύσεως è proposta da L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum
International Publishing, London – New York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate
al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta lettura del proemio come chiave
per l’interpretazione del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de
Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di recente ha ricordato Maria Laura
Gemelli Marciano3, il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio
letterario: esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e
finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e religioso in cui
si muoveva Parmenide, cantare un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel
ritmo e nella musicalità proprie delle forme esametriche, un viaggio
nell'aldilà, evocando un linguaggio iniziatico e performativo, era cosa ben
diversa dall’erudita esercitazione che l’allegoresi di Sesto presuppone: il
poeta Parmenide si rivolgeva a un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare
le parole di una dea e partecipare all’esperienza evocata in versi. È
significativo, per la comprensione storica del poema, che del proemio non resti
traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone
e Aristotele) che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di
Parmenide per la tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della
natura e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più generale,
della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la
narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande
significato teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si
riferisce in particolare all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito,
certamente una chiave per decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui
si intrecciano racconto, comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità»
(Ἀληθείη). Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G.
Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3
"Lire du début. Quelques observations sur les incipit des
présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp.
7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito, verità In un frammento
(fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide,
noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e
della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come,
dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato
se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo
avevano pregato di creare alcune divinità per «celebrare con parole e musica
quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4. A tale scopo, per onorare la
bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus
introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita
della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ne
rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il
supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la
sua divinità5: ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno
sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva,
l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e
della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più
degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la
realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse
dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto -
non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice,
ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo
mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure
il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto
autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle
Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi
in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in
Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F.
Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli
è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che
suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la
tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella
dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6.
Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come
si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto
nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un
fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la
forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti
designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2)
l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla
formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura»
(κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei
termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος
(B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente,
effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce
qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore
di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di
«ragione») 7, della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea
innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica
con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides
and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito,
cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento
creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione
apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei
contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro
epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto
dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e
quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in
Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi.
Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà),
attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe
dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il
disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del divino stesso9. È
questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del metro
epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica
comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un
«autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il proemio, in effetti,
sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli
di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel
campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi;
(ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della
poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da
parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato per il medium della
rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata e il metro
dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le
testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale,
saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi,
Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11
Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note
di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale
all’istruzione 12; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo
naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione)
tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che
potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea
l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la
divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda
richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato,
ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13.
Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si
celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato
sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona
(il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente
privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una modificazione
radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la comunicazione
divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti
escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica
(mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno alcuni
elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di
un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma
anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con la
divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della
rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere
nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text
with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton
University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai
contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235
un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale
ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale
opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi
epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre
educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi
fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una
materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al
pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14.
Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se -
ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e
occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in
prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva
aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di
comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI
e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato
Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica
arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide
abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza comunicativa
della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora
decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide
avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo alla sapienza del
canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della
propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicuro
effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia – a nuovi
concetti e formule astratte16. 14 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’
Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag,
Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in
die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp. 30-31. 236 Della poesia
greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio, conserva senz’altro il
riferimento paradigmatico al mito come memoria per recuperare creativamente
temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme al rilievo
dell’ispirazione divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè l’abitudine
di far cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione alle Muse o ad
altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa pubblica,
collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le indicazioni
interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo Demodoco nell’ottavo libro
dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il
rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area
geografica non remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide
soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e
intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito dei poemi omerici
originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale
quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità della
comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse destinato a
trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere (tecnico,
giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era
riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società
ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo,
è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma
anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme
enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza
della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'originalità
dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17 Ricavo
questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili,
Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli,
Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi
eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60;
riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va comunque
trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da
esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) –
implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare”
(recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare.
Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere
la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del
proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua
intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello
intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza
«trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22. In questo
senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema
suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia
omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i
versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel
proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente
garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa
di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della
dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ)
fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico
(237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca
dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli
potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico
dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος
ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ
21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24
E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni
Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ
διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ
μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε
νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il
falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide,
tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla
fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue
parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che
non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di
un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti
fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata
dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e
chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non
divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto
di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse
probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26. Parmenide poeta È
significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a
Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26
Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic
Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord)
2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει
ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν
ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista
e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano
proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di
preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più
riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους
ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ
κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν
διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le
Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un
veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico].
(Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου
δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a
Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ
ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur risultando
oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse cose.
(Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma,
artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un
duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei
versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il
proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe
applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i
compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει·
καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ
σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς
ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ
πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν
> λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a
causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò
tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò
in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così
che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18).
Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica
dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ
Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος
ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως
διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι
φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς...
Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει.
Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci
[…] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e
discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è
il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si
servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso
[…] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda
brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati
campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e
proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità
(Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante
accostamento: εἰ δ’‘εὐ κύκλουσφαίρης ἐν αλίγκιον ὄγκωι ’τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8,
43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος.
τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’;
Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla»
[B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli
ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo
modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20).
La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente
dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua
composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua
materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando
quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua
formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che
«Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione
orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non
contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in
primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon,
The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H.
Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28
B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of
Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli
epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e
comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione
orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e
Onomacrito31. La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina
esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del
suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come
la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione
di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il
modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della
Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας
ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio
convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la
verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne
l’assolutezza34. 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e
preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la
tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare,
nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246;
M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per
questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi,
pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments,
texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris
1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile
spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio
della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea
come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina,
prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ):
consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il
logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane,
sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana
espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il
contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα
θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες
οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene
quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura
inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla,
mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35.
È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in
B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono
apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide,
Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro
intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il
corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa
1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide
e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva
liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr.
58)36. A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue
forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra
come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta
– di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non
sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della
successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a
valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse
concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello
stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi
(B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il
proprio oggetto (εἶναι) 38. La specifica cornice letteraria e l’implicito
motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e
strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi
dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della
propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne
incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta
avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale
dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme:
avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità
religiosa ma filosofica39. 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo
ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema
della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale
problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza,
sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi
a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere?
Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il
linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo
validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la
cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso,
il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo,
abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è
esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno
all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza
alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se
consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i
passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come
il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema
dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W.
Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion
to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp.
332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle
indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento
in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono tradizionalmente
designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed essenzialità44, in
effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo
si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni
teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo all’origine del
cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione della Musa, una conoscenza
superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45. Quando le Muse di
Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28), l’intenzione non è
di mettere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla
comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter
discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente
culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di
scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: πάντα θεοῖσ’
ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν,
κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei attribuirono
Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in
Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44
Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology",
in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo
cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione
dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione
è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa
è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato
la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's
Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini
è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e
vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν
Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν
μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di
Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare,
commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come
Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di
quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è
significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si
sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti:
l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il
tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica
e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49. Certamente la critica
di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino,
come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente
problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν,
ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte
le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49
Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi,
"Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ
τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα
λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ
οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe,
né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se,
infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui
stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché
testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso
sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per
stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si
esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24
B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la
comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher,
"Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early
Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo
iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la
Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente
traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du
début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques",
«Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la
soluzione parmenidea del problema della verità»52. Non va quindi trascurata la
possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa
poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la
specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del
complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio
molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως,
Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel
poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio,
certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in
precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione,
marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal
ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι
δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e
Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di
questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii)
regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v)
ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani,
op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of
Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven –
London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo
studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da
veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo»,
«valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p.
18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta
circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa
(νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος):
nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle
interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli
uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la
conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per
contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico -
accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo
comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono
colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così,
al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della
via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle
insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον);
alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali
che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due
teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma
omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia
apocalittica 57, diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del
leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli
specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello
verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento
nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro,
Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una
influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide
e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo –
come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare
appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic
Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss..
251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio,
alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui
la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la
formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto
pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate
riprese in particolare da parte di Platone59. Rivestono in questo senso un
notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche"
(le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a
quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade:
non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza
che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici
elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare
una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come
l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia
«molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano
nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60. Non si tratterebbe
solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe
recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni
che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio
e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica
del sistema»61. Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio
parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι
δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via
che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora
molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del
proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine
misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386. 252
πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo
consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma
soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un
tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva
connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63,
accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile,
le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro
di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο
δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di
Ade64, dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe
stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται
ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti
chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade
rovinoso65. Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che
potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico)
come riflesso di un fondo escatologico comune 66: la possibilità che una tappa
nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito
oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino
verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63
J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies»,
75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca,
vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66
Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio
dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ
δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς
κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ
λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un
bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine
(laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι
λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις
δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla
sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso
diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai
un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia,
circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν
κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ
Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case
di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte
non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che
scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67.
Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle
fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa
la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄
ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della
parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di
ricerca», evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per
trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade
(analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai
«mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68. Sono stati compiuti,
negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il
materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai
secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero
da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente,
riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine
IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una
traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le
rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp.
172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello
di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et
Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005,
p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp.
115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel
nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in
località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le
prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si
faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di
ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli
pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria
assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della
persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette,
proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di
Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide.
Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento
del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello
sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato,
qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più
originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei,
che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in
cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni
mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente
narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo
viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e
può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la
divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e
l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951),
capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos
74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di
elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie.
Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il
riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina
(Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto
immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore
"iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In
questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In
particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide,
si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di
poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è
la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante
di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo
retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica
precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova
contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio
sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di
evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario,
allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili,
secondo Kingsley 75, proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva
dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese,
infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς)
costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76,
colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era
proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta
denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77:
l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit.,
pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999.
76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità
associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a
modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto
luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico
(Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79
o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a
Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si
regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate
dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono
l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide,
ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di
Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario,
almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva
inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In
effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è
suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte
infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di
conoscenza sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse
preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti.
D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive,
ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un
determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla
ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe
difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto
“performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto.
L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse
precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria
rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80
Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori
(iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale
del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […]
incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei
papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al
viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato
l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo
conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui
ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la
topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego
simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ),
movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) –
segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle
figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come
resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti
a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a
Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che recita87:
Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto, è
riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area
anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo
a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal
momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è
possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla
iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco
dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa
direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84 Die
Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli
Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139
ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ
πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον
ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ
Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe
familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma
nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì,
Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento
funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una
vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto
come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto
diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico
Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma
letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio,
immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe
cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i
gruppi pitagorici88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione»
può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle
evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da
Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che
Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che
abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di
Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi
direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo
insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile
ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88
Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle
Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio,
incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari
significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come
crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore).
La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione
divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato,
nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle
allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente
decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo.
Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90,
privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare:
(i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia;
(ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in
Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν
ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo
anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico
proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare
umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico
dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e
teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo,
tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M.
Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on
Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse
sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A
livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il
precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle
novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore
a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al
poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha
colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il
doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco
critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il
dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia,
giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui
l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte,
anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella
misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto
poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di
evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra
proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il
coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in
particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva
dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce
la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93. A
richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia
soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario
complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la
direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si
alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il
quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte»
(πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo,
Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp.
129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο
καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα,
τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας
ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ
θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς
ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο
πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι
Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν
χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς
ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ
δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι
φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή,
νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος
καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν
οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα
θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη,
χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς
δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la
casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio
di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili
braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando
alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro
attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene,
ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa
aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri
la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la
Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte
oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi
raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e
l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra
ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre
colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv.
736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due
prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile
nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche
nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i
fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da
oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A.
Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in
Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20,
2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano
intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La
seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e
celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di
prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso
di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale
tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice
cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura
di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro
del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte
dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di
katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle
divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99, si
prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero
la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665
ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un
remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione,
nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra
(729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta
fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da
«lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione,
all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da
portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo
sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico,
sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la
discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le
annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ
πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε
πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν
δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra
oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di
seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri,
che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea
soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti,
lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos
tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo
effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti)
prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione
occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente
indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in
considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso
da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi
comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici),
immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero
sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello
sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare
la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua
risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del
corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza
terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione
quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115. 101 Op.
cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale rappresentata
dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo
e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe
semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e
notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che
possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della
Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per
impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il
passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali,
alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa
della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo
terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno).
A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i
battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare
i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità,
consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della
Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la
possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella
poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς
Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del
possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a)
Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che
fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo
potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia
sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma
propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113. 267 direzione
dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le
rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie È probabilmente
questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi
della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale,
materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei.
Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato all’effetto
comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo dell’immaginario
così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli
Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno di un sistema di
credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo popolo, potremmo
ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di veicolare, nelle forme
ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco suggestiva
(suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo
punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura
ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettiva
interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione poetica,
impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed
emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del Περὶ
φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come
la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella
determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra
emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che prende corpo
nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle
interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i
frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo
all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268 rie) che
unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni),
trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di analisi (anche
dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione tradizionale e,
soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario,
che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non
siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente
connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il
suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel
poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di filosofia
poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e soprattutto
nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli
imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al
bios o al prattein105. D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio,
è prudente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciandovi
piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare fondata l’osservazione
di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica - come quella fornita da
Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al
tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse,
come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108,
allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti
elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza visionaria,
allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel
modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e
contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed
efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique,
Albin Michel, Paris 20022. 105 Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107
Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli,
Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p.
145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e
intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto
di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni
simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e,
probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti
concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la
correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità,
della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua
esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo
riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema
in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il
privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre
l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno dell’impresa
complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come
il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo
sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo, sebbene,
prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei frammenti
successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare stridente con gli
incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche
argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il
preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli
obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è
l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte
culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et
C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is
Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve
d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno
dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione
d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della
apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la
porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del
viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben
evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι)
presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale,
per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le
fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e
«sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità
evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza
della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ,
destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός)
per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista
il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui
concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον
τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio
potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο
πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle
Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare
due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i
confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere
non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una
lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv.
28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è
necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b)
la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι
πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c)
fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli
errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra
esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le
cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme
davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice
avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e
realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che
veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione
della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità -
meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il
quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto
protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111,
che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre
parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di
trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile
primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni
al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale
trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il
riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e,
soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto
meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della
«dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del
possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione
concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114),
cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea,
la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la
θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel
regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze
sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza
della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος
ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in
cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113
Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie
nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea
innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era
centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108).
273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale
scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il
giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse
in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta
avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella
prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione
mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo
coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti
estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la
katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra,
piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie
terrestre117. La nozione del limite (e del suo superamento) è poi
significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano
l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118. In effetti, la
conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso
«i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός
κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un
lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta,
dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte
(fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di
nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono
anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla presenza
severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il
contemporaneo Eraclito), la processualità della natura – l’alternanza di notte e
giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della
giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115
Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118
Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare
particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem.
274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico
l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là
dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta,
sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile
semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις)
celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via
seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς
πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade
(Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757;
811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo,
lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre,
al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si
elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il
regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta
cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e
notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121. Ciò che,
in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento
dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e
incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente
il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo
(Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene
presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato
che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice valenza, quindi,
di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale oscurità
dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel contesto
rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275 celeste122:
sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della
Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio
comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia
del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al
tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar
cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide
prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e
la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle
relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente.
Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il
poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι
Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1),
quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un
elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi
rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ
†... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta †... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla
struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός
εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι
πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là
sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra
li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op.
cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a
grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno
(vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della
figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata,
invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio)
alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema
quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente
comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non
episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in
una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella
contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a
cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso allegorico proposto
da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé,
con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio
diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia, secondo la
lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a
filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara
l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo
ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν
πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina
Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen,
Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica
analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare
l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». In questo senso
ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp.
39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la
Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una
trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe
emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal
filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι
φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi
guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti
della divinità che porta †... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato,
perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro:
fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la
prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato
(imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico”
traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali
sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla
congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo
ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe
alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della
condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea
e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della
performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha
visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si
propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς
φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità»
(il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della
divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico
documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al
presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127
Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und
die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La
fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del
«kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo
dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278
sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in
quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che,
dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per
indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche
il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza
predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il
termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di
Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso
anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con
la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie
per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il
paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa,
disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza
umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una
rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di
annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina
(passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione.
Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel
racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro
tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso
le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso
l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso
alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già
avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1
e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit.,
pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità
dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel
proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la
funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά
anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due
risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132
entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può
essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta
intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica.
Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad
accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è
evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi
mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni
nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi
in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno
e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται
μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che
troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike
(DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle
Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito
di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta
tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa
Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il
carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione,
giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133
Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135
Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi dell’esordio
poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo
Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv.
26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike,
perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo
accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole:
il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la
via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. Ma
l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione:
abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita
puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle
profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade
(il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il
mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli
dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa
muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del
Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero
essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide
(all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra
la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là
c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della superficie terrestre
(descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso.
Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo,
la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in
cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in
qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile
sorvegliante dei confini)138. Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono
che l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri- 136
Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281
vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odisseo e Orfeo, al
poeta è concesso di accedere (anche se non forse propriamente “discendere”)
all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina, Persefone. In questo
senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del presente
contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua
esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce,
tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo
punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a
interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si
trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto,
rigettando, quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo
stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle
scelte espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che
certe immagini o situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività
poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i
primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura
pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di
Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva
ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene
l’accostamento a Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben
più complesso). In ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a
rendere plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare
(un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta
(spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda
conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando al massimo
l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con
la propria "odissea", delineato un modello per le avventure
dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140. 139 Coxon, op. cit., p. 14.
140 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti. 282 La sequenza
del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità
fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la
mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice
legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta
filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima persona
del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza
di trasformazione radicale della persona, che richiede l’identificazione con il
protagonista (donde l’adozione della prospettiva del viaggiatore)141. È la
futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il
viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo
sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non
traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della
pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova
al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico –
nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica
sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un
percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione
di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un
processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle
Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone
scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera
personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di
iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini
simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La
Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due
elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e
viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine
mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie
dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6)
parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e
le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo
Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi
estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle
Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento
persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui
si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che
ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro
nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!»)
l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano
né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ
προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ
Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa
via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike
(vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta
al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente
battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali
sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario
incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è
stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La
«via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ
«la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca
di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il
poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce
l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida
della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le
scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo
in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della
condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in
realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque
legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si
riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e
nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il
tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina -
l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella
propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco
(vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione
ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης
(congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure»
«anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma
anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente
corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei
contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende
la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato
su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la
fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella
delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali
le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta
dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il
nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος,
«ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore
che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono
veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non
risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai
giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della
Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν
ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι
sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando
vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire
menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed
esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra
la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo»)
illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali,
dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca
contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false»
(ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione
determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di
Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata
alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia
dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso,
allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα
μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure
anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario
fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32).
Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso
l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle
convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma
intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli
enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel
contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle
inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile
alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in
tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca
per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente
manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia
dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la
riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della
esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha
dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos),
indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ
νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità»
B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i
momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore
dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo
logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come
“Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας
(«opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma,
naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante
di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146, secondo cui, invece,
Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da
Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν
οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ
μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι
τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente
intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli
capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo
saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης
τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς
Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte
e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la
certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK
24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e
proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere
la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che
riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe
dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane
(elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina:
Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto
tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale,
l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo
riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la
possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda
parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini
non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga
tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più
assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i),
Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di
cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o
ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la
distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio,
corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e
falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo
dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale
perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a
esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero,
nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non
ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della
Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto
prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne:
in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa
è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre
proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente
ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a
occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα
dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il
secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di
Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde
la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche
la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a
principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di
originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle
testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo
logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia
del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni
alternative151. 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa
parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E.
Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I,
Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello
specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on
Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto
utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in
Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes
d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La
vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A.
Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited
by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger,
"The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of
Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University
Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di
D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific
Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp.
169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati
studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea
prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso
riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari:
(i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento
del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per
le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le
opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile
questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che
supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema
didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È
necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155. Una
prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi:
Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν·
παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν,
καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν
κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ
δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ
κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By
Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004,
p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza
parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia
Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento commentando
l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos". 291
Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia:
ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere, egli
crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia
a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti
invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi,
chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo
sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986
b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da
Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς.
καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων,
οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον
καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι
τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον
καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade.
Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la
generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse
convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e
ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine
di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e
terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il
problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di
esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale
ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio
alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima
292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni
ontologiche a priori dell’indagine156. Certamente il programma della Dea
prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei
mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di
verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni
circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la
stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile.
Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra
la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la
(contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie
convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto
coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni.
Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non
può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del
kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare
un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce,
nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto
(iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si
intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei,
indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che
presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può
manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta
(εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore
fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole
(οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora
trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei
cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide
chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157
Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος
(«ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e
Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo
notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις)
riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il
poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle
opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da
intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole
«tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole
riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è
effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il
percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ)
che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova
consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per
la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza
della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli
uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper
affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti
sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che
la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni,
se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno
sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei
criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione della Dea
del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere
divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà
non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di
un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La
comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto
tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia
l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il
poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e
cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p. 77. 159 Tra gli
altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul programma introdotto
dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora
osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito
emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης
εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης
καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα.
Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è
quello di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche
«discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia
quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la docenza (divina: θεά)
guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà
la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα) e l’urgenza di
comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula didattica
sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato,
è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della
Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la
garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei
«mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la
contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula
introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di
ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina
sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non
vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente
rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e soprattutto sia evidente
il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα
e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo δοκέω
può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b)
«sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta
dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e
δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione
criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le
implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda
irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι).
In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente»)
troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di
approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio)
«le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma
l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di
«realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare
all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno
effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In
ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non
rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi,
con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali
punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli
ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse
assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega
non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in
essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente
controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo
reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In
funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non
ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss..
296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di
proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose
accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con
possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα
(esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come
genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα,
ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica,
suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della
dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione
negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il
contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla
base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle
forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa
attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato
inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella
verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta
delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la
struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla
scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e
impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose
e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione
coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo»
(διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene,
complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura
intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e
della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si
riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si
sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la
traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza
degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo
della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno
lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema):
la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e
nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale
programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo
scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice
dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e
giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo
nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità
dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge
impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità
razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei
mortali è invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza.
Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina
– una consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e
dopo averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è
opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli
della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e
sviluppandone in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica
omerica ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica
(sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità
della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento,
sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea
rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina,
anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la
dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire
tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e
Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale,
accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la
spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come
rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione
della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo
inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche
a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per
denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata,
coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I
modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità,
certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma
costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento
della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra
soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162. La
formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva
lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla
società163. 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la
Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa
delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente,
sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle
espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo
alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista
piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di
superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre
a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato
l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma
educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros
deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza
della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema
riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello
solare – che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo
dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero
di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole
Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la
divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare
esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella
tradizione. L’evento è decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere
ma per come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione
della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative
(la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.)
note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il
poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle
cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere
all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la
propria rivelazione (B2) con l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte
al quale il kouros è chiamato a scegliere. del punto di vista tale da investire
non solo l’oggetto della comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il
soggetto (p. 37). Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione
suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del
precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1, a
ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso).
Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi
B3, B6, B72, un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti
per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come
un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
(«di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo
che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8
(la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando
l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto
valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3,
altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4. Dire, ascoltare La
continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della
comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo
della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta
(κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di
B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς
Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς
κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione
DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per
esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch,
herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum,
Artemis & Winkler, Zürich 19953. 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301
della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto,
nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla
divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio
ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta,
giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni
o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda
l'ascolto5. La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole
con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui
risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6. Un solo impegno è stato
assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu
apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo
(B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola
una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del
messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione
e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la
«parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il
poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di
dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del
poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7. 5 L. Atwood
Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo
punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21
B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο
νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti
della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo
veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona
sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io,
tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo
parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza
persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ
γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque
la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del
tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della
(co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea,
quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe
confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica
comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione
sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale,
le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha
sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si
manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8,
negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […]
Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις
μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini
assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν
τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da
lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole,
conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp.
61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento
coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per
pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili),
in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε
καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν
δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere
sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è»
rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia
effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici
(garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come
evidenziato dall'invito all’ascolto9: il poeta paleserebbe in questo modo sia
il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi.
Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile
l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una
verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi
hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera
opinione umana) 10, ovvero l’espressione della matura consapevolezza
dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p.
86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il
primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria
posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità;
era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più
semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura
in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della
comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le
premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per
pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del
poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota,
meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente
seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω
(«dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della
rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come:
quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune
difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva.
Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι?
Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già
fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando
un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo
omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo,
è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura
greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e
sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e
G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit.,
p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι
utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso
lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto
ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ
διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere
informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il
contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν
γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano
oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la
propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la
ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali.
Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην
ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione
a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν
λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga
per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico
di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che
non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso
stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit.,
p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il
percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di ricerca
per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta
della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una
specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός
sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò
che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie
di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo
essenziale la realtà (verità)15. La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ
μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono
per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che
insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da
rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono
pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto,
facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso
con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule
introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali
sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare
che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i
valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità
di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che
potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16
Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa
di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere,
conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa:
«pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità
conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle
razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni,
rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in
effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire.
D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con
«apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19,
risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5
(letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è
necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a
osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero
del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è
(non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura
ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός
17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch
opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit.,
pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The
Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp.
146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina).
Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura
e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός
νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace
di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato,
appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata
nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può
ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come
«sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura,
come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla
distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua
praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν
secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una
relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione
«è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva,
l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e
impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali
siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da
considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si
sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata
dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero,
come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto
di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che
traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come
abbiamo già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto
(b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà
(letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e
il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto
specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι)
in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente
proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due
formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che
non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima
via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata
evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere»
(escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece,
prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella
evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul
terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si
rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe
alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν·
οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa
ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non
potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti
indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è
opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle
implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι
διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in
esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe
indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere,
nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del
«ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia
fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può
riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica,
ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν
[...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della
comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal
tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie
all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto - segnala
come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in
B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in modo
rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco
è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος
ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al
testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto
che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη
(«ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella
sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane,
in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a
proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico
δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente
interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a
conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον)
che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui
attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso
per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che
giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la
verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il
riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per
coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla
comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla
centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà
ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo,
comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio
argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8,
parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire
il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui
verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta)
come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca
Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte
letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario
non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive
esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non
sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per
la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla
costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In
apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza sovrapposizione,
come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria
allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος l’esigenza di
«tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali
le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una - l’altra
Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche
di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 –
l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito
in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate,
313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntuale
correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano
espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), ma
soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che
possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ
μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
(B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre,
attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni
(subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che
pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non
è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è
necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa
costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da
Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come
sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il
virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51.
Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore
interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p.
LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne
la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse
prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato
se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è
possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non
essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come
Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva
sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è
necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι
νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28: (i) «[pensare] che A e che B» per
la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco
abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι
μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B»
dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque
a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è
stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce
della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero
effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti
sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e
che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure
nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo,
ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’altro
necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma
potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di
esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni
incompatibili)31. In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco
con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è
ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato
rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre
parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina
(B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la
formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un
punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si
riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore
(esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è
Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un
soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne
richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha
sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta
indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35
31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora
più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da laPomba) «es ist, und
Sein ist notwendig» Der andere, (der da laPomba) «es ist nicht, und Nicht-Sein
ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della
soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la
Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese -
«whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il
primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42. Da un punto di vista
filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio
da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e
τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio,
infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso
risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide,
evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del
poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il
suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale
destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito
per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la
formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di
Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso)
fosse una novità46. D’altra parte, l’esame del frammento consente di
individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie»
comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36
Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41
Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge
& Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus,
Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45
Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le
citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di
un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ
ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed
esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora
implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν
τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il
dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla,
invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome
indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente
diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in
altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile
che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente
desumibile e quindi difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo
piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con
relative formule modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione
dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie
delineate, nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in
presenza di un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si
conviene, l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è
relativamente plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale
manifestazione del 47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo
parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964),
p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318
soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe,
in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso
verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con
relative proprietà50. La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un
esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno,
spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto
grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi (per il lettore),
ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν)
52, una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di
Parmenide54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta
all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato
verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della terza persona singolare
indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza
del reale55 implicita nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto
d’essere56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto,
predicato), ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà,
49 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis,
Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il
vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle
formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto,
in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides,
Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press,
Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa
awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle
implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le
Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura
di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come
Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che
certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà
procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o
εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto
in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito
(qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità
dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo
dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere».
Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la
Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,
cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι.
Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da
Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della
dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di
ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a
comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi
alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non
è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è
(B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo
astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità
degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è
forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G.
Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato»,
cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e
verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia,
Firenze 19772, pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale
in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile
in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione
intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p.
60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un
soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos,
op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano
indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma
richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61.
[Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla
formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da
attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere
(B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in
lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è
necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la
discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella
conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di
B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι.
All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un
esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente,
esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza
forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente
significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo
cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla
espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op.
cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza
nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις
εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi
casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e
nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono
impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né
[un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove
soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a
un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65.
Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea
(B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è»,
il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ
ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in
proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63
Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la
situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi
diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato,
l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di
lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina),
e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che
«non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile
[e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di
«sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero
«indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso»
(κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι).
Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto
focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν,
preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione
delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica
applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della
seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo
nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la
negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del
non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del
non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito
(e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene
implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι);
con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza,
delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν,
dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla
manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è:
poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione
del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa
prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν)
e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali,
possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due
soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa
leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν)
«è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che
«essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ
ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al
fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione
generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e
non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a
proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν),
nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal
valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile
il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e
B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν,
appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione
logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista
che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare
di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è
(necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia
l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è
(necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte
dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si
debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle
«opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da
Mansfeld66. L’identificazione della seconda via con quella del mondo
dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in
B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile
[e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può
concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον
(letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto).
Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea
la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire,
essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza
nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto
espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le
due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca,
le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé
incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i)
generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al
coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale
prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo
dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio
- come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si
fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né
potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la
negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e
che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di
contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena
consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per
pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui
soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già
implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula
contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per
rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo
stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di
pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia
intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura
espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la
contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione
positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e
necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8:
la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν)
di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è
necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ
ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326
disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa
fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il
percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è
accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è
possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ
- di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4),
marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il
viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare,
allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del
non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule
modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché siano
evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso»
(κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che
Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69.
68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης
τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ
ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche
il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire
che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò
che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il
seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante
perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la
direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In
questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica
(Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione
(heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro
accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo
della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ)
e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo
del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna»,
ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento,
conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui
svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con
intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile]
non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato –
dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via
(B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è
proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e),
Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ
τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες
αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ
ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo
della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali
le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove,
pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos,
op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro
essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere
ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta
di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio
“io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è
necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato
secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare
esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo
contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato).
Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo
omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse
lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe
propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e
che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida
divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato
conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non
potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7).
Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo
l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76.
329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso
può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro):
la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal
momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile
(«cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non
è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non
essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di
estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde
il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati
fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i)
l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso
esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per
pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità
(sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su
cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è
possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente)
natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi
d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario
non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per
«nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il
lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare
le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di
Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la
contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando
(a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere,
così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive
Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere
(letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che
l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso
la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico
del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν:
«è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto
contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è
[possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è
necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle
due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς
οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν
τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5).
La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo
semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un
enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non
essere»76. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti,
(a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς
οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op.
cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non
è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών
ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non
sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione
tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e
ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa
che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…,
l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte
quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore
da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo
emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι
può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può
apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι
(«è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ
εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo
caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come
sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di
proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via
(l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità
sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto
affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi:
nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla
posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana
in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de
Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op.
cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è
possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν
(«non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione -
χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario
che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la
loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve
tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος
rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν,
stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ
ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico
ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera
consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni
ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è
proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore
di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1: esito
paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che,
oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno
del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da
parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e
cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3, che citano il verso
parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che
appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il
contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν,
καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ
εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima
di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il
seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν
ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τὸ γὰρ αὐτὸνο εῖν ἐστί τε
καὶεἶναι ” λέγων. Καὶ ἀκίνη τον δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν -
σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α
ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν
ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa,
quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito
delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal
momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni movimento corporeo,
affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una
palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma
interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate
dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare
di Parmenide un neoplatonico ante litteram4. La collocazione Nel tentativo di
offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni,
che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi
proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può
essere né indicato né conosciuto6; (ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37,
come in particolare oggi propone Cordero7, con argomenti convincenti. B3 e B2
Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con
l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente
correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre
in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su
cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e
indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien,
op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat.
I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ
Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon,
Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche,
O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe
congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché
pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo
propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335
rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9.
Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno
della tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni
possano diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è,
invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia
bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro
che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte,
l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della
mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco
arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di
non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento
immediato11. Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν
comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente
dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del
tutto immediato, una sorta di contatto con esso12. È possibile che la Dea, in
B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto,
osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi
a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A
questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con
νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla
congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la
presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione,
attribuire a νοεῖν non il generico significato di «pensare», ma, come suggerito
da vari interpreti, quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13,
«Erkennen» 14, «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p.
144. 10 Conche, op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op.
cit., p. 67. 13 Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca
effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente
tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento,
la capacità di penetrazione intellettuale17. B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero
ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il
pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero
a marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua
negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a
meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con
B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19;
e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola
causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ
γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a)
pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento
che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16
Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19
Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si
vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la
versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo.
337 non troverai il pensare22. Cordero osserva come nei due versi successivi si
precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò
comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι
νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta
privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere»
(B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né,
infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ
νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε
καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3).
In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione
idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ
τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo
quando esprime qualcosa su ciò che è24. Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due
prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il
frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta
possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via
«che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente
(«che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il
linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse
effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato,
semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8
l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero.
23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il
suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice
argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente,
Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225. In altre
parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di
pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie
di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente
nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere
e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva
l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso
proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di
Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di
Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ
παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non
è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ
τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre
l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno
(Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi
contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ
καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ
τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει
ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26
Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide
stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è
nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo,
le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si
connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς
λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27,
comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il
concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità
concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione
peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non
introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ
τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης
ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno
secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non
ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno
e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La
congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di
B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2
attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come
modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29:
solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op.
cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere
oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca
nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la
cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e
che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ
ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a
rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la
seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare
immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e
pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora
sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza:
l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più
articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo
scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco,
cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide
didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti)
risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso
tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota
discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte
esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul
contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il
pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici;
un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che –
pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità
c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3
sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che
effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo
impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La
via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere
(ovvero la realtà) come contenuto30. Quale identità? Nel suo commento Cerri 31
ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza apparente» e
«sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che
viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo
sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse
sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece,
l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato,
l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel
linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che
potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione
e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine,
rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso
matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua
connessione e reciproca referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere
senza pensare33. Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali
abbastanza definiti circa la relazione cui allude la sintetica formula del
frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un corno della
disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed è
necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né
indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo
con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della
via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae
quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op.
cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza
basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti,
generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente
un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto
di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due
verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare quanto si ritrova,
come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia
riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata
da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare
e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve
avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel
pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è
capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero»
(Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve
essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di
vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che
la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri
discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35. Ancora
su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo
della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in
particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela
un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità.
B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già
colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di
B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a
γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo
come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma
verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di
pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere.
Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in
apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di
ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque
collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non
solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che
(non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro
frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che
pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile
sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato
in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano
spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo
genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di
non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico
(comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo
Leszl 36, invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale
(implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che
coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale
atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di
intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento
(intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar
sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata
come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano
nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op.
cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come
«quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi
attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in
relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per
pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso
all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro
condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi
accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente
contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per
pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado
di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività
che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente
oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro
comune denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere
(condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo
senso è giusto designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37.
D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le
vie sono determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)»,
«l’altra che non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è
ulteriormente ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν,
νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν
corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che
appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che
genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono.
Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre
presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come
proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa
realtà. 37 Ivi, p. 68. Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di
Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli
interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa:
incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del
poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In
proposito abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897,
presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione, collocandolo
subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia, includeva anche
B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2, al contrario, lo hanno considerato
conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3, quindi nella seconda
sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente
schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche
perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di
cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti
propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν),
marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4. Che cosa rende di così
difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del frammento?
Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti – arrivati con
Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare
tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an
Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von
Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati
seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia,
Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La
Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento
all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del
νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα
- παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e
ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi
polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere del significato del
frammento è importante il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V,
15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα
λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ
μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν
τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι
νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose
di questo genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che
ha fede, con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora
affermiamo che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello,
ma anche che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai
vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino
sottolinea come quel che Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo
il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e
alla πίστις) cristiana: il saper rappresentare (rendere presente) il futuro da
parte dell’intelligenza (νόος). In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al
νόος la capacità di rendere presenti enti assenti e 347 lontani 5. La
prospettiva appare certamente gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva
che Clemente decisamente caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere»
(εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al
vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo
anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi
(significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli
immediatamente colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν
τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose
mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora,
se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente intravedere la ragione del
suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti
(B4.1). La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in
considerazione come «cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al
pensiero» (νόῳ) a un tempo «presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando
ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai,
infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della
testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il contributo di C. Viola,
“Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de
Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro
come la possibilità di pensare (rappresentare) cose assenti o lontane come
presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν:
il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si
impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno
sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le
discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa
dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω –
etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico «chiaro», «limpido»),
che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza6. Un verbo
che può essere direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il
valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4,
quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto della citazione
di Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni;
senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni,
sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich,
sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli
elementi 7. Possiamo inoltre marcare come il frammento non autorizzi a
retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e intelligibile,
ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due distinte modalità di
guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta
considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il
risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due
prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia
del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra
convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di
Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose
indicazioni riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la
frammentazione del dato 6 Viola, op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178.
349 empirico, raccogliendone pluralità e differenze nella unità e compattezza
dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν,
segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν
mantiene l’unità e la compattezza (nell’Essere) di tutti i suoi momenti8.
Elementi che puntano in direzione della seconda sezione del poema. I due versi
iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma
coordinate operazioni: (i) superare i vincoli spazio-temporali
“presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando
presenti «cose assenti»; (ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo
ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda
operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in
termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα):
la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla
presenza dell’essere9. Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del
passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito,
direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi
(senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del
mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano
di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che
si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la
sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha
per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9
Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει
sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto
sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente
anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro
indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non
ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350
all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio:
il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato
nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che
verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς
κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente,
attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo
errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che
l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω,
che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente
passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla
maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei
giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione
didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura
di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e
l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un
pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op.
cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5.
16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la
solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate
spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere
(τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte,
illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di
introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3,
esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora
l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto),
ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della
verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un
modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di
fiducia18. Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della
affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo
in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ
τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν
ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione,
concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di
posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non
implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a
una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello
stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op.
cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la
funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del
discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo
che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato,
Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della
prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver
svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le
due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il
contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la
differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con
Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura
dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma
alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il
posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della
«abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon
e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del
frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto
per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della
dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che
indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν,
della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una
alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ
πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai,
infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente
in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita
a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) -
di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere
rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce
a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare
l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver
imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi
paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già
in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è
indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ
καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον
ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ,
μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e
Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale
in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo
stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ
κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ
τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle
altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal
caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece
richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore
genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano
effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ
δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς
μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν,
καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν
οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα
πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ
σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον
χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ
φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν
εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως,
οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς
τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως
μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la
filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in
quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei
componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la
verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da
questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette
l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità
aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per
Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più
belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado
congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non era
possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e
contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi,
l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il
confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che
non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel
pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e
con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli
uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era
possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21.
Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei
e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος,
διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il
riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento
anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo,
complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal
riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente
alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso
Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un
unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici
dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον
τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per
indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino
«osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente
ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose
più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον
ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε)
richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως).
L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose
lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero
chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo
(Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati
dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso
l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla
ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La
possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di
concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e,
in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος
potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto
alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di
B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della
seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche
specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un
riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto:
qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di
una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur
non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come
Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano
Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι
δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς
αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito
(B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del
frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di
condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale
e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di
Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo
avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che
la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per
contestare alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più
consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di
Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi”
scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui
originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio
(ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating
Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella
seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno
coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti”
(Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory
(EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ
ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello
stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza
mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si
disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un
tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo
concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit.,
p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of
Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006.
358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia,
riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma
scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza
originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli
elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali
elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i
materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli
esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il
modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una
vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham
un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza
generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una
legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di
questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che
Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως
metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come
generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che
l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili,
omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la
seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia basata sulle
proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica
di Parmenide33. Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la
collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi,
pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio
è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi,
pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare a leggere
correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano
un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di
τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel
movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i
rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare quelle proposte
esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto all’essere del
principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere. Anassimene (DK 13 B1),
in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ
συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α
λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene] dice infatti
che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda, mentre la parte
che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda
[…] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ
πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va (DK
22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia di
versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di una più o
meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del
contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe
l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa
concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile
funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 (i)
come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti
paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso
comune; (ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica,
a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione
della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole Ruggiu34. 34 Op. cit., p.
251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in
una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò
che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a
partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque
all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire
all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di
Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la
relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν
di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare
in qualche lettura particolarmente convincente1. Anche nel caso di B5, la
questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove
prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere
mantenuta2. Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del
frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale
andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di
B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la
ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la
verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος
(«massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς
Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) –
appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3, secondo cui B5 esporrebbe la
forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo
conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota
minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione
della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È
il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una
(improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo
inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere
divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e
la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha
giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento
annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu
apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un
sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia
acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe
di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il
percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra,
ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo,
non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono
indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben
rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del
frammento5, rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e
dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di
circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8. 4 Op.
cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo
coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica
argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ
κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il
principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι
τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ
παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce
della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra
difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato
Coxon9: nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una
direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali»
doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la
circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni,
dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10.
Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione
delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di
sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare.
Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe
contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata
verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da
Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione:
intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente
anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea
avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε
λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia
ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il
grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio
contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi,
che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In
questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396)
sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit.,
pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE
E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di
Simplicio (quindi, come osserva Cordero1, ricomparso a un millennio dalla
stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso
a B22, per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων
λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ
[B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν
συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν
ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie
non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in
quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti
[citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam
117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il
non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via
che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In
Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una
valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione
di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di
contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is,
cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In
questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da
parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio
salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il
primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore,
in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ
τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν
τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται
λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa,
quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio
l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una
sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la
sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso
B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto
(in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a
cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei
versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό
μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ
περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν
κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε
γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες·
μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in
quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono
(l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga
l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno
di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di
essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono,
tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli
unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio:
τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che
evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella
parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno
alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è
decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»;
(ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In
particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di
contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali
che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere
scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci,
trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale
(come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di
[costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il
primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire
nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato
dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema
interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄
οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il
pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è
possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4
ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che
appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι
(letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere
letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν
(letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è
costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo
reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un
passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione
di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme
verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo
sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come
crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare
questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due
verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν
richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a
φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio
presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente»
o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso
verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni
alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come
appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e
νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo
essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in
negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il
«ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta
appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo
blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità
semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare
l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su
cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di
richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che
è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza.
È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti
conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo.
B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il
positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere)
«ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν.
Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di
εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere»
(B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς
κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale
soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come
formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima
via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op.
cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7: formula che manifesta l’essere di ciò
di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità
delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8, è
frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν
focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo
portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia
esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale
χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica
– è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν,
integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa
cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le
uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile,
perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né
esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι,
tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι)
alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due
infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la
dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a
riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e
discorso debbano correttamente ammetterla9. A tale scopo, in B6.1b-2a, ella
reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44.
B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il
carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla,
invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di
affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν
τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta,
ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ
εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La
traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque
particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι
γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e
relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto
del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il
nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν
predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371
(iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo:
poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso,
esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due
soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una
duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della
versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione
dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι),
esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la
doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra
semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in
sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»).
La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non
esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che
essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio
di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle
due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è
riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità,
in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle
quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra
(sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva.
Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa
sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due
vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal
fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso
la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in
B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece
con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non
si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto
dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è
essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che
è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del
"ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea
otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è
«nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione
alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa,
rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni
modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut
dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas
possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che
il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno
riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13,
infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il
primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è
principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale
in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo
emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia
e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti,
Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I,
p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν
< εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in
entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo
ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto
di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della
possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere
sia16. Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17, per cui,
attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la
simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2
in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in
B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento
dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di
B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non
essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in
positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie
di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν
si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν
οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op.
cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts
hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha
osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione
della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe,
secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa
lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione
delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla
non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta
necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato due
potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava
pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le
implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al
non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che
coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo
questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente
sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la
direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι,
nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal
vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare»
tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale
direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via
poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e
sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso
originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva
immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace
di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento
in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della
via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile
all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto
l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In
B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ
λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati
delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla
[ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze,
come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in
particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel
complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla
non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è
possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si
è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la
Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di
essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo,
come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La
struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario»
riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita
espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte
la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto
questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la
seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni»
(παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e
indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν,
come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità
dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la
riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di
Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione
ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula
utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea,
infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste:
18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides &
Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque
un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose
io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ
δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura
della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il
rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della
realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della
confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve.
Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la
Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν
Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3,
allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece
non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima
via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo
greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base
di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata
vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla
Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι
(forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of
Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota
al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει >
since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ
σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin
> for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la
lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico
dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore
possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla
incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento
come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui,
ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì
solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e
riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo
necessario integrare secondo la sua lezione 24, ma offrirla solo come
possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura
tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il
dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica
indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non
essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che
dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a
partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7
rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la
necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso
che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a
quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per
la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti»,
l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno
naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque
plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica
nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa
«prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella….
Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un
modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la
soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una
sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero
avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ
τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di
ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una
sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare
B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla
Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine
per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come
per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal
confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe
«l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non
è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii)
infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere
sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di
Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4)
sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento
che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt
concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per
precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il
nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile)
in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in
modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività («le
uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le
uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali
dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone
«essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι);
(b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la
necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra
immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non
potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi
alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie
di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della
complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt,
Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio
Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la
ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi
cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale
dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore
e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla
Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!)
la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe
Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ
ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può
concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere
estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è
necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere
ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà
dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della
direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una
prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale
l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo
escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν
εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere
è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero
(Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della
conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le
vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι),
attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…,
cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι),
e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio
sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται
δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός -
τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò:
è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via]
impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra
invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché
scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a)
introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»;
(b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che
richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via
praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra
non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come
effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima
ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che
nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento
delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata
come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30
L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente
caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31.
L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del
poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione:
αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >,
δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella
che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei
loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande
importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon,
Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea,
ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica,
veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi
del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla
natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος·
οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι
μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il
verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω
«vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La
teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di
sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli
uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6,
sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare
spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella
produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna
la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo
un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza»
si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa
percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da
Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone
l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un
intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque
una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si
sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune,
in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33. La Dea riferisce ai
«mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες
οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e
nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato
sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35. Li connota come
δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo
specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie
comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni.
Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p.
259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza
rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una
via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di
ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro
mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla,
come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la
chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe
riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la
funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente
accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del
disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα
Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate
(B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro
atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre
livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso
deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» –
isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della
sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla
comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda
confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν),
con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la
loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della
realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero
(Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel
petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più
importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo
concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca
della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità
mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in
quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale
che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di
Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’
ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ
πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι,
πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν
διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες
ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre
gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo
averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano
privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io
presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli
altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi
destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto
Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι,
τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται
proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano,
e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco
Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ
παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di
loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK
22 B34) ὁ Ἡ. φησι τοῖς ἐγρη γορόσιν ἕνα καὶ κοινὸν κόσμον εἶναι, τῶν δὲ
κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴδιον ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono
desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna
a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι
χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ
πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει
καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento
devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e
ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica
legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e
avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio
dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come
nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni
condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come
«tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del
mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della
realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente
una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in
Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo)
che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi
vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore,
stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò
che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente
dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince
falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema
dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito
sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto
«cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la
ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A
noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come
l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la
decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a
quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è
possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze
collettive41. Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6,
ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento,
l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico
dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione
delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale
dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle
parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle
peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra
insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di
ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei
«mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce
alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa
«che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni
della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di
quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388 fondamentale
e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, questa presunta
“terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla sanno»,
dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere
ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν;
anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile,
dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ
ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto argomentare e confuso
parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si rileva invece:
οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È
opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando
l’esordio del nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non
essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν
μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni
contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non
sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti
(In Aristotelis Physicam 117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ
τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono
l’essere e il non-essere nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6).
389 Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di
Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende
rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini
incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea
parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ
εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la
stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν.
Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e
combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto
della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata,
infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa
l’accanimento verbale di Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i
«mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un
obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione?
Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come
vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità
(come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei
successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le
assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non
meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti),
o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale
rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come
sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un
certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei,
abbiamo indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione
consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla
sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in
B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del
verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che
Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il
greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista
ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel
linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν)
presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore
ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe
genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche
vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione
esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema.
Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici,
una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a
rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di
Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei
contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι
καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli
agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42)
διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην
καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui
credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di
giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη
νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά
τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza,
altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo
(Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων
μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην,
πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più
di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria
sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129).
L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e
coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea
interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a
giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le
posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così
critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi
analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel
suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza
della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la
denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già
registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e
B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura
scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di
confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una
volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi
un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di
intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso,
potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del
secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica
antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota
minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra
gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici
asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere:
posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando
essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che
speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze
documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la
sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel
tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di
escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto
insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente
comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un
pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha
ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui
lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe
espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile
alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti
nella generazione di tutti gli enti46. 42 A. Döring, Geschichte der
griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das
Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische
Kritik», Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between
the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge
University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella
successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del
tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986
a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν
πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In questo senso, gli uomini «a due
teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero essere genericamente
pitagorici oppure i pitagorici responsabili dell’elaborazione di quel modello
dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto dell’accenno a
un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come nel ricorso
all’espressione «i cosiddetti pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι),
incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione, ricostruendo un
percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione dei suoi principi
a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle posizioni interne
alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento ad Alcmeone
(contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due serie di
contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος
παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο
τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο δὲ παραπλησίως τούτοις·
φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι
διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In tal modo pare pensasse anche Alcmeone
Crotoniate, sia che questi prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da
questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si
espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior
parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi,
le opposizioni, ma proponendole a caso [...] (Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων
εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς
δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν [Essi pongono] come elementi del numero
il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno
deriva da entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e pari e dispari).
Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero
l’intero universo. 394 Secondo la Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza
aristotelica si può concludere che, come alla fisica ionica andava
probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così
alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle opposizioni
(riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre
nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica.
Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei
versi parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva
risultare riconoscibile nello humus locale: in un’epoca per la quale è
difficile valutare l’incidenza della distanza degli ambienti culturali, non vi
è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul rapporto con la
tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel commento a B8. Il
percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento (Bernays) è maturata tra un
numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie,
Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli altri) la
convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia Eraclito (o, in
alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da
considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura sostenuta dall'attenzione
per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni
giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso
impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee: οὐ
ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου
καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M.
Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp.
134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non capiscono che ciò che è differente
concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della
lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον,
συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e
non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le cose l’uno e
dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10)
ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν
Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22
B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può discendere due
volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di Parmenide si
valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti
diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν,
πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la seguente: per i
quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa
cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396 Secondo Tarán,
la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10) l’identità dei
contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del “sì e no”50, che
l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui
appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la
stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide
sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla
logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un
legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di
pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalenza,
soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante, comune a
tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la
rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea
parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla
posizione di Eraclito52. Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere
l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di
Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della
polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di
una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale,
regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A
questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di
un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario
evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ
παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un
puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto
insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán,
op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per
esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek
Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle
vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma
in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio
con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e
Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica
della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo
anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei
suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale
verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56.
Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da
Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di
Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata
dall’Eleate57. Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte
lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la
(presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo
atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un
indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti,
sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente
la dottrina eraclitea58. Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché
riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli
specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica
propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali
nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle
loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo
a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e
Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche:
è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri,
op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld,
“Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G.
Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986,
pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich
1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica
risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60. Mansfeld61 ha marcato
come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di
Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso
universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e
stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come
abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i
frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere
problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle
citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a
quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima
riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli
schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme
della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe
tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del
divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel
divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito
esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo,
Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla
cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per
delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito
manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a
cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione,
la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i
molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros
privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio
isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia
plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo)
avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”,
in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P.,
Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone
la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione
parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La
pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica,
all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου
τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo
questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea
il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità
della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla
unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la
funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος,
«tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente
organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni
singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il
prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo
sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là
dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la
supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a
meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come
sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo
come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella
ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide
come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22
B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι
non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su
questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178).] [zione di «è» e «non
è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65. In questo senso,
però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero
un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della
cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica.
Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente
Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto
«concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia
delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica
parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti
colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui
l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii)
ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della
realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di
fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri,
concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv)
al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie
enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto
apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere
e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come
confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano –
consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre
parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato
empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una
inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano,
"Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et
destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la
Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses
Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In
questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni
dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che
«essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come
osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται
κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai
positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come
l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non
filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la
parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di
Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche
individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè
della tradizione)»70. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero
associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in
cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o
confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i
pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op.
cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi
pensatori greci, cit., p. 170, nota 36.
[B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels
e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a
8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo
emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele
(Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico
(Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a
B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci
conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la
plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del
frammento1, nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del
fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto
corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio.
Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra
B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile
che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che
richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di
tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si
collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del
frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in
continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel
primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico
e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2
Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di
recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è
sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403
B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera
citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia
poco affidabile7, non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del
fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce
della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a
quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia
del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8. Nel
caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di
fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di
un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente
"montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un
assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento
di conoscenza9. Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la
critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della
ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in
discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla
ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è
impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora
sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il
verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα).
Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove
si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola,
l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides
& Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione
del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p.
30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ
διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non
sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso
del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della
contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive
(ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels
per la lacuna di B6.2) che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il
nume sembra ancora impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι),
uomini della contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei
termini delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι
B2.2), l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa
direzione: (i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo
cui è inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι);
(ii) il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia
con la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero
valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος
πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il
primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella
tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha
difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una
versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che
aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en
effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be
tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò
che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che
può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La contraddittoria
commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata evidenza «è» e sulla
sua negazione), il mancato apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono
in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è impossibile “domare”,
“aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in
questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea, lo
specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione della
Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si
giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della
“seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato
immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω
παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε
φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di
informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è
piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce
a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza
del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5
(Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non
sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi
Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con
soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più
voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti
dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire
esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle
attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un
complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale
(εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di
pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) –
condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto
instabile, a credere che esistano cose che non sono13. Parmenide avrebbe
impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero
"selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato
a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio
il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe
impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta
dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due
frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo
introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49,
rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide,
soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p.
77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p.
263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una
posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17,
secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente
condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma
delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da
Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo
nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro
l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι,
ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così
come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea
dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle
teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche
B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e
probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente
B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco
sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere),
condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe
il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla
tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere
(vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di
«non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla
nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza
aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ
τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός)
come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le
cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che
esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo
come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il
vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in
successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo
osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è
suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di
Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di
aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per
«pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν
εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è
divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa
impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di
ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ
σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου
ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte
sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste
cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei due
diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella
sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza,
evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre
implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il
nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente
sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη
τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che
è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella
discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650,
11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo
e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al vuoto una
funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei
numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello
specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per
indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici,
effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma
anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è
in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che
l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini
a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo
verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op.
cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la
possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni
di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta
nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la
proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7
riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il
senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali
che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla
disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e
l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per
evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22. Che
siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto
dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e
dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di
far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta
pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi
successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume
mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su
questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως·
οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano
comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere
sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è
immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν),
perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse
alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate
degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la
corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a
riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I
sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente
ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua
assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una
superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in
Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma
quello dei giudizi dei mortali24. Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco
di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος
εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma
tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il
kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che
esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via
di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ
διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit.,
p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che
mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel
frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli
sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era
solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente
(πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la
dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che
«siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi -
evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere
scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo
richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al
kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b:
χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione
introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la
possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον
ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria
intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ
φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi
a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente
contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω
>, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello
sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente
sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto
all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica
della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di
Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per
distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di
«liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e
premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni
scaglionati lungo la Via dell'essere»26. Chiara Robbiano, interessata a
valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha
sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata
incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un
«uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē
(B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative
«per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre
alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella
mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν
γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali,
nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in
B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune
di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione
e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu»
ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo
schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno
stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella
scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via
sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp.
48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman &
L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris
1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a
una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29. Da questa via di
ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio
(forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea
inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν),
diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»:
μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας
τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato
infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile
[citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere
[citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78,
2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel
senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta
implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano
indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1
denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già
segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del
fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali».
Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato:
la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano.
Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit.,
p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono
definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della
Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea
contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali
che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il
pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i
(o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie
dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine
quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono
appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il
linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα
(B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la valutazione intellettuale implicita
in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie)
certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la
qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti
416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa:
evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è
guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere,
inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in
guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro
orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla
ragione31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso
dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato
nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione.
D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la
via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto
dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che
richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una
acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una
spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di
vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων
Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime
barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce
all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la
consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e
in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) –
integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il
filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono
insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come
istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva
parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la
probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op. cit.,
p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi non ha
un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non
conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come
facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In
Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei
giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che
attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio
umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi
non rivendicano33. L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in
B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto
del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la
via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου
B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su
quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2
(ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in
parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6):
l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini»
(τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso
consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e
l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento,
una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in
quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna,
cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al
termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci
spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto
ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per
questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33
Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs
immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op.
cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva:
l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla
pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel
giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via
della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37. Sempre in
relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento
della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il
«vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo
di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a
collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura
nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con
la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente
condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in
precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli
Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto
presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante
la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in
campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre
critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come
sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte
cose41. 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit.,
p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe
compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine
conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des
Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano,
op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è
dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio
lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune
ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione:
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν
ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti
faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la
lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in
Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma
soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα
μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι
τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo
occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni
simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo,
Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα
(analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui
Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza
omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo
statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza
multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del
reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è
quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose”
sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima
forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle
cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45. Noi riteniamo che
in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare
alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di
comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una
osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando
si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una
formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i
mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali
perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48. Logos e elenchos
Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me
enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra
vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44
Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47
Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a
valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con
l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche
«molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del
participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con
trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza
della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra
umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del
logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono
come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a
contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una
contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il
risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica
alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e
«racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi
«discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro
contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività
razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος
risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione
scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in
cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura
interna. Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος
indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente
al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne
l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico
originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è
«provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura;
collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a
provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49
Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla
prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra
dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti
della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori
ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che
la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione
implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone
l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν,
contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e
radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1)
come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due
coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini
tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si
concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei
«mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle
norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso
la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore
accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una
contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51. 50
Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi
di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I –
Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. Il frammento B8
ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla
Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono
riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo
Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo,
Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato,
almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo
originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo
già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si giustifica
per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e
comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi
superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi
Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera) l’intera
comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame
critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione convenzionalmente
designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva
coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς
ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι
διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου
συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo
di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti
versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette,
sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere,
le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29).
Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due
segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito
concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del poema, per
passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi
della natura. La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito
delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν,
τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo
verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra
analisi di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in
B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ
βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ
δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che
tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le
opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai:
come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente,
tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata
- per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1,
ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento
(πυθέσθαι, anche «imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo -
Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione».
425 Verità ben rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla
denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali»
(βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra
interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma:
conterrebbe cioè una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα,
sui contenuti dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione
sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più
numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse
articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si
prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età
ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione
da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il
testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V
secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità
della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione
ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i
"naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano
adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente
eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo
subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe
utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel
secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso,
invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica
redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto
disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un
esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean
Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of
Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot
2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero
mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si
sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi
giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno,
forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce
esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il
proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426
prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi
come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante
osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di
ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla
cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio
ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio4. La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce
(i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5,
come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni
semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in
silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto)
incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due
terzi finali del discorso della dea6. La via che è L’attacco del frammento (vv.
1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο
λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola
ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi:
che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane
un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di
alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and
To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via
che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei
vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν,
ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è.
Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce
sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola
ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν
(espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la
conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è
fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è»
(τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον)
e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι
μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di
informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è
conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è
riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo
la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio
di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che
imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι
μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere»,
rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere»,
garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7. Una sola parola L’eco
inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e
conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act
(Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare
mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι
ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono,
persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in
conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι
παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε
κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al
discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi
opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può
ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i
contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella
propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della
rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul
rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si
veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in
Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ
ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5
ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la
«prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una
sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il
commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura
con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo
alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ
σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il
discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile;
molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti
che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra
πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del
riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere
usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9. Sarà
allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν
e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei
«mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come
evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità
dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a
quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in
quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli
interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e
non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza
dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella
πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali»
(ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una
differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare
un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea
disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento»,
maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali
che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε
μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state
respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in
B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica
corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν
< πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν
νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto
mortali che nulla sanno, […] schiere scriteriate, per i quali esso è
considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ
μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα·
μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà
forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca
allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti
faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione
ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento:
perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale
(l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza
sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome,
quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire,
essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν),
ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa
nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i
mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà
pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla
«parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione
ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che
discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν:
l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali»
che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52
marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e
l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile»
(πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle
nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments
in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema
interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È
la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne
con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale.
La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà
(τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)»,
«Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)».
La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente
determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa –
conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”:
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali
impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il
suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in
guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del
«pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione
potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando
l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di
registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza
ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche
caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della
Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione
stessa delle parole11. L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana”
della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione
linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε
tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A.
Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo,
secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito
sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero,
distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a
osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι
πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante
perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola
all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà,
evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente
è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso
(κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi
di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea diventa quello di
illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza della via, di guidare
alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός,
non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il riconoscimento della loro funzione,
contribuisce a determinare e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν:
la «via», in effetti, è indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura
descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più
netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che
potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che veramente è». 434 Segnali
La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non
integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον
μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto
intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà,
poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo
dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα
rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione
che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in
termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e,
apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον,
μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I
«segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche
che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come
risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo
anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo
stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla
12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri),
fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi
dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa
nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν
(τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano
la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non
disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non
semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto
di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo
appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ
πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova
polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale
concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo:
(i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle
inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si
tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui
il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa
di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la
contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a)
il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e
essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος,
ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il
pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso,
troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436
e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως
ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι
Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare
tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei
«segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico –
con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος,
confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita
e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro
modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la
discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα
possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a
contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il
catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni
contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo
della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive
differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su
Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui
possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e
Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che
possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora
possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti,
concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109.
14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal
confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente,
culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via»
consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo
di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta
discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la
guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai
«segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del proprio
esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano
razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli
indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza
superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso
modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ
σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà
un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai
mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e
Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non
si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai
successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il
divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In
questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν)
si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è
necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op.
cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario
tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato
non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale
tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e
«responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel
contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno
la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel
responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza
che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in
forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il
suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato.
Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali
ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata:
non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza
delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in
passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη
τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν
διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di
Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi
degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo (Iliade
I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno
nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In
Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al
pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli
per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini
e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche
quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso.
Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione
simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino
deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali.
In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse
(le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello
sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque
diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto,
piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella
comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per
illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere
supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel
nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie»)
introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una
sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato
della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di
senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola
dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide
scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni»,
quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della
produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene,
legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος,
metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una
stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque
una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della
via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di
un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso
sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità
della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il
giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8
è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella
narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi
come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e
percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come
Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio
registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita
(vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς
ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές
che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e
senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme,
uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον,
ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν,
συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra
costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν
ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν
ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον
τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che
sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso
appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da
Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui
seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον
(ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον
(indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον
(non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare
leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro
σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma,
nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare
gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii)
«tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22
Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più
minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i
predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero)
τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C:
οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον
(immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν
(uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo
precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di
McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo
del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The
Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham,
O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον.
25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che
l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443
L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si
limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico
confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso
comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile
modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata)
che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la
struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν
μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ
πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει
πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε
Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e
pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno,
inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima?
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di
convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire
concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle
annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten
della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος.L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come
soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne
generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ
πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso
possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che
non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ <
τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio
ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν)
appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e
delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον
(e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come
segnalato dall'uso di οὔτε (v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure
è vero quest’altro», dove «questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due
possibilità concepibili in proposito28, appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ <
τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello
scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus
mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ
γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν·
[...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora,
l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti,
certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato
generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di
conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p. 177. 445 e in
Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29:
Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες
γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν
οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων
οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος
ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι
(εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω
δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν.
Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo
diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo
filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una
via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti
nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera,
necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile
che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non si genera (perché è
già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve
fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano
allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. Lo stesso
Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo
senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha
contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli
Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν
ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος
Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato:
mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere
oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa lezione,
ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica
rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;)
introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare
(nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura
dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è
generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in
un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a)
ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da
Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente
insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata,
e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò
che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato,
anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente)
mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un
oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide.
Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di
ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale)
discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione,
che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo
dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178)
secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a)
rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς),
«giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella
confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν·
οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò
che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il
riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν -
οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa
fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il
dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a
livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione
argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta
richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle
«uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il
rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di
contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima
via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva
“terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con
i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde l’impossibilità
di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op. cit., p. 142. 448
ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33. D’altra
parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a:
τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi
(v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν
τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento
seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati
con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) –
ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è
comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano
implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della
comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati -
immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono
garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta
dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore:
Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i
processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del
discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a
quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede”
lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre
divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo)
τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di dominare – di
fronte al pensiero – senza eccezione36. 33 McKirahan, op. cit., p. 192. 34 Op.
cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in particolare la
terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et
Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide
(en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio
p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione
argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità
di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati
(vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita,
infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli
come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω
φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che
non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e
pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ
πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto,
originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ
< τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai
concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le
relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ
εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per
questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo]
tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare
a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi
retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare
l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il
sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν
(«cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al
problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni
verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine»,
da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche
«sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule
inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte
come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle
condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il
«come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti
possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro
l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni
per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37
McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura
Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei
significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo
discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi
originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a
φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale
aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la
ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di
Anassimandro: ἀρχὴn... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵
καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν
ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è
l’infinito... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che
sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le
cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle
stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti,
pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del
tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου ) ἀίδιον εἶναι
καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non
invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον.. καὶ ἀνώλεθρον (τὸ ἄπειρον = τὸ θεῖον)
immortale.... e indistruttibile (Aristotele; DK 12 B3). 38 Per esempio a
Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato
nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica
aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a
disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici:
la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una
presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di
vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον
εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν
μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον,
ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ...
τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα
μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον
ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν
γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...]
dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per
primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né
acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa
altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1],
parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora
che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non
ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al
di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno.
[...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al
fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek
Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte,
dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e
citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti
su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio
delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la
totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di
generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν)
le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il
riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della
testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse
si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ
τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι
καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι
δένδρωι φλοιόν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno,
è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e
da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra,
come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα)
si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i
contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo
necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν)
42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp.
180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il
perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto
conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας).
Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla
probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura
del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per
noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione
sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di
«origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non
attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella
letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la
possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν),
in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo
quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς
γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω
[B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς
γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle
cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e
l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre
circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione,
l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo
S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p.
4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo
stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures:
Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy
cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura
dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto
che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi
a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀνώλεθρον)
- che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua
volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone
il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel
complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non
addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per
quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono
esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος)
qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa
«nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro
soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e
γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che
è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a
esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione,
insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione
a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e
21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli
argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando
l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione
della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la
corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora
che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente,
egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di
oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p. 193. 45 Tarán, op. cit.,
p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di
informazioni» B2.6)46. D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo
«immortali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del
mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47. Lo schema della
testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo
nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato
eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità degli elementi
(στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che
scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del
movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio
conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la
«cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine
di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come,
secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità
abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i
cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel
duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione
di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della
discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della
«maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων
φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46
Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la
«philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων)
sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας),
Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ
εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι
μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ
τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da
cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un
verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono
essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si
generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva
sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini
della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli
enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si
distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo
materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente
del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè
verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ
σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso
al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti,
precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον),
Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί
γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν
φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν
τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the
Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο
αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti
da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera
natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti
convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro
mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo
rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi
filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò
che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della
posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è
risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In
pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione
ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di
fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica
dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel
principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e
dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul
modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo
aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle
testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà
intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata
come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del
moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»:
Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il
resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle
origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W.
Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to
the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”,
in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di
M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp.
362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che
avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di
"second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i)
perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle
altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non
è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi
sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν
διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso?
Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a
considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ
μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive
argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei
frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ
νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema
interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit.,
capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti:
per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford
Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas
("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy,
cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham.
Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and
Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss..
460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è».
(vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di
B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i)
esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3),
«l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto
παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è
allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι
B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e
dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni
(la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità),
un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti
concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa
contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄
ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale
bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o
prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due
possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è»
dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso
debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò
che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più
tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è
ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non
vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci
troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un
evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la
propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo).
La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti
ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla
concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’
ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In
questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò
che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è
ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda
interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si
aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole
all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi
sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La
nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza
necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa
generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal
nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un
altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche
momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che
faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile
ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una
particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità
e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op.
cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ
μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è
sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da
tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11)
μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo,
occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ
τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ
οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον
καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν
κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli
antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della
equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto
agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il basso o
orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in
direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo
295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza
di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in
relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso
di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai
fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare
tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la
mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa
formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non
può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa
fungere da ragione (causa) per la sua generazione54. Al termine del secondo
argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore
avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma
solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente
ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe
l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due
vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e
non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al
verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante
per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile
parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν
ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o
«ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli
interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso
risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in
proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo
l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio
dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire
definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa
essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto
che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea
rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è
tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op.
cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p.
185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa
anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai
dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ
ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né
mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In
pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è»
dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità
alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti,
«qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ
> όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ >
όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso
dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi
altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la
riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è»
e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe
generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione
dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non
sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa
da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω... οὐδὲ «non permetterò
che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una
considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai
concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero
espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è
quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di
Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό
Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto
a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla
negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una
difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58,
per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything
to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore
locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli
altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile
(il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la
dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come
Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova)
giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere,
per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala,
in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό
(«autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe
l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op.
cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro
che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono
struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre
successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e
dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al
concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι
δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου
πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ
χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς·
τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse
il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo]
come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi
essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione;
affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti,
distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν
Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς
γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ
σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο
καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti
circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione:
essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da
superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà
a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata
dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven,
Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel
complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del
divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli
cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo
studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che
affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva
la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e,
soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento
in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica,
si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale
spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e
in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non
escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia
quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione
cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e
Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del
poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento
dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui
per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura
ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che
abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12
richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile
un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa
e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura
parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή,
quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La
Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op.
cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici
fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ
λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα
καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non
c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e
tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK
12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή
che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i
pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe
fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato
principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή
difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare
dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere
polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento -
una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere
e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può
concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è
legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata
con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio
interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a
Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una
lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione)
mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i
quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al
rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68:
in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La
questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione
del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è
elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una
collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di
sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione:
persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito
di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale;
(iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio
del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα
κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke,
Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o
«via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura
dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni
“trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che
è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure
svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69
Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua
opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470
garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle
parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere
dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike,
in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν
da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini
preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia
oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo
costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di
salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro
passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la
discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e
omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro.
Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia,
sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν
δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31)
Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su
questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come
sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70
Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione
e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a
un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto
delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed
equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre
l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio,
Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον),
non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la
comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero
del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e
la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe
a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate
per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre
divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e
sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso
significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra parte, che la
tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ
κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη,
τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et
philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν
καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque
deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι
δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει
v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule
contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in
quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii)
conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi
della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il
rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni
che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν
non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione
con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa
in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21)
e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale).
Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la
temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere
di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre
uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di
un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La
stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
«è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto
insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo
[passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto
modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe
allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme
avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un
tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni
coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ)
– alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il
rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di
«ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra
sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v.
19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν
ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare
come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν)
che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come
insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit.,
p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn,
ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e
assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι),
si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito:
l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione
della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e
continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei
σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme),
συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον,
τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος.
τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è
tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere
continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò
tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al
non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente
«tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è
«tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso
(uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα,
il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra
citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι
μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e,
così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità,
l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in
ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che
è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una
serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere
continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv)
«ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii):
πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente
dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι),
esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι,
μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso
(ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν),
seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli
di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del
verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che
è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e
identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di
distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν,
πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli
evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha
marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità
inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di
collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione
«tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82,
anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie
all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato
in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso
richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben
presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα
μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε
νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo
genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare
chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da
riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il
segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura,
un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione
all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento
– in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni
mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme»
(μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e
reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a).
Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo
decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di
essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio
uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un
blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è
possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della
formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi
terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno
il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ
αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ
τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ
λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui
milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui
si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno
e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa
prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa
risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il
movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se
essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in
modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per
compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione,
l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre.
Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il
freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e
Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della
convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è
l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari
(Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si
dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò
che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi
di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli
opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata
sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno»
(κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi)
come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). Il lessico peripatetico delle
testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi
esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle
cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di
Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις)
«si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ
μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di
Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον
γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono
aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che
prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di
Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo
interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In
questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole,
acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di
passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale.
Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si
ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in
Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ
στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins
of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già
presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma
rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la
generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con
probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον
ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος),
dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si
produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo
differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento
della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse
furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente
riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).
87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments,
in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press,
Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità,
identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero,
uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal
rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale
dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare
discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e
sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di
ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come
manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in
difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»);
il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo
diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole],
invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per
qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto,
come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo
complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse
cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato
a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue
trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata
e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di
Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo
per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e
pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce
(vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato
dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo:
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa
cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui
[il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà
altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e
immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea
recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε
καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a).
Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra
νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν)
possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di
B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89
Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic
Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere
che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto
si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da
quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso
interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e
mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina
consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla
Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole,
utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente
proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per
articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta
essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero)
oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel
che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi
realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit., p.
202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in
particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale
dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide
richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali
(B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente
il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò
che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula
impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare
e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra
ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica)
tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il
pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a
delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza
(espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui
membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα)
«che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può
che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere
sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui
necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il
solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i
mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno
parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti»
di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92
McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne
siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale)
dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel contesto, insomma,
a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe
non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità
dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai
suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora
la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé
illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato
coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e
dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è
contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si riferisce il
termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo
della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque
accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo
o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide
(γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità
ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento
qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire,
essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze
relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti
eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa
nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto
peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa.
Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni
(ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le
incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93
Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto
concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa
attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa
a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei
presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un
tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione
(νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità
del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel
confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione
ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea
assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una
formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e
immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla
«esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò,
in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la
garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità,
unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei
«mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore
tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e
pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ
τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν,
essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le
immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la
fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo
Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi
(πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità
dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere
fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e
costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la
precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto
(πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi
traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che
concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo
particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio
ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε
τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι,
τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον
τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è
compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia
in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o
dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì
meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale,
uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente
due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per
comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione
dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura
dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν),
manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie
perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità
piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite
estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto
discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento
della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi
del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί
περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα
πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη·
δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo
argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al
limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a
essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del
vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal
momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i
legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione
e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a
garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle
immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia,
Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge
dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa
l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al
«corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle
altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in
presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un
estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente
pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München
1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss..
Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι
τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe
la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius
attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare
il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι
τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine
che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del
cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui
principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή,
ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...]
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide
avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo
il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso
soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς
ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente
entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta
profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità,
l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione
d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere
(ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione
spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100.
Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe
infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione
dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ
ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι
εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non
è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni
della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine
estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo
punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla
sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare
il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come
totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si
enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un
avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che
è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di
M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in
Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte
uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in
ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua
"densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ
δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno
(vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità
(τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne
(con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne
eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la
inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a
livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del
nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda
palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come
abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti:
(i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον);
(ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος);
505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso
(«ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla».
Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile
tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi
– sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque
esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque
coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta
"in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò
che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative
conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei
versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da
quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) -
come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla
cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di
definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la
stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze
razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule
che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo
sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile
connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale
della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e
cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of
the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono
superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa
estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse
elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa
qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente
intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di
allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ
συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα
τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ
πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie
cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς,
οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς
ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην
ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]
E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al
vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella
che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una
sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. [B8 VV. 50-61] Sin dalla
antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e
due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via
della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη
τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia
si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys.
38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv.
50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la
prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento
è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione
divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio
interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e
della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei
mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα
- «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia,
probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla
preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È
significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato:
come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è
plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori:
καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου
μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di
sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi
di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette,
sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in
fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia:
non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e
conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in
precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il
mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης ·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità;
da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole
ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori
discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio
alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri
termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della
narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano –
adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione,
ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della
realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista.
Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del
divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato
oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere,
apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8
– la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti,
possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni
che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né,
diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali
della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!);
(c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della
verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del
frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή
ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato,
per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si
tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a
cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea)
offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali
sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una
pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60
l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero
dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di
elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia
valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo»,
accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare
«ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata
positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno
e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni
modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei
fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa
dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ
δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme»
(μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione
divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello
oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le
contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la
preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale
(διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla
sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza,
la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza
avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza
il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per
comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui
collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la
molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si
riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν
τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver
illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne
analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione
opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta
all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa
essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la
realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di
piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa
guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio
dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo
caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua
estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità,
differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A
partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος
πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale
una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli
esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si
tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del
progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione
peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα)
all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo
«principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento
e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né
si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele,
Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere
la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone –
attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver
denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee,
offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta
nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα)
– in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che
è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente
quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti
i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde
ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini
degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla
«riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali»
(δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di
«ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto
dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων,
B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di
ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un
verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
- · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità
non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada
(B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo
indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee:
in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della
contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio
umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica
(per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello
519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per
gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi
alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un
ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento
potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di
Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente
il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle
nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica.
Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile
approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da
cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi
un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come
abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente
riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore
fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b)
che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali,
distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a
due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla
nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate
analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato
del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi
parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura
nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso
materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea
si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi,
sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se
stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che
in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἀτὰρ τἀντία
νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco,
che è mite, molto leggero dall’altra parte le caratteristiche opposte: notte
oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica
sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema
seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata
da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ
συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος,
δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ]
καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ
τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ
ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων
[ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi
stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a
quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in
cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis
1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel
complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella
tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di
coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide
avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις)
cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che
Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle,
colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le
quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε,
τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο
μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ
ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης
προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle
cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla
forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture
sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose
oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6).
In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema
cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione
delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata
con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ
χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54).
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della
determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione
della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una
indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato
Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile
mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi
nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione
di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello
dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai
vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di
B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale
alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé
stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale
contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione
appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di
spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente
con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che
cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un
singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita
debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei
frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai»,
πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale
debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver
superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro
unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare,
interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ
ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
[...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν
λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce
correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi
conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale,
invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp.
61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni,
Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e
solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e
non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ "μη δετέρωιμέτα μηδέν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle
due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che
sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo
nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà
costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella
misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte
nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate
avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico,
emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua
esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro,
senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione
di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è
sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e
«opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op.
cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente
essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio,
nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta
la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla
necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui,
in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν)
e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono
segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...),
la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la
decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία
ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende,
dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti
dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento
intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una
considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con
l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone
argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta
sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile:
questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano
appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa
attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile
a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle
molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che
non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei
fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto
alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον),
pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta
dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide
soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su
formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione
(ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea
attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del
classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei
nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia
B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro
all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione
della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della
Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio:
non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una
descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe
pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero
piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della
realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema,
al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie
ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la
superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe
ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
«è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα
(B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile»)
potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della
περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida
fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti,
ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non
lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…,
cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste
oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp.
7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo
quindi un senso profondamente diverso: Il pensatore di Crotone (che Diogene
Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area
geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale
opposizione (μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano
solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze.
Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in
realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è»,
sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle
linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla
luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni»
attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν
θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono
la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli
indizi.Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché
approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti
il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ
‘μη δετέρωι μέτα μηδέν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo
poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il
nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di
B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la
conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come
ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni
editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare
la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri
intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di
una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione
cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In
effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante
riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere
centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle
prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ
ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε
καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono
state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle
cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto
nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare
e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al
frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei
fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due
μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo
empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che
contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e
averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),
Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo
dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che
venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano
questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di
più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno
(B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν
ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22).
A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo
far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν
ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso
ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al
duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di
uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν
(B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι
(B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla
precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla
Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος
proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle
narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della
fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che
è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος
(l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano
nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa
disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba-
541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio
della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno
dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la
doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse
la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe
dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già
ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a
una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della
dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così
l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale
disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate
assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si
impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di
quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza
contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto
in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin-
3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo
"riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata –
come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può
far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della
Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione
cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la
costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la
complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende
dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii)
aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema
polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti
(B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4),
Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le
cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle
due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è
associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come
possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ
καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως·
ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον,
ἐπὶ δὲτῶιπυκνῶι ὠνόμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra
i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso
afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e
leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e
pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo
spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in
premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude
che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla
composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la
stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende
possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da
principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la
presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme
(anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario
ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili
agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e
immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc,
per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve
rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica
l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5
Ruggiu. I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse:
Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C
.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12
in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12,
un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ
πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...]
poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione
(«poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe
seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a
ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e
il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e
B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte
diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da
varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio),
viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che
rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello
che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ
μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η
ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole
ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il
commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle
cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla
vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco
(Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della
Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una
loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto
scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema
cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere
a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in
B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale
successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura
programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie
(εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della
Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il
fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello
stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa)
di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla
conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10
costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che
chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un
"secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548
proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος)
- e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica
e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme»
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti
principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una
precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della
δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La
disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto
compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque
preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ
δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν
ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell
propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell,
«Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur
Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura
eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le
opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche
della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo
che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo
costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far
«conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni»
(πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα)
del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far
«apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura»
(φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto
intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far
conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere
nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11
(nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide:
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων
καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide
intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive
l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli
animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come
Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea,
evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i
temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali
nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte
non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in
Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e
posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e
γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi
pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione»
dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda
Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem.
11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto
medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12
alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come
vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del
sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste
(sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui
si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della
«Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione
"copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non
sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui
riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto
al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che
nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi
a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla
loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della
riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente
«invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai
processi cosmici. Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11
si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a
partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere
molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3
versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν
δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i
versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi
materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo
riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà
notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in
apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ
δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più
strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive
[si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui
alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione
dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e
composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti
superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
«e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον
ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον
ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ
Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da
tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare
da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si
muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da
Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι
κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ
ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας).
Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al
contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius)
dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la
sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere»
avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’
ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una
sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua
struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa
interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso
americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno
contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la
testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che
l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato
dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla
fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su
τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora
qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera
di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...]
(Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di
Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius
– costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il
cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei
frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero
arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un
punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la
Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la
periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto
contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo
sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche
concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile,
sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di
etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p.
343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una
doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso
è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante,
circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a
tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il
cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri,
dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno
nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il
nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere
celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri;
(ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo
alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π.
πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν
τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α
ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui
identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri
nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono
ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la
fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς
μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος),
che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il
termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti
nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura
celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22
Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί
λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ
ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ
παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν
γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ
σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι
δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ
ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον
τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ
φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ
μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il
cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto
d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del
tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la
regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui
affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il
corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e
alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In
un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema
volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero:
l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero
abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale
e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del
cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria
sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un
modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo
naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ
τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua
associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro
chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che
[Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ) si
riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema
volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς
σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων).
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός:
«l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si
generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di
Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla
sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva
riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla
Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella
ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le
citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della
posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i
dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del
centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo
estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τείχους δίκην
στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea,
composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda
fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza
fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera
aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi
celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono
concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla
relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo:
quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata:
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν
λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων
μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς
παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ ’ ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος
μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δαίμονα
τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo
dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον
αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose
governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il
maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico
Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς
τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν
διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ
κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ
Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας
τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a
queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta
un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero
[...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di
Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»]
sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al
centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza
dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28
A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico,
quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο
δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς
κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ
κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον
κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi
dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il
basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a
quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano
rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile:
dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione,
solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς
καλεῖ [B 7] καὶ Διὸς οἶκον καὶ μη τέραθεῶν βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον
φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ
μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν
σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’
ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ
μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν
στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς
πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κόσμον, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν
τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν.
καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν
γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην.
Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto
[dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e
«misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che
primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi
divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole,
quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del
focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»;
quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole
e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre,
entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla
disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle
cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK
44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano
stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo,
sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione
eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si
appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος
«la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli
elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός –
compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica
sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva
lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del
ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ
πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀφροδίτη ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι
κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον... πάντων’ «perciò Parmenide mostra Eros come la
prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le
testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che
effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica
(πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569
non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono
alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ
καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la
generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo
stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione
ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν
τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella
misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo
dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca
la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a
uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa
coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza
cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως
ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella
della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato
da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di
Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono
le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che
chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ:
in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene
introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste
(come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile
pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26
Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse
fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice
quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης.
La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in
particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la
«natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al
centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle
citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella
tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν
μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ
παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Διὸς οἶκον) o «madre degli dei» (μητέραθεῶν),
connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις
πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica,
Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te
[Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii
27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13:
ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea
che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La
collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili
convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina,
potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo
centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla
superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà
implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta
di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della
divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare
come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile
efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui
cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama
στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli
denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius:
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’
ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge
dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio
l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe
concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata
da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo,
coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione
sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco
il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione
ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν
αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29
Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ
φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ
περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας
αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον,
ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è
o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal
momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato
e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che
è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono
oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il
divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro
e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου
Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς
αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς,
καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα).
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è
l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la
nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno
universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι
γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste
una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto
(Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν
αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι
κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι
τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia
luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il
fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con
il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo
fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento
[dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero
avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle
origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della
naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito
direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose»
(Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare
l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il
controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In
B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe
alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di
aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la
parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀφροδίτης, sia
in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno
Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni
analoghe a quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas,
I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op.
cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere
la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte
le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι).
Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato
anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni,
e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros,
che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche,
documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione
cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo
cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della
δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e
«maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio
peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ
πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ...
κυβερνᾶι ’. καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ
ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ...
θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι
πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a
generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione,
Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa
efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni
generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione
teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘πρώτιστον... πάντων ’ κτλ.
καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν
φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo
[B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora
in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio
suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla
testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀφροδίτης
ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’
perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo
nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può
cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4
984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις
ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ
κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘πρώτιστον μέν, φησίν Ἔρωτα … πάντων’ Si
potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del
genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o
desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del
tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita
liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la
testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam
neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi >
monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui Cupiditatem [B 13]
ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel
oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in
alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona
(egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e
che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né
sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie:
riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose
del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o
dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già
state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che
abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione
sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i)
la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione
diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste
decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e
comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua
causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei
due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza
delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono
generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente
Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς
εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide
in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di
tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli
altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»),
che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di
una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo
proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto
alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la
mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una
forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros.
Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa
degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al
concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del
tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre
figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività
direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di
Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello
parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che
Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica
era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è
suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente,
dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione
aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso
(cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione
delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza
vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης), di cui Eros (insieme alle
altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica
a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle
forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che
prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e
corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che
la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può
dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p.
242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω:
pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai
processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω:
meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e
della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un
rapporto di pura filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. I
quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a,
per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione
aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È
significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco
non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente,
per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche
(obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν
πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς
περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν.
nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come
Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» –
elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος
ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς
ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro
bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i raggi del
sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato
poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione
ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna
come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole),
illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle
avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1
Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si
possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la
conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante
intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la
probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee;
(iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce
solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso
Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον
καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου
μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene
che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via
Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda;
l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν
σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e
di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc.
εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου
φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di
fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in
effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata
dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione
degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la
Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici)
più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza):
il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla
calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. Frammento di
interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una
sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo
all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà
per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato,
infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili,
diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta
anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è
l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione
sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei
(Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla
sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe
una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente
condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli
altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà.
L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei
versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto
peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in
Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due
parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo
aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero
(φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione
di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν
μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ
ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν
ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione
presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È
interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti,
afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero
(μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere
ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ
Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello
stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono
costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in
volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale
prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la
lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento
abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il
pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del
discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις):
si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come
corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto
che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ'
σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando
diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama,
nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare
per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι
è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti
la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso
il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B
16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν
λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται
φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι
καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ
θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς
καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν
οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.
3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il
pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello
secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione.
[citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa:
perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la
mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli
elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la
sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario
in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto
non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto
l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra
eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia
generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e
νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις
e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente
attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi
entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4
Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso,
Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due
opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che
doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione
del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ
μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι
ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ
Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della
derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene
all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως
οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché
[...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente
di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον,
ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo
che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che
prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di
B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne
du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ
πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di
Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo
conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che
prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è
quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso
[sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La
convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della
"fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e
Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui
funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così
riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche
di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις):
«il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il
prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della
preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ
καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa
proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος
συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι
καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile
(evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι
δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν
φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός,
ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la
percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente
laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la
perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta
la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ
γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi,
che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico.
Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii)
e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente
nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità
del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due
«elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una
perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio.
L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per
sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la
relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la
relazione psico-fisica che vi è tematizzata7. Ricostruzione dei vv. 1-2a I
primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole
rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione
sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν
μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si
ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli
uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per
il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo,
intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione
fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro
situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle
variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero
(ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele
rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di
antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione
dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν,
τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν
ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος
τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha
funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini
deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il
caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che
l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto
nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene
Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος
πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος
594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide
dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide
e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza
e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe
completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto
rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura
umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e
conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza
di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle,
nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle
componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων)
non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente
alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso
fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento
a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle
«membra» e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo
poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe
decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza
del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula
omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ
νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε
tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich,
op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op.
cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei,
quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico
corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo,
tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione
psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta,
di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai
molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva
antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una
concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che
sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa:
παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra
che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non
sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue:
τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ
γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli
uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che
prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si
tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto.
Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla
propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento
delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che
«ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν)
con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione
interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta
originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13.
A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base
delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per
mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a
differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite
dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος,
νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una
consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero»
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄
ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia
violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»:
una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della
realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che
nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando
criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere
sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero
saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere
(B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del
pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica:
averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene
avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora
non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a):
ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro
petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων,
B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si
presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo,
espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il
pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di
stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il
miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea
«il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione
dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente)
la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere
affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non
avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore
consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i
quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la
possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un
«cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad
Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita
forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a
Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης
φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre
iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una
tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος,
letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης
ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa,
come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di
una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della
esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male
in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche
idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit.,
pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari,
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit.,
pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere
solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi
(B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici),
delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il
risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che
doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto
maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero.
Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie
convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando
diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che
rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V
secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare,
nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν
(Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo
invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La
citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u
r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines
generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos
enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘femina...
sexum ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di
concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e
sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure
in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è
stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue.
[B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione
letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la
facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la
loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili
modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle
citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e
Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς
τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη
τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae
professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri
putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono
gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte
sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori
della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove
esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte
destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva
posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento,
e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di
Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi
richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p.
285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel
lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium
IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων):
φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας
καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ
παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν,
καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς
Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come
Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina
invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra,
e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti
sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel
seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che
trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette
carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente
avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine
rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili
e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a
chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina
virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine
virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che
[deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune
informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente
maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da
sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile,
cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti
delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire
la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai
genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili
ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle
madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e
femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide
probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme
femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes,
δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica
potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in
negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant
unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se,
infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano
un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op.
cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso
nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio
Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes,
quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui
generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae
permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che
i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se
si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano
carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta
mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati
desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi
fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto
semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo
così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso
contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio
sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam
sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione
dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano
certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo
Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora»
(Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo
infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ,
ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς
μοναρχίαν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου
μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene
la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera
di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti.
[...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le
consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi
fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia
degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le
testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente
seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il
feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che
entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur
avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι
τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius;
DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse
Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile,
come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente
elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia;
probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni
ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi
archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve
sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito
biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per
altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di
Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva
dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli
constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è
possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e
Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi
condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica
preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e
della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito
della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita
come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi.
Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale
1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato
esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto
particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del
poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν
ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου
τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν
εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ
καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε
πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ
νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ
καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ
ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide,
Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente,
dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale
essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che
appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il
divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato
il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre
[la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53].
Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse
ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di
condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere
riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose
intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità
dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non
ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo
sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse
citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni
principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il
passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era
apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν
αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la
deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il
contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del
VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo
Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως
ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια):
nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema
doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben
rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò
cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione
effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle
«cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore
designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna
conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e
dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora
uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è
possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che
raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le
opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte
con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν
μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν
εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν
ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […]
percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca
anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie
le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è
uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al
fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi,
fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28
A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in
termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista,
Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ
Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi
retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al
riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura
"costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e
Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da
tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in
particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa
realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur
avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza –
e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di
individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli
di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti
intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su
questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si
veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in
particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco
più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della
discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce
effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate
nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo
modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in
seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini
imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν –
giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali
impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la
corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in
vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ
richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca
condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op.
cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore
diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ
ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in
quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta,
dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico
della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli
effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli
uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei
contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui
appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non
a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo
principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In
questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in
questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità
delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini
ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e
dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne
avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ
κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν
τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε
φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ
ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ
ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Ruggiu. Coloro
che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la
natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi
sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò
che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da
entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è
già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in
effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero,
aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo
l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Verb fīō
(present infinitive fierī, perfect active factus sum); third conjugation,
semi-deponent (passive form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs
ōrāmus ut discipulī ācerrimī fīātis. We are begging you so that you may
becomevery keen students I happen, take place, result, arise – quotations, synonyms.
Synonyms: interveniō, ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō,
contingō ut fit ― as happens usually/as is customary fit ut ― it happens that
Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 13: silentium et repentina fit quies A
stillness and a sudden hush took place I appear quotations: Titus Livius, Ab
Urbe Condita I, 10: fit obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his
army Conjugation Edit While it does have a fourth conjugation pattern when
conjugated, this verb has an irregular infinitive (fierī), and is therefore
third conjugation. Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant,
irregular long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative
singular plural first second third first secondthird activepresent fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect
fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect
factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active
indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum
subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present
fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus
fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect
factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first
second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō
fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future
presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī participles factus
verbal nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative
fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted
Facior, Facī in the sense of "to be made". Verb Edit fīō
first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit
faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō
(see there for further descendants) → English: fiat References Edit fio in
Charlton T. Lewis and Charles Short (1879) A Latin Dictionary, Oxford:
Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis An Elementary Latin Dictionary, New
York: Harper & Brothers fio in Gaffiot, Félix (1934) Dictionnaire illustré
Latin-Français, Hachette. Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni
Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published
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Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide. Non
posso fare a meno di ringraziare Fajen per la dura critica che ha rivolto alia
mia interpretazione dei frammenti di Parmenide. Devo ringraziarlo perche, a
differenza di altri critici non meno duri, prima di giudicare il mio saggio lo
ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui
attaccati sono in effetti gl’argomenti portanti della mia dimostrazione. Ma
soprattutto devo essergli grato perche, attaccando quei punti, mi ha costretto
ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e piu validi argomenti in
loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono. Gli argomenti di
Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente.
Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione
del frammento 1, e cio? la lettura realistica e topografica del viaggio di
Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi
verbali “Sulla natura”; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si
localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la
narrazione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen invece del parere
che, in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria
ad una specie di rivelazione o simili, sia come esposizione di un viaggio
storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso. Premetto che il “Sulla
natura”, formalmente parlando, in ogni caso "preparatorio ad una specie di
rivelazione". Il contenuto del “Sulla natura” viene presentato come il
discorso di una dea, Dike, a Parmenide, cosi come il contenuto della Teogonia
una rivelazione che altre dee, le muse, hanno fatto ad Esiodo. E la divergenza
tra le varii interpretazioni verte sulla localizzazione dell’incontro tra la
divinita e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e [Gymnasium,
La porta di Parmenide, Roma] allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle
esegesi astronomiche, e infine esistente in una citta reale di questo mondo -- certamente
Velia -- nella mia interpretazione. Ora, Fajen puo pensare cio che meglio crede
sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo
parere quanto il mio restano inverificabili se non si basano su esempi
concreti. Concretamente parlando, i filosofi precedenti Parmenide, o a lui
contemporanei, non ci forniscono esempi di narrazioni allegoriche in prima
persona. E, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico
che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica. Ma anche la sola
Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro
problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Ulisse e dei suoi
compagni per l’ultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile
come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k
1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di
Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono
uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo
(preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci?
che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti
straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche
personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo (k
583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in
mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed
? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono
localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto
la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di
T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta
interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il
viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto
equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i
luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp
anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic
te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (ibidem,
22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??, 363-366. 7
dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565 Eliadi,
Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi del lago {ycda
piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&, v. 588), per il
macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto per la cintura
di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea della porta (fr.
1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai iniziale si sosti tuisce
un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici di una nar razione si
interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni volta che il
narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea l?stico, non ?
limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti contenuti
nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche nei tragici,
come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo dal
messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un fiume
12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re udito la
gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben nota (come
la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ?
Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS??
TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la
via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen
mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la
citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha
probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto,
magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e
xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti
racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono
due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che
ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno
stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale
l'oratore acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV
390-402; XIX 165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte
rispettivamente le isole di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la
narra zione vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal
ricordo di un re che regnava nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202).
La localiz zazione ? sempre caratterizzata da tempi principali, la narrazione
da tempi sto rici; e ci? avviene anche in altri racconti deH'ultima parte
d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV 331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449.
12 Ibidem, 487. 13 Med. ta" (in
quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma
congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso
tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti,
Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso
il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre
in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene
inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo
supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad
oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa
simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra,
Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per
Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger,
Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi
delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa
sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i
"centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di
simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca
delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di
questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il
izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di
rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con
esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli
esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non
di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci)
fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che
ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non
credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le
reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie:
ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non
lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che
sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere
io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un
emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E.
Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp.
389-396. 15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen il passo ha senso compiuto senza di essa.
Anche se Fajen trovasse non una serie di presenti irregolari o di doppi
present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma addirittura una serie di hapax
analoghi a quello presunto da Diels, Poner? della prova resterebbe sempre a
lui. Alla fine della sua breve ma densa recensione Fajen mi accusa "di non
essere al servizio della scienza", e non posso dargli torto: se scienza ?
quella che traspare dalle sue argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il
vecchio perch? vecchio e nel rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ?
chi (come Cesare Cremonini) rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale
non mostra Puniverso descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di
scienza lo lascio volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho tralasciato
volutamente il primo argomento di Fajen, quello riguardante la mia
interpretazione delle "fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come
pioppi fiancheggianti la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in
Omero, le 'HXi?S?<; compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen
obietta che in questi autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno
al pianto delle fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in
Parmenide viene a man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo
al di fuori di ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere
a?YSi?poi come in Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte,
ma neanche possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al
mito di Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione
al mito di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la
contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche
e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a
volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma
anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin
terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ?
Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se
optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se
riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo
sull'interpretazione astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito
troviamo le Eliadi come equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di
Parmenide ci riportano a miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il
fatto che fino ad oggi nes suno ha letto il proemio di Parmenide come una
narrazione mitica mai esistito un mito di cui fosse protagonista lo scrittore
che lo nar rava) : i moderni fautori delle tre interpretazioni menzionate pi?
sopra hanno visto tutti nelle Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui
giudizio Fajen mi rimprovera di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia
tentato un'interpretazione del proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie
del sole (che simboleggerebbero le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il
continuo uso di metafore (xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il
retore Menandro 18 precisa che fece uso di quelle particolari metafore mitiche
consistenti nel dire "Apol lo" per sole, "Era" per aria,
"Zeus" per calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la
letteratura antica, da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io
propongo per le Eliadi parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il
personaggio m?tico viene nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza
alcun riferimento al mito che giustifica Passociazione. Queste considerazioni
sarebbero sufficienti per rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho
detto, la mia inveterata abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha
spinto a fare ulteriori ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho
osservato, ad esempio, che questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi?
fr?quente nel Pantichit?, compare assai di rado nel lungo elenco di metafore
poe tiche e retoriche fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato
casuale: Panomalia dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non
diacronico delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della
genesi e delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive
in un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri
poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano
soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica
valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che
il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e
comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ?
per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono
allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2.
19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e
stilistica di Aristotele, Roma poeti e degli oratori a modi di dire gi?
esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in ?poca di viva tradizione
orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma, non pensava mai che gli
aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle citt? che visitavano; e
che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso
uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano suscitare reazioni immediate.
Nessun cantore o parlatore avrebbe detto "Ares" per indicare la
guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la stessa
met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere letterarie. La
popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza dubbio estesa
all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente intuibile: si
tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi der?vate. Ma
esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o extraomeriea:
Empedocle, che subi fortemente la suggestione stilistica di Parmenide, e che
gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per Puso di metafore
mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e
Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una
divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di met?fora po? tica che
riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un
uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non
essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale campano, o pi? in
gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone il suo poema, un
mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti
gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i
sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della
mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta
e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di
animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa
prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente
uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per
Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr.
96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la
nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per
indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v.
N^ctttic). appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la
buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game
con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli
di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli
popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li
rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di
origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire
il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa,
ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si
trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si
tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque
dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il
caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e
che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono
la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia
delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono
dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per
il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si
l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in
effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione
delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune
origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo dramma
di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle. Ma la
leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi,
figlie di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria
erano 25 Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca
tenato, dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude
anche nelle Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro
che ancora in Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla
scena con una maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche
negli Uccelli di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo
legato alla sua me tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono
chiaramente i due per sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26
?piufumi po?tae dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H.
XXXVII 2, 11,31). 27 "Super omnis est Sophocles po?ta tragicus [...] Hic
ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum
deflentium" [ibidem, 41). This content downloaded from 128.143.23.241 on
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state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce
lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti
assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<;
la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro
dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva
nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle,
troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i patronimici
Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo, che uc cide
per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M, oltre che con
la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della vendetta di Procne
su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove le Pandionidi si
sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate Puna in usignolo e
Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa; tuttavia anche in questo
caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino Aristofane)31 quando si
rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che narra la metamorfosi. Tutti
e tre questi miti diedero luogo a metafore popolari, e Ate ne, proverbialmente
ricca di uccelli, appunto la sua attenzione sui due miti sofoclei, ritrovando
le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie avicole locali: la rondine dovette
essere chiamata abitualmente Filo mela, se tutti compresero a vol? quando
Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una met?fora famosissima, evidentemente,
se perfino Aristotele32, che abbiamo visto cos? restio a citare metafore
mitiche, la ritenne degna di menzione); e Meleagridi furono chiamati, pi? in
gen?rale, gli uccelli che nidificavano numerosi nelPAcropoli e che ri
chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le immagini e i cori del Meleagro 33.
A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece maggiore im 28 Op. 568. Probabile
reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od.
XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v
to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101). 32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19.
33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M?
X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc?
?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX.
Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. This content
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to http://about.jstor.org/terms 158 A. Capizzi pressione la
metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro
campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che
fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine
mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il
fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non
mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo
uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si
rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35;
Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora
popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di
Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di
"x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato
di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo
nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di
t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le
immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima
frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che
nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un
andamento che richiama i cori tragici)39 sembrano fortemente influenzati dalle
Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ?
anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi?
tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la
metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati
attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il
nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.).
Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo
(cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa significante "cima d'albero"
cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito che i versi di
Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum.
516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54;
Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia cum crines manibus laniare pararet,
avellit frondes. Haec stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia
ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor, mater, quaecumque est saucia clam?t,
parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus vano come sin?nimo di
"uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne
dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela
maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi
detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo;
e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la
celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua
forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse
detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide
Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a".
"Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto
dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il
nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli
uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede
del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto
id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet?
di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel
fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore
popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ?
quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la
maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia
piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di
valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens
philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido
implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus
fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos
nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa
(Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms.
Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II
180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655
B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48
Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V.
Apoll. T. V 5,87). quelle metafore nei
versi del pi? illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se
in quei versi essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente
riferimento. . Antonio Capizzi.
Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il
verbo divenire, perche usa la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione,
calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico,
meleagride, pandionide, fieri, in esse,
in fieri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Capocasale: l’implicatura
conversazionale dei segni di dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montemurro). Filosofo italiano. Grice:
“You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the
monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies
the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the
trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero
principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational
implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre
nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia,
mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con
la morte del padre, avvenuta quando C. aveva 15 anni, visse tra Corleto
Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante
privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del
diritto. Dopo esser stato governatore
baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata
per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli
studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a
Napoli. Vestì l'abito talare e fu nominato da Ferdinando IV precettore di
logica e di metafisica all'Napoli. Perse
tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo governo gli fu
concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione, Ferdinando IV lo
nominò vescovo di Cassano. C., tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò
alla carica, così come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli
per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe la
cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo
lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come Fiorentino,
Gentile e Garin. Alcuni suoi discepoli
divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Quadrari,
Scorza, Arcieri e Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si
schierò contro le insurrezioni carbonare. Precettore del futuro re delle Due
Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense,
la Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna,
degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei
Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S.
Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco”
(Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso
dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo
dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo
i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per
giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso
filosofico per uso dei giovanetti”. Dizionario
biografico degl’italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam PHILOSOPHIA est scientia quae viam ad felicitatem
sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm
investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam. Patet
primum FILOSOFI studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad
veritatem methodice investigandam, ac di iudicandam aptum reddere, eumque
mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem
mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur et iudicatur.
Demonstratio vero methodo perficitur. Liquet, ei necessarium esse, mentem
quoque ad demonstrationem, ac methodum ad sue facere, ut in eo habitum adquirat,
in quo FILOSOFI scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam
verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti
sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis
gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii, nisi facultatem
illam regulis quibusdam certis, at que indubiis dirigant, disciplina aliqua in
veniatur, oportet, quae regulas ac praecepta tradat, quibus naturalis illa cogitandi
vis augeatur, perficiatur, et ad veritatis investigationem in offenso pede
dirigatur. Naturalis haec percipiendi, iudicandi, ratiocinandi que vis LOGICA
NATURALIS appellatur, quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in
sola praxi consistat, non solum erroribus est obnoxia sed rerum causas et
rationes ignorans, confusam tantummodo cognitionem, non vero scientiam
producere potest. Ex quo legitime fluit LOGICAE ARTIFICIALIS necessitas. Disciplina
haec vulgo LOGICA ARTIFICIALIS appellatur, quam definimus per doctrinam, qua
regulae traduntur, quibus, humana mens in cognoscenda, et di iudicanda veritate
dirigatur. Vocatur haec a non nullis
PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA. Logicae
Prolegomena quae tantum abest, ut essentialiter a Naturali differat, ut sit
potius distincta eiusdem explicatio, adeoque tanto illa praestantior quanto
distincta cognitio praestat confusae. Ex quo patet, FILOSOFI sola Logica naturali
esse non posse contentum, sed ei colendam esse artificialem. Quandoquidem autem
Logica artificialis leges explicat naturalem iudicandi facultatem dirigentes:
sequitur ut eas ex mentis humanae natura deducat, adeoque mentis operationes
prius, carum que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis
investigatione, atque examine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima
theoriam, deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae
divisio, in THEORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum hoc in duas
partes distribuerimus. In quarum prima de mentis operationibus. In altera de
legitimo carum usu, quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens
triabus modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit, vel de iis
iudicium profert, vel denique rationes conficit. De tribus his mentis
operationibus priore parte agemus. Quumque veritates vel per se pateant, vel
per rationem et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri
Prolegomena. ptis hauriantur: inventae vero cum aliis communicentur. De omnibus
his parte secunda non nulla haud proletaria monebimus. Experientia namque
constat, nos omnis cognitionis expertes in mundum prodire (quidquid pro ideis
innatis Platonici, et Cartesiani clamitent), atque primo res simpliciter perei
pere, earumque ideas adquirere, deinde binas inter se conferre, tandem eas cum
aliqua tertia idea comparare, indeque novas veritates deducere. Mentis actio,
qua res aliquas sensibus obvias percipit, aut ab iis abstrahendo novas imagines
sibi format, PERCEPTIO, sive idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett,
IVDICIVM: dum vero eas cum aliis comparat, atque inde novas veritates elicit
RATIOCINIVM nominatur. Nec aliae attente consideranti mentis operationes
occurrere pote runt. Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura
dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque
tainen in se huiusmodi periculum facere poterit: nam quidquid ex recta ratione
capiet emolumenti, id omne huic disciplinae se debere, aperto cognoscet. Prima
mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI, sive NOTIO sive NOTA sive SIGNUM,
quam definimus per simplicem rei alicuius re-praesentationem in mente factam praesentationem
autem intelligunt ad curatio res assimilationem eorum, quae sunt extra ens, in
eodem. Dici quoque solet idea, conceptus, vel sim. Per rea plex apprehensio, ut
scholis placuit. Sunt, qui perceptionem ab idea distinguendam putant, atque
illam esse aiunt, mentis actionem in obiecto percipiendo. Hanc vero ipsam
abiecti imaginem menti percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum
differre docent. Quidquid id est, nobis placuit perceptionem cum idea
confundere. Ad eoque nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam
alii definiunl per imaginem menti obversantem. Buddeus Phil. instrum. cum
observ. alii per exemplar rei in cigitante. Hollmannus Log. Sed hae, aliaeqne
definitiones eodem redeunt. Repraesentationis vox absque definitione ad sumi
poierat, quum sit cuique nota. Sed ut methodici rigoris amatoribus non nihil
daremus eam ita explicavimus, sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei
re-praesentatio. In omni autem re-praesentatione duo considerarida veniunt,
nem, pe modus re-praesentandi, et obiectum, sive res ipsa quae re-praesentatur:
liquet, in qualibet idea itidem duo animadverti posse, scilicet percipiendi
modum, et obiecta nempe res perceptas; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum
recte dicuntur. Si ergo ideae ad formam referantur consideratio illa dicetur
FORMALIS. Si vero ad materiam, OBIECTIVA, vel Realis appellabitur, Et quia
utroque respectu ideae inter se differunt: de formali ac materiali earum
differentia diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum
differentia Experi Xperientia abunde constat quaedam ita percipere, ut ca ab
aliis inter noscere possimus, quaedam vero non ita. Re-praesentatio illa quae
sufficit ad rem perceptam ab aliis dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA
contra, quae ad eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in
claram et obscuram E. Rosae ideam claram habes, ei eam a lilio, hiacynto,
aliisque floribus distinguere scias, et quoties cumque tibi occurrit, eam dem
agnoscas; contra si arborem peregrinam videas, eamque a reliquis plantis
discernere nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae
infantum recens natorum, hominum bene potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi
reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes
externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero
OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebrarum eftectus: nam quun
tenebrae in lucis privatione consistant, haec vero obiecta externa distinguere
faciat. Deficiente luce, deficit distinctionis facilitas: adeoque obscuritas in
distinguendi impotentia sita est. Quum res existentes innumeris determinationibus
et circumstantiis involutae observentur. Hae vero, nisi attente consideranti,
sensuumqne aciem ad obiecta convertenti, innotescere non possint, ut
experientia patet: recte infertur eo clariorem fieri ideam, quo plura possunt
in obiecta distingui; adeoque ad claram idean adquirendam requiri sensus cum
attentione coniunctos, qua deficiente, ideas fieri deteriores Esenplo sit hono
in maxima distantia constitutus, qnem qui vilet, primo dubius hae ret, utrum
corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in obiectum illud oculorun aciem attente
convertens, a motu animal esse comperit, sed cuiusnam speciei, nescit; propius
vero accedenten, ho nisen distinguit; tandem ex corporis habiti, facie, aliis
que circumstantiis Titium agnoscit. Vides quan attente spectator consideraverit,
ut Titium cognosceret! Quem admodun ideae meliores funt, si ex obscuris clarae
evadant, ex confusis distin ctae, ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res
redduntur, si ex claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis
inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet claritas idearum, eaque gralus habet,
nec semper, aut in omnibus eadem est: liquet res alias aliis clarius a no 7 38
Logic. Pars 1. bis percipi posse, ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM
sed RELATIVAM. Hinc obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re
percepta quaeren dam esse; ac proinde praecipitanter iu dicare illos, qui
absolute obscura esse di cunt, quae eorum superant captum: quo ut quae ignorant
(ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel
relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non
potest; haec autem, quando rem qampiam aliqui subobscure, quidam clar re,
clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit, illorum claritas respectu maioris
horum claritatis est obscuritas relativa. fit Quoniam autem ad idearum clarita
tem utramque facit paginam attentio, qua deficiente deteriores fiunt: con
Sequens est ut obscurae eyadant perce ptiones, si alicui meditationi defisi
alia percipiamus, vel si unico actu plura aut animo subiiciamus, denique si ab
una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem
turbant, ut cxperientia docet: infertur menten adfectibus agitatam ad ideas cla
ras vel numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam
vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate, et confusione orti,
de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus
nullae, nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis
claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo
est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. Exemplo sit
homo ira aestuans, qui donec ea agitatur, nec res clare percipere, nec perce
ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de Ira, et apud Virg. Aen. Furor,
iraque mentem prae cipitant.Vides hinc, obscuritatis caussas easdem esse, quae
attentionem turbant vel minuunt: nem pe distractionem, obiectorum multipli
citatem, praeproperam festinationem, denique adfectuum praedominium. Quae omnia
mentem frustra fatigant, et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. Sed
quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus
idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris
notionibus adquiescere non pos adeoque il. in distinctarum et adae quatarum
perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. se; Clarae namque ideae
attento sensuum usu ad Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox adparebit,
res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum
ra tio habet exercitium: nihil ergo Philosophus age Tet; nec hihim quidem in
scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret,
nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. Eadem experientia docet, nos re
rum quas clare percipimus, vel notas sive characteres quibus ab aliis discer
nuntur, distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet ideam claram nabere; vel
characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re
praesentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus, idea dicitur DISTINCTA:
repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin
de merito dividitur in distinctam, et con fusan. seere 8 Si quis invidiam novit
esse taedium ob alterius felicitatem, illius characteres sibi clare sistit,
adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas
distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus discer nat, ejusdem ideam
habet confusam: uti sunt omnes ideae colorum, saporum, sonorum, odo rum, etc.,
quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio, et Leibniz E.
Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque grammatica vo cum
significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum
idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum; ad
claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est ut clarae
ideae di stinctae fiant potissimum attentione, qua deficiente, etiamsi
distinctae sint, confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent
nominibus, qui bus exprimuntur: infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse, si
cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus; oppositum
autem ess: indicium ideae confusae. Hinc idcas confusas aliis referre volentes,
objecta, quae confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum alia re, de qua
ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis.
Qui notionem invidiae habet distinctam, is eam verbis explicare poterit: quod
recte ex sequetur, si notas, quib:is a:lfectuš iste ab aliis distinguitur, eau
neret. Contra ei, quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet, ut cum aliis
eius notionenı corninunicet? Pro cul dubio, ut ab illo intelligatur, colorem illum,
aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re
iarna nota conferre oportebit, sicque in altero con fusa quoque idea orietur.
Hinc est, ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus, isque
visu carens nullam, nequi dem obscuram, umquam huiusmodi notionem adquirere
queat. Porro rei, cuius distinctam habe mus ideam, vel omnes novimus characte
res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta
erit COMPLETA; vel quosdam tantum eosque insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur.
* Idea ergo distincta dispescitur in completam, et incompletam. Sic invidiae
idea iam tradita completa est: adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu
quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal
bipes implume, notionem haberes incom pletam: * hae namque notae non sufficiunt
ad hominem semper ab aliis rebus discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus,
dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam
reddere potuerunt Platonis discipuli, addito latorum unguium charactere:
nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI.
cap. 2. segm. 40. ** Licet duo clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de
Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic
ab illo discessit. Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse
docuerit: Wolffins contra eam in completam, et incompletam dividi debere,
docuit et demonstravit. a Denique eadem experientia edocti scimus, nos quaedam
ita percipere, ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed
et novas characte rum notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis
distinctis ideis adquiescere. Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta;
idea totalis erit ADAEQUATA; quum antem notas neb; confuse repraesentamus, idea
oritur INA DAEQUATA. Quo fit, ut distinctam ideam rursus dividanius in
adaequatam, et inadaequatam. E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat,
sciatque taedium esse sensum imperfectionis, et felicitatem determinet per
siatum durabilis gaudii: is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis
invidiae characteribus ail juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia
tur, tunc ideam habebit inadaequitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas,
donec fieri possit, invenire liceat, eo adaequatior evadet notio. Hanc porro
doctrinam Leibnitio debemus, qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. semper 44
Logic. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. ANALYSIS IDEARUM
est formas tio idearum adaequatarum. Quumque idea fiat adequatioi, si novos
semper cha racteres invenire liceat: patet eo adaequatiorem fieri notionem, quo
longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus
plura distincte percipere: infertur 16. nos in notionum analysi" in
infinitum progredi non posse: ideoque quum ad notas vel simplices, vel cuique
claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. Notionum
analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus
humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt,
donec ad exilissima tandem filamenta perveniant, om nes interim earum
connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes: ita et Phi
Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in
novas notas mente resolventes, minima quacque adcurate contemplantur. Sicuti
ergo Medicis, quum ad indivisihiles particulas pervenerint, eas in novas rursus
se care non licet: Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta
est in analysi notionum, si vel ad simplicia et indivisibilia, vel ad clara et
evi dentia fuerit pervenlum, vel finis obtentus sit, ob quem fuerat analysis
instituta. SECTIO II. De obiectiva, sive materiali idearum differentia. 28.
Haecaec de divisione idearum formali. Ad, materialem, sive obiectivam quod at
tinet, primo res, quas nobis repraesen {are possumus, vel sunt exsistentes, vel
proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM, sive RES
SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id, quod est omnimode determina
tum. Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS.
E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius, haec dumus, haec mensa,
hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt tales
circumstaniiae et detern ina tiores, ut Socrates sit Socrates, et non Plato,
Caius sit praecise Caius, et non alius: ita ut si aliqua earum desit, desinant
esse quae prius erant. Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co, quod
concipitur tanquam individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur
individuum res singularis; ideoque eius perceptio singularis pariter
adpellatur. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est
innumeris circumstantiis involuta), quae efficiunt, ut ea longe inter se
differant: bent tamen aliquas determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt.
Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit, quae
SPECIES dicitur. Non iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per
similitudinem indivi duorum. Determinationis vocabulum, licet barbariem
redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur, et quia civitate donatum, et oh
termini pu rioris deficientiam. Absque definitione por, ro sumitur utpote
experientia seusuque com muni satis notum; eius vero completam no tionem
dabimus in Ontologia, ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g.
Socrates, Plato, Caius, Titius, licet aetate, ingenio, roribus, conditione,
habitu, ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus
organicum, et animain ratione praeditam. Duae hae de terminationes speciem
constituunt, qnae ho m, dicitur. Hinc vides, haec omnia individua in eo
siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias
consideremus videbimus eas in plurimis toto, ut aiunt, coelo differre; in
aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hae determinaciones, in quibus spe.
cies, licet diversissimae, perpetuo conve. niunt, novam ideam, eamque supremam,
constituunt, quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem
specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo, canis, quantumli bet in tot
determinationibus invicem diffe rant, habent tamen in vita et sensione con
venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum.
Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per petuo similes, quod
animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31.
Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque constituatur a com plexu
circumstantiarum, in quibus species perpetuo conveniunt; in speciebns autem
aliae determinationes exsistant, quibus il lae inter se differunt: sequitur 1,
ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce
tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune,
quod sint taedium. En genus. In eo ve ro differuut, quod invidia sit taedium ob
alte rius felicitatem; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit
differentiam specificam. 32. Repraesentatio, quae exhibet pro prietates rebus
exsistentibus communes, di citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et
specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes:
infertur ideas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hae ideau
couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus;
unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas
uni versales esse quoque ABSTRACTAS. Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse vel
concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas, quae
aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est,
ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. Ex dictis porro
consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula ribus, nempe
speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5. plus esse in
individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in genere. Ex quo patet 6. quam scite Logici pro
puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. *
Regula haec aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono maiorem habet idea
comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra. Comprehensio dicitur
complexus determi dationum, quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio vero est
consideratio subiectorum, qui bus delerminationes illae tribui possunt. Vid. la
Logique, ou l'art de penser. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones
complectatur, ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero paucissimas
comprehendens circumstantias ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita
igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec ab individuo
ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem; ac
proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab illo
removeri, quod huic repugnat; contra vero a genere ad speciem, atque ab hac ad
individuum bene concludi, ideoque individuo dandum, quod speciei convenit,
pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. Et
recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est, extensio minor, quam in
specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur,
eius proprietates differentiales; si ita loqui fas sit, respicit, quae in
speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit. Eodem modo, quae
de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant: genus autem
proprieta tes multis speciebus communes continet; adeo que speciei attributa
nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo. Socrates est
individuum, in quo omnimoda invenitur determinatio; id vero sub hominis specie
comprehenditur. De So crate' recte enunciabis, quod fuerit philoso phus, quia
attributum hoc ei convenit ob scientiam, qua praeditus erat, quaeque inter
Socratis proprielátes individuales enumeratur. Possesne id de specie, idest de
homine pronuntiare? Minime quidem: in determinationibus enim hominis specificis
non scientia, sed scientiae capacitas, nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc
regulam peccare solent susurrones quidam, qui vitia vel de fectus in aliquo,
vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei, coelui, vel clas si
imputare non erubescunt. Quum enim genus in specie, species pariter in
individuo, contineatur): quidquid generi conyepit, cum specie coniungi; et quik
uid speciei convenit, de individuo quo cap. de Ideis que enunciari debet aeque,
ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal sentit, ergo homo
sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo intelligens est etc. Res
exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis sunt omnes
animae actiones; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus nostris obyer
santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis supervenientes. SENSV
INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hae contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet
ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri * Illae * Intra nos sunt
affectus, et cogilationes vo strae, quae interno sensu, conscientia refle xione
(haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si quis tristitiam, vel
metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu intern:), sive conscientia,
nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà, adqui sivisse dicitur. Extra
nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia sensibus obvia. Sic in deas omnes
singulares, quaecumque illae sint, sensibus percipi, nemo ignorat: superfluun
enim ' esset id ' exemplis illustrare. Cuilibet autem de plebe noturn est,
exter sensus quinque numerari, visum nein pe, auditum, olfactnm, gustum, et
tactum, nos. iisque totidem organa esse destinata; visui scilicet cculum,
auditui aurem, olfactui na res, gustui linguam, tactui denique specia tim manus,
generaliter vero totam corporis humani superficiem. 36. Quum ergo res
exsistentes sensibus percipiantur; ideoque ideae sin gulares sensione
adquirantur; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra ctione
formentur: liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE
fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est, quod a
multis docelur, omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim
CONSCIENTIA, vel REFLEXIONE adquiri. Vid. Heinec. Logic.Nos enim sensio cum
conscientia et reflexione confundi debere. Addunt alii tertium adhuc ideas
formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam
hominis cum idea equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius
census sunt etiam notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quae
nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores
ab intellectu, vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem
tradunt regulam: Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint,
impossibiles sunt, adeoque fal sae (quae alio nomine CHIMERICAE, a Scola sticis
ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter se non repugnent, pro possibilibus,
adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse. Ex quibus omnibus plane consequi
tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas omnes ex earum origine vel ADVEN.
vel FACTITIAS. * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis
praedicent Plato, Cartesius eorumque asseclae, quorum tamen au ctoritas tanta
non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur
adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim
intelligunt notiones sen sique adquisitas: per fictitias vero illas quae vel
abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab
aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus
monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit: sed quum a diis
inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa
fuissent eo rum omnium, aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos
dae. quae in Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc nedita tione pristipam
cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et
discere idem esse, ac reminisci. CICERONE – TUSCUL. QUAEST. Illas ergo ideas,
quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum putumque sit Platonis
som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti. Cartesius hoc nomine
donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi. Respons,
ad art. 14: progranm. ann. Sed pèr hanc rectam rationem intelligi, quisque
videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere.
Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia,
quae ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius
qualibet sui parte; non posse idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum
omnium ignarus iguo rat, haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum
relatione, ac ab ideis totius et partis, exsisteniiue et non exsistentiae, sen
su et abstractione prius adquisitis immediate pendent? Quae quum ita sini,
ideas invatas nullo modo dari posse, merito concludimus. 38. Ideae praeterea
sunt aliae SIMPLICES, a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, aliae
COMPOSITAE, bus per mentis abstractionem plura divi dere, atque invicem
separare licet. in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices
ideas claras esse, at confu sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt
ideae omnes colorum, sonorum saporum, voluptatis, taedii, quas ideo aliis
explicare non possumus, nec illarum chara cteres invicem discernere, ut ita
üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam
separatim con siderare possum matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm,
et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas
scilicet, quae ita simul a nobis adquisitae sunt, ut quum una nobis occurrit,
altera quoque menti obversetur: veluti si rosain olim videns odoris simul no
tionem accepi, quotiescumque odorem illum sentio, rosae etiam idea menti fit
praesens.Denique quuin vel substantias, vel modos, vel relationes pobis
repraesentare queamus, ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel
RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan
quam subiecto,: veluti inhaerere concipiuntur, MODI sunt adfectiones, et
attributa substantiis inhaerentia, a quibus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis
abstractione separantur. RELATIONVM denique ideae sunt, quarum unius
consideratio alterius considerationem includit ita, ut haec sine illa non
possit intelligi. figura, Veluti diximus, ut nostram imbecillitatem adivemus:
id enim in substantiis creatis lo cum habet, non autem in increata, in qua
nulla inter essentiam et attributa, nec inter ipsa attributa realis distinctio
dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. MODI vero sunt vel
INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant, ut dimensio, color etc. in corpore;
vel EXTERNI, si in hominis mente sint, et tamen substantiae tribuantur, veluti
quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam, quae tamen aestimalio est in hominum
opinione. Relationes sunt ideae omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis,
et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic, et in Arta Grit.
Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi
mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re; idcoque substantiarum ideas esse in relatione ad
mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;.
quinisomo ló. rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam
adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum
fundamentum non recte considerantes, vel absolute de relativis ideis
enunciantes, praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina
roboris habeat in se dandis hominum adfectibus, dici profecto, non potest.
Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet, quia divitum opes non ha bet, et
id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum
omnia bus necessariis rebus egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum
superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad. Est mi ser nemo, nisi comparatus,
Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin acMilanius,
quem paucis, iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo
Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito.
CANONES. i. Curato, ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et
distin ctam cognitionem adquiras: attentionem proinde, quae ad idearum
perfectionem utramque facit paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero
Matheseos studium mirifice at tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum
initium a Mathesi capiatur, exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie
bat, nisi Geometria instructum. 2. In studendo praeproperam vitato
festinationem; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto, nec,
nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito. Quantum enim festinatio idearum
claritati osobsit, diximus in. 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa
festinatio, et praeci pitantia caute est obtundenda, ne superficia rie discant
et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit: Ius venum ingeniis,
non plumas vel alas, sed plumbum el punderą auditinus. Caveio, ne nimia rerun
varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes. - Panca
discito, eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura
dividitur, minor fit atque inepia: proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de
iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est, qui ubique est. Qua de re
Plinius VII. ep.9. praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae
buit: Non multa 7, sed multum. to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad
idearum tuarum relationem attendi si qua sitt:: ne relativa pro absolu tis
accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem, animique tran quillitaiem
amato; ne affectibus attentionem iurbes, iran, tristitiam, an liaque pathemata;
adeoque sodalitates, compotationes., spectacula fugito. ** * Bene monuit
Ovidius Tristium l. v. 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos Comessationibus
enim corporis inertia aus getur, mens obstupescit et habetatur, ani mus ad
voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a
studüs animus avertitur, quo fit, ut aut nullae ad quirantur ideae, vel saltem
obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae
legisti, audivisti > ditatus es, ita familiaria tibi reddito, ut eorum notas
aliis indicare queas. Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe
examinaudo, idcarum tuarum distinctionem experitor. vel * Stilum CICERONE vocat
oplimum, et praest an tissimum dicendi effectorem, et magistrum. De Orat. Notum
est vulgatum illud; docendo disci mus. Rationem huius canonis invenies supra. nes, utpote rei immaterialis a stiones, nullo
modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;;
abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter
sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant:
binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA
dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces
signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia.
Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum
nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt
signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia
adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum
fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha
Jastici docent utpote ad rem
impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter
attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum
enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas
ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique
vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis
vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis
apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red
dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor
DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum
lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in
dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba
et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi
sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis
intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut
alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non
licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed
tantum ii, qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis
eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel
obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos.
Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones
adggimus, quas loquens cum iis coniunxit. mus TERMINUS INANIS dicitur, qui
nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni
ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ, vel sonus
sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille,
quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus:
Raphel mai umech zabi alini. ALIGHERI Inf. cant: Quoties autem vocem
proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque
sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM
continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel
yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum
analysin cora, et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non
eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor
dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non
intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se
non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS,
qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS
vel DETERMINATV; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS
aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes,
SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare
placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur
“aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet
significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore:
nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris
cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus
exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas
barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet:
utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad
philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus
usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma
loquendi (Horat. De Art. Poet.). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem
expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto
separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae
est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam
transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas”
terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit
concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam
(sive universalem ). Haec autem omnia
idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin
indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe
ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc
vide, voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est
significatio vocum in communi sei mone propria. At quoniam in familiari sermone
voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis
adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi
non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum
sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces
omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim
intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes
ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur
Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque
in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a
terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter
enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis
oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium
plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum. а Logicis
dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita
civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus,
vocabulorum technicorum pe, ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis
sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit.
Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam
disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt
in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania
faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae
igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito
sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes
observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto,
quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas
hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun
enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at
persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi
puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla,
nisi benedigestum, emitiere posse verbum. Caveto, ne ideam soni habens, rei
quoque notionem habere te credas; aut voces coniunctas intelligere quas
disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines, quum ter minos inanes,
et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt, in quibus solam ideam $ 9. ni
habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et
idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur
singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo
intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam
probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph. eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas
temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate
definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula
technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae
voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si
houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati,
ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque
decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto,
nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in
paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil. cultior. Id vero egisse
Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde
colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs,
ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero, a quibus hoc nomen
obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis latinas interse runt
phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e
ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus inserviendi studium,
nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser monem. Si aliis
displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto vultu atque amoeno
fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam veruin dicere,
videaris. 7Est et haec paedagogorum nota, qui pueris in docendo imponere
adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos au
dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de bonarum
littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa
verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis obiectum, vocatur
DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de
ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta, et qua
ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa cousule, quae
breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quae de illa dici merentur,
enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus, isque clarus
si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain, sive '
emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus claris opus est
termiuis: ita complexus ille yocum, Cap. De definitionilus.hoc est idea
distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit; adeoque non
abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum. eas ** ne . Ex qua definitione consequitur 1.
in definitione notas et characteres enume rari oportere, qui sulliciant ad
definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin;
notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li definito in tota eius extensione,
conve niant; quare 3. merito a Logicis ad firmari, definitionem neque latiorem
que angustiorem sno definito, sed ipsi aco, qualem esse debere, ut sibi invicem
sub stilui possint. Id autem, per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius
essentia a Metaphysicis adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo
gici esse dicant orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per
extensionem intelligimus quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam
aliquam constituentes tribui possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis
notas tales esse debere, ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis
sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt
proprietates genericae, et specifi Si cae, quae integram definili essentiam
expo. nunt, et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem
ex genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis
non sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo
reciprocari, vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens.
Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro
attributo, et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu
et vo luntate praedita: contra vero substantia intel lectu et voluntate
praedita dicitur spiritus. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non
posse, nisi ea, quae Jei perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel
ESSENTIALIA; proin deque locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. Quaenam
sint essentialia, et attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull
ciet, tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse:
nam attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei
insint, in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres
anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem
est no nec tio clara notarum): sequitur
ut ea vocibus claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7.
nec vagis, nec metaphoricis nec negativis terminis in illa sit locus. Imo vero
8. eam in vitio poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo
committatur. Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere
videantur, prius adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein
supra allatam nemini proferre licebit, nisi prius taedii si gnificatus alia
definitione sit determinatus. Terminis negativis concipitur definitio > si
explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia non est commiseratio. Hinc
vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque defi niti ideane inde oriri
confusissim un, quod est contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in
rebus contradicto riis nullun inedium adinittentibus, quarum una recte definita,
altera negativis terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to
dicitur quod partibus caret, substantia, quae non exsistit in alio, tamquam in
subie Definitio identica est, quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut
nonnullae Scholarum cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris.
Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur
quanta. Quid, quaeso, haec verba significant, nisi quod quantitas sit quantitas?
Cui vero usui definitiones istae esse possint, tironibus ipsis iudicandum
relinquimus. Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se
redeunte terminata: in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis
definitionis characteribus, eorumque novis definitionibus formandis, in aliquam
ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id, per
quod defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem
idemlicam, quae in vi to posita est. Illa notas et characteres e numerat
sufficientes, quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni
possit; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et
GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant
grammaticam vocis explicationem, qua vel radix sive origo nominis
investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur: vel multiplex eiusdem
significatio, eoque casu Homonymia; De definitionibus. 25 vel denique plures
voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis
nominalis est, realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio
spiritus, si eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam:
realis autem, si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem: in ea
enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc, nominales definitiones
esse arbitrarias: reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei
distincta quidem sit sed incompleta: tunc non definitio, sed DESCRIPTIO
nominatur; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt, qnae
quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares
describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe
tarum hae Philosophorum propriae sint. Descriptio itaque, licet plures enumeret
no tas; quam definitio, eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet
insufficien tes. Tales notae non exsistunt, nisi in rebus singularibus;, utpote
omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio
resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis continent characteres. Inde
ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum
generum et specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum
nihil nisi meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares, et si ab his
definitiones proferri videmus, eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum
ambitu expressas, ubi accidentia attributis, caussas effectibus permixta
observamus, quas tamen Philosopho imitari nefas erit, quippe cui idearum
analysis, essentiae rerum investiga. tio, verborum praeterea praecisio in
deliciis esse debent. Schol. Superest, ut quae studiosae iu ventuti utilitatem
adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum
continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi
percipere cupit, sequentes animo imbibat CANONES. Definitiones, utpote rei
naturam et essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto. '
Iudicium porro cum m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne
adquiescito; sed ope rum dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re
Sunt enim, qui soli memoriae consulentes, quidquid in aliorum scriptis
repererint, id omne discunt, ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si
memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam, maneat.
Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti, iudicii vero prorsus ex
pertes, libros quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti, innumeris snnt
expcsiti er roribus; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur
adolescentes, qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt, eamdem
premant viam, sibique pessime cou sulant: visum est, cautionem hanc eo neces
sariam, quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere et
inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis,
et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver In legendis Auctorum libris, prum phrasiumque
lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis subiectam lare, ac distincte
intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum sententiis
adquiescendi consuetudo, quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex
transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus
pruriente tot incautos captarint adolescentes, quos inter crassae
incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque
culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in
tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi, iudicandi quippe facultate
destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis, definitiones proprio
marte con ficito, ut ex iteratis' actibus, continua que exercitatione habitum
in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit, multun que laboris
impendendum, pauco forsan aut irrito eventu. Animo tamen non deficiant a:
dolescentes: ab exiguis enim initiis maxima procedunt, atque experientia tandem,
qui sit huius canonis fructus, addiscent. Poterit autem quisque imitando
incipere, experiundo prosequi, ac notionum analysi sednlam na vans operam
felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes
definiri pos. vel debere, credas; * aut definitio nes verbis diversas re quoque
differre putes. Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De
definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes
significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt
expressae terminis, adeo que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e
Philosopho Orator aliquan dofieri cupis, definitiones pro definitis adhibeto:
tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque
doctrinae clarissimum dabis indicium. Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti
pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus, amplificat
syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones: Facultas hominem
Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum
omnium, quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per
ficiendi sui desiderio tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis
effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et
propagatus est, exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit
omnium praestantissima facultas, quae, quoad eius fieri potest, cum humanis
divi na copulando, mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur,
Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theologiae
definitionem, oratorio licet more pro latam, multum orationi pulchritudinis ac
di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam, si ab aliis di stingui exoptas,
efformare curato; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi
comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni
facias in vulgi turba confu sus eris, nomenque tuum in tenebris, ob scurumque
manebit ila, ut vel patrio, vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional
Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere, snpra iam
ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes, sive notas
dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit qui earum naturam
habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur, characteres
autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa
DIVISIO nominatur, quae recte definitur, quod sit to tius in partes resolutio. Quum
autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam
hanc definitionibus subiungimus. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari
potest: variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale
quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, totum integra le,
compositum nempe ex corporibus, quorum snmma eius integritatem constituit, genus,
quod plures species suo ambitu comprehendit, 4. subiectum, quod plura
accidentia sustinet, accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus
sa, quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis.
Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes
distribui potest, quot sunt objecta. Inde ergo est, ut va riae a Logicis
tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis, sive in tegralis,
in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas, SVBIECTI in sua
Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE, ACCIDENTIS in sua snbiecta, rei
in suas caussas, denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec:
Homo dividitur in animam et corpus; vel as dividitur in duo decim uncias.
Secundae: Animal dividitur in hominem, et brutum. Tertiae: Homo est, vel doctus
vel indoctus. Quartae: Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae: Philoso
phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae:
Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae
denique: Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa
incorporeas et intellectuales versatur. Totum illud, quod in divisionem cadit,
DIVISUM; partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin
membra haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g.
Homo dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus; hoc autem in
caput, truncum o et artus reliquos. En subdivisionem, Ex membrorum itidem
dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo
fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres?
trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS
divisio, appellabitur. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam, et
curvam, trimembris trianguli in aequila terum, isosceles, et scalenum;
quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc ctanguluin, rhombum, et
rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio; totum autem
ae quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est 1. ut membra
dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec
minus compre hendant; ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas
definitiones, easque oppositas, distincta; ut ex ipsa rei dividendae natura petantur,
scili cet in tot membra totum dividatur, capax est; 4. denique ut ad confusio
nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur, posteaque divisio
insti tuatur. i quot Contra hanc regulam peccant, qui angulum dividunt in
rectilineum et curvilineum, vel qui lineam esse aiunt, vel rectam, vel curvam
& derari potest: vel mixtam. In primo enim casu membra di videntia simul
sunt diviso minora; in se cundo autem eodem maiora. Huic quoque regulae
adversantur ii, qui bo. num dividunt in honestum, utile, et iucundum: haec enim
membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri
possit: adeoque non sunt repugnantia. Peccant etiam ii, qui licet totum in
membra opposita distribuant, ea tameu definitionibus non repugnantibus
determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse
dicunt, quod partibus constat: illud contra definiunt per id, in quo nihil
consi Repréhensionem ergo.eruditorum merito incurrunt Ramistae, qui tam
superstitiose di.chotomiis adhaerent, ut in plura membra totum dividere
irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis, qui nimiae mem brorum
multiplicitatis sunt amatores. Idem enim vitii, inquit Seneca, habet nimia,
quod nulla divisió. Ep. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum
analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat,
ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata: sequitur
5. ut divisionibus aeque, ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis,
omnia vi tentur, quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet,
non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria
fatigetur, ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur, Schol. Haec de divisione.
Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus
include mus regulis. Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque, ac necessarios
hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed
naturam tantum consulito. Confusionem aeque, ac tae dium vitare curato. Hoc
namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia
di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium
optima, et ad curatissima est magistra. Divisiones ne per saltum facito. *
Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum,
quae ordi... nem non scrval, et in qua ea, quae in sub divisione cxprirai
deberent, comprehendun tur: e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam,
divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem
ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne
pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De
iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum
instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas
inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quae IVDI CIVM
adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis
perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel ENUNCIATIO.
E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque unam
alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si
indestructibilitatis ideam cor De iud. et prop. separas: haec poris notioni non
convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su
ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex pendis,
iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut
prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero, si extra id
inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. Quoniam
iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur, propositio di citar;
idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem
duobus constare termi nis, quorum ille, cui aliquid convenire vel discrepare
ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur,
ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur, qui duo simul pro positionis EXTREMA dici
consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur: merito vox
illa ex hoc verbo desumta, quae propositionis extrema coniungit, COPVLA
vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,” Deus est subiectum,
quia ipsi tribuitur aeternitas; aeternus dicitur attributum, quia Deo convenire
enunciatur; vox deniqne “EST”, quae duo haec extrema coniungit, atque unum al
teri convenire indicat, copula, hoc est coniunctio, adpellatur. Hinc ergo
colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare
debere, ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis
lateat, CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur, quia naturalis compositio crypsi
aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod copulae et attributi
vices sustinet e. g. Deus mundum creavit: idem enim esset ac dicere: Deus est
Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum species, iu quibus sub uno
verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp sin eruenda: ut in illis:
veni, vidi, vici: hic namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis
repetendae, nempe: “Ego fui-ve nens, ego fui videns, ego fui vinccns.” QvanVandoquidem in qualibet idearum
comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia, sive ideae
quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa; qualitas comparationis; eiusdem
quantitas; objectum, 6. denique evidentia relationis: ideo sub totidem
adspectibus propositiones intueri possumus; videlicet, ratione MATERIAE,
FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem
divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante
omnia perpendere, utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque
postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in
extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus, scilicet prae vel separa dicatum
subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa
seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis
propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum
dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de
mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est
aeternus”, extrema seiung, idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod
dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere
propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius
partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g.
Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio
haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum
que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES,
vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed
unuin habet subiectum, et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura >
Cap. V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel
EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS,
si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt alii
enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis
propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quae, licet ad essentiam
proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert,
exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus,
ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit dictus, in, çidens
est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi, aut nullius fere est momenti. Simplex
ergo erit propositio: Deus est ae. ternus, iten que: aer est gravis. *** In quo
vero consistat palens, vel latens compositio, ex sequentibus abande patebit,
ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id
porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed plures contineri
enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA
enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM;
DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic, est, quae
praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e. g. “Si mundus est
ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem, altera
propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non
largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio vera esse non potest. Sic si
dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me daturum promitio”: promissio
vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2. conditio impossibilis habet
vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire
poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere:
si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo, ac si diceres: numquam tibi dabo
centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta, sive copulativa dicitur, in
qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel
plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia
sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva est, in qua uni
subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num
attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura conveniant,
licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quae de hac
observari merentur, con fer in S. 58. cur Caussalis est, in qua ratio additur,
praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra, quia amamus, defendimus:
Politicas quia prudentiae regulas tradit, sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur,
quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa: ut illud
Horatii. Coelum, nou animum mutant, qui trans mare currụnt. Item illud Terent.
andr. 1. SC. 2. Davus sum, non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius una
pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur ut il lud Virgilii Georg. et quantum vertice
ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero species
sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV; COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque
inceptivas, desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua
sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc.,
estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in
qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E.
g.: “Omne ens, praeter Deum, est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel
particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et
praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore
validior. Restrictiva denique est, quae
multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus, in quantum,
quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS
vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a
creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut:
tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique, in quibus subiectum geminalum
at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est, a spiritu
differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit
NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS:
in quibus si necessita, contingentia, possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE
dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita
contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”.
Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita
cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”. Possibilem vocamus, in qua attributum sn
biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius
termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS
enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione
conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in
subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum
subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali
dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua
ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti
natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec
enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in
tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo
invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas
homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut
Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione
est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate
metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur,
sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii
esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est
repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota
sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio
sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet
in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in
negante vero additur particula NON. E.
g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem
singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus
consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam
uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici
propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari,
propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum
universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos,
qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo
aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si
subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim
propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia
signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus,
vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate
deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est
philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de
homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo
exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in
universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest.
Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin
ct thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi
commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere,
veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”,
“I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”,
verum universaliter ambae. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat.
et Syll. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema
enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est,
quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica
vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc,
theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero
operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel
talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in
digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus
enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis
ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra haec:
“Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum
scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis
theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır. E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus
simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica
definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quae primo intuitu ab
unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per
se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive
aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque
amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac
quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione,
postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio
theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex
definitionibus Dei, et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut
duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas șive propositio
theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur: ideoque in
fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est, “quod erat demonstrandum.” Quum
Problema sit propositio practica, pa lam est, illud tribus absolvi,
propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum,
quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se
concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est
haec enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM
dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae
consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc: Nihil
est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne,
quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua
illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae
usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum
obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur:
ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum recentium scriptis. LEMMA est proposititio ex aliena disciplina
desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina, quam tra ctamus in
subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum
lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa: Cuiuscumque numeri bi
partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in
al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. 103 S E C T10 lll. De propositionum
adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest, ut de earum
adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur
laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones
referuntur: OPPOSITIO, SVBALTERNATIO,
CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se
pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que sit universalis
in qua propositio nes ambae possunt esse falsae, sed non ambae verae; vel
CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, *** in qua enunciationum
illarum necessario una ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que
SVBCONTRARIA, si ambae sint par ticulares, **** in eaque propositiones am bae
verae, at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones:
Omnis E 4 spiritus cogitat; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se,
quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo
est ratione praeditus: nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est,
altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambae falsae sint, veluti
huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri debebat. E. g.
Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod
quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. ***
Ita propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt
contradi ctoriae, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter
negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a
quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli
com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites:
quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod
si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit,
altera vera esse debet. Rationem eius re gulae, ne longius provehamur, coram
dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105
propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium
mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero
SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda
occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi
tur, non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam
subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis
homo est eruditionis capax; quidam, homo est eruz ditionis capax, illa
subalternans, haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo
verum sit, omnes homines doctrinae esse capaces, verum quoque erit, quosdam
homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae
verae esse non possunt (S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará
falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in contradictoriis
necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal ternatan
necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas ex utraque
par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam hom nºs
esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes
homines eruditos esse. *** Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria
vera erit; sit contraria subalternans, haec non poterit non esse falsa, adeoque
subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse
mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem. At şubalternantis
fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante,
utpote univer sali, subiectum in tota sua extensione suma tur ($. 68. ),
poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere
sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis conveniens
propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit
subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse
doctos, non ita falsum erit, quosdam homines esse doctas. CONVERSIO est mutua
extremorum salva enunciationis veritate, substitutio Ea fit tribus modis,
scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem qualitas et quantitas manet; 2. per
ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM, quum
salva pro, positionis quantitate, terminis additur ne galio, qua fit, ut
enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop: 107 *
Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um, qui
huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua uti litate; imo haud
raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis spiritus est
substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. E. g. Omnis
doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo est
doctus. *** Sic: Quidam homo non est. pius, per con trapositionem convertitur:
ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec? ais. Con fer, Dan. Richterum
diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur
enunciationes, quae verbis licet di versae, cumdem tamen sensum habent. * Duae
ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae
aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et
sentio: nihil tam ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quae de his
postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur,
tempus terendum potius, quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis
haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis, ac propositio nibus
cupidae iuventuti observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua
propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia
sunt sapientiae, vel stultitiae fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis
ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a
iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius
sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel
carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi cuius adaequa tam, aut saltem distinctam
habes ideam, iudicium proferto, tuum. Idearum enim confusio praeiudiciorum
mater est fera cissima. * Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus,
distinctatu vel adaequatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re
lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte
iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio
vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideae tali modo
coniungantur vel scparentur, nec alio. * * Etenim infra abunde patebit, verae
prope, sitionis criterium esse, si ratio sufficiens ad. sit, cur praedicatum
subiecto tribuatur, vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non
poterit iudicium non esse verum; ac proinde errandi metus procul aberit. 4.
Praecipitantiam fugito: ideoque in iudicando tardus, in enunciando tardior esto,
ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud: ver IA
BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne cit enim, monente Horatio, vox missa
Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto, ac pro sapiente
seinper habi. to, datum, postquam semel toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus
mansisses. 51. De moribus, et viia hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius
in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri
110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite
iudicare, ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus
inculeatum sit, ostendemus in Iure Naturae. Quoniam duarum idearum convenien
tia, aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest, adeoque dan tur
veritates demonstrabites(s 71. ); de monstratio autem ratiociniorum serie absol
vitur: ordinis ratio postulat, ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero
RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein
communem habentibus tertium eli citur; vel practice est duarum idearum cum
teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio. Ratiocinium porro verbis
expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu
ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et
ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et
Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit, ut veritatem
inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam
gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit
convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire
concludit hoc modo: Omne corpus est grave: Aer est corpus; Ergo aer est gravis.
En ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia
teste scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim
cum illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambae ab ea
discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans,
in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his
axiomatis con tinetur: nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt
inter se: 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat,
illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens
syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato; alterum negantis: e
g. Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo
Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam
monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi, alteram vero ab
ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus
clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere,
adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad
sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. ** Quumque tres ideae
totidem combinationes adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria
quoque iudicia continere; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes
admittere) Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums,
componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a
teruninis incipiamus, praedicatum tertiae propositionis,, quae principalis dici
potest, MATOR adpellatur, subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam
ideanı ex. primit, quique rationem continet suffizientem couvenientiae, vel
repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De
iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa, in qua medius cum maiore
confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius cum minore
comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur, propositio
denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto, a
Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est
terminus maior, aer minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro
positio est maior, altera minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque
quartus irreperę ter. minus, et syllogismum corrumpere, idque raro patenter;
nam saepius in termino aliquo, vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per
aequivocationem, ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg:
Vilpes habet qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor
pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice
suintam; 3. per supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in
una, formaliter in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis
neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in
miori gran. matice; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem
termini abstracti cum con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus:
Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes
syllogismi materia dici possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra
'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo
intuitu videatur: difficilis tamen admodum est termini me dii, qui communis
idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam
philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in
ratiocinando duplieem ingredi viam: vel enim notionum alteram ad pro prium
genus, vel speciem revocat, et quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel
definitionis characteres evolvit, eosque al. teri convenire observans definic
tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub
iectum ad genus, vel speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi,
vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit, vel ab ea discrepat; altera
attributi definitionem cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel
discrepantia, praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea
Cap. IV. De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis,
aer sit gravis? Reduc subiectum sub genere corporis, et vide, utrum huic
conveniat gravitas, eam de aere quoque enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet
corpus est grave, aer est corpus: ergo aer est gravis. Haec erit prima medium
inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve, eiusque
characteres, nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei
conveniant, attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo: Quidquid corpora
inferiora premit, est grave: Aer premit corpora inferiora: Ergo aer est gravis
Habes hic alteram medium inveniendi me thodum. Eodemque modo in aliis
ratiociniis investigando procedes: quod si adcurate ser ves, numquam tua te
fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii
fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei, conve nit etiam
omnibus speciebus, et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat
vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus, et individuis sub iisdem
contentis. * 3. Cui convenit definitio,
convenit pariter definitum: ac proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat
etiam definitum. * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere,
quia ideam universalem, ge. mus nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis
particulariter sumeretur, ratiocininm vi tio laboraret, ut infra dicetur.
Quumque praedicatum tam latc pateat, quam subiectum cui tribuitur, ut cuique
manifestum est: li quet, propositionem, in qua medius vicem praedicati sustinet,
particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea
propositione, cuius subiectum constituit Et quoniam propositio, in qua
subiectum in tota sua extensione sumitur, est universalis: liquido infertur,
saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae
Scho lasticis fuere in deliciis, quas barbaris ali quot vocabulis, versibusque
distinguere consueverunt. Nos, missis futilibus tracla tionibus, regulas
quasdam Tironibus ma xime inservituras, quibus syllogismi leges breviter
exponuntur, hic subiiciinus, quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et
Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto, quamtres. Si quartus
irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda, quo omnia sophismata,
si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt
fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis, amphboliae, dictionis
composi tionis, divisionis, caussae, dicti simpliciter, con e juentis,
accidentis, cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati, in quibus
quarins cryptice latet? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet.
Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem
ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in effectus constitutionem
immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur.
Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii
adplicatione cognoscit, nec, nisi in comparatione, mensuram adhibet: ita et in
tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium
ervit, in quod medium comparatio nis ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum
ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus Phi losophus est homo: Titius est bonus
Philo sophur: ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in
conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in
praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti
comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato, scilicet
mersura: iudicium ex comparatione ipsa procedens, perfecte com parationibus
ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam
in praemissis, idem esset, ac si dice res productum maius vel minus esse
altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio, si ita
diceres: Qui alium l'aesit, puniendus est: Cajus alterum laesit: Cajus ergo
morte puniendus est. Minus con tra, si sic ratiocinaris: Qui furium commi sit,
restitutioni et poenac subiacet: Titius fur tum commisit: tius restitutioni
subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne gantibus (praemissis ) nihil sequi,
ius estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f. 86. *, praemissarum
unam saltem esse debere universalem: unde si am hae essent particulares,
impingeretur in regulam 1.1. S. cit.; si vero ambae negantes, tunc duarum
idearum neutra cum tertia conveniret, adeoque nihil sequeretur per S. 83.
Falsum ergo esset dicere: Quidam bo mines suni doeti: quidam homines sunt in
docti: ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur: nullus
impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur
debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. * Pars debilior est
propositio particularis, vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit
particularis, conclusio quoque particnlaris, conclusio quoque particularis esse
debet, alias plus esset in conclusione, quam in praemissis; quod est contra
regulam 3.: si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra
regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit,
alterum ab eo discre pat; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum
est; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris
regulae vulgo traduntur, eae ad rem non faciunt; ac proinde a nobis tuto prae
terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis.
38. Sunt et aliae ratiocinandi formae, quae licet a syllogismo diversae
adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM, vel 2., COMPOSITVM, vel
3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS
est, in quo forma ordinaria (*. 71 * ) quo modolibet périurbatur, aut
occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis perturbationem, *. 2. per
propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem, quo casu
dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur, ai quando
propositiones transponuntnr: ut si prino conclusionen vel minorem, de nde
maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ), debei
omnino compesci (conclusio); omnis namque adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E: 8. Adfectus est
attentionem turbare. Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ':
infertur, in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur
est syllogismus dua bus constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS
altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua
reticetur, speciatim vero illa, quae cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat
attentionem: ergo ira turbat attentionem. Minor deest, utpote quae ab audiente
sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e.
g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur
in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni
combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito
est medius, est terminus maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota
propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do
exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS
COMPOSITVS est, in quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel
HYPOTHETICVS; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc
primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus,
sive conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo
est rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo
est capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur
conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi
contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá
adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari
debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul
propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram
conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere, et cum corpore
perire, atqni aelernum vivit: ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est
cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple:
aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo
regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis
rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus
diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur,
DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id
vero definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De
aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva, quae in minore negatur, et in
conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te
oritur tunc aut ex alio simplici, aut e composito oriri debet: sed neque ex
alio ente simplici, neque c composito oriri potest: ergo naturaliter ex alio
ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in
Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc
referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM, licet imperfecte
exhibent 1. EPICHERE MA, in quo alterutri, vel utrique prae missarum probatio
additur; * 2 PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris
eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum
connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut
prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms.
cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro
Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét
audacissimus sit, oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius
non est talis PROB. Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars.
I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo
adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem habet in prioris
conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis
spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL. Ergo anima
humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile.
CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius
procedat, aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr, dicetur
polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta. Exemplum
habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus.
SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus, est plurium
propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius praedicatum sit alterius
subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones, demptis
duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot
triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta
tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae
funt. 1. Nulla praemissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap. VII. De aliis
rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens
oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in
eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens, quem
vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum.
Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in
alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare
lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis
rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur
INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe
quae a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit.
Haec autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiae praemis sas
conficiat, indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi
praemissas constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his
ad singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt,
INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel
individuis speciation praedicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie
enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua
exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun,
ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad
inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod
inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes
enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquae tantum, incompleta erit:
si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad
oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis
enim, quae diximus Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari
bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia
a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit.
Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet,
In ductionem syllogismo principia praestruere: adeoque illo priorem esse.
Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa
hac tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap.
VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi.
innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia.
Propositiones deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem
adcurate perpendilo, ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim
syllogismus materia et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo
sitionum connexio, lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet
autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur: patet;
Philosophum de utraque sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo
proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum, id
agito, ut huius leges nocturna diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non
ratio cinari. Exploratum namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni
esse vel crypti cum ", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo
syllogismi probe gnaa rus, nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua
de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque
abunde meritos, syllogismo fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins
bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam
methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque
deducet, syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur
Wolffius in Log. Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque
illo fieri non posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia
eius argumenta in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane
re. cte procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia
occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore
evoluti, qui tamen si ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium
lapidem, exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten
duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet
do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam
eiusdem " legem peccatum esse, observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti
nolle idem esset, ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis
satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicae sit non
contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere, atque intel lectum
in veritatis investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus
hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti
debeamus. Quod ut commodius effici pos sit, pauca quaedam de veritate generatim
spectata, eiusque genuina tessera, hic prae mittemus, VERITAS est, vel
METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA
quando quilibet sermo interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet
conscientiae, respondet; ** vel denique LOGICA, si cogitationes nostrae
obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil
no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice
ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quae ad con
stituendam eius essentiam sunt necessariae: adeoque huic falsum opponi nequit,
qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius
docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere.
Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur,
inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum,
aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum
iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica aberrare. **
Verę loqui dicimur, quum secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quae
trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica, cui
opponitur falsilo suium, quod est sermo contra concientiam prolatus, de in
Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam
cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131
stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis
forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S.
15. ): liquet, logicam veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in
ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con
sideramus: concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo
consentaneam. Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM.
Illa est, cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente
nostra concipitur: quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro,
cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM
adpellare consueverunt. Illa est clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua
mens de se suisque operationibus iudicat, haec vero ob scura, dubia, et
fallibilis: non enim per eam, scire possumus, utrum cogitatioues nostrae
obiectis suis extra nos positis conveniant necne? adeoque quum veritatem
habemus in ternam, de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus;
quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione
exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur, si
quando nca bis rem, uti in seu est, repraesentemus: *verum est lyDICIVM,
siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum itidem
RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea ergo
singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter exsi
stat, eoque modo, quo nobis illud reprae sentamus: vera pariter dici debet idea
uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit, ita ut
characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc, ideas
deceptrices, chimae ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici
non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideae ab
eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec ideae
characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis de
eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam
exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicae regulas, ac pri ma
cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt
quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes, aliquam
credentibus notam inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id
quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus
vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem
iri, buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt,
f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive
syllogismi materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam
vero leges. (S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro
positiones fuerint verae: leges autem adcuras te servatae, ratiocinium non
poterit non es se verum: quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat
effectus, non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex
quo liquido colligi potest, eum, qui prae missas concessit, non posse negare
conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione,
licet evidenter ex praemissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare:
potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis
es, set sequens syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus;
Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis
praemissis deductam. Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque
veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60.
): evi dens est. propositionem dici veram, quae adfirmanda adfirmat negandaque
ne gat, servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas,
nec ab omnibus distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad
quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem
quamcuinque exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum
particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni
versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra
Part. I. Cap. 5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo
propositiones veras a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis
discernere pos simus: alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id
quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium. Quia de te
Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in
contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio
quaedam sufficiens, per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur,
vel ab eo removeatur. * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis
conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu
haberi de bent, quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia
ita determinetur, nt mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit
dubitanli locus. Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte
dicuntur, *** Cap. I. De ver. eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis
omni aetate fuere Philosophorum opiniones, exceptis Academi cis, üsqne, qui
Scepticismum ad furorem usque provehere ausi, atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum
nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri posse, temerario ausu adfirmarunt,
quorum insania comploranda potius esset, quam confutanda. PLATO yeri tesseram
es se statuit, evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus
participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter
tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam nempe in
intelligibilibus; hanc in iis, quae sensi bus percipiuntur. STOICI, secundum
Laer, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin
ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na
animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir.
verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus, sensus et auctoritatis
criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur, in ipsis
praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Aer est gravis, qualitas
attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur: in hac enim
inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora
inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis
notionem requira tur: clare patescit, aerem esse gravem, adeo que propositionem
esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium verae proposi, tionis ésse
determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac
propositione: Caius est invia dus, requisita ad veritatem sunt invidiae cha
racterés alibi enumerati, qni in Caio deprehenduntur, quique rationem con
tinent sufficientem, cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis
criterium in ratione sulficiente consistat, et a requisitorum collectione
constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant
quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt, ut a mente, quamvis invita,
adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem
nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in
tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis deuique pondere in iis,
quae neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2. criteria illa pro
rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse, intellectus sensuum et
auctoritatis EVIDENTIAM. nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res
sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis, sed et
ipsas animae actiones, quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturae sa
pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis
instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque
conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique
sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo
cognitionis humanae principio, nempe non posee idem simul esse et non esse, ori
ginem suam repetit; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit.
Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu
deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant, id quod ra tione
duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur,et mens
adquie scit: evidens ergo est, veritates tam demon strabiles, quam
indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere, ab homini bus
certo cognosci posse, earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi
debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea 'eviden ' tia, qnae internam producit
coactionem, at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones
humanum ca ptum superantes, nobisque ideo imperviae, quae quum ab Ente
intelligentissimo tantum agnosci possint, revelatae tandem addiscun tur,
fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones sint infinitae, nec de illarum
2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta, sive propositiones
singulares, quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec.
sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D.
Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed sensibus olim ab adstantibus
coaevis que percepta, ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad. nos
pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta non est, certitudinem, aut
saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc, sententiam nostram in
intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam, in factis rebusve
humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec que eamdem asse
cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec
certitudinem potius, mentis scilicet nostrae statum, quam rei veritatem
respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de veritate certa
sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss.
de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia
cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint
adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis
reperi ii; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius
sufficientis defectum. Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter
se habet a re repraesentata; falsum iudicium aiens., si quando subiecto non
conveniat attributum, negans vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa
propositio, quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat, vel quae universaliter
enunciat quod particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium,
quod in materia vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsae; in
bac vero, quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera
tessera est, si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto
tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur contrariuin enuncietur: tunc enim
subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in
ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel latens. Si vitinn sit
manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua tegatur, vo cantur
SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens:
Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum
est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can. 4.6. 87.: me dius enim
terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii, si sie
ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II.
minum est populus: ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque
termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem,
in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam
usque a Scho laflicis tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque
tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi
failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem, vitium
plerumque latet in quarto termino cryptice tecto: Auditorum nostro rum mentes
non ultra fatigabimus: attamen, si sapient, syllogismi leges memoriae inscul
pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose
servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de cipi ratiocinando, nec alios
deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst, ut aliqua
addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis. Qui ergo
Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit.
CANONE S. I Dea, quae characteres continet si * bi invicem repugnantes,
deceptrix est: imaginaria vero, qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus
quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae
igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt,
quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturae
infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium, quia earum vices
gerunt, ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi: licet enim
nulla adsit analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie
lates: ob similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quae
inde, quum opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quae tamdiu
latuere nobis sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De
eo, cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato:
negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti: licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit, ne temere
iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo
vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia, quae incautos maxime
adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium
praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod
exigunt; quo fit, ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti, ratione
tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in
veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si ne id qutdem
profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam ridiculus sis,
qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc
cautionem inculcat Genu eusis noster, quae dici non potest, quanto sit omuibus
adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa, eiusque caussa in - bo
mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quaerenda (S. 20. ): nullum est
huiusmo di iudicium, quod non ex praecipitantia fluat. Qui enim ita se gerunt,
ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt, perinde
ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur
remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio
Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore, aliasve doctrinas, quas
intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi libus venditant, ut fusius in
Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit, nemo non videt. De
ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua verum (S. 94. )
agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit, COGNITIO adpellatur. Eius vero
absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione
desti tulae. * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit,
eaque mente tenet, illius cognitione gaudet: contra vero, si ea cogni lione sit
'destitutus, disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna
it aliena doceri potest, hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus
cogno scere; plurima quoque nesciri ab iis, qui acriori se praeditos ingenio
jactant: cos vero, qui doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua
sese exserit co gnitio, eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II.
* Ex innumerabili rerum, quae sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires
superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium
rerum cognitionem ani mum adplicandi, neglectis iis, quae ad cu iusqne statum
minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque
observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari, quia superflua discimus. Id
ipsum er go argumento est, homines, postquam ad sublimiorem, ut aiunt,
cognitionis apicem pervenerint, quamplurima adhuc habere, quorum nulla se
gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo
patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari, ac ne minem un quani
reperiri posse, qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet:
quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari, ut primo
necessaria * deinde ütilia, postremo iu cunda discantur; adeoque 3. eruditorum
reprchensionem merito incurrere eos, qui neglecta hac methodo ad superfluarum
re rum siudiuin animum adplicant, param curantes ea, quae ad interni extervique
status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur, quae Dei suique
cogni tionem spectant, item quae facultatem quam quisque profitetur, postremo
quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor.
cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus, si ne glecta medendi arte,
eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est, operam daret.
Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus, si pro legum codici bus,
medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo
Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad
ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert
experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM, non
solum in iis rebus, quae nostrum si perant captum, sed etiam in iis, quae iu
jus limites von excedunt, 2. MENTIS IMBECILLITATE, sive impotentia co gnoscendi
idearum nostrarum relationem, LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio
minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE, MEMORIA vel nimia,
vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum
mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente mensura, nec
conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. (ones T. 1. ** Confusio studiorum habetur, vel quia fine
attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur:
ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa
sciolorum turba, solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum, nostram
invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam,
adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get.
Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein memoria retinere non
valet? (+ ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint, sive
mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test, quot sublimia
vilescant ingenia, quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se
addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema, quo ingenia ista iuveni euidam
com parat, cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur, dextera vero
ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem
reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si quando iuvenes isti litterario
furfure vix in crustati Rempublicam invadunt, societatis perturbatores,
bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima quaeque, (si paucos
excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni
verre dissensim, falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De
ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter
ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun. Error autem in iu dicando
commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur, quod esse dicimus iudicium erroneum
praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium, vel quia
sanae mentis praevenit iudicium, vel quia praema ture et fine criterio
profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia, veluti: discum solis
diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas: et alia
eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum; error vero confusio
iudiciorun: evidens est s. praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et
confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse
petendam. Equidem sunt plerique, qui praeiudiciorum originem a voluntaté
repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt; ii tamen io to aberrant coelo:
voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis
liberandi, pro praeiudia ciis venditant. Si vero rem probe per penderint
videbunt, ea, quae voluntatis vitia asserunt, ab intellectus vitiis vel imagin
natione pendere: et si qui méntem obun brant ad feclus, appetitus quippe
sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus, non aliunde,
quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in
Phil. rat p: 5. 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera, AVCTORITATIS
scilicet, et NIMIAE CONFIDENTIAE. * Illa sunt, quae nostris viribus parum
confisi, nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud nos plurimum
valet ancio ritas, scriptis vel sententiis kausta adopta mus, eaque pro sanctis
habenda puta mus; hec vero, quae nostris viribus niinium fidentes, quamquam
praecipitan ter et sine meditatione prolata., tainquam vera lamen adsumunus
illis firmiter achae remus, et proeiis, veluti pro aris et fo. cis, pugnamus. *
Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones
praeconceptae a nutricibus parentibus, atque magistris a teneris, ut aiunt,
unguiculis haustae: ea ad auctoritatis praeiudicia referri, nemo non ri det.
Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia,, quae iilola vocat, in
quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae
in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus, hoc est hypotheses a
nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest prae concept as opiniones,
quae ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola the *** Cap. II. de
ign. et er. eor. caus. 149 atri, videlicet erronea iudicia, quae ex Phi
losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas, quas retulimus, classes
com mode referri possunt, ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt
ea, quae a nu tricibus, magistris (vivis illis mortuisve ), aut populo haurimus:
eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus, familiis, vel.: sectis
familiares, quarum cultores illis, tam quam glebae, adscripli, nulloque utentes
iu dicio, eas, tamquam oracula, pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur.
Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico, de viro quodam
nobili Peripatheticae philosophiae addicto, qui qunm Venetiis in domo cuiusdam
Medici sectionem anatomicam perfici vidisset, in qua maximam nervorum stirpem e
cerebro exeuntem, per cervicem transire, per spiralem distendi, ac postea per
totum corpus divaricari observasset, nec, nisi tenue filamentum, funiculi
instar, ad cor pertingere, a Medico rogatus, adhuc in Aristotelis sententia
manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu
respondit: Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus.
Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret, in sententiam tuam per
tracturus me fueris. Quis, quaeso, haec au diens a risu ' temperaret? ***
Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos, novitatis, similia: ut
sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE, stemata omnia ab eruditis inventa,
quibus tam acriter inhaerent, ut uullum sit rationis pondus, quo ab opinione
sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus,
Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et
disponunt; vel " PROXI., quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem
impellunt, erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur, et
speciales. Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit
deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare, idearumque obscuritatem parere
supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA
et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS
vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LIBERTAS
PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est,
idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo
caussis praeiudicia nasci, quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia
laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet, adeoque
ignorantiae tantum Caussa esse possit (* 105. ): cum sciendi tamen libidine
conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit, ut intellectus
tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit,
opportunisque prae • diis vacuus ea investiget, quibus par non est, ac proinde
in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in
receptas hypotheses illidit; nimis autem con etricia in auctoritatis
praeiudicia nos urget, sel saltem crassam parit ignorantiam. 110. Speciatim
autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE,
scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia
NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam
singularia attingamus, id sedulo notandum: praeiu dicia, quae ab ca procedunt,
tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE,
cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint, propositio non in ter
praeiudicia, sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est
referenda. Quot mala hominibus adferat educatio, vix dici potet. Parentes enim
tantum abest, ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent,
ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis, erro neisque
opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab iis enim quam
multa hauriuntur praeiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba iurantes
quaeuis eo run effata sancta esse putent, ac de illis veluti de Religione,
dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po pulo quot
foveant errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda nihil
immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1. Qui nimium
suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el pacdın
tismum vel contradictionis spirituin induat, quae duo vitia aliorum aversionem
odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala
produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus
didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent,
donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt ubique
earlem, sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant,
diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur; rudium tandem
von eti am sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter praeconceptas
opiniones erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere
nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er.
eor. caus. 253 mus Omnes illae, quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae
sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita sint, optimum, idqne
uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE:
est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi
quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas,
ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum, vel Pyrrhonismum insanam nempe
illum de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos incredulitatis fauto. res uii,
non sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum temeritas infanda foret sine
sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus
dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium, donec mens ad ideas
distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex
sistentibus, nullaque evidentia suffultis est intelligendum. Etenim quae Divina
auctorita te nituntur, aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare,
impium; de his ve ro, foret adprime stullum. Schol. Espositis mentis humanae
imbe. cillitate et vitiis, reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis
Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri, inter quos Nicolaus
Malebranchius, et Antonius Genuensis, quamplurima ad id remedia. proposuerint,
quibus vel minimum quidem addere, non opis est nostrae; licebit ta men, ad
Auditorum nostrorum instructio nem, si plura n quimus, eadem saltem ab ipsis
tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis, hos
menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne, meditatione ab
obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in. tellectus perfectio sita
est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia. * Ut id consequantur
adolescentes, prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte
observavimus, ea praecipue, quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad
studia praeiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem editis infans,
accedito. Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io,
nihil verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap.
II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum, quum te ignoran tia
deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio
adhi benda est: abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et
rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum, de quibus ideo pauca inferius
delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis
eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur
studiorum confusio, quam ignorantiae caus sam haud postremam esse, experientia
sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum
deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus; sensus vero communi ne
glectus audacem efficit, omniaque sibi permittentem. 5. De iis, quae vel Divina
auctori tate, vel maxima evidentia destituta sunt, prudenter dubitato, donec
certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito.
Quae captum vero tuum superant ne perqui rito, nisi prius opportunis mediis
probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum
superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris patiens,
memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto. Me mento Poetae illud:
ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a
nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque
horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et
dictionaria, quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato.
Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper
coniungito Non nostrum est praeceptum,
sed Senecae, qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum
paucitatem diserte com mendat his verbis: Cum legere non possis quantum
habueris, sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8.
Poetas caute legito, ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te
pessimi argumentum, ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR,
SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. 157
Ad poetas quod attinet, eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan,
vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia
pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas: id quod ia
legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca,
quum ait: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria, melliisque
ad cam perveniendi. $ 12. sis ad veritatis investigationem gradum faciamus.
VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla
nobis de illa re maneat suspicio aut dubium, vel PROBABILIS, si propius ad
certitudinem acce dat, nempe quum non omnia insunt re quisita. De illa nunc, de
hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum
ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i, ut si
quam minima adsit suspicio non certitudo, sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non
idem est om. nibus mentis status, sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam
esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam quisque mentis suae statum
agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex
esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel absolute et in se tale est vel in
relatione ad mentem, quae non semper terminorum nexum distincte percipit: ideo
Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse,
aiebant, nexum propositionis in trinsecum, hanc mentis nostrae statum respi
cere. Nos illam proprie VERITATEM, hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma;
Totum est maius sua parte, si absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si
vero ad men tem referatur, CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi
absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad
certitudinem ducentia trium generum esse possunt, sci licet vel absolute
infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus, vel denique
sccundum huinanae prudentiae leges: evidens est 4. triplicem etiam esse
certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM, quae illis; PHY. Cap. 111.
De veritate certa etc. 159 SICAM, quae istis; MORALEM tandem, quae his fulcitur
indiciis, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt
axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus;alterius haec
propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi vero haec: Augustus fuit
primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat, men tem nostram
non statim, nec semper, quod verum est, certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi
monstranda est, qua tuto ad certitudinem perveniat: eaque, pro certitudinis
varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO
seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus singillatim, et quantum res ipsa furet,
breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale
(S. 26. seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus
ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione
conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura, praecedit, ut in
Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur, altera,
quae a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit,
nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a
posteriori: altera, quae ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef
fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori.
De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiae
ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui
sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus
aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id
genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien
percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum
singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiae
obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc.
161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi
tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu
larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique,
ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero
est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA.
Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere
percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus; toties taedio nos
adfici animadvertimus; haec ve ro, si res in organis nostris mutationem pro
ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus.
"Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quae mnibus aeque patet, ut
calor ignis, et ERVDITAM, quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis
mediis cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' aeris gravitas,
elasticitas ctc. 118. Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta
colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae
quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non
ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta s
ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte prae
ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non
solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad
critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla
ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur;
ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab
externis obiectis produ cta, et repraesentatio in anima huic obie cto conformis
(ut in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad
sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed
a iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persaepe falli.
Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et
Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio,
3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur, et quartum
requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum
interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem
incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi humoribus ac lente
cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. 111. De Veritatė
certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est, producunt:
si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur, non
eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti ' bus
adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo
neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum,
sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt
1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur
instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob
serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones
istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit
error: si vero quae dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius
difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que
emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal
laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia
tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quae
minime ex perti sunt, vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia
deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliaenomeni
alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars
II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex
magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis
incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro
repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe
rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia
iudicia ipsis innixa. * Quumque his nova deducta iudicia non nisi
ratiocinationis ope eruan tur: evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non
posse singularia, sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia
INTVITIVA, quia in his, quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur,
eidem tribuimus: ut ignis est rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant
discursiva: ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est
cctivus: vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur
tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea
conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap.
III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa
occurrit, vel ab ca removendo quod in aliis, non etiam in illa observatur. *
remove * In primo casu habebis iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem
percipis eique calorein inesse observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem
pro attributo, et ha bebis iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias
observasti aquam madefa cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc
attributum, eritque indiciun negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem
enunciatio. nes particulares in universales comunitari possunt: ita, quamvis
notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u
niversalia transmulari possunt, si regulae sequenies exacte servcolur. 12.
Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis
involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab
attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa
haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II.
convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notae characteristicae
depro mendae sunt, quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi
quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus
eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia
intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere, 18.
attributa, quae non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus
liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia
attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt
scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut
alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut
plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quae sunt perpetuo
similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius
notae definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm
ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo
iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De
Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva:
videatur primum, num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale: quo
casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde experientiam multoties
repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et
costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur, investiganda est ratio,
cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto addendo, indiciuin enascetur
uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia novimus, igni semper calorem
inesse, ceram autem non seinper es se liquidam. Iudicium ergo ignein esse cali
dum erit universale: at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse
liquidam;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat, quae quun sit
in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto addita, universalis orietur
ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in
rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam
sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae
sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun ties obiecto alteri
iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc esse illius caussano 3
tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet perpetuo, coexsistere wel se
mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet, unum esse alterius ca ussam,
nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae
liquentis igni, aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa
existat, vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare, hunc esse caussam
illius. 21. 128 Ex quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex
experientia legitime uistitala confectas esse certo veras; quouicumque sensioni
omnibus requisitis in stuctae convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et
definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel
postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere. Rationem definivimus per facile tum distincte
perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem, de cuius veritate
iudicium ferre volumus, ita cuin aliis connectimus, ut inde ter minorum nexus
ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio
isthaec vocatur DEMONSTRATIO, cuius est veritates ex certis principiis per
legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š. cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI
habetur, si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit
praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI
dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo
requiri, nempe principia demonstrandi certa it in: dubia, eorumqne cum
conclusione coone xionem. Et quia experientiae rite institu definitiones,
axiomata et postulata T. 1. tae, 2 > H 170 Logic. Pars II. certitudine
gaudent (s. 128. ): infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da,
proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque
principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet,
sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4.
duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO.
STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime
connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex experientia
reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a
priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est, antequam ad
syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc
proposi tionem: Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus.
DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est,
qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus
sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus
vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate certa etc. 1. ): sed
era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2.
Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem.
THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens perfectissimum in
tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens perfectissimum (def. 1. ); go
Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet
perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu
perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui
omnia sihi distictissime rapraesentat, ideis caret confusis (ax. 2. ): at Deus
om niasibi distinctissime repraesentat. (num. 2 ): ergo Deus caret ideis
confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus (def.?. ):
quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet, eum care re quoque
appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is caret adfe clibus (def.
4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ): ergo Deus caret adfe
ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta
confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur animae in nobis
exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica biinus,
aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab
aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus, boc
est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum,
quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima.
TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat,
aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin
autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio
iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **.
Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; haec
autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde
deduci mus, ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit
demonstratio, si ordinem sequatur hactenus explicatum ($. 131., si ve a priori
sil, sive a posteriori: ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 "
); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel
ard absurdum, quia oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum
aliquod, sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio
scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus
aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in
nihilo: adeoque nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter
non posset esse caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum.
Quod quum contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est
sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque
propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere
metaphysica, proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem
perveniendi praestantissimam. Quumque ex perientiae et demonstraționis
excellentiam ostenderimus: ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici.
dubia ' sensione, vel evidenti principio ni titur, dummodo in demonstrando
CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii, qui propositio nem
probantem demonstrant per propositio nem probandam: quia in tali casu idem per
idem demonstratur. Huic adfiuis est illa, quae a Scholasticis adpellari solet
PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de monstrandi vel nullum est, vel
nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque
enunciationes Epicuraeorum, Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum,
Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134.
Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo, sive methodus
requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea sequenti capite, prout res
exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca
dieamns. Ea non scientiam, ut experientia et rutio; sed FIDEM parit. Est autem
FIDES: ad sensus propositioni datus, alterius te stimonio itinixus. Ex quo
patet, rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque
auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte
dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo
consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec tallere possit; ac proinde
2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate
narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et
infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio (per princip;
Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni
exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum
veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5. debere nos Deo
loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere,
utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim certitudo
certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum propositionum
utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod quum repugnet,
non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit
fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet, quam cumque
demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana
fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda
supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de
narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores
sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet
6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit
ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus:
veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil
emolamenti ex iis, quae narrat, perceperit, si ' parratio rectae ra tioni non
repugnet; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit, vel per
secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt
scientia et probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so
la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta
dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si
vero deficiat, liu modo priores adfint circumstantiae, certilu do vim suam non
amittit.. Schol. Nunc in eo sumus, ut explica tae doctrinae usum paucis
tradamus. Qua propter Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E
S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in
strumentis me accedito. Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177
aliorum experimenta consulito, dummo do eorum integritatis scientiaeque con
stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat,
aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras,
caussasque facilius investigare possis. * Et quidem experientia erudita
instrumentis opus habet, sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint,
observationes nul lae erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda,
praemissis cautionibus, quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc
Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus, ut
phaea nomena observari possint, a quibus ad caus sas proximas rationis ope
concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis
deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim
imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis
rerum exsistentia observatur; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su
bripiendo a dsensum extorquere conantur: et tunc evenit, ut cum ratione
experientia pu gnare videatue, de quo infra sermo erit. Quod sem el expertus es,
ne teme? depromito, sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens,
an costantia sint, observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato.
Saepe enim accidit, ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus,
vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta, ut
diiudicari possit, utrum principali, an accessorüs caussis, effectus il le
tribuendus sit, adeoque non mirum, si facta semel observatione, effectus
productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in
dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed
sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur
legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est,
ut supra diximus. Ne ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro
demonstratione sumi posse: qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex
debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit
demonstratio cui nihil potest roboris accedere. * Nimiruni demonstrationis
robur a praemis stabilitate, legitimaque connexione procedit, adeoque pro;
earum firmitate con clusionis pondus augetur, vel minuitur. sarumriat, 6.
Demonstratio, ut certitudinem ра talis esto, quae neque per mate riam, neque
per formam ulla possit ra tione convelli. Iunc enim adsensum etiam ab invito,
extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur, haecfallax
esto. Absurdum namque foret id exsistere, quod rectae rationi repugnat. * Eo
namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes, alteram
singularem, quae quidpiam exsistere pronuntiat, univers salem alteram, quae
idem existere posse ne gat; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita
comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum
solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab
impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit (per princ, Ontol,
): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde
experientiam dici debere fallacem, quippe non experientia, sed subreptionis
vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione
pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum
inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig:bili
evidentiae physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA, est enim haecminor, cui
proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili
subdubitan re, quae summa est, acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui
deinde subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia
demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset
audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit
Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam auctoritatem in re tam
evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam, apud quos
Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo notatus est: ut
sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed ratio De aç
unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius quoque Viri ipsis
non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas
esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento. Huic metaphisicą,
certitudo numquam refragator: sed si per rationem liceat, demonstrationes ad
calculum revocato; * vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in,
fallibilem eius interpretem con sulit o. * Referentes nồs ad ea, quae diximns,
quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo intra rationis fines
quaer stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. IX. De. Methodo. 181
monstrationes ad calculum revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum
duxe rit, principiisne dubiis et incertis,, an a defectu legitimae connexionis?
* Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est
explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua
laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore, eius que
Administris est petenda, non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan
to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei
spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex
ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego
vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18.
Cum, venerit ille Spiritus veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem
veritatem. Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum
Pastore Christo, et docente Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus
ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo.
138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam
ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS
dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de
demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test,
enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse, scilicet vel eam
dividendo, et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo, vel
componendo idest, principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre.
diupdo. Vnde clare patet, methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis, vel
SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad
principia, synthetica a principiis ad princi piata (uti Scholae aiunt )
procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus.
Ad demqnstran dam enunciationem alibi (S. 131, ) allatam? Deus earet adfectibus:
analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret
@ap. IV. De Methodo, 183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret
appetitu sensitivo; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret
repraesentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi tivo (per defin.
app. ): Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret
appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime
repracsentat, repraesentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia
si bi distinctissime repraesentat: caret ergo repraesentationibus confasis. 4.
Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime
repraesentat (per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu
perfectissimo: omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens
perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est
ens perfectissimum (per defin. Dei ): ergo Deus gaudet intellectu perfe
ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ($. 131. * ). At in
gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere instituimus, aliam adhuc
dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico more confectam hoc modo:
THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum
(defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere perfectissimo (ex 1. ), qmniaque 184
Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (defin. 2. ) id quod
omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax. 2. ), Quum itaque ab idearun
confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores
motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure colligitur, Deum omnino affectibus
carere. Vides hic, quam bene monuerimus in fine primae partis, maximum atque
insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis
demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad demonstrandum sint ii, qui
syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam
methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a compositis ad sim. plicia
progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (S. eod. )
conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, haec in alios docendo
adhibeatur; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo
illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est, haec sterilior
**: novit quisque 3. docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus
synthetice veritas fuerit explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur,
quo fuit ab auctore inventa. Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem
esset, aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV. De Methodo. 185 rones ducere via,
eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem
est analytien methodus quia singula ad examen revocat, minuta quae que
considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde ab hac quasi sylva
conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam perveniat; synthetica
vero sterilior, & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via
pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior, haec facilior est:
adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om nia tentando
difficiliter quo tedebat pervenit: haec eidem perito similis, qui brevi
apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad
melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares, tradendas
acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera les,
ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum
que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit, hos
rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad
demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad
ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque
selig ito medias, atque ea semper cordi habelo * Est haec lex, quam
inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis
gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei um ab altero derivari clare
sentias. * * Ita vitabitur paedantismus, hoc est inutile illud memoriae pondus
iudicio destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans
gloriolam, de quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor
facili, ac naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum, quantum ideis
clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris, quidquam
tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est: quae
namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione explicare
cogimur. Cap. IV. De Methodo. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate, si
quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est:
singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis,
ac quaestione quam simplicis sime exprimito. * Prae oeulis tamen habeantur,
quae de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid habent,
adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. * Confer
quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem
inveniendam, quae stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius
accedito: num sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. *
Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non
poterit, quin inepta et ridicula effutias. Quaecumque cum proposita quae stione
aliquam habent connexionem di 古 88
Logica Pars II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses:
quaecumque ei lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et
comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes
perpendito efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto
numerum. Omnia deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant.
* Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur
ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo
tradenda forent, ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra, ubi de modo
alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si quis autem metho dum hanc callere
cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica, universae
Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant
haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete
Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici
certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia, su
pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo
minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram absque ulla oppositi
suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in praesenti capite de
probabilitate, quantum satis erit, dicere instituerimus. Est autem PROBABILITAS
status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis, cum aliqua
tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest
ratio in sufficiens, cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro
Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni insidias
struxisse. Ait enim: Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum Miloni
neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere effecisse
maxime expedito, et praeter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis ante fundum
suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem, sed
probabiliter, insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit
oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem
esse proposi tionem, quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si
ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM
qua paucissima inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr;
4. omne probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici
pro babile possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim
probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat,
cui deest possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnaestionem institui
posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem
demonstravit, uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro
versiai tollat. Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum
possibile sit, quod non involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo
probabile dici potest, nisi quaedam adsint circumstantiae, quae id revera
exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus
autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari
quoque syllogismum probabilem. Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem;
debilior vero est pro positio probabilis, prae certa: consequens est 7. ut
conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit. Sed quoniam
conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s. 82. seqq. ), infertur
8. ut si utraque praemissarum sit probabilis, conclusionis probabilitas
minuatur pro sum ma graduum, quibus illae a certitudine recedunt. * Denique
quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis, quorum unus ab
altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem, in qua vel una
probabi lis propositio irrepsit, non esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo
namque in philosophicis se habet, ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae
qualitatis nulli sunt gradus, ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior
est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas
servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una
prae missarum tantum certa sit, altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus
conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a
certitndine distantem: tunc enim ma ior erit Ei, minor -, quibus addie tis,
babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate, sive
certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse, ut
duo bus gradibus a cerit udine deficiat, altera ve ro tribus; habebimus
conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a
certitudine recedit, quot deerant in am babus praemissis. Dem. 146. His
generatim expositis, ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie
dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis
pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO, quae est propositio
insnfficienter probata, scilicet a principiis nondum certis, et precariis dedu
cta, quae ideo est mutabilis, ac proinde po test ut plurimum esse falsa: unde
opinio di viditer in PROBABILEM, et IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout
princi pia sunt probabilia, vel precaria, omni nem pe rationis auxilio
destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De
probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et. Eius au ctores sunt
homines: fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et
complete narrans, HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes
neque experientia, nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae
intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem, nec de omnium
probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur, non
certitudinem, sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate
freti adsensun historiae praebeamus: evidens est, historicae probabilitatis
funda mentum esse fidem humanam. * Ut autem narratio historia dicatur, dcbet
non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo contigerunt, ordine
narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta, circumstantias,
relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac
Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat
ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque
fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve,
aut fal li aut fallere possunt, ut experientia testa tur: consequens est, ut ad
adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint,
quibus testium an ctoritas, factorum genuinitas, natrationuin qucque veritas
dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA, sive habitus aliorum
auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte adhibendi, factaque scienter ac
sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis
cri ticae officium, vulgarem sequuti opinionem, infra ad solum librorum examen
atque in terpretationem restringamus; non ideo no bilissimam hanc artem
cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed quidquid de usi auctoritatis,
rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt, ea ad artem criticam:
pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per observandum. 119. Quia ergo
in omni narratione tria considerari possunt; narrans nempe, bar ratiun, et ipsa
narratio: hinc est, ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat,
scilicet i. ad homines narrantes, ad res narratas, 3. ad modima parran di. * Ab
hominibus nunc ordiamur. * Atque in his, quae sequuntur, regulis tam historicam,
quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus, nedum librorum genui nitatem
integritatsmve expendentibus, gene rales totius críticae leges ad singulares
spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo
maiorem operam collocare debet, qui philosophi nomen tue ri cupit, quo
frequentius in evolvendis li bris, factisque diiudicandis erit ei, re exi gente,
versandum, Quoniam hominibus, licet eadem natura, non cadem tamen est
perspicacia, mcrumque probitas, nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere
possunt (per cxper. ); hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur
147. ): patet in quolibet teste tria concia derari posse, scilicet INTELLECTVM,
VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur, testesa sunt vel PRVDENTES ac
PERSPICACES, yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel
VNITANTVM faventes, itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel
I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis
perceperunt, vel AVRITI, qui illud ab aliis audiverunt; et hi denno vel Co AEVI
sunt, qui eodem facti tempore vi xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis
acceperunt. Sic Livius inter testes
prudentes est referen dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum
parti favebat, quippe Romanus et ipse. Tandem factorum, quae sua aetate
evenerunt, testis coaevus, eorum autem, quae ante conditam condendanıve urbem,
ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur, recentior dicen
dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod
attentionem iudiciumque requirit, homines prudentes et perspicaces rudioribus
ignavisque esse antehabendos; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus,
non etiam iu dicio, indigentibus, dummodo in illis af fectus partiumve studium
non metuatur: tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit; 3. testes
neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri, nec non 4. oculatos
auritis, 5. coaevos recentiori. bus, inter auritos autem prudentes ru dioribus, eos
tamen, ad quos ex oculato Cap. IV. De Veritate Probalili. 197 nullam esse, fide
digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit, ceteris incerto alio.
quin rumore ductis esse anteferendos, ac denique 8. coaevi testimonium plurium
contestium narratione augeri, cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse
possit, 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta; observandumu 9.
probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes;nihil enim
impossibi le potest esse probabile (S. 144. ); 10. nullam quoque esse
probabilitatem, si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret:
licet 11. probabilius id ha bendum sit, si a pluribus probatae fidei viris
unico contesta narretur; 12. nulla itidem probabilitate gaudere, narrationem,
quae claris rationibus -aperto repugnat; 13. non idem tamen dicendum de ea,
quae moribus opinionibusque nostris ad versatur, *** nec 14. si caussa modusque
ignoretur, aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno
Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni proba bilitate destituta:
veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis, Tullo '
Hostrilio Rege 1 factam, I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus
pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco regnante, Au guris Attii Nevii cotem
novacula discissam refert Lib. I. cap. 25.: id enim mirabile quidem et
insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem Historicus de his,
fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam
servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi
cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc poeticis magis
decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata.
nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae, quibus Mu hamedanum scatet
Alkorauum, a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam
delapsam iterum in coelum repositam; palmae eiulatus in eius absentia, et id
genus alia. > *** Sunt enim, mores pro regionum ac tem porum varietate,
varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est, fortasse apud alias Gentes
honestum erit, et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio:
tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur, non vitio verteret
The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse? Et tamen
haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos.
in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem,
id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio aut poetico, narrari
debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur,
maiorem meretur lidem, quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco
lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica,
politica, et practica. 153.TJAEc de fide humana, quam qui ritatis praeiudicio
occupatus conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius,
nempe PHYSICAM; quae ha betur, quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam
physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat
hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunae solisque attractione pendere:
nam ex plurie. bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse, compertum est. Ad
physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories: 1. ut
phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem,
habeatur, ne chimaeram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phae
nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam
ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussae omnes pose sibiles
investigentur, et.cum phaenomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu
resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. * Quum
autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat: sufficiat de ea quaedam
tantum hic notasse: commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA
probabilitas ea est, qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi
arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones
concludamus: evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam
pertinere: adeoque non mirum, si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius
politica probabilitas intelligi pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus
hilaritas, iocandi studium, corporis mobi litas, laboris impatientia,
prodigalitas', in constantia, garrulitas etc. observentur: non ne eum statim
voluptati deditum esse con Cap. V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit
probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu
animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur, ea fusius
persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8., et
Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem
expediemus. Eam Rudige rus vocat, qua ex physicis vel moralibus principiis
futurum aliquem praedicimus even tum. Quod quum in practica casuum si milium
expectatione consistat, eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est
practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id quod maximo
apud Politicos usui esse solet. * * Politici namque in gubernandis rebus publi
cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem,
propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint:
adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA
habetur, quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus.
Saepe enim accidit, ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant,
quae multiplicem sensum ad mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum
significatione, locorumque collatione pro babiliter colligitur, quidnam auctor
ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri
potest per habitum Auctorum loca interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS
AUCTORIS est ceptus, quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve
animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis
principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas
auctorum loca inter pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris
sensum erue Te; adeoque 2. regnlae tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille
quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v. De Veritate,probabili. 203
Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges
Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint: non mirum, si a canonibus
huic sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent,
et loquacitatem potius, quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris
sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua
scriptor conceptus suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque
patet 4. falli eos, qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus
translationibusque fidunt; 5. ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus,
aetatem, gentis suae mores ' attendat: unde 6. integrum Auctoris systema prae
oculis babeat, ac de eo secu dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni
bus, iudicium ferat., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica
Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct, inquit Vir eruditissimus,
nostrarum opi nionum veluti oblivisci, el quaerere, veteres illi Magistri senserint
non quod sentire dcbuisse nobis videniur, ut sape rent. 162. Ex eodem principio
fluit 7 inter pretein affectibus, praeconceptisque opinionibns omnino vacuum
esse debere; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare, sed
antecedentia et con sequentia attente conferre: multoque ma gis y. loca
parallela auctoris eiusdem sol licite comparare, ut quod obscuritatis ir,
repserat, statim evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem
om ne momentum ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui librum aliquem
probe interpretari vult, eum attente atque ordi ne legat, et codicem habere '
curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat
editio, ratio in promptu est. Videmus enim, quam multis scateant erroribus edi
tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis, ut Delio saepe
notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris
claris, qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet
Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticae adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir
multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus, communi sa pientum consensu
probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus
trademus ut quantum fieri pote rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis
discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si
Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est
Clericus, quo'nemo elaboratius eam pertra ctare, operaeque pretium facere
posset. Nos autem tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis
suppeditare adlaboramus; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et
matura aetas, omnia, quae hoc super argu mento scienda forent, in eodem Clerico
legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi,
20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras
notiones genuinitatis, et in tegritatis librorum in legentium animis excitare.
* Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque
ea in re generales tironibus suppeditari: latiori Damque significatione tam
historicam proba bilitatem, quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa
capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta, yeluti per
lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius
nomen prae se fert,-. fuit exaratus; SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius
nomine insignitúr, scripius est. * Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat,
quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit,
vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel.
latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula
ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De
Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus:
nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ), Criticos, impostores,
tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat.
166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus
ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo. CANONES
t. " S " ppositum habeto librum, qui in vetuslis codicibus alii
tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de sideretur, quod in eo
reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus
inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint, ea vero
nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili
muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant,
genuinus esto et inte ger, nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius
nulla fit inentio in veteribus catalogis, aut a scriptoribus proxime
sequentibus, plerumque fictus esto, cut saltem suspectus,. 209 Logica Pars I.
> 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata, nequit
recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,, pro genuinis
admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quae scriptor cuius nomen
praefert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto, aut interpo
latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personae, facta, uut nomina com
memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque aut interpolatum
iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae,
vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis
scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo
scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi, in quo ille vixit, spurius esto,
eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora Auctorem
arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero, si ni
hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui tribyi:
utr, translatio non esto, cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus
hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis: sed res est
maximi momenti, et nimis implicata, nec in stituti brevitas eam disquisitionem
patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica, ubi plurima
inveniet suo gustui. adcommodata. Id interim notasse sufficiet, in hisce
omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam,
adeoque in errores prono cursu la bamurSendus pecialior Logicae usus nunc evol
vendus, nempe PRAXIS, qua mentis nostrae operationes sint in verita tis
investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per
meditatio nem rite institutam; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam
revocatur. Quia vero nec meditationi, nec bonae lectioni par est, qui hasce
lautitias nondum degus tavit: Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti
adolescentes et recte mea ditari, et libros cum fructu legere dis cant. Quumque
nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere: de duobus his veri tatem
inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum
nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque, quum cogitationes
nostra's bonae methodi legibus g. 138. seqq. ) ita dirigimus, ut veritates ex
veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur
1. ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione, tantum optima methodus a
medi tatione distet,. meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur (S.
141. ), callere debeat; adeome 3. eo felicius meditetur, quo exactius leges
illas esequitur; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus, ut
ex ijs veritates aljas erue re legitime possit (S. 167. ). 5. Tirones ergo,
aliique bonae methodi, veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. * Cui
enim serei principium deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum
catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat,
quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat,
nec illas recte disponere, nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad
bonam methodum requi ritur idearum claritas (5 141. cap. 3. ); ad claritatem
autem confert attentio (S. 19. );consequens est 6. ut qui feliciter meditari
vult, attenitonem praecipue colat; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis
indubiisqoe principiis (S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad
principia referantur praecipue de finitiones (f. eod. ): recte consequi tur 9.
ut res de qua institui vult mcdi. tatio, edcurate definiatur, f. 141. cap. 5. ),
ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen, quae de
definitionibus (Par. I. Cap. 3. ), et divisionihu:s (Cap. 4. ) docuimus, et
quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam
axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue
eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex
definitionibus axiomata eruendi, * ut om nes principiorum species probe tencat.
Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic
adden dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS
OMISSIONE, nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac
definitio ne: Invidia est taedium ob alterius felicita tem, omitte genus, et
habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam,
eritque aliud axioma: Invidia est taedium 2. INVERSIONE, si definitio in
definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit
est invi. dus 3. CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus
E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium, -non esi invidus; vel
eum, qui non est in vidus, alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein
ratione conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea
melius ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea
dem definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius
felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis, opor tet il. ut ex
eorum collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde
consequentiae im mediatae sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori
explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213
Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex
principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3. Sect.
2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis (§. 171. * confectis erui poterit theorema:
Invidia oritur ab odio, et similia. Pari mo do quia Problema est propositio
practica, eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione
petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema: Juvidiam in altero excitare;
cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo
invidiam excitare vis, ala terum odio prosequatur, cuius inde felicita tem ei
ostende: ex ea namque taedium per cipiet, adeoque in eo invidia excitabitur.
Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus
enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur
corollaria, veluti ergo qui tae dii non est capax, invidus esse non potest:
item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non
habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat, ei non invidet;
atque ita porro. 173. Haec omnia vero praecepta, ut aemoriae infingantur,
brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur, shibent 214 Logica Pars
II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert,
exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item postulata deducito, atque
ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito. 3. Plura principia
vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et sic theoremata vel problemata
efformabis, ex quibus, quae haberi poterunt, erues consectaria. 4.
Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato, et id agito,
ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates,
novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo
ratiociniorum series in ordinem rediga tur, modo regulae alias ($. 141. )
propositae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione, ei usque
legibus, quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap.
YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re
gulas vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente
legen da foret, eaque in syccuin et sanguinem vertenda. Interim ad auditorum
nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus, quo facilius
artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi
addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus, absque
librornm auxilio, sequentem instituens meditationen, haec habibit. §. I. Ex
casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor Amici DEFI TIO: Amicus
est persona, quae nos amat, f. II. Ad definitionis porro notas atten dens
quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc
noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud significat, quam ex
alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo
diximus, artificio axiomata de dacantur. Et quidem ex prima definitione (1. )
fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est
amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116
Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5.
Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur,
eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8.
Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. Ex amoris defimtione ori untur
sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque
obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur ad alte
rum amandum. 3. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus,
alterum, iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex alterius
felicitate capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit, hunc sis tit. V.
Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur. THEOREMA. Amicus
alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat, alterius
felicitate delectatur (s. 1. ): amicus alteruu amat (§. III. cud 1. ); ergo
amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata consequutico ne
cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1.
Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius
ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus, quum taedii facta sit
mentio, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus, qui, ex alterius
felicitate taedium percipit misericors vero, quem alterius infelici. tatis
taedet. $. VIII. Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus.
DEMONSTR. Invidus enim est, qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur (S.
VII. ): Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus.
THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR. Taedium enim percipit x personae
amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod quum dicatur coinmise atio (5. VII.
): amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm. §. IX. Nova rursus
inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo
nescit Tom. 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices,
eumque ab infelicitate, dum potest, non vult eri pere, non se dicat amicum. 6.
X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo
rursus notas voluptatis et felicita tis, maxima enunciationum seges adpare bit.
Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2.
For licitas est status durabilis gaudii.. XI. Ex quarum prima oriuntur
AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem,
earumque repraesentationem. 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in
altero promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet
primum, praecipit secun dum. §. XII. Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1.
Qui alterius felicitate dele ctatur, ex eius statu durabilis gaudii voluptatem
capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet, eius felici tatem
promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4 Quicumque obligatur ad primum,
obligatur ad secundum. 1. XIII. Conferantur definitiones cum antecedentibus,
indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus
alterius feli citatem sibi, tamquam bonum, reprae sentat. DEMONSTR. Alterius
enim felicita te delectatur ($. V. ): quod quum fie ri nequeat, nisi illam sibi,
iamquam bonum, repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam
bonum, repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis
gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero
sit status durabilis gaudii (S. X. def. 2. ): ex hoc patet, amicum, quo que va
luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi, tamquam
bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur (per theor. 2. ),
quod fieri non potest, nisi id, tamquam bonum, sibi repraesentet. Ergo amicus
alterius gaudiun durabile si bi, tamquambonum, repraesentat. §. XIV. SCHOLION.
His praemissio succurrit lex appetitus, qua anima id, quod sibi, tamquam bonum
repraesen tal, adpetit, et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de
duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium
durabile, adpe tit, et promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam
bonum, repraesentamus, ad petimus et promovere studemus (XIV. ) amicus sibi
alterius felicitatem statum que durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat:
er go ea omnia adpeiit; et promovere stil det. *. XVI. Ex quo, sponte manant,
COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet, quae alterum taedio affi ciunt 2. nec
ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem
promovere possit. S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret.
DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum
perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius
gaudium du rabile promovet, eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde
exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius
enim gaudium durabile promovet ($. XV. ), quod idem est ac promovere eius
perfections. F. XX. SCHOL. Est autem
legis Natu rae iussum: Tuas aliorumque promove to perfectiones. S. XXI. Jude
ergo oriuntur. COROLLARIA. 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo
obligati sumus ad amicitiam colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini.
micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut
aliis simils amici. etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod
si modilatio aliquamdiu proferretur, dici non potest, quot novae propositiones
exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra
nos fallit opivio, aut sine multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore
Philosophi acutissimi evadent. K 3 2? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De
librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit
limitibus circumscrip tus, atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione
eruendis incapax:facile est and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda
sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non
omnia ab omnibus adcurate scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio
laborant, ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis
eorum libris, ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere, quibns in jis ad
examen revocandis, dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis
mens dirigatur: id quod in praesenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut
HISTORICVS, aut ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares;
hic, in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum
divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, Cap. VI.
De Veritatis Inquisitione. 223 nihil, nisi duorum, quae enunciavimus, ar
gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio, cur libros omnes
in histo ricos, et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA,
quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio (S. 147. ), facta vero vel
Naturae opera, vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam, vel
deniqne litterariam Rempublicain spectent, esse potest NATVRALIS, ClVILIS,
ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut quo rumdam, vel
alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in UNIVERSALEM,
PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat, altera hominum
vices et facta commemorat, iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat,
po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas et fata omnia
refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia in ea Naturae
opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno
vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae,
lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc, narrentur. K 4
224 Logica Pars II. civili, ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram
177. Quia libri vel scripta ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventae et
dete ctae discántur (5. 274. ); ea vero verbis referta sunt, ut auctoris sensus
intelliga. tur (§. 160. ), idest eaedem ideae ver bis adsignentur, quas Auctor
cum iis con iunxit (S. eod. ): per se patet genera lis in legendo servandus.
CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis curato, uit easdem notiones cum verbis
con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima
consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad
definitiones, quibus sin gularum significatio determinatur, vel and conceptum
ab usu loquendi tributum 11s, quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras
ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus (9. 19. ): se
quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in
libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap.
VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione
dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria
potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac finis, facile patet 3. in libris
histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem, ad
eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo
respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis
regulae traditae sunt($.152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum, tuna in
temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca
suppeditat GEO GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum
ex üsdem scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum
lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra
adcurate describere, phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum
di stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas
exemplis et factis con firmare; Ecclesiasticae scopus est, statum Ecciesiae,
incrementin, in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su
premi item Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis,
ostendere; Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis
aliaque id K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla
rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur
(S. 178. ) statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem
habeat sibi adiunctam, atque ut ea praemittantur, per quae sequentia in
telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulae veritates prius in
classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu
de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore
ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi
reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus
vi. deat, si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum
examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age.
mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri
absolụtam et continuatam libri lectionem, Cap. VII. De l'erit. comm. 227
attenta mque veritatum earumque nexus con templationem: * quae omnia si desint,
le ctio dicetur SUPERFICIARIA. * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam
in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per
tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt;
vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti,
qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem
laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero
in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu
exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare, non est no bis solum
nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus: veritates
a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt,
aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum
cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque
DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium. Vid. Cic. de Fin. Lib.
II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum, qu am a Cicerone de Offic.
Prooem. usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono, ut aiunt,
alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser
mone tritum est, Magistrorum alios esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum
vel Auctorum nomine distinguuntur, ita ut libros melonymicę magistros mortuos
vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur, vel scripto
exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem esse docendi modum, vo ce scilicet, atque
scriptis; adeoque MA GISTRUM dici debere, tam eum qui li þros in lucem edit,
quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus
eum, qui scripta didactica (de quibus hic tantum ser mo est ) conficit,
SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero, qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM,
DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad evitan dam confusionem, atque inutilem
verborum repetitionem. Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus
sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. 229 se esse usque virtutibus
ac vitiis aliqua dicere posse mus: nunc, quae utrique communia sunt,
dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis
com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est, alios ad ignotaruin
veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque
vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de
veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis sufficientibus at que
inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ($. 1: 4. ). quod ut fiat, 0
portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad quod
requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat * ($. 24 ) 6.
bonam methodum rigide servet (. 138. seqq. ), 7. et si quid implicatum confu
suinque occurrat, distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae
est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta
artis suae docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius praecepta
perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de veritate
certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope (. 133. ) quisque videt,
convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios
de veritate, quam docet, debere convincere, ** ac proinde 9. pro babilibus
argumentis uti ei non licere: *** nisi res talis sit, ut sola probabilita te
cognosci possit. * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur
demonstratio vero est vel directa vel indirecta, vel a priori vel a poste riori:
non abs re convictioni ea dem nomina, prout veritates demonstrantur, a
Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum
sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in demonstrationibus versatus, et
talis; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis
demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque iniuriam in
ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt,
et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO, quae quum sit
rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe quae a
convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit
Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero
Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur, quan tum
sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est Cicero de In
vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse
soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque,
ac docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ($. 150. ), 3. si
propositiones singulae rig de sini demonstratae, si bona me thodus in
demonstrando adbibita pec in
demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle
ctae, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca
rere litterariam, foret maguopere optandum. 189. PERSPICVITAS in verborum pro
prietate, iustaque eorum cum ideis pro portione sita est. Verborum PROPRIETAS
es'git, ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque
definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut
liber non sit prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum
enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas
Auctoris sensum occultat, adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium
per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §.
50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex
veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint
deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea
praecesserint, per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id
exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat
Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit, INCOMPLETVS
adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiae particu lares characteres,
hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen
generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque libri lectione
quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se
connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id quatuor, quas
recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant, librum quemcumque
scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros
scribunt systema conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas,
et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt.
Eorum autem, qui alienis laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui
aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis
habita ratione; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt.
Et hi qui dem reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi praecipue )
ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta
suffurantes ea typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt,
iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt.
SECTIO II. De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios
voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit,
certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a
natura, partim a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS,
et in doendo PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De
singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione
sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is, qui
doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS
qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret, at
que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin analysin
instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur,
aegre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est,
vel laboriosa: adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque
intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores
suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem autem ducit
demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus
ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat. Et quia au ditores
convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem
DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et suavitate,
quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II.
parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus, cavere debet qui eum docet,
ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit, si verborum inopia,
dicendi infelici tate, animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo
attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi
suavitate ac promtitudine senserit destitutum, ei auctores fuerimus, ut cendi
munere se abstineat, si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non
eadein omni bus est adolescentibus perspicacia, que non tam voce, quam exemplo
erudiuntur: liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad
discentium captum ge niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite disponendi,
nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat
antecessorem: praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur
institutic, animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar
omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. *
Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent, nequicquam laborum suorum
fru ctum exspectabit, et adolescentes exemplum potius malum, quam bonam vocem
sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil, praeter praeceptoris imitationem,
prae se ferent: quum bene monuerit Iuvenalis: Omnes duciles sumus pravis ac turpibus
imi tandis suos.Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga
Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate
inserviendi promtitudine, patientia patientia, et labore haec auien omma nisi
ab iis, qui nos amant, sperare non possumus: recte infertur 10. doctorem
sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11. et studio; 7 commoda
promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore
virtus, ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat, et studium
deerit disceniium utilitati inserviendi: ac proinde pro doctore exsurget
mercenarius vel utilitati, vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec
morun ratio umquam habebitur, et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si
haec omnia ponantor, habebimns magistrum, vel leo poribus inservientem, in
muneris exercitio ne gligentem, timidum, sui dumtaxat studio abreptum, et ad
vilissima quaeqne facilem; vel inaccessibilem, clatum, ' omnia sibi per
mitientem, quandoque etiam garrulum, ét e cathedra, tamquam e suggestu, aliorum
no mina lacerantem, quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si
virtutum quas recensuimus opposita evolvautur, illico doctorum vi tia ad
parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA,
idest artis methodique-igno. ratio. Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit,
ut talis doctor terminis inanibus, vagis obscuris, nec recte definitis sit con
tentus, resque difficiles exemplis illustrare nequeat: 2. confusio quae methodi
negli gentiam, analyseos ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3.
docendi ineptitudo; quum enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et
suavitas, quibus ducendi donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas,
aut obscurabre vitas; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur,
quo fit, ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus
rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum
omissio, quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser
monis barbarics, cui proxima est obscuri. tas et taediuin, adeoque ad minuendam
ten dit attentionem. Non desunt equidem, qui naturali quodam suavitatis defectu
laborantes nec genio, nec captui auditorum se accommodare sciunt, li cet
doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec
imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque
imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit: me diorum
tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo
caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia, scilicet soliditatis
absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est
IMPRVDENTIA in docendo, quae in caussa est, ut auditorum Caplui genioque se
adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde animis morbo
aliquo laborantibus mederi nesciat. Quae enim prudentia in imperito?
Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas, qua inter se
invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis invidentes
discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones
dicacitatesque concitant: quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem incidant,
adolescentes contra pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant. 240 Logica
Pars II. 200. Ad voluntatis vitia, quae amorem excludunt, referuntur: AMBITIO,
si ve nimia gloriae laudisque cupiditas, qua fit, ut vana eruditionis, autº
eloquentiae ostentatione, nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non
explicentur, sed implicentur, propriaeque existimationi potius, quam discentium
utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA, quae omnia trabit commodum
efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO,
quae ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit, atque
soliditatis defecium arguit, quum bene monterit Genuensis.noster: difficile
esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem, ad suum > * * * *
Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef fraenis alios lacerandi consuetndo,
quae in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras
proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint: videbant enim pravam
consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor
ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium
praesumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel aliquot
sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun. 241 bi solis reservant,
vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod
ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit, eosque opinionum singularium et
ab surdarum, saepe etiam impietatis studiosos efficit: id quod maximo
adolescentihus detri mento est, praecipue quum auctoritatis prae indicium
altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae
studet, non aliorum, sed sua tantum commoda promovet, idque per fas an nefas,
nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes, vel
praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum
instruunt, ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque
praedilectione prosequuntur, ut se aliorum odio, invidiae vero illos expo nant,
adeoque nihil neque hi pro. ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati
nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque
inde fit, ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in
buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os
loquitur, bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat
etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te
munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom.
I. L neque illi reni, ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod
val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula
quaedam et thrasonica reperitur ambitio, scilicet paedan tismus', quo furentes
nusquam, nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se
exponunt. 201 • Superest, ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus, ut
si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini.
Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter
observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore
Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius, ac vitia, quibus eos
laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus, nisi
solida artis methodique cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa
fidelitate, prucuttia, ac sincero erga discentes amore absolvito. 3.
Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm. 243 busque
disciplinis non tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que,
teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis amorem,
morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem nimis
reddito, ne, excusso subiectionis fraeno, doctores parvipendentes nihil
proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. "De Discentium
dotibus ac naevisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca
apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi; solidache
imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad
claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a
praeiudiciis: Quidquid ergo attentionem tur bat, vel praeiudicia fovet, ab iis
abesse debet. 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS,
DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR, LABORIS PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique
ANIMI SOLITUDO. It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem
ingenii perspicaciam, cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem,
verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem: quum Divino
oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini. Hoc est libertas a praeiudiciis,ut supra di
clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda, et ad pra xin
adplicanda. ID adeo Si namque Doctores et studia amemus, his sedulam navamus
operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor hinc absit, taedium
supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in studiis profie mus.
| Laboris enim impatientia ignorantiae cause est, ut dixiinus; quoniam veri
tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero
perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus abunde constat. De
verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at
tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum oportet esse, qui
sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia,
qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur voluntaria praeiudiciis
adhaesio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio, 4. otium et laboris
impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a studiis vel doctoribus,
6. denique spe ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut
attentio distraha tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac
perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra
lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci
po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De
litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque
disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur.
Hae disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO,
vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus:
VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo
alterius errores scripto detegantur, actio haec dicilnr CONFITATIO; si pro
positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram
disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet
diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione
patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem
propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a
posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis
demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse
simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est.
propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius
demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio
instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum
intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo
enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas,
licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur,
adeoquc insurgit quaestio de verbis. Vid. Weienfelsium de logomachiis
eruditorum. Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia
probabilia et precaria, tunc non con L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur.
Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici, ut eius
veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio, id quod infra
in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit,
ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in eo attentionem turbantes
exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero
per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere; consequenter 6. a
conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt,
abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE, quae non
quidem ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis opi nione eruuntur,
quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur, sed ut adver sarii fama
in discrimen vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con
sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum
ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient eique invidiam
creent: non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt.
cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA
ductum in confutando sollicite esse vitandum; a deoque 8.non abs re
consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari. * Logic. Lat. pag. 752.
Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al terius
paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii famam perse
quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id
non rationis auxilio, sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in
confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con futatione nihil vel
minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CAN ONE S. I. A, D
confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum ductus accedito.
Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famae nocentibus de
errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius
scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum praestet, ad wertito. Si
quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa sint, sive
connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis
rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario
nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO
est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo
definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit,
ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide
demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit, eos adcuratis definitio
nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim
propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De
litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus. Pri mae classis
seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin, *
Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam
que nec veritas invenitur, nec ratio perfici tur, sed contentiones animique
perturbatio nes aluntur, nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis, ac
iuventutis studiosae malo.? 211. Defendenti ergo, ne a recto. aber ret,
Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem a te légitime demon Stratam,
aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne
defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito?? 2. Eius, qui te maledictis
conviciis que laesit, scriptis modesto respondeto silentio. * la cedendo victor
abibis. * Si namque simili stilo, respondeas, nullum operae pretium facies,
adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis, inque idem vitium incides,
quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis, in eo tua
versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que
consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris, sat est eius malitiam et
nocendi studium ostendere teque commiseratione potius, quam ira per citum
perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit, eum te explicasse sufficiet:
si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet: si in
demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam connexiouem prae oculis
ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur, aut ipsius conse
quentiae veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam, demonstrare
debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit, te tacente veritas ipsa
loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. Ad
veritatis tandem disquisitionem acMilanius, quae non scripto, sed voce fit,
quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO
-aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur,
quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem defendit, tertia vero huic
suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat,
OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat, DEFENDENS, vel
RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert, PRAESES aupellatur. Ex
qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse impugnationem proposi tionis
veraen eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque demonstratione absol vi, ut
disputantium alteruter de veri tate convincatur; quare 3. quidquid ge neratim
de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur, prae cipue vero 4.
status quaestionis formandus et 5.
oportet, ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui
adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7
affectibus carcant, odio, praesertim et invidia, Non enim ad rixandum, sed ad disputandum.
descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt, quibus attentio turbatur (S.
207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse, ne ira odiove perciti
tantum absit ut veritatem inveniant, ut potius.a convicis ad manus transeánt. Ex
eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto. riis
versari, hoc est ut idein ab uno a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia
idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in
terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat,
eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus
incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA
est, vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere, haeć
syllo gistico more conficitur. In illa opponens disscrtatione quadam propositionis
veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique
defendit; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem
opponens inpugnat, ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens
ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat,
dubiasque distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi
potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus, et
Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem
ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen
praelectionibus, quae de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo
methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis
prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem, quum homini pede
stanti in uno ñec eruditio, nec verborum copia praesto esse possit, Dialectica
metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit
disputantiirin munera paucis expo nére: id quol sequentibus exequemur re gulis.
Et primo quidem amborum, dein de opponentis; postremo respondentis mu nia
recensebimus. Quisquis ergo ad dis putandum accedis, hos religiose castodito: Phim
Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ). Nihil porro, nisi terminis
claris fixisque expressum, in e am incidito. Obscura quaeque explica to. 2.
Dispu'ans adfectibus vacuus, veria tatis tantum amans, eiusque invenienda
cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter, amice proferto. Convicia et dicta mor
dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto. 3. Quacunque
meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam artem cuidi ha beto. Argumentu
solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito. Conclu sio thesi
impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo
nitur explicandum, explicato: si vero probandum, tamdiu syllogismorum, au xilio
probato, donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et
distinctiones attendito. Si illa obscura sint, illi explicanda dato; si vero
clara, Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones, prout res tulerit,
contra formato. Praecipue videto, si ad versarium ex assertis suis convincere
et refutare, proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est, quod
vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de
intell. bum. IV. 17., qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de
bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis, quae
coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra
tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum
opponentis prius repe tito, deinde sedulo perpendito, num de bila gaudeat
soliditate. Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur, probatio nem postulato. Syllogismum
in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen
reyocaio. Propo sitiones falsas negato, veras concedito, dubias vero
distinguito: sed de omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas.
258 Logic. Pars. ii. 本
Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega, numquam concede
raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis, vel
ut ne gationis caussam adferas, vel ut lucem quo que neges meridianam: utrumque
homini sen sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae propositionis impossi
bilitatem demostrare possis; nihil ultra oneris habebis. Si vero in auctoritate
probatio ' versetur: sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus
re fellere. 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit
insidias: ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi
regulac usu magis ct exercitio, quam praeceptis, ad discuntur '. Si tamen
dicendum quod res est, in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas,
sed promtitudo, immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius, quam
invenitur: Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad
disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III.
Cup. 3. g. 11.
AN OUTLINE OF SEMATOLOGY; OR,
AN ESSAY TOWARDS ESTABLISHING A NEW THEORY OF GRAMMAR, LOGIC,
AND RHETORIC. “Perhaps if words were distinctly weighed and duly considered,
they would afibrd us another sort of Logic and Cretic, than what we have
been hitherto acquainted w4th." — Locke. LONDON
: JOHN RICHARDSON, ROYAL EXCHANGE. G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl*
tTRWT, LOWDON. I PUT not my name to these pages, nor shall I, beyond this
notice, speak in the first per- son singular, but assume the pomp and
cir- cumstance of the editorial "we". Why I choose for
the present to remain unknown, I leave the reader to settle as his fancy
pleases. He is at liberty to think that, being of no note or
reputation, and fearing for my book the fate of George Primrose's
Paradoxes, I do not place my name in the title page, because it
would inevitably make that fate more cer- tain. Or, if he chooses, he may
imagine a better motive. He may suppose me to be the celebrated
author of ***** *, with half the alphabet in capitals at the end of
my name ; and that I prefer an incogfiito, lest he, my "
cotirteous reader", should relax the rigour of examination, and
receive as true, on the authority of a name, a theory that may be
false. In the last chapter of Locke's Essay on the Human
Understanding , there is a threefold division of knowledge into
^uo-t*^, TrpaxriK^, and trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole
body of instruction wliich acquaints ua with TO. <f>v<TtKa by
the name Physicology, and that which teaches to -irpaKTixa by the
name Practkology, — all instruction for the use of TO <7?j^aTo,
or the signs of our knowledge, might be called Sematology. Physicology,
far more comprehensive than the sense to wliich Physiology is fixed,
would in this case signify the doctrine of the nature of all things what-
ever which exist independently of the mind's concep- tion of them, and of
the human will ; which things in- clude all whose nature we grow
acquainted with by ex- perience, and can know in no other way, and
therefi>re include the mind, and God ; since of the mind as well
as of sensible things we know the nature only by ex- perience, and since,
abstracted from Revelation, we know the existence of a God only by
experiencing His providence, Practicology, the next division, is
the doctrine of human actions determined by the will to s
preconceived end, namely, something beneficial to in- dividuals, or to
communities, or the welfare of the kJ The signs which the mind makes
use of in order to obtain and to communicate knowledge, are chiefly words;
and the proper and skilful use of words is, in different ways, the
object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of 3. Rhetoric. Our outline of
Sematology will therefore be comprised in three chapters, corresponding
with these three divisions. species at large. As to Sematology, the
third division, it is the doctrine of signs, showing how the mind operates
by their means in obtaining the knowledge comprehended in the other divisions.
It includes Metaphysics, when Metaphysics are properly limited to things
TB /*ETa Tct pi/fiKa, i. e. things beyond natural things — things which
exist not independently of the mind's conception of them ; e. g. a line
in the abstract, or the notion of man generally: for these are
merely signs which the mind invents and uses to carry on a train of
reasoning independently of actual existences; e. g. independently of
lines in concrete, or of men individually and particularly. But as to the class
of signs which the former of these instances has in view, and which
are peculiar to Mathematics, there will be no necessity, in this
treatise, to make much allusion to them: it is to the signs indicated by
the other example that reference will chiefly be made: for these are
the great instruments of human reason, and we believe they have
never yet had their suitable doctrine. To ascertain the true principles of
Grammar, the method often pursued will be adopt- ed here j namely, to
imagine the progress of speech upward as from its first invention.
As to the question, whether speech was or was not, in the first
instance, revealed to man, we shall not meddle with it : we do not
propose to inquire how the first man came to speak Beattie and Cowper,
poets if not philosophers, ate among those who insist that speech must
have been revealed. The former thus turns to ridicule the well
L known passage in the Satires of Horace, Cvm prorepseruntf
&c. lib. I. Sat 3* v. 99 : When men out of the earth of old A dumb
and beastly vermin crawled. For acorns, first, and holes of shelter,
• They, tooth and nail, and bdter dceker, B 2 4 ON
CiSAUMAH. [CHAP. I. but whether language is not a necessary
effect of reason, as well as its necessary instrument, Fought fist
to fist ; then with a club Each learned hia brother brute to drub ;
Till more experienced grown, these cattle Forged fit accoutrements for
battle. At last, (Lucretius Bays, and Creech,) They set their wits
to work on speech : And that their thoughts might all have marks To
make them known, these learned clerks Left ofi' the trade of cracking
crowns, And manufactured verba and nouns." Theory of Language,
Part I. Chap 6. (in a note.) The other poet does not, on this
occasion, appear in metre, but is equally merry. " I
ta';e it for granted that these good men are phi- Bophically correct in
their account of the origin of language ; and if the Scripture had left
us in the dark upon that article, I should very readily adopt their
hypothesis for want of better information. I should suppose, for
instance, that man made his first effort in speech in the way of an
interjection, and that ah ! or oh ! being uttered with wonderful
gesticulation and variety of attitude, must have left hia powers of
ex- presdon quite exhausted ; that, in a course of time, he would
invent many names for many things, but first for the objects of his daily
wants. An apple would consequently be called an apple ; and perhaps
not SECT. 1.] ON GRAMMAR. 5 growing out of those
powers originally bestow- ed on man, and essential to their further
deve- lopment. many years would elapse before the appellation
would receive the sanction of general use. In this case, atid upon
this supposition, seeing one in the hand of another man, he would
exclaim, with a most moving pathos, * Oh apple !' Well and good, — ' Oh
apple,** is a very affecting speech, but in the mean time it
profits him nothing. The man that holds it, eats it, and he goes
away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing better. Reflecting on
his disappointment, and that perhaps it arose from his not being more
explicit, he contrives a term to denote his idea of transfer,, or
gratuitous communication, and the next occasion that offers of a similar
kind, performs his part accordingly. His speech now stands thus — * Oh
give apple ! ** The apple-holder perceives himself called upon to part
with his fruit, and having satisfied his own hunger, is perhaps not
unwilling to do so. But unfortunately there is still room for a mistake,
and a third person being present, he gives the apple to him. Again
dis- appointed, and again perceiving that his language has not all
the precision that is requisite, the orator retires to his study, and
there, after much deep thinking, conceives that the insertion of a
pronoun, whose office shall be to signify, that he not only wants the
apple to be given, but given to himself, will remedy all
defects; Now instead of taking it for granted, as others have done
who have pursued the method proposed, that men sat down to invent
the parts of speech, because they found they had ideas which
respectively required them, we as- sert that men have originally no such
ideas as correspond to the parts of speech. The im- pulse of nature
is, to express by some single sound, or mixture of sounds (not divisible
in- to significant parts) whatever the mind is conscious of; nor is
there any thing in the na- ture of our thoughts that leads to a
different procedure, till artificial language begins to be he
uses it the next opportunity, succeeds to a wonder, obtains the apple,
and, by his success, such credit to his invention, that pronouns continue
to be in great repute ever afl^er. Now as my two syllable-mongers,
Beattie and Bl^r, both agree that language was originally inspired, and
that the great variety of languages we find on earth at present, took its
rise from the confusion of tongues at Babel, I am not perfectly
convinced, that there is any just occasion to invent this very ingenious
solution of a diiEculty, which Scripture has solved already."
Letter to the Rev. Wm. Unwin, April 5, \'J8i.
invented or imitated. Let us take, for our first fact, the
cry for food of a new-born infant: that is an instinctive ciy, wholly
unconnected, we presume, with reason and knowledge. In proportion as the
knowledge grows, that the want, when it occurs, can be supplied, the cry
be- comes rational, and may at last be said to signify, " Give me
food," or more at full," I want you to give me food." In
what does the rational cry, (rational when compared with the instinctive
cry,) differ from the still more rational sentence? Not in its meaning,but
simply thus, that the one is a sign suggested directly by nature,
and the other is a sign aijsing out of such art, as, in its first
acquirement, (we are about to presume,) nature or necessity gradually
teaches our species. Now, that the artificial sign is made up of parts, (namely
the words that compose the sentence,) and that the natural sign is
not made up of significant parts, we affirm to be simply a consequence
of the constitution of artificial speech, and not to follow from any
thing in the nature of the communication which the mind has to make. The
natural cry, if understood, is, for the purpose in view, quite as good as
the sentence, nor does the sentence, as a whole, signify any thing
more.Taking the words separately, there is indeed much more contained in
the sentence than in the cry; namely, the knowledge of what it is
to give under other circumstances as well as that of giving food ; —
oi'Jbod un- der other circumstances as well as that of being given to me;
— of me under other circumsttances as well as that of wanting food: but
all this knowledge, in this and similar cases for which a cry might
suffice, is unnecessary, and the indivisible sign, if equally understood
for the actual purpose, is, for this purpose, quite adequate to the
artificially compounded sign. The truth is this, that every
perception by the senses, and every conception which [By Conception
I mean that power of the mind, which enables it to fonn a notion of an
absent object of perception ; or of a sensation which it has
formerly follows from such perception, as well as every desire,
emotion, and passion arising out of them, is individual and particular;
and if language had continued to be nothing more than an outward
indication of these its passive affec- tions, it would have consisted of
single indivi- dual signs for single individual occasions, like
those which are originally prompted by nature. But it was impossible to find a
new sign for every new occasion, and therefore an ex- pedient was
of necessity adopted; which expedient, from its rudest to its most refined ration,
will be found one and the same, — an expedient of reason, and that
through which all the improvements of reason are derived. The
expedient is nothing more than this : — when a new expression is wanted,
two or more signs, each of which has served a particular purpose,
are put together in such a manner as to modify each other, and thus, in
their united fclt." — Dugald Stewart : I'hilos. of the
Human Mind, Vol. I. Chap. 3. [capacity, to answer the new
particular purpose in view. In this manner, words, individually,
cease to be signs of our perceptions or con- ceptions, and stand
(individually) for what are properly called notions', that is, for what
the mind knows ; — collectivelif, that is, in sen- tences, they can
signify any perception by the senses, or conception arising from such
per- ception, any desire, emotion, or passion — in short, any
impression which nature would have prompted us to signify by an
indivisible sign, if such a sign could have been found : — but
individually, (we repeat,) each word be- longing to such sentence, or to
any sentence, is not the sign of any idea whatever which the mind
passively receives, but of an abstractiont • Notio or notitia from
«o«co, I knov. (It is a pity we cannot trace the word to ado instead of
noac.->.) Note, Locke will be mucli more intelligible, if, in
the majority of places, we substitute " tlie knowledge
of" for what he calls " the idea of" His wide use of
the word idea has been a cause of the widest con&slon in other
writers. t Home Tooke's doctrine is very different from
wliich reason obtains by acts of comparison and judgment
upon its passively-received ideas. tbis. He says (Diversions of
Purley [2d edit. 1798] Vol. I. page 51,) " That the business of the
mind, as far as regards language, extends no further than to re-
ceive impressions, that is, to have sensations or feel- ings"; — he
affirms (pa££^im) that what iscalled abstrac- tion has no existence in
the mind, but belongs to lan- guage only, and that " the very term
metapht/sic is nonsense "' {page 399). It is hoped that what follows
in the test will prove these opinions to be erroneous. Could the
proper name John, or any word being an artificial part of speech, have been
invented, if the mind had not exerte d its active powers upon
its passively r&- ceived ideas ? For whatever ideas of this last kind
we have of John must be ideas arising out of particular perceptions
; and ve must irame him to our minds standing, or sitting, or walking;
talking, or silent; dressed or undressed, with other circumstances
which imagination can vary, but cannot set aside. It is only by
comparison that we know John to be independent of all these, and the name
is the effect of this know- ledge, not the cause of it. The abstraction
is not in the word only ; for till we know that Jolm is separate
(abstract) from whatever circumstance the perception of him includes, how
can his name exclude it ? Neither is the terra iiietaphysic nonsense when
applied to this The sentence " John walks " may express
what is actually perceived by the senses ; or any other abstraction. For
John separate from circumBtancea that must enter into an actual
perception, ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof nature, or
of which we have no example in external nature, though it may esist
in our minds, like a line in mathematics, which is deifined as that which
has length without breadth, and which is therefore, for the same
reason, properly called a metaphysical notion, and pure mathematics
are justly considered a part of metaphysics. It was because H. Tooke set out
with these principles thus fiindamentally erroneous, that he could not
complete his system when he had brought it to ail but a close. With
admirable acuteness of inquiry, he had tracedup every part of speech till
he found it, originally, either a noun or a verb, and he then left his
book im- perfect, because he could not, on the principles he had
started with, explain the difference bet ween these : — he promised
indeed to return to the inquiry, but he never fiiliilled his promise for
the best of reasons, that there was no pushing it further in the way he
had gone ; he must have contradicted all his early premises to have
reached a true conclusion. The whole cause of his error seems to havebeen
a too unqualified understanding of Locke's doctrine, that the mind has no
innate ideas. but neither word, separately, can be said to express a
part of that perception, since the perception is of John walkmg, and if
we per- ceive John separate from walking, then he is not walking,
and consequently it is another perception ; and so if we perceive walking
se- parately from John, it must be that we perceive somebody else
walking, and not him. The separate words, then, do not stand for
passively received ideas, but for abstract notions ; — so far as they express
what is pec- ij ceived by the senses, they have no separate meaning
; it is only with reference to the un- derstanding that each has a
separate meaning. The separate meaning of the word John is a
knowledge (and therefore properly called a I notion not an idea*) that
John has existed and ] Hence, TOOKE acknowledges nothing originally
but ] the senseB, and the experience of those senses, calling reason
" the effect and result of those senses and that experience."
See Vol, II. page 16. " If indeed the word idea were uniformly
employed to signify what is here meant by notion, and nothing else,
little objection could be made: such use would will exist, independently
of the present perception, and the separate meaning of the word •walks,
is a linowledge that another may waik as well as John. This is not an
idea of John or an idea of walking such as the senses give, or such
as memory revives : for the senses present no such object as John in the
abstract, that is, neither walking, nor not walking; nor do they
furnish any such idea as that of •walking inde- pendently of one who
walks. There is then a double force in these words, — their
separate force, which is derived from the understanding, and their
united force, by which, in this instance, they signify a perception by the
senses. nearly correspond in effect though not in theory,
with the old Platonic Bcnse, and in the Platonic sense Lord
Mooboddo constantly employs it in his work on the "Origin and
Progress of Language." But as Dr. Reid observes, ** in popular
language idea signifies the same thing as conception, apprehension. To
have KD idea of a thing is to conceive it." This sense of the
word Dugald Stewart adopts. (Philos. of the Human Mind, Vol. L Chap. 4.
Sect. 2.) Locke, as already intimated, uses the word in all the senses
it will bear. In otlier instances, the united significa- tion
of words may not be a perception of the senses j but whatever may be
their united meaning, they will separately include know- ledge not
expressed by the whole sentence, though, if the meaning of the sentence
be ab- stract, the knowledge included in the separate words will be
necessary to the knowledge ex- pressed by the sentence. " Pride
offends," is a sentence whose whole meaning is abstract; but
pride separately, and offends separately, are still more abstract, and in
using them to form the sentence, we refer to knowledge be- yond the
meaning of the sentence as a whole, namely, to pride under other
circumstances than that of offending, and to offending under other
circumstances than that of pride offending; and here, tlie knowledge referred
to seems necessary, in order to come at the knowledge expressed by the
sentence. " John walks," (or, according to our English
idiom, " John is walking,") is a perception by the
senses, and does not therefore depend on a knowledge of John, and of
walking in the abstract ; (though to express the perception in this way
requires it;) but " Pride offends," does not express an
individual perception, nor would many individual perceptions of
pride offending give the knowledge which the sen- tence expresses :
we must have obser\'ed what pride is, separately from its
offending, and we must have observed what offending is, separately
from pride offending, before we can rationally understand, or try to make
known to others, that Pride offends. In this DOUBLE force of words, by
which they signify at the same time the actual thought, and re- fer
to knowledge necessary perhaps to come at it, we shall find, as we
proceed, the ele- ments, the true principles of Logic and of
Rhetoric; while in tracingthe necessity which obliged men to signiiy in
this manner even tliose individual perceptions which nature would
have prompted them to make known by a single sign, (if such sign could
have been found,) we shall ascertain the true principles of
Gkammau. The last mentioned subject must occupy our first attention. 5.
To get at the parts of speech on our hypothesis, we must consider them to be
evolved from a cry or natural word. Not that this is the present
principle on which words are invented ; for art having furnished the
pattern, we now invent upon that pattern j but our purpose is to
consider how the pattern itself is produced by the workings of the
human mind on its first ideas. Those ideas can be none other than
the mind passively receives through the senses ; and perhaps the first active
operation of the mind is to abstract (sepa- rate) the subjects or
exterior causes of sensa- tion from the sensations themselves. When
we see, we find we can touch, or taste, or smell, or hear ; and when the
perception through one of these senses is different, we find a
difference in one or more of the others. We also recollect (conceive) our
former per- ceptions, and finding the actual sensations not
recoverable by an effort of the mind alone, we recognize the separate existence
of the ma- terial world. All this is Knowledge, acquired indeed so early
in life, that its com- mencing and progressing steps are forgotten
; but we are nevertheless warranted in affirm- ing that not the
least part of it, is an original gift of nature. Along with this
knowledge we acquire emotions and passions ; for to knoia material
objects, is to know them as causes of pleasurable or painful sensation,
and hence to feel for them, in various degrees, and with various
modifications, desire and aversion, joy and grief, hope and fear. And
here, as the same object does not always produce the same emotion,
or the same emotion arise from the same object, we begin a new class of
abstractions: we separate, mentally, the object from the emotion or the
emotion from the object: we are enabled in consequence to abstract
and consider those differences in the objects, from which the
different effects arise, and to ascer- tain, by trial, how far they yield
to volition ope- rating by the exterior bodily members, which SECT.
we have previously discovered to be subservient to the will. In this new
class of abstractions, and the consequences which arise from them,
we shall find the beginning of that knowledge which human reason is
privileged to obtain, compared with that which the higher orders of
the brute creation in common with man, are able to reach j and from this
point we shall be able to trace how man becomes /ie'poyjr, or
divider of a natural word into parts of speech *, while other animals
retain unaltered the cries by which their desires and passions are
first expressed. 6. As we are able to separate, mentally, the
object from the emotion, and to remem- ber the natural cry after the
occasion that produced it ceases, the natural cry might re- main as
a sign either of the object or of the emotiont. But this does not carry
us beyond Thia is the sense in which we choose to under- stand the
word, and not merely voice-dividing or ar- ticulating. f For
instance, as, in the present state of language, the exclamation of
surprise ha-ha '. is either an inter- to the mind which
forms the abstraction, and has the power to establish a sign
(wliether audible or not) to fix and remember it: — our inquiry is,
how a communication can be made from mind to mind, when the signs which
na- ture furnishes are inadequate to the occasion. And first be it
observed, that only such occa- sions must, at the outset, be imagined as
do but just rise above those for which the cries of nature are
sufficient: — we must not suppose a necessity for communicating those abstract
truths which grow out of an improved use of language, and which could not
there- fore yet have existence in the mind. And we have further to
observe that no communication can be made from one mind to another, but
by means of knowledge which the other mind possesses; — the cries of
na- ture can find their way only into a conscious breast, — that is
to say, a breast that has known, jection eignifyiDg that emotiou, or
the n so placed ae to give occasion to it. or at least can know,
the feelings which are to be communicated, and is capable,
therefore, of sympathy or antipathy ; and knowledge of whatever
kind can be conveyed to another mind only by appealing to knowledge which
is already there. To suppose otherwise, would be to attribute to
human minds what has been imagined of pure spirits, — the power of
so mingling essences that the two have at once a common
intelligence. To human minds It is certain that this way of communicating
is not given, but each mind can gain knowledge only by comparing
and judging for itself, and to communicate it, is only to suggest the
sub- jects for comparison. Let us suppose that a communication is
to be made for which a na- tural cry is not sufficient, — the difficulty,
then, can be met only by appealing to the knowledge which the mind to be
informed already possesses. The occasion will create some cry or
tone of emotion ; but this we presuppose to be insufficient. It will
however be under- stood as far as the hearer's knowledge may enable
him to interpret it — that is, he will know it to be the sign of an
emotion which himself has felt, and he will think perhaps of some
occasion on which himself used it. But the cry is to be taken from any
former par- ticular occasion, and applied to another; and he who
has the communication to make, will try to give it this new application
by joining another sign, such as he thinks the hearer is hkewise
acquainted with. The natural cry thus taking to its assistance the other
sign, and each limiting the other to the purpose in hand, they
will, in their united capacity, be an ex- pression for the exigence, and
will, to all in- tents and purposes, be a sentence. In some cases,
nature seems to furnish an instinctive pattern for the process here described
: —a man cries out or groans with pain ; he puts his hand to the part
affected, and we at once interpret his cry more particularly than
we could have done without the latter sign. In other cases, we are driven
to the same process not by an instinct, but by the ingenuity of
reason seeking to provide that which nature has not furnished. If a
man unskilled in language, or not using that which his hearers
understand, should try to make known what art expresses by a sentence
such as " I am in fear from a serpent hidden there," his
first effort would be the instinctive cry of fear ; but aware that this
could be particularly interpreted only of a known, and not of an unknown
occasion, he would, by an easy effiirt of ingenuity, fix it for the
present purpose by add- ing a sign or name of the reptile, (for
mimick- ing the hiss of the reptile would obviously be a name,) and
by joining to both these a ges- ticulative indication of place. The
instinctive cry thus newly determined and appUed, is a sentence ;
and however clumsy it may seem when compared with the more
complicated one previously given, yet the art employed is of the
same kind in both. We leave the read- er to smile at the example as he
pleases, and will join in his smile while he compares it with that
in the epistle of the poet in the note at Sect. 1.; and, if he is
disposed to smile again, we will suppose another example : — Two
men going in the same direction, are stopped by an unexpected
ditch, and ejaculate the na- tural cry of surprise ha-ha/ This is
remem- bered as the expression suited for that par- ticular
occasion; and the mind, the human mind, seems to have the power of
generalizing it for every similar object. Suppose one of these men
finding another ditch very offensive to his nose, signifies this
sensation by screwing up the part offended, an d uttering the
nasal interjection proper for the case ; — the interjection may not be
sufficient j for the other man may remain to be informed of
what his companion knows, namely that the offence proceeds from the
ditch. To fix the meaning, therefore, of the interjection to the case in
hand, the communicator adds the former natural cry in order to signify
the ditch, and the two signs qualifying each other, are a
sentence. 8. An artificial instrument as language is, growing
(as we suppoaej out of necessity, and adapted at first to the rudest
occasions ; per- fected by degrees, and becoming more com- plicated
in proportion as the occasions grow numerous and refined ; — such an
instrument, when we compare its earliest conceivable state with
that in which it has received its iiighest improvement, must
appear clumsy and awk- ward in the extreme. But in the very rude
state in which we here suppose it, the art em- ployed is essentially the
same as afterwards : — two or more signs are joined together, each
" sign referring separately to presupposed know- ledge, but in
their united capacity communi- i eating what is supposed to be unknown.
Of the signs used, that must be considered the , principal by which
the speaker intimates the , actual emotion j the other signs, which do
but j fix its meaning, are secondary. Thereforej ; though the
appellation word (that is p^/io, i dictum, or communication,) strictly
belongs to the whole expression or sentence, we may reasonably give
that appellation to the principal sign. According to this supposition,
the original verb was an expression equiva- lent to what we now signify
by I hunger, I thirst, I am warm, I am cold, I see, I hear, IJeel,
&c., / am in pain, I am delighted, I am angry, 1 love, I hate, I
fear, I assent, I dis- sent, I command, I obey, &c. Whether
this a priori conjecture has any facts in its favour, is an inquiry
suitable to the etymologist, but fo reign to our purpose, because,
whether true or not, the general argument by which we in- tend to
prove the nature of the parts of speech, will remain the same*.
" Vet it may be worth while to quote the coinci- dent
opinion of another writer. " It may be asked " says Lord
Monboddo, " what words were (irst invented. My answer is, that if by
words are meant what are commonly called parts of speech, no words at all
were first invented ; but the first articulate sounds that were
formed denoted whole sentences ; and those sentences expressed some
appetite, desire, or inclination, relating either to the individual, or
to the common business which I suppose must have been carrying on by a
herd of savages before language was invented. And in this We
have next to imagine the use of any of the foregoing verbs in the third
per- son ; for that, it should seem, would be the next step. In
communicating that anothet- hungers or thirsts, or sees or hears, or is
angry or pleased, &c., the difficulty would be to give the word
this new application, and a limiting sign would, as usual, be necessary.
A proper name would be the sign required ; and if not too great a
tax upon fancy, we may conceive the invention of these from the mimicking
of a man's characteristic tone, or his most frequent cry ; not to
mention the assistance of gesticu- lative indication. But when verbs had
thus lost the reference which, at first we presume, they always
bore to the speaker, a sign, whether a change of form, or a separate
word, would be wanted to bring them back to their early meaning as
often as occas ion required. A gesticulative indication of the
speaker and way I believe language continued, perhaps for
many ages, before names were invented." — Origin and Pro-
grese of Language. Vol. I. Book 3. Chap. 1 1- of the person spoken to,
can easily be con- ceived : how soon tliese would give place to
equivalent audible signs, the reader is left to calculate j and as to the
pronoun of the third person, he may allow a longer time for its in-
vention, especially as even in the finest of lan- guages, tliere is no
word exactly answering to ille in Latin and he in English.
10. We have suggested a clew to the in- -yention of proper names,
and (for the reader jnust allow us much) we will suppose these, L ^
far as need requires, to be invented. But r piost of these, from the
difficulty of inventing a new name for every individual, would gra-
dually become common. If a man has called I the animal he rides on by a
proper appellation I corresponding to horse, what shall he call t
Other animals that he knows are not the same; and yet resemble?
Because he is unprovided .. r jwith a name for each individual, he will
call' I each of them horse*, and the name will then "
Compare Adam Smith, " Considerations con- cerning the First
Formation of Languages," appended no longer be proper but common. But
the same powers of observation which acquaint us with the points of
resemblance, likewise show the points of difference, and when we
wish to distinguish the animals from each other, how is this to be done ?
The question is easily answered when we have a perfect lan- guage
to refer to, but it was a real difficulty when the expedient was first to
he sought. Yet the difficulty not unfrequently occurs even in a
mature state of language, and the manner in which it is overcome, will
enable us to conceive how, in the rude state of Ian- guage we are
supposing, itwas universally met, till the noun-adjective became a part
of speech*. Of two horses, we observe that one to his work on
the Theory of Moral Sentiments. As a proof how prone we are to extend the
appellation of an individual to others, he remarks that " A child
just learning to speak, calls every person who comes to the house
its papa or its mamma ; and thus bestows upon the whole species those
names which it had been taught to apply to two individuals."
' The Mohegans " (an American tribe) " have so
has the colour of a chestnut, and the other is variegated hke a pie ; and
we call the former a cfieslnut horse, and the other a pied or
piebald horse. Here we perceive are two nouns-sub- stantive joined
together to signify an indivi- dual object, and employed, Ui their united
ca- pacity, to signify what would otherwise have been denoted by an
individual or proper name. This, then, is their meaning,
respectively, as a single expression. In their abstract or separate
capacity, the one word denotes either one or the other of the two animals
without reference to the difference between them : the other word
denotes, not a chestnut or a pi^ but that colour in a chestnut, and those
varie- gated colours in a pie, by which one of the animals is
distinguished from the other, and these words are no longer nouns-substantive
DO adjectives in all their language. Although it may at first seem not
only singular and ciuious, but im- possible that a language should exist
without adjectives, yet it is an indubitable fact," — Dr. Jonathan
Edwards — quoted by H. Tooke, Diversions of Purley, Vol. II. p.
463. but nouns-adjective *. And here the ques- tion will
naturally occur, how would a hearer know when a noun was used
substantively, and when adjectively ? As this would often be
attended with doubt and ambiguity, the necessity of the case would soon
suggest some slight alteration in the word as ofi;en as it was used
adjectively ; and the same all- powerful cause would likewise, in time,
dia- tinguish adverbs from adjectives : for at first an adjective
would be used without scruple to limit the verb, as to limit the
substantive j since • " The invention of the simplest
nouns-adjective,*' says Adam Smith, " must have required more
meta- physics than we are apt to be aware of." But the dif-
ficulty he imagines is done away by the hypothesis suggested above ; and
how near it is to the truth, will fae conceived by calling to mind the
ready use of al- most any substantive as an adjective, as often as need
requires : e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a grammar school, a
school grammar ; a man child, a cock sparrow, an earth worm, an air hole,
a (ireking, a water lily ; not to mention the innumerable com-
pounds that are considered single words ; as, seaman^ Iiorsenian,
footman, inkstand, coalhole, bookcase, Sic. «t
this is often done even in the present state of language j
but the doubt whether it was to be taken with the substantive or the
verb* would soon produce some general difference of form ; and thus
the adverb would be brought into being as a distinct part of
speech. 11. Still it would often happen, that in endeavouring
to limit a verb to the particular communication in view, no substantive
or pro- noun joined to it, not even with the further aid of an adjective
or adverb joined to the substantive or verb, would suffice ; and
failing, therefore, to convey the communication by one sentence, it
would become necessary to add another to limit or determine the
significa- tion of the first. Now a qualifying sentence thus
joined, when completely understood in connexion with that it was meant to
qualify, would be esteemed as a part of the same sen- tence, and
the verb, in the added sentence, • E. g. whether " I
love much society " is to be understood / much-li/ve suciety, or, /
Iwe 7iutch- society. would possibly then lose
its force as the sign of a distinct communication. This again,
will easily be understood by a reference to what occurs in the
present state of language. Look- ing at the sentence, " In making up
your par-- ty, except me," no one hesitates to call concept a
verb ; but in this sentence, *^ All were there, except me," although
the word except has pre^^ cisely the same meaning, yet, as we do not
con^ sider the clause except TTie to be a distinct com- munication,
but only a qualification to suit the whole sentence to the purpose in
view, we call except a preposition *, that is, a word put be^
* This solution of the difficulty in the invention of
prepositions, which seems so considerable to Adam Smith, is suggested, as
the reader will perceive, by the etymological discoveries of Home Tooke,
and will receive complete confirmation by the study of his ad-
mirable work. Let it not be supposed, however, that we have nothing to
object to in the Diversions of Purley : some ftmdamental principles we
have already marked for inquiry ; and on the point before us, we
have to observe on that curious way of thinking, which leads him, because
a word was once a verb or a noun. fore another to join
it to the sentence that goes before. 12. But in thus
qualifying sentence by sen- tence, it may sometimes be necessary to
use three verbs, one of them being merely the sin- gle verb that
joins the two sentences together ; as, " I was at the party, and (i.
e. add, or join this further communication) I was much de-
lighted." Sometimes a noun will be used in this way ; as, " I
esteemed him, because (i. e. this the cause) I knew his worth." Any
par- ticular form of verb or noun used frequently in this manner to
join sentence to sentence, will cease at last to be considered any
thing more than a conjunction *. IS. As to the article, we
have only to sup- to esteem it always so ; on the same principle, no
doubt, that, because the word truth comes from he trou-eth or
thinkelh, a.aA a man's thoughts are always changing, he denies that there
is any such thing as eternal, im- mutable truth. * Again the
reader is referred to the Diversions of Purley, for a confirniation of
this account of the birth of conjuncticms. pose
some adjective used in a particular limit- ing sense so frequently, that
we at last regard it as nothing more than a common prefix to
substantives : — as to a participle^ it is confess- edly, when in actual
use, either a part of the verb, or a substantive, or an adjective : —
and as to an interjection^ this we have supposed to be the parent
word of the whole progeny ; and if it is sometimes used among the parts
of an artificial sentence, it is only as a vibration of the general
tone of feeling that belongs to the whole. 14. In this
manner, or in a manner like this in principle and procedure, would
lan- guage grow out of those powers bestowed on man by his Creator,
even though it had not been directly communicated from heaven :-—
in this manner is the progress from natural cries to artificial signs
contemplated and pro- vided for by the constitution of the human
mind; — in this manner would the parts of speech be developed j and men
placed in so- ciety, and endowed with powers for observation, reflexion,
comparison, judgment, would, in time, become fiepoire^f or dividers of a
na- tural word into significant parts, with the same kind of
certainty that they become bipeds or walkers on two legs* ; being bom
neither one nor the other. * And according to Monboddo, with
the same certainty that they lose their tails; for when they were
mutu/m, et turpe pecus^ he appears to think they might have been so
appendaged ; nay, he knew a Scotchman that had a tail, though he always
took care to hide it : (his lordship was surely in luck^s way to
find it out.) After all, it would be difficult to prove, notwithstanding
the authorities Monboddo quotes, that herds of men were ever found
destitute of language. Leaving, therefore, the origin of the first
language, and the subsequent confiision or division of it precisely
as those two &ct8 stand in Genesis, all we mean to assert in the text
is this, — that if a number of children having their natural faculties
perfect, were suffered to grow up together without hearing a language
spoken, they would invent a language for themselves : though, for a
long time, it might remain nothing better than that of the Hurons
described by Monboddo, (Origin and Progress of Lang. VoL I. Book 3. Chap.
9.) in which the parts of speech are scarcely evolved, from the
original elements, but what in a formed language But the
object of the foregoing at- tempt, was not so much to trace the
origin is expressed by several words, is expressed by a
sign not divisible into significant parts. Thus, he says, there is
no word which signifies simply to cut, but many that denote cuttingjish^
cutting wood^ cutting chaths, cutting the heady the arm^ &c. And so
of the language throughout. More than one generation would be re-
quired, and very favourable stimulating circumstances, to bring such a
chaos of a language into form ; but that the human mind has within itself
the powers for accomplishing it sooner or later, we see no cause to
doubt — These words, and the whole of the hypothesis in the text above,
were written before the third Volume of Dugald Stewart's Philosophy of
the Human Mind had been seen. From that part which treats on Lan-
guage we quote the following passages : ^^ That the human faculties
are competent to the formation of language, I hold to be certain.* Language
in its rudest state would consist partly of natural, partly of artificial
signs ; substantives being denoted by the latter, verbs by the
former.*" These are among the many passages which
coincide with the views opened in the previous hypothesis. It is to
be added, that D. Stewart considers the imperative mood to be the first
form in which the artificial verb would be displayed. and
first progress of language, as to get at the real ground of diflference
among the se- veral parts of speech. On this subject, there
prevails a universal misconception. Prom the definitions and general
reasoning in Gram- mar ; — from the theories laid down in Logic ; —
and the basis on which the rules and prac- tice of Rhetoric are presumed
to stand, this principle seems to be taken for granted, that the
parts of speech have their origin in the mind independently of the
outward signs, when, in truth, they are uothing more than parts in
the structure of language ; contrivances adopted at first on the
spur of theoccasion, the shifts and expedients to which a person is
driven, ■when not being able to lay bare his mind at once according
to his consciousness, he tries, by putting such signs together as were
used for former occasions and therefore known as regards them, to
form an expression, which, as a whole, will he a new one, and meet the
pur- pose in hand. True indeed it is, that these very contrivances
become, in their more refined use, the great instruments of hmnan rea-
son by which all improvement, all extensive knowledge, is obtained; but
we are not to confound the instrument with the intelli- gence that
uses it/ nor to suppose that the parts of which it is composed, have, of
ne- cessity, any parts corresponding with them in the thought
itself. It is not what a word signi- fies that determines it to be this
or that part of speech, but how it assists other words in ma- king
up the sentence. If it is commissioned to unite the whole by the
reference immediate or mediate which all the other words are to
bear to it, and to signify that they are a sen- tence, that is, the sign
of a purposed commu- nication, then it is the verb : — if it has not
this power, (namely, of uniting the other words into a sentence,) and yet
is capable, in all other respects, of standing as an independent
sign, (this sign not being the sign of a purposed communication)
then it is a substantive .-—if it is the implied adjunct of a
substantive, it is an adjective or an article^ — if of a verb^ an adverb
: — if we know it to be a word, which, in a sentence, is fitted to
precede a substantive, (or words taken substantively) in order to
con- nect such substantive with -what goes before, then it is a
preposition : — and if it goes before, or mingles in a sentence, in order
to connect it with another sentence, then it is a conjunc- tion.
These are the only real differences of the parts of speech : — as to the
meaning, that does not of necessity differ because a word is a
different part of speech ; — the following words, for instance, all
express the same notion : Add Addition
Additional Additionally With*
Andt * The imperative of the Saxon verb Jpi^an to join.
-|- The imperative of the Saxon verb ananab to add. The place
and ofHce of these six words in a sentence would of course differ, and
the sentences in which they were respectively used would require a various
arrange- Our definitions reach the real differences among these
words, and they will be found adequate to all differences, when, by the
ob^ servation hereafter to be made, we are quali- fied to make due
allowance for the licences assumed by the practical grammarian *•
In ment to meet the same purpose, but as to the meaning of
the words, it would be the same in whatever sentence : e. g.
Add something to our bounty. Make an addition to our
bounty. Give an additional something to our bounty.
Give additionally to our bounty. Increase o ur bounty
with the gift of something. Consider our bounty and give
likewise. * To suit our definitions to an elementary grammar, they
must be quaUfied and circumstanced: — a verb, for instance, must be shewn
to be a word that is by itself a sentence, as esurio ; or which signifies
a sentence, as I am hungry ; or which is fitted to sig- nify a
sentence, as am, lovest. A verb in the infinitive mood, is a verb named
but not used ; a8 to be, to love ; or if used in a sentence, it is not
the verb. A noun- substantive is a name capable of standing
independently, but it cannot enter into a sentence except by being
connected directly or indirectly with a verb. The in- flexion of a
noun-substantive, as Mard, Mark'' 8^ is the mean time, in order to
throw as much light as possible on the nature of the con- nexion
between thought and language, let us look back a little on foregoing
statements, and partially anticipate those which are to be opened
more at full under the heads of Logic and Rhetoric. called a
substantive, bnt in so calling it, we must say a Bubstantive in the
genitive, or other case. A noun- adjective is a name not fitted to stand
independently, but to be joined to a noun-substantive, and so to
form with it one compound name. An adverb is a word not fitted to
stand independently, but to be joined to a verb, and to form with it one
compound verb, A preposition ig a word governing as its object a
substantive or pro- noun in the manner of a verb, but not an obvious
part of a verb, nor capable, like a verb, of signifying a sentence.
The article, pronoun, participle, conjunc- tion, and interjection, may be
defined as usual. We would suggest moreoverthat in an elementary grammar,
no definition, and no part of a definition, should be brought forward,
till absolutely required by the examples that are immediately to follow
it. In teaching a child, it is the greatest absurdity in the world
to set out with general principles, when the business is, to reach those
principles by the eiiamina- tion of particulars. It may be that the
organs of sensation are not all fully developed in a new-born in-
fant ; but if, for the sake of our argument, we allow that they are so,
this is as much as to say, that our earliest sensations from the
ob- jects of the material world, are the same that they are
afterwards. But there must be this most important difference, — that the
early sensations are -wilkoui knowledge, and the lat- ter, with it.
I know that the object which now affects my sense of vision, is a being
like my- self, — I know him to be one of a great many similar
beings ; — I know him to be older or younger than many of them, — to be
taller or shorter; — I know pretty nearly the distance he is from
me ; — 1 know that the particular circumstances under which he is now
seen, are not essential to him, but that he may be seen under other
circumstances : — I know that what now affects my sense of hearing, is
the cry or bark of a dog j — I know, although my eyes are shut,
that there are roses near me, or something obtained from roses j — I
knoie u
that sometliing hard has been put into my mouth ; — and now
I know it to be part of an apple. All the sensations by which the
various knowledge here spoken of is brought before the mind, the new-born
infant may possibly be capable of; but as to the know- ledge, there
is no reason to believe he lias the least portion of it. For the
knowledge is gained by experience, requiring and com- prising many
individual acts of observation, comparison, and judgment j all which
we suppose yet to take place in the new-born infant. Now, in
looking back to what has been said on the acquirement of language, we
find the effect of our progressing knowledge to be this, that every sign
arising out of a par- ticular occasion, will lose that particular
re- ference in proportion as we find it can be used on other
occasions j and so all words will, at last, in their individual capacity,
become ab- stract or general. This is as true of such words as
yellow, white, heat, cold, soft, hard, . bitter, sweet, and the like
signs of what Locke calls simple ideas as of any other * : for
we can evidently use these words on an infinity of different
occasions j and the power of so using them is an effect and a proof of
our knowing that the different occasions on which we use the same
word, have a something in common, or in some way resemble. But
while all words thus acquire an abstract or general meanipg, every
communication which we purpose to make by their means, must, in
comparison with their separate signification, be particular ; and our
putting them together in order to form a sign for the more particular
thought, will be to deprive them of the abstract or general meaning which
they had indi- vidually. If this is the real nature of the process,
we are completely mistaken if we suppose that every word in a sentence
sig- nifies a part of the whole thought, and that the progression
of the words is in corre- spondence with a progression of ideas
which the mind first puts togetlier within, and then * Vide Locke,
Book II. Chap. 1. Sect. 3. signifies without What deceives us into
this impression, is, that on considering each word separately, each
is found to have .1 meaning. Let us try, however, whether the joining
of words into a sentence, does not take from them the meaning they
have separately. Put to- gether the three words " My head
aches," and we have an expression, namely the whole sentence,
which signifies what, from a want of clearness in our remarks, may
possibly be the reader's present particular sensation: hut my,
separately, signifies the general knowledge I have attained of what
belongs to ine as dis- tinguished from what belongs to another j a
knowledge which is not at all necessary (that is, the ^'•CTJcra/
knowledge) to the sensation it- self, nor even to the expression ofit, if
we could find any single sign in lieu of the three which we have
put together. Accordingly, the word my, as soon as it is joined to the
other words, drops that meaning which it had separately, and
receives a particular limitation from the word head, which word head is
likewise limited by the word rrof ; and the more particular meaning which
both these receive by each other, is limited to the particular oc-
casion by the word aches. Yet, it may perhaps be thought, that in this,
and in every other sentence, each word, as the mind suggests it to
the lips, is accompanied by the knowledge of its separate meaning, and
that, in this manner, if we use the word idea in the un- restricted
sense familiar to the readers of Locke, each word may be said to
represent an idea. Without entirely denying the justice of this
view of the matter, we offer in its place the following statement :
17. In forming a sentence for its proper occasion, the knowledge of
which each sepa- rate word is fitted to be the sign, may, or may
not be in the mind of the speaker: it may be entirely there, or only in
part, or not at all there ; that is to say, the speaker may not
know the separate meaning of a word, but only the meaning it is to have
in union with the other words. And even if the speaker does know the
full separate meaning of each word, yet he is not under the neces-
sity of thinking of that separate meaning every time he uses it : nor
does he, in fact, think of the separate meaning of words while, in
putting them together, his purpose is to ex. press what has been often
expressed before, but only (and even then but partially and occa*
tonally) when he uses words to work out some conclusion not yet
established in his own mind, or when a train of argument is required
to convince or persuade other minds. This statement will of course
require some con- siderations in proof. 18. And first, as to
the knowledge of which each separate word is fitted to the sign, it
is to be observed that our knowledge grows with the use of words, and
therefore our firet use of them is unaccompanied by that know-
ledge which we gain by subsequent use. This is true, whether we invent
words, or adopt those already invented. In the rude beginning of
language, the first use of a word for head, would be a use of it for a
particular occasion, and the word would be particular or proper. If
the speaker used it with reference to himself, it would signify what we
now sig- nify fay the two words my head ". By observ- ation
and comparison, he would find he could extend the meaning of the word,
and apply it with reference to his neighbours as well as himself,
and it would then no longer be proper but common ; that is to say, it
would signify a human head, and not mj/ head. Extending his
observations still more widely, he would ap- ply it with reference to
every other living crea- ture, and it would accordingly then signify a
/(u- ing creature's head. Looking and comparing still further, he
would apply it with referenceto every object, in which he discovered a
part having the same relation to the whole as the head of a living
creature has to its remaining parts ; and the word would then, and not
till then, have its present meaning ; that is to "
Compare the characteristics of the Huron lan- guage referred to in the
note appended to Sect. 14. say, in a separate unlimited state it
would signify neither my head, nor a human head, nor a living
creature's head, but the top, chief part, beginning, supremacy of
any thing whatever. Nor is the process essentially different in
acquiring the use of words already invented. A child does not at first
put words together, but, if his head aches, he will say perhaps
"head! head!" using the single word in place of a sentence. At
length he will say mi/ head, and brother's liead, and horse's head,
and cradle's head. Still there are other applications of the word to
be learned by use ; and it surely will not be contended that any
one knows the meaning of a word beyond the cases to which he can
apply it. The knowledge which a separate word is fitted to signify, may
then be wholly or may be partly in the mind of him who uses it in a
sentence ; and it is very possible not to be there at all. A foreigner,
for in- stance, who had beard the phrase the head of the army
applied to the general-in-chief, would know the meaning of the phrase,
but might be quite ignorant of the meaning of the separate words,
or even that it was com- posed of separable words : and probably
most people can look back to a time in early life, when they were in
the habit of using many a phrase with a just application as a
whole, without being aware that it was reducible into parts in any
other way than as a poly- syllabic word is reducible. ig. But
even when the speaker, in form- ing a sentence, has previous possession
of all the knowledge of which each word is sepa- rately fitted to
be the sign, yet he does not in general think of their separate meaning
while he is putting them together, but only of the meaning he
intends to express by the whole sentence. For through the frequent use
of phrases and sentences whose forms are hence become familiar,
there is scarcely any senti- ment, feehng, or thought, that suddenly
arises in the mind, that does not as suddenly sug- gest an
appropriate form of expression. This [chap. is
manifestly the case with such sentences as arc in constant use for common
occasions : these the speaker cannot be said to make, they occur
ready-made, and he pronounces the words that compose them with as
little thought of their separate meaning as if he had never known
them separate. Even when sentences ready-made do not occur, yet the
forms of sentences will occur, and the speaker will, in general, do
nothing more than insert new words here and there till the sentence
suits his purpose. Thus he who had said " My head aches," will
recollect the form of sentence when his shoulder aches, and in
using the sentence, will only displace head for shoulder: or if his head
" is giddy," he will only displace aches for the two
words quoted, in order to say what he feels. 20. When indeed
we use language for higher occasions than the most ordinary in-
tercourse of life ; when by its means we pro- secute our inquiries after
truth, or use it dis- cursively as an instrument of persuasion,
then the operation itself is carried on by dwell- ing on and
enforcing the abstract mean- ing of some of the words and some of
the phrases whUe in their progress towards form- ing sentences, as
of the sentences while in their progress toward forming the whole
ora- tion or book. But in such cases, language may more properly be
said to help others to come at our thoughts , than to represent
our thoughts : although it is likewise true, that we could not
ourselves have come at them but by similar means. Independently of
the words, therefore, the thoughts would have had no existence j
neither should we have proposed the inquiry after the truths we
seek, nor have imagined any thing in other minds, by addressing
which they could be influenced. Still, however, in these higher uses of
lan- guage, (uses which are to be dwelt on more at full in the
chapters on Logic and Rhe- toric,) there is the same difference
between words separately, and the meaning they re- ceive by mutual
qualification and restriction ; «* that is to
say, in these higher uses of lan- guage, 83 well as in those already
remarked upon, the parts that make up the whole ex- pression, are
parts of the expression in the same manner as syllables are parts of a
word, but are 7tol parts of the one whole meaning in any other way
than as the instrumental means for reaching and for communicating
that meaning. And suppose the communication cannot be made but by more
signs than use will allow to a sentence, — suppose many sen- tences
are required — many sections, chapters, books, — we affirm that, as the
communica- tion is not made till all the words, sentences,
sections, &c. are enounced, no part is to be considered as having its
meaning separately, but each word is to its sentence what each
syllable is to its word ; each sentence to its section, what each word is
to its sentence ; each section to its chapter what each sen- tence
is to its section, &c. Thus does our theory apply to all the larger
portions of dis- course, and to the discourse itself,
Aristotle's definition of a word, namely, ** a sound sig. niiicant.
of which no part is by itself signi^ ficant ;" * for if our theory-
is true, the words of a sentence, understood in their separate
^rapacity, do not constitute the meaning of the whole sentence, (i. e.
are not parts of its whole meaning,) and therefore, as parts of
that sentence, they are not by themselves significant ; neither do the
sentences of the discourse, understood abstractedly, constitute the
meaning of the whole discourse, and therefore, as parts of that
discourse, they are not by themselves significant : they are sig-
nificant only as the instrumental means for getting at the meaning of the
whole sentepce or the whole discourse. Till that sentence m oration
is completed, the Word t is unsaid which represents the speaker's
thought- If ♦ 4^6jvii (ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP
abrh arif/iotv-i rikiv. De Poetic c. 20. f In this wide
sense of the expression is the Bible called the Word of God. We shall
distinguish the term by capitals, as often as we have occasion to use
it with simitat comprehensiveness erf meaning.
it be asserted that the parallel does not hold good with regard to such
words as Aristotle has in view, because, of words ordinarily so
called, the parts, namely the syllables, are not significant at all,
while words and sentences which are parts of larger portions of
dis- course, are admitted to be abstractedly sig- nificant, however
it may be that their abstract meaning is distinct from the meaning they
re- ceive by mutual limitation, — we deny the fact which is thus
advanced to disprove the parallel : we affirm that syllables are
signifi- cant which are common to many words ; for instance, common
prefixes, as wn, mis, corif dis, bi, tri, &c.; and common
terminations, as nesSjJul, hood, tion, fy, &c. j and so would
every syllable be separately significant, if it occurred frequently in
different combinations, and we could abstract out of such combina-
tions the least shade of something common in their application : nor is
it peculiar to syllables to be without signification individually;
the same thing happens to words when they are always combined in one
and the same way in sentences *. Conceiving, then, that we are
fully warranted in the foregoing statement, we affirm it to be the true
basis of Grammar, Lo- gic, and Rhetoric. Leaving the latter two
subjects for their respective chapters, we pro- ceed, in this chapter,
with such further proofs as may be necessary to confirm our
position as far as Grammar is concerned. 21. We have imagined
the gradual de- velopment of all the parts of speech recog- nized
by grammarians ; but no reference has yet been made to the inflexions
which some of them undergo; nor to the diflference of meaning they
receive in consequence of such inflexion ; nor to interchanges of duty
among the several parts of speech ; nor to pecu- liarities of use,
which so oflen take from them their characteristic differences; nor to
va- " What separate meaning, for instance, is there,
now, in the words which compose such phrases as, by- and'bij, goodJi'ye,
ftatc-du-you-do, 8cc. I ON GEAMMAB. t^CHAP. I. riety
of phrase in expressing the same mean- ing j nor to the power which we
frequently exercise of making the same communication by one or by
several sentences ; nor, in short, to the multitude of refinements
which grow out of an improving use of language, many of which seem
to confound and destroy the definitions we obtain from the first
and simplest forms of speech. All these seeming irregularities
will, however, find a ready key in the general principles we have
ascertained. For our general principles are these : i. That two or
more words joined together in order to receive, by means of each other, a
more particular meaning, are, with respect to that meaning,
inseparable j since, if separated, they severally express a general
meaning not included in the more particular one. Hence it follows,
that words may as easdy receive a more particular meaning by some change
of form, as by having other words added to them : nay, it seems
more natural, when the principle is considered, to give them a
more particular meaninjj by a change of form than fay any other way.
— ii. That a word is tliis or that part of speech only from the. office
it fulfils in making up a sentence. From this principle it follows,
that a word is liable to lose its characteristic difference as often as
it changes the nature of its relation to other words in a sentence
; and it also follows, that every now and then a word may be used
ia L8ome capacity wliich makes it difficult to be assigned to
any of the received classes of words. — iii. That since the parts of
which a sentence is composed denote general know- ledge, distinct
from the more particular mean- ing of the whole sentence, it may be
possible i to work our way to a particular conclusion, either in
reasoning for ourselves or in per- j auading others, by putting such
words to- gether as form a sentence, that, as a whole, expresses
the particular conclusion; but that when, from the length of the process,
this cannot be accomplished in a single sentence, we shall be obliged
to work our way by many sentences, whicli will bear the same relation to
the conclusion implied by them as a whole, as the parts of each sentence
bear to what the sentence expresses. From this principle it
follows, that using many or fewer sentences to arrive at the same result,
will frequently be optional. The examination of these se- veral
consequences a Httle more in detail with reference to the principles from
which, i they flow, will complete the chapter. It is well known,
that the inflexions which nouns, verba, and kindred words are
liable to in many languages, are comparatively unknown in English, the
end being for the most part attained by additions in the shape of
distinct words. Thusthe particular re- lation of the word Marcus to the
other words in the sentence, which in Latin is made known by
altering the word into Marco, is signified in English by the word io ;
and to MarcuSy esteeming the two words as one ex- pression, is the
same as Marco. So likewise the word amo, which in English signifies
/ Gl l&ve, is adapted to a
different meaning by being changed into amabit, which in English is
to be signified by he mil love, the three words, taken as a whole, being
the same as the single Latin word. Shall we call to Mar- cus the
dative case of Afarcus, and he will , love, the third person singular of
the future tense of / love, as Marco and amabit are re- spectively
called with reference to Marcus and amo? or shall we parse (resolve
into grammatical parts) those English sentences, and so deny, in
our language, a dative case and ' a future tense ? It is evident that
this is a question which only the elementary grammar- writer is
concerned with : he may suit his own convenience, and contend the point
as he -I pleases. Thus much is certain, and is quite sufficient for
our purpose, — that to Marcus , cannot be considered a dative case, nor
he wiU ] love a future tense, on any other principle than the one
it is stated to flow from, namely; that marked i. in Sect. 21.
23. To the practical grammarian we may likewise frequently allow,
for the sake of con- venience, the continuing a word under its
usual denomination, when its office, and con- sequently its character,
are essentially changed. He will love, taking the three words as one
expression, are a verb both on the principles we have ascertained, and in
the practice of the elementary grammarian : but in parsing tliis
verb — this p^iio, dictum, communication, 01 sentence, — only one of the
three words can properly retain the denomination of verb, viz. that
word to which the others have a re- ference, by which they hang together,
and are signified to be a sentence, namely, ■will. As to the word
love, which the practical grammarian will tell us is a verb in the
infi- nitive mood, it does not in fact fulfil the office of a verb,
but of a substantive. But if, by calling it a verb in the infinitive
mood, its character for practical purposes is con- veniently
marked, we may fairly leave the matter as it stands. All we insist upon
is, that the doubtful character of the word is a
consequence of the principle marked ii. in Sect 21."
I • Strictly, there is no verb but when a c cation ib actually
made ; and that word is then the verb, which expreaseB the communicatioti,
or which, when several words are necessary, ie the sign of union
among the whole of them. A verb not actually in use is acaptain out of
commission, and if we still call it a verb, it is by courtesy. Home Tooke
never an- swered his own question, " What is that peculiar
dif- ferential circumstance, which added to the definition of a
noun, constitutes a verb ?" (Diversions of Purley, Vol. II. p.
514),) because he bad previously blinded himself to the perception of
what it is, by laying down the principle already animadverted upon in a
note ap^ ponded to Sect. 3., namely, that the business of the mind,
as far as regards language, extends no fiirther than to receive
impressions: the consequence of which priuciple would be, (if it could
have any consequence at all,) that the first invented elements of speech
were nouns, or names for those impressions ; which accord- ingly
seems to be his notion, and that verba afterwards arose from nouns, by
assuming the difierential some^ thing that was found to be wanting. Our
doctrine is, that the original element of speech contained both the
artificial noun and the artiiicial verb ; that the mind exerted its
active powers in order to evolve the artir ficial parts ; that the act of
joining them together It might also perhaps admit of dis-
pute, whether substantives in what are called their oblique cases, do
not, by being the ad- juncts to other words, and taking a change of
form to signify their servitude, cease in fact to be substantives, and merit
no higher name than adjectives or adverbs. But here again we
consult convenience by using the descriptive title, a substantive in the
geni- tive, dative, accusative, or ablative case. We only need
insist, as philosophical inquirers, that the definition of a substantive
in Sect. 15., is not less correct, because it does not in- clude a
substantive in these oblique cases*. i^ain, made them a verb ; but
if the title was given to one more than to the other, it was given to
that which arose most immediately from the occasion, and took the
other to fis or determine it ; and that subsequently that word in a
sentence came to be coneidcred the verb, which joined the parts K^ether,
and signified them to be a sentence. * The only oblique case
in English substantives, is the genitive terminating in 'fi or having
only the apostrophe, the s being elided. Grammarians, in- deed,
have found it necessary to allow an accusative. The very doubt itself
which so often arises, whether a word is this or that part of
speech, — the varying classification of the parts of speech by different
grammarians, — are cir- cumstances entirely favourable to the
theory advanced, and adverse to any theory which attempts to
explain the parts of speech by a reference to the nature of our thoughts
in- dependently of language. For if the parts of speech had taken
their origin from this cause* because pronouns have it : for
if in the sentence Cas- s-iua loved him, we put the noun where
the pronoun stands, and say, Casmus loved Brutus, it seems con-
venient to consider the noun to be in the same case that the pronoun was
in. On the same principle, the substantives which, in the classical
languages, have no accusative distinct from the nominative, are
neverthe- less considered to have an accusative, because, lite
other substantives, they can be used objectively with regard to verbs
active and certain prepositions. On the score of convenienee this must be
allowed. But when words are taken separately, (and this, by the
very delinttion of the word, is the business of parsing,) it is evident
that only those substantives are, strictly speaking, in the accusative
case, which, when uaed as just staled, have a form to signify it.
surely we could never have been in doubt either as to vskat, or
koio many, they were. But our theory accounts at once for the in-
certitude on these, and many other points. We admit no original element
of speech but the VERB, or that one sign which denotes what the
speaker wishes to communicate. If no one sign can be found adequate
to the occa- sion, then we must make up a sign out of two or more.
Now the division of a verb into these parts of speech, is necessarily
attended by the consequence, that each part is insigni- ficant of a
communication by itself, and that they signify it only by being joined
together. Supposing a sentence never consisted but of two parts,
the mere act of joining them to- gether, would be sufficient to signify
that they were a sentence or verb. But the ne- cessity or usage of
speech being such, that the hearer knows a sentence may consist of
two or of many words, how is he to be warned that a sentence is formed,
unless to certain words is given the power of signifying a sentence,
while to other words this power is de- nied until associated with a word
of the for- mer class? Hence the distinction between noun and verb
; a distinction arising out of the necessities of speech, and not out of
the nature of our thoughts. The noun and the verb, then, are the
original parts of speech, the verb beingthepreviouselementof both.
But as each derives its office and character solely from an
understanding between the speaker and the hearer, a change of
understanding may make them change their offices, and so the verb
shall sometimes be a noun, and the noun a verb. These changes occur in
fact so frequently, as to require no example. Then, as we have
seen, a noun will frequently be used as the adjunct of another noun,
and so become an adjective j an adjective or other word may be
joined to a verb, and so become an adverb j and any of these, by frequent
use in particular combinations, may acquire, or seem to acquire, a
new and peculiar office, and so become articles, prepositions, and
conjunctions. But who can ascertain that de- gree of use, which, to the
satisfaction of every grammarian, shall fix them in their acquired
character • ? Nay, must not every such word, of necessity, while in transitu,
be at one period quite uncertain in its character ? In this man-
ner do the effects arising out of such a theory of the parts of speech as
we have supposed, agree with actual effects, and fully explain
them. 26. Again, on any other hypothesis than the one before us,
what are we to think of compounded nouns, adjectives, verbs,
adverbs, &c., of which all languages are full ? With- out
adverting to established compounds, such as (to take the first that
occur) husbandman. * What, for instance, shnll we call the
word fi/ce in such phrases as like him, like me? Originally theword
unto intervening between it and the pronoun, govern- ed the latter ; but
unio cannot now be aid to govern the pronoun, since it has been so long
disused, as to be no longer mtderstood. We miglit therefore say,
that like is a preposition governing the pronoun : — the point
perhaps is disputed ; — be it so : for this fact jugt serves our
argument. : m worJcmanlike,
waylay, browbeat, nevertheless ; without bringing words from the
ilUmitably compounded Greek language, — we may refer to such as are
not established, but compounded ibr the particular purpose ; as when
Locke speaksof '* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io be ad- mired
book," where the words in italic are an adjective; and when some old
lady pettishly says to her grandchild " Don't dear Grand'
mother me i" v/here the whole sentence, ex- cept the pronoun
governed in the accusative, is a verb. So in the phrases to fiAxov <rvvoia-eiv
7^ iroXei the being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie- Ci'/y,— and, TO
Tct Tou iroXefiov raj^ii xal Kara Kaipov Trpa.TTea$at, the
completing-spcedili/'and- seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are
war- ranted in considering the whole of the words following the
article, to be, in each instance, a noun-substantive. For these, and for
every other species of compound, the theory before US at once
accounts. For it shows that the use of many words to form one sentence,
arises out of the necessities of language only, the na-
tiira] impulse of the mind being tomake its com- munication
by a single expression. Having complied, then, with the necessities of
lan- guage, and rendered it capable of serving as the interpreter
of much more knowledge than we could have attained without its help ;
we then return on our steps, and give a unity to our expressions in
every possible way. 27. The corruption of early phrases, by
which, in so many instances, they come under the denomination of adverb,
will be found another obvious consequence of the present theory,
while they abundantly perplex the grammarian who attempts to reconcile
them to any other system. "Omnis pars orationis" says
Servius, "quando desinit esse quod est, migrat in adverbium."
" I think" says Home Tooke, " I can translate this
intelligibly — Every word, quando desinit esse quod est, when a
grammarian knows not what to make of it, migrat in adverbium, he calls an
ad- verb."* What indeed can be made of such '
Divctsioiia vi Puiky, Vol. I. expressions as at all, by and
by, to be sure, for ever, long ago, no, yes. They are adverbs, say
the grammarians. But (to take the phrases first) what are the words,
individually, of which the adverbs are composed? The answer will
be, they are prepositions, adjec- tives, &c., which remain from the
corruption of regular phrases once in use. This is a true , account
of the matter : — yet it leaves us still to ask, what ai'e these single
words, now that the phrases which produced them exist no longer in
their original state. Let any gram- marian, if he can, prove their right
to the name of any of the received parts of speech. Our system, if
it does not make a provision tor them by a name for a new class of
words, at least shows the cause and the nature of their difference.
For according to our principles, words have both a separate and a, joint
signifi- cation. But if words should be constantly
another place, he says " that this class of words, (ad- verb,)
is the common sink and repository of all hetero- geneous, unknown corruptions."
occurring in particular combination, this ef- fect will enaue, —
that their separate significa- tion in such hackneyed phrase, will at
last be quite unattended to, and their joint significa- tion alone
regarded ; — and such phrases will then be as liable to be clipped in the
currency of speech, as any long word which is trouble- some to be
uttered at full : — thus will the re- maining parts of the phrase be
fixed for ever in their joint, and lose for ever their separate
signification*. So much for the words com- posing adverbial phrases. But
what are we to say for no, yes, which probably had the same origin
as the phrases ? These have not, Hke the phrases, a compound form, nor
do they, like the phrases, always assist in making up a sentence,
but are frequently and proper- ly pointed oft' by the full stop. Are we,
un- der such circumstances, to call them adverbs P •• Yes."
This is the answer our grammarians make. But is there, in these words,
any • Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs
onilcr this doicnption. thing which gives them a just claim to
be ranked with any of the received classes of words? "
No." This is an assertion it would be difficult to gainsay. For consider
them well, and we shall find, that, in their present use, they are
not j3ar/s of speech at all, except with reference to the larger portions
of dis- course of which all the sentences are parts : they are
sentences ; and they afford a striking example of what was intimated in
the prece- ding section, namely the tendency oflanguage, in a
mature state, to return on its early steps as far as can be done without
losing the ad- vantages gained : for not only do we, when- ever we
can, bring the smaller parts of speech into such union as to form larger
parts, but in some instances, (as in these last,) we come round
again to the simpHcity of natural signs. 28. This union of the smaller
into larger parts of speech, and the power we have to dis- pose the
same materials into more or fewer sentences, will furnish further proofs,
that the present theory of language can alone be the true one. A
proper examination of compound sentences will show, that the
grammatical parts into which they are first resolvable, are not the
single words, but the clauses which are formed by those words ; which
clauses are substantives, and verbs, and adjectives, and adverbs,
with respect to the whole sentence, however they may, in their turn, be
resolva- ble into subordinate parts of speech bearing the same or
other names. To take the fol- lowing as an example : " The sun which
set this evening in the west, will rise tomorrow morning in the
east." The two parts into which this sentence is resolvable, are, to
all intents and purposes, a noun-substantive and a verb, if
considered with respect to the whole sentence*. This is the first, or
broadest ana- * And HO may the two parts (technically called
the protasis and apodosis) of every periodic sentence be considered
: for every period, (TEfi'ofos, a circle,) is re- solvable into two chief
parts, the one assimilated to the semicircle tending out, the other to
the rendering- in, or completing semicircle. These answering parts
ate commonly indicated in Greek by iJth — ft; in En- ]lysis. Then taking
the former of these two chief constructive parts, we shall find it
re- solvable into these two subordinate parts, viz. the sun, a noun
substantive, and w?iick set this evening in the west, its adjunct or
adjective : — the latter chief constructive part being in the same
way resolvable into will rise, a verb, — and, tomorrow morning in the
east, its ad- junct or adverb. Returning to the adjective of the
former chief constructive part, we shall gUsh very frequently by as
— so; though — yet, &c. There may exist a doubt in most sentences so
construct- ed, whether the one part has a claim to be considered
tlie verb more than the other : each part is meant to be insignificant by
itself, and, {as was lately supposed of the parts of speech in their early
institution, before a sentence was composed of more than two words,)
they Bifrnify a communication by the very act of being join- ed
together. Yet as the protasis is a clause in sus- pense, and so resembles
a substantive in the nomina- tive case before the verb is enounced ; — as
the apodo- 618 removes the suspense, and so resembles the verb in
its effect on tlie substantive ; — it seems that in con- Hidering the
protasis as a nominative case and the apo- dosis aa its verb, we shall
not be far from taking a , right view of the principle and
procedure. 7find it, if separately viewed, to be a
sentence having its nominative which, its verb set, and the latter
having its adverb tins evening in the ivest ; which adverb is resolvable
into two clauses of which the former consists of the de-
monstrative adjective this, and evening, a sub- stantive used objectively
with relation to the preposition on understood •• The latter clause
in the west is nearly similar in its grammatical parts ; but the
preposition it depends upon, is not understood. This subordinate or
adjec- tived sentence which we have thus taken to pieces, (viz.
which set this evening in the west,') is however no sentence when
considered with " Or more properly this eeening is an adverb ;
for a word cannot justly be called understood, when its ab- sence
is not suspected till the grammarian informg us of it : — on before euch
phrases when the custom to omit it had just begun, was indeed understood;
it is now understood no longer, and what remains of any such phrase
is an adverb. As the next clauses, in the tceat, retains its preposition,
we are at liberty to parse the clause, instead of considering it, in the
whole, as an adverb attcndijig the verb set, though we are also
ab liberty to consider it in the latter way. reference
to the larger sentence of which it is a grammatical part : but it might,
if the speaker had pleased, have been kept distinct, and the same
meaning have been conveyed by two simple sentences, as by the one
com- pound one : e. g. " The sun set this evening in the west
: — It will rise tomorrow morning in the east." Here, we have two
sentences or commuuications. But this is nothing more than a difference
in the manner of conveying the thought, precisely analogous to the
using of two words that restrict each other, in place of a single
appropriate sign. In the instance before us, the thought, whether
expressed by the one sentence or the two, is the same ; and it is
one and entire, whatever the expression may be. For we must not confound
the two facts referred to in the sentences, with what the mind
thinks of the facts : — it is the con- nexion of the facts that the
speaker seeks to make known. Yet he may imagine he can best make it
known by using the two sen- tences ; for though, it is true, that while
they are in progress, they will be understood se- parately, yet no
sooner will they be com. pleted, than the hearer will understand
them limited and determined the one by the other, and no longer
abstractedly as while they were in progress. In this manner, in
correspond- ence with the principle stated Sect. 21 . iii., will
the same result be obtained by the two, as by tlie one sentence. 29.
This power, which exists in all lan- guages, of expressing the same
thought in a variety of different ways, is, one would think, a
suiEcient proof, by itself; that thoughts and words have not the kind of
correspondence whicli is commonly imagined : for if such cor-
respondence had existed, the same thoughts would always have been
expressed, if not by the same words, yet by words of similar mean-
ing in the same order. Let us suppose that tlie expressing a thought by
several words,' I had been, (which it is not,) a process analo-
gous to that of expressing the combined sounds of a single word by
several letters. There is the more propriety in instituting tlie
compa- rison, because men were driven to the latter expedient by a
necessity similar to that which drove them to the former. For, no
doubt, the first idea of the inventors of writing was, to
appropriate a character for every word ; and we are told that, to this
day, a practice near to this prevails in China, But it was soon
found that the immense number of characters this would require, must make
the completion of the design next to impracticable ; and the
expedient was at length adopted of spelling words. By this expedient,
twenty four cha- racters, by their endless varieties of position
with each other, are capable of signifying the multitude of words, and
the innumerable sen- tences, which constitute speech. The parts of
speech were set on foot by a similar urgency, and in tlie same way. At
first, every sound was a sentence. But the communications which the
business of life required, far, far outnumbered every possible variety of
sound. It was fortunate, therefore, when a necessity
eo ON C arose to give to some of the
sounds a less par- ticular application ; for then the requisite
sign was formed out of two or more sounds already in use, and no
new sound was required. So far the parallel holds ; but it will go no
further. In the spelling of words by letters, the same letters must
always be used, — if not the same characters, yet characters of the same
power. And it would have been the same in spelling a thought by
words, if the process had been what it is commonly supposed to be :— that
is to say, the same thought would always have been expressed by the
same words, or if the words had been changed, the change must have
been word for word, as in a completely literal translation from one
lan- guage to another. How different this is from fact, hardly
needs further examples in proof. Mr. Harris attempts to shew *,
that • Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree in
Home Tooke's opinion of thia well-known work, that it is " an
improved compilation of almost all the enors which grammarians liave been
accumulating S tlic different forms or
modes of sentences, depend on the nature of our thoughts. That the
character of a thought has an influence in determming our preference of
this or that mode of speech, needs not be questioned; but all the
modes of speech, are interchangeable at pleasure, and therefore they
cannot aub- stantiallydepend on thenature of our thoughts. An
affirmative sentence, " 1 am going out of town," ma be
made imperative, " know, that I am going out of town ;" or interrogative,
*' Is it necessary to say, that I am going out of town ?" A negative
sentence, " No man is immortal," maybe made affirmative,
"Every man is mortal." It would waste time and patience
to multiply examples. The con- clusion, then, is, that the parts of
speech and from the time of Aristotle, to our present days."
Di- versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally, when
our etymologist runs a little bard on this Com- piler of errors, the
theory we advance, opposite as it ib in its general tenor to all that the
Hermes conttuns, will be found to lend its author a lift. See the
section ensuing in the text. the forms of sentences,
are alike attributable to the necessities and conveniences of lan-
guage, and not to the nature of our thoughts independently of language.
Perhaps by this time it may almost seem that an opinion con- trary
to this has no defined existence, and that the combat has been against a
shadow. But this is not true. If the opinion opposed to the
principles contended for, is seldom ^rwio% expressed, it is nevertheless
universally under- stood — it is at the bottom of all the systems
of grammar, of logic, and of rhetoric, which we study in our youth, and
which we after- wards make our children study ; and as it is an
opinion radically, essentially wrong, the pains employed to overthrow it,
cannot, if successful, have been supeiHuous. In no other way was a
preparation to be made for an outline of the higher departments of
Sema- tology. 30. New, however, as we believe our
theory to be, yet it is not without authorities in its favour ; and with
these we shall conclude the chapter. Harris, the author of"
Hermes," in treating of connectives, stumbles unawares on the
fact, that a word which is significant when alone, may he no significant
part of what is meant hy the expression it helps to form. He makes
nothing indeed of the fact, further than to lay himself open to the
ridicule of Home Tooke for tKe inconsistent assertions in which it
involves him. " Having" says Tooke *, "defined a word to
he a sound significant, he (viz. Harris) now defines a pre- position to
be a word devoid of signification ; and a few pages after, he says, '
prepositions commonly transfuse something of their own meaning into
the words with which they are compounded.' Now if I agree with
him," continues Tooke, " that words ai'e sounds
significant, how can I agree that there are sorts of words devoid of
signification ? And if I could suppose that prepositions are devoid
of signification, how could I afterwards allow, ' Diversions
of Purley, Vol. I. Cliap. 9. 9» that they
transfuse something of their own meaning?" Yet with all this, Harris
is right, only that he is not aware of the principle, which lies at
the bottom of his own doctriue. A preposition, as well as every other
word, is a sound significant j — it has an independent abstract
signification : but being joined into a sentence, it is devoid of that
signification it had when alone : it has then transfused its own
meaning into the word with which It is compounded, as that word has
transfused its meaning into the preposition — that is to say, they
have but one meaning between them. 31. But Dugaid Stewart, in his
Philoso- phical Essays, furnishes a direct, and a more satisfactory
authority in favour of the theory we have advanced. " In reading
" says he •, " the enunciation of a preposition, we are
apt to fancy, that for every word contained in it, there is an idea
presented to the understand- ing ; from the combination and comparison
of which ideas, results that act of the mind • Philosophical
Essays, Essay 5. Chap. I. called judgment. So different is
all this from fact, that our words, when examined sepa- rately, are
often as completely insignificant aa the letters of which they are
composed, de- riving their meaning solely from the connexion or
relation in which they stand to others." — Again : " When we
listen to a language which admits of such transpositions in the arrange-
ment of words as are familiar to us in Latin, the artificial structure of
the discourse suspends, in a great measure, our conjectures about
the sense, till, at the close of the period, the verb, in the very
instant of its utterance, unriddles the jenigma. Previous to this,
the former words and phrases resemble those detached and unmeaning
patches of different colours, which compose what op- ticians call
an anamorphosis ; while the effect of the verb, at the end, may be
compared to that of the mirror, by which the anamorphosis is
reformed, and which combines these appa- rently fortuitous materials,
into a beautiful portrait or landscape. In instances of this sort,
it will generally be found, upon an accurate examination, that the
intellectual act, as far as we are able to trace it, is altogether
simple, and incapable of analysis ; and that the elements into which we
flatter ourselves we have resolved it, are nothing more than the
grammatical elements of speech j — the logical doctrine about the com-
parison of ideas, bearing a much closer affinity to the task of a
school-boy in parsing his lesson, than to the researches of
philoso- phers able to form a just conception of the mystery to be
explained." — Had this acute philosopher brought these views of
language to the elucidation of Grammar, Logic, and Rhetoric, and so
have cleared them from the incrusted errors of immemorial
antiquity, the reader's patience would not have been tried by the
chapter now finished and those which are to follow. Say,
first, of God above, or man below. What can we reason, but from
what we know. POPE. 1. In commencing this branch of
Semato- logy, it may be as well to define not only this but the
other branches, that their presumed relation and difference may at once
appear : i. Grammar, then, is the right use of words with a
view to their several functions and inflexions in forming them into
sentences ; ii. Logic is the right use of words with a view
to the investigation of truth ; and iii. Rhetoric is the right use
of words with a view to inform, convince, or persuade *. *
This definition includes the poet^s use of words as well as that of every
other person, who, having one or more of the purposes mentioned in view,
speaks or fts 2, The
object of the present chapter will be, to show that there is no art of
Logic (except sucli as is an imposition on the un- derstanding but
that which arises out of the principles ascertained in the previous
chap- ter ; — that tliis, which is the Logic every man uses, agrees
with the definition in the previ- ous section; —and that we cannot carry
the definition further, without transgressing a clearly marked line
which will usefidly distin- guish between Logic and Rhetoric.
3. In affirming that there is no art of Lo- gic but that which
arises out of the use of signs, we do not mean that reason itself is
de- writes skilfully. Should it be said, that the poet's end is to
delight, — we answer that he gains this end by in- forming, convincing,
or persuading. The true dis- tinction between the poet and any other
speaker or wri- ter, lies iu the different nature of their thoughts,
In communicating his thoughts, the poet, like others who are
skilful in the use of words to inform, convince, or persuade, is a
rhetorician ; although, with reference to the creative genius displayed,
{iroix^n a jrcn'm,) and al- so with reference to the added ornament of
metre or rhyme, we chU the result, a poem.
pendent on language. Reason must exist pri- or to language, or
language could not be in- Vented or adopted. What we affirm is,
that prior to the use of words or equivalent signs, »o art exists :
the mind then perceives, as far fts its powers extend, intuitively; and
thus working without media, it can no morye ope- rate otherwise
than as at first, than the eye can see otherwise than nature enables it.
The mind can, however, invent the means to assist its operations,
as it has invented the telescope to assist the eye ; the difference being,
that the telescope is not such an instrument as all minds would
invent, but the use of signs to assist its operations, grows out of the
human mind by its very constitution, and the influ- ence of society
upon that constitution. 4. That writers on Logic do not in gene-
' ral view the matter in this light, is evident from this, that
they devote, or at least they persuade themselves and their readers
that they devote, a great pait of their considera- tion to the
operations of the mind indepeud- 9entlyof language, which,
for any practical end, must evidently be nugatory on the supposi-
tion stated above ; since, if the mind, without the aid of signs, can but
operate as nature en- ables it, all instruction concerning what the
mind does by itself*, will but be an attempt * WattB Bays t&at
" the design of Logic, b to teaeli us the right use of our
reason." Recurring to our comparisDU in the previous section,
this is as if any one had proposed to teach the right use of the eye.
It is true indeed, a man may be taught a right use of the eye, —
that is, he may be taught to observe proper ob- jects by its means ; and
so may he be taught a right use of reason by applying it to those things
which are conducive to his improvement and happiness. But all this
belongs to Morals not to Logic ; nor was this Watts's meaning. He
imagined a man could be tattght how to use his reason independently of
any considera- tion of an instrument to work with ; as if any one
had offered to teach mankind how to sec with their eyes. Now, there
is nothing preposterous in offering to show how a telescope is to be used
in order to assist the eye ; nor any thing preposterous in trying to
show how words may be used in a better manner than com- mon custom
instructs us, in order to assist the mind. — Be it observed that the
objection here made, is to what was proposed to be done by Watts, and
not to teach us that which every one does with- out teaching, and
which no teaching can make us do better : but if, by the use of
signs, the mind can carry its natural operations to things which it
could not reach without signs, the instruction of the logician should at
once begin by pointing out the use and the abuse of signs. Now this
is in fact the point at which every teacher of logic does begin,
how- ever he may disguise the real proceeding from himself, and
whatever confusion he may throw over his subject, by not knowing in what
way he is concerned with it. In pretending to teach us the nature
of ideas j logicians do no- thing but teach us what knowledge we
attain to what he actually does, except so far as he has done
it amiss from setting out badly. What follows in the text will explain
this last observation. Our illustration must not lead the reader to
think we are ignorant of the fact that men do learn to see, that
is, to correct, by experience and judgment, the im- pression of objects
on the retina. We take the matter as commonly understood, namely, that
men see correct- ly by nature, which is near enough to the truth for
our present purpose. by means of words-, and when Home
Tooke says of Locke's great work, that it is " merely a
grammatical Essay or Treatise on words," * be comes so near the
truth, that it is wonder- ful he should have so wrongly interpreted
other parts of that philosopher's doctrine. Putting a wrong construction
on Locke's just fundamental principle, that the mind has no innate
ideas, Tooke affirms that '* the busi- ness of the mind, as far as it
regards language, extends no further than to receive impres- sions,
that is, to have sensations or feelings. What are called its operations
are merely the operations of language." t This is palpably
absurd ; ftx how can language operate of it- • Diversions of
I'utley, Vol. I. page 31, note. -j- Diversions of Purley, Vol. I.
page 51. We have already quoted this passage ; and perhaps more
than ontc : but it is hoped we need not apologise for the re-
petitions whicli may be found in this and the next chapter. Our purpose
is to trace Grammar, Logic, and Rhetoric, to a common source, and in
doing so, if they really have an origin in common, we must
necesEarily traverse the same ground repeatedly to come at it
aelf? The mind must observe, compare, and
judge *, before it can invent or adopt the lan- guage of art ; and having
adopted it, every use of it is an exercise of the reasoning facul-
ty, excepting only that kind of instinctive use, in which some short
sentence takes the place of a natural ejaculation. Feelings or
sensa- tions we cannot help having ; but these do not help us to
language. This requires the ac- tive powers of the mind ; and every word,
in- dividually, will accordingly be found the sign of something we
kno-w, obtained, as every thing we know must be obtained, by
previous acts of comparison and judgment, involving, * These
powers of the mind are innate, — that is to e&y, they belong to tlie
mind by its constitution, al- though sensation is the appointed means for
first call- ing them forth. It should seem as if Tooke thought
nothing was bom with man except the power to receive senEStionB or
feelings, and that reason comes from Un- guage ; an opinion so
preposterous that we can hardly think him capable of it ; and yet, from
what he says, no other can be understood : — " Jleason,""
he says, " ia the result of the senses, and of experience."
Diver- sions of Purley, Vol. 11, p^e 16. J^
in every instance beyond that which sets the sign on foot, an
inference gained by the use of a medium. And such, as we have seen,
are the necessities of speech, that tliey lead us constantly to extend
the application of words ; which extension requires new acts of
comparison and judgment; and thus, by means of words, (or signs
equivalent to words,) we are constantly adding to our knowledge,
still carrying the signs with us, to mark and contain it, and to serve
afterwards as the media for reaching new conclusions. It is only
ne- cessary to read Locke's Essay with this ac- count of the matter
in view, to prove that it is the true account j so readily will all that
he has said on ideas, yield to this simple inter- pretation *, He
who first made use of words * " Read," saya Home
Tookc, " the Essay on the Underslnnding over with attention, and see
whether all that its immortal author has justly concluded, will not
hold equally true and clear, if we substitute the composition, &c. of
lerraa, wherever he has supposed a composition, Sec. of ideas. And if
that, upon strict examination, appear to you to be the case, you
will equivalent to yellow, white, heat, cold, soft, hard, bitter,
sweet*, used them, respectivelyy to signify the individual sensation he
was con- scious of, and in that first use, the expression must have
been a sentence, or tantamount to a sentence. By experience, he came to
know the exterior cause of that sensation, and after- wards, by the
same means, to know that other need no other argument against the
composition of ideas : it being exactly similar to that unanswerable
one which Mr. Locke himself declares to be sufficient against their
being innate. For the supposition is un- necessary : every purpose for
which the composition of ideas was imagined being more easily and
naturally answered by the composition of terms, whilst at the same
time it does likewise clear up many difficulties in which the supposed
composition of ideas necessarily in- volves us." Diversions of
Purley, Vol, I. page 38. In this, and other passages, H. Tooke is very
near the trutli ; but he nevertheless misses it. " The com-
position, Sic. of terms "' in lieu of " the composition,
&c. of ideas," does not describe the actual process. But
Tooke, who discovers that Locke has started at a wrong place, begins his
own theory from a false found-4 ation. • yide Locke, B. 2. ad
initium : we have used the examples before. Chap. I, Sect. 16.
ol^ects produced the same sensation. To these several
objects he would naturally apply the expression (originally tantamount to
a sen- tence) by which he first signified the sensa- tion ; and
suppose those objects already pro- vided with namesj the expression
would, in such pew application, be tantamount to a name or
noun-adjective. Thus in the several instances, he would use two names for
one thing, in correspondence with our present practice when we say,
yclhw flower, yellow sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce-
dure is an effect and a proof of what the speak- er has observed in
common, and of what he observes to be different, in the several ob-
jects; and this is a knowledge evidently ob- tained from comparison and
judgment exer- cised on many particulars. The same know- ledge
enables us, when we please, to drop the words which name the objects
accojding to their differences, and to retain only that which
signifies their similarity, and the name-adjec- tiv e then becomes a
name-substantive standing for the sensation itself whenever or how4 ever
produced, and not standing for it in amy particular case, until limited
to do so by the assistance of other words. Individually and
separately, then, these words^ viz. yellow; white, heat, cold, soft,
&c. are, to him who has properly used them in particulars, tiie
eigns of the knowledge he ha^ gained by com^ paring those particulars
:«^hey denote con- clusions arising out of a rational process which
has been carried on by their means ; which conclusion, as to the
word^elloWf for instaop^ is this, — ^that there are » great mwy Qbjepte
which produce the same sensation, or a sensar tion very nearly the same
j*— ^(very nearly the same, since yeU&w^ by all who have
acquired a full use of the word, is applied to different shades of
yellow j — ) and to understand the word, is to have arrived at, or kno^
this cof^- elusion. 5. The words so far referred to, are
those which denote what Locke calls simple ide^js. Now, we may
reasonably doubt wheth^ the mind could have obtained the knowledge,
which, as we have seen, is included even in a word of this kind, if it
had not been gifted with the power of inventing a sign to assist
itself in the operation. That sign needs not be a word, though words are
the signs com- monly used. He who remembers the sensa- tion of
colour produced by a crocus, is re- minded of the crocus the next time he
has the same sensation from a different thing ; and the crocus may
become the sign of that sensation arising from the new object, and
from every future one. And this is the way in which the mind probably
assists itself an- tecedently to the use of language, or where, (as
in the case of the totally deaf *,) the use of * Though long
for a quotation, yet we cannot re- sist transcribing, from a work by Dr.
Watson, master of the Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near London,
the following able remarks : — they will help to shew how for superior
are audible signs to every other kind, and place in its proper light the
misfor- tune of being naturally incapable of them. He is speaking
of the comparative importance of the two it, by the ordinary means of
attainment, is precluded. But for this power of the mind,
senBES, hearing and seeing. " Were the point," he says,
" to be determined by the value of the direct sensations transmitted
to the sensorium through each of them, merely as direct sensations, there
could not be any ground for a moment's hesitation in pro. ,
nouncing the almost infinite superiority of the ej/e to ] the ear. For
what is the sum of that which we derive I from the car as direct
sensation P It is sound ; and sound indeed admits of infinite variety ;
but strip it of j the value it derives Irom arbitrary associations, and
it is but a titillation of the organ of sense, painful or
pleasurable according as it is shrilly soft, rough, dis- cordant, or
harmonious, Sec. Should one, on tlic con- trary, attempt to set forth the
sum of the information we derive from the eye " — independently of
the aid derived from arbitrary means — " it is so immense, that
volumes could not contain a full description of it ; so precious, '
that no words short of those we apply to the mind itself, can adequately
express its value. Indeed, all lan- guages bear witness to this, by
figuratively adopting visible imagery to signify the highest operations
of in- tellect. Expunge such imagery from any language, and what
will be left ! What, in this case, must be- come of the most admired
productions of human ge- nius P Whence then (and the question is often
asked) 1 does it arise, that those bom blind have such su- h2
which seems pecuHai* to man, and is the cause of language, (not
the effect of it, as perlority of imelligence over those bom
deaf? Take, it miglit be said, ii boy nine or ten years of age who
has never seen the light, and you will find him con- versable, and ready
to give long narratives of past oc- currenceH, &c. Place by his side
a boy of the same age who baa had the misfortune to be bom deaf,
and observe the contrast. The latter is insensible to all you say :
he smiles, perhaps, and his countenance ie brightened by tlie beams of '
holy light;' he enjoys the face of nature; nay, reads with attention
your features ; and, by sympathy, reflects your smile or your
frown. But he remains mute : he gives no ac- count of past experience or
of future hopes. You at- tempt to draw something of this sort from him :
he tries to understand, and to make himself understood ; but he
cannot. He becomes embarrassed : you feci for him, and turn away from a
scene so trying, under an impression that, of these two children of
mi^ fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the blind, who
appears, by his language, to enter into all your feelings and
conceptions, while the unfortunate deaf mute can hardly be regarded as a
rational being ; yet he possesses all the advantages of vi- sual
information. All this is true. But the cause of this apparent superiority
of intelligence in the blind, is seldom properly understood. It is not
that those H. Tooke seems to tliiak,) we never should have
been able to arrange olyects in classes, who are blind possess a
greater, or anything like an equai stock of materiak for mental op^adons,
but bs- cause they possess an invaluable etigine for forward- ing
those operotioiis, however scanty the materials to operate upon —
artificial language. Language is de- fined to be the expression of
thought ; so it is : but it is, moreover, the medium of thinking. Its
value U> man is nearly equivalent to that of his reasoning fa-
culties: without it, he would hardly be rational. It is the want of
language, and not the want of hearing, (unless as being the cause of the
wont of language,) that occasions that deficiency of intelligence or
ine&. pansion of the reasoning faculty, so observable in the
naturally deaf and dumb. Give them but language, by which they may
designate, compare, classiiy, an4 consequently remember, excite, and
express their sen^ sations and ideas, — then they must surpass the
origin< ally and permanently blind in intellectual perspicuity
and correctness of comprehension, (as far as having kctual ideas afiixed
to words and phrases is concerned,) by as much as the sense of seeing,
furnishes matter for mental operations beyond the sense of hearing,
con- Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^
fluency of words, and quite another to have correct no- tions or precise
ideas annexed to them. But though the car furnishes us only with the
sensation of sound, and reason on them when so arranged ; nor
to consider some common quality in many ob- jects, separately from
the objects themselves. Every object might have produced the same
individual effect by the senses, which it now produces, and have been
recognized as the same object when it produced the effect
again ; for all this happens to other animals, as to man ; but to know a
something in each which is common to many, implies a remem- brance
of that something in the rest at the time of perceiving each individually
j and how can this remembrance, (a remembrance and sound,
merely as such, can stand no comparlEOD with the multiform, delightful,
and important informa- tion derived from visual imprestiioDS ; yet as
sound admits of such astonishing variety, (above all when
articulated,) and is associablc, at pleasure, in the mind with our other
sensations, and with our ideas," (notions,) " it becomes the
ready exponent or nomenclature of thought ; and in this view is important
indeed. It is on thie account, chiefly, that the want of hearing is
to be deplored as a melancholy chasm in the human frame.'"
Instruction of the Deaf and Dumb, not of the objects, but of a common
some- thing in all of them,) how can it be kept up, but by a sign
fitted to this duty ; which sign, as just observed, may be either a word,
or one of the objects set up to denote the com- mon characteristic,
and retained in mind Bolely for this purpose, in this
representative capacity ? 6. In proceeding from what are
called by Locke simple ideas to those he denominates [ complex, we
shall find the account just given equally applicable. The words he refers
to . under the threefold division of Modes, Sub- stances,
Relations, are, as our last examples, signs of certain conclusions
obtained from s comparison of particulars. This is true even \ of a
proper name ; for a proper name, as was ' shewn Chap. I. Sect. 3., does
not denote an individual as we actually perceive him, or as. J we
remember him at any one time ; but it J denotes a notion, that is, a
knowledge of him I drawn out of, or separated from all our par- '
I04f oNr Lo&ic. [cHap. ii. ticular perceptions *•
For such an effect of reason^ we have however nb certainty that the
superior powers of the huknan mind ar« indispensable; nor is it eiisy to
ascertaiq any peculiar privilege it enjoys till we find it rising
from individuals to classes. As soon as it sets up a sign to represent
some property, whether pure or mixed, which has been observed iA
many individuals,— or to re- * It id aft efifect of reaisoiiing to
know that a pa]>> ticular act or situation, which enters into our
percep- tion or conception of an object, is not essential — to
know, for instance, tliat the act of walkiAg is ftot es- iBentiAl to
John. The reasoning by which «uch k^w- ledge is acquired, occurs indeed
so early, that the operation is forgotten ; but there was a time when
our perceptions were without the knowledge, because they had not
been repeated i^ isu^ti^t hUtiibet to leHkbl^ the mind to make the
BCcessary ootaipluidcms^ Th^ natives of the South Sea Islands^ when
Cttptaia Cook <8nd his companions first made their appearance
among them, took every sailor and his garments to be one creature,
and did not arrive at a different condhision, but by o{>portuiiitte6
fdr comparicon. present the whole class of individuals,
so classed because of the common property, — ^it displays a power
of assisting itself which we have no cause to think any of the
inferior animals enjoy. To ahew how this takes place in producing
what Locke calls complex ideas, and which he subdivides into Modes,
Sub- stances, Relations, would only carry us onc^ more over the
ground we have so often cur- Lsorily traversed. We should have to
shew, for instance, how some word, at first equiva- lent to a sentence,
by which a man expressed his delight at a particular visible object,
came to be a name for the object ; how this name beauly, came to be
applied as a noun-adjec- tive to the nouns-subatantive of other
objects producing the same or a similar emotion j how, by the
continued application of this noun-adjective, we kept on comparing
innu? merable particulars, till our knowledge (no- tion) included a
very wide class of things very different indeed in other respects, —
nay^ including objects of other senses than sight— but still,
agreeing with each other in a certain effect produced on the mind : and
that then, dropping the nouns-substantive of the nu- merous
individuals, we retained solely in con- templation the noun beautiful or
beauty, the sign of the knowledge we had gained from this extensive
comparison— of the induction derived from these numerous particulars
*. • Very few persons reach so wide a knowledge of the
subject as we here refer to, and books may be, and have been written, to
teach us how to apply the word beautiful with taste, and critical — nay,
moral pro- priety. Having attained so far, we are not to suppose
that beautiful or beauty is a real existence independently of the
classification of objects we have thus established. All we have learned
is, to know the objects which pro- duce a certain elfect ; to know why
they produce it ; to enjoy, it is probable, the pleasure of that effect
with higher relish ; and to be prepared, by means of the
classiUcation we have formed, to lise, in our reasonings on the objects
it contains, to higher truths, and still more important conclusions. Now,
if the reader would see how a business so plain and simple, may
appear very complex and mysterious, let him consult Plato
on the beautiful or t'o xayjtv, as he will find it treated, for instance,
in the dialogue called STMHOSION : Let him admire as he will, (for who
can help it. We should again have to shew, (to take another
instance,) how a word once expres- sive of some sentiment or recognition
of which a horse was the subject, came to be used as a name for
that particular horse i that the name came afterwards to be given
to another resembling creature, — thence to another, — and to
others, till the points of re- semblance which led to this extension of
the word, could be found no longer *. We should especially in
company with Cicero, — witness his Errare tnekercule malo cum Plaione,
quam cum istia vere sentire?) let him admire the sublimity which
the amiable and highly-gifted Athenian throws over his doctrine ;
but let him not be betrayed into an opinion, that a speculation which is
in the most exalted etriun liipoeh'y, belongs to the sober, the
undazzled, and tin- dazzling views of philosophy. • Compare
Chap. I.Sect, 10. We may be per- mitted once more to observe, that, with
regard to sab- stances at least, the sign of the class needs not be
a word : one individual set up for all, will equally serve the
purpose. Not that the boundaries of a class are plain, till an accurate
logic determines them ; but the general differences (as of the horse, for
instance) are sufficiently obvious to prevent a person from
being likewise have toshew, (totake a third instance,) how
some word,-^originally equivalent, like the others, to a sentence, — by
which a man expressed his gratitude for kind offices, might come to
be a name for every one to whom gratitude for similar offices was due;
and how this ua.me,Jriend, applied at first only to
misled, who carries one individual in his mind ae the eign of all
he has seen, and all he calculates on seeing, and reasonB on this one,
with a conviction that the reasoning includes all the others. The idea of
an in- dividual thing which is thus set up as the represent- ative
of a class, may perhaps, without impropriety, be called a general idea ;
and if Locke had never used the expression but in subservience to such an
cxplana- uon, little or no exception could have been taken to it.
There is a passage (Essay on the Understanding, Book III., Chap. 3. Sect.
Jl.) which perfectly ac- cords with the doctrine in the text, and proves
that though Locke had misled himself by setting out with an opinion
that the operations of the human under- standing could be treated of
independently of words, he had more correct thoughts on the subject as
he proceeded. Another passage, giving a correct account of
abstraction with reference to language as the instru- ment, will be found
Book IL Chap. II- Sect. 9- one who stood in this ration to
the speaker, came at last, by observing and comparing other cases,
to be applied to all who stood in the same relation to any other person.
We should, in short, have to shew the same pro- cess with regard to
all the examples of modes, substances, and relations, which Locke's
Es- say supplies; but with these brief hints to guide him, the
reader may be left, in other instances, to trace the process for
himsdf. It will now be time, — still witii reference to the
principles ascertained in the last chapter, —to examine some other points
of doctrine in- sisted upon by writers on Logic. 7. The
operations of the mind necessary in Logic are said to be three, viz.
Percep- tion or Simple Apprehension ; Judgment ; and Reasoning.
Under the first of these di- visions, writers on Logic treat of ideas,
or the notions denoted by separate words, that is, words not joined
into sentences ; — under the second, they give us separate
sentences, technically called propositions j — ^and under the
third, they shew how two propositions may of necessity produce another,
so that the three shall express one act of reasoning. Now, that
perception, judgment, and reasoning, are all essential to Logic, needs
not be called in question ; but if the theory we have before us in
this treatise be true, the common doc- trine will appear, by the manner
in which it ex- emplifies these acts of the mind, to have com-
pletely confounded what really takes place, in the preparation for, and
in the exercise of this art. What, in the first place, is perception but
a sensation or sensations from exterior objects accompanied by a
judgment ? Our earliest sensations are unaccompanied by any judg-
ment upon them ; for we must have ma- terials to compare in order to
judge ; and these materials, in the earliest period of our
existence, are yet to be collected. At length, we can compare j and
because we can com- pare, we judge, and hence we come to know : —
" I know that the object which now affects my sense of vision is a
being like myself; I know him to be one of a
great many similar beings j I know him to be older or younger,
&c. ; I know that what now affects my sense of = hearing, is the cry
or bark of a dog" •, &c.j I could not know all this, if I had
had no means of judging ; and I can have no means of judging which
the senses do not originally furnish or give rise to. Perceptiouj
then, (which in every case is more than mere sen- sation,) always
includes an act of judgment ; and to treat of Perception and
Judgment under different divisions of Logic, must pre- vent the
proper understanding of both. In- stead, however, of the term Perception,
some writers t use that of Simple Apprehension. *' Simple
apprehension," says Dr. "Wliately, *' is the notion (or
conception) of any object in the mind, analogous to the perception
of the senses." t The examples appended to • See
Chap. I. Sect. 16. of- Viz. Professor Duncan and Dr. Whately. J
Elements of Logic by Dr. Whately, Chap. II. Part I. Sect. 1.
this definition, are, *'inan;" "horse;"
•'cards ;" " a man on horseback ;" " a pack of
cards." Now, if the notion or conception of tliese, 13 analogous to
the perception of them by the senses, — then, as the perception
includes an act of judgment, so Ukewise does the conception. But, in
truth, the no- tion corresponding to any of these expressions, is
very different from the perception of a man, a horse, a man on horseback,
&c. ; and the word or phrase in a detached state does not stand
for a perception or concep- tion inclusive only of an act of
judgment, but signifies an inference obtained by the use of a
medium, — in other words, a rational conclusion. For in all cases, what
gives the name and character of rational to a proceed- ing, is the
use of means to gain the end in view. When we perceive intuitively of
two men, that one is taller than the other, al- though the judgment
we form may be an e0ect of reason, yet we do not describe it as a
rational process ; but if the investigator, not being able to make a
direct comparison between them, introduces a medium, and by its
means infers that one is taller than the other, then we say the
conclusion has been obtained by a process of reason *. So, in
applying a common name to two individuals that are intuitively perceived
to resemble, we may be said to exert the judgment, and nothing more
; but if we apply it to a third, and a fourth, and a fifth, it is a proof
that we measure each by the common qualities ob- served in the
first two, and that we carry in the mind a sign of those common
qualities (whether the name, or one of the former in- dividuals)
for the purpose of carrying on the process. In this way, an abstract word
or phrase, let it signify what it will, provided it be but abstract,
is both the sign of some ra- • Reasnn is the capacity for
using mpdia of any kind, and it consequent capacity for language : —
the term reasoning has reference to tlie act of thinking, with the
aid of media in order to reach a couclu- tional conclusion
the mind has already come to, and the means of reaching other
conclu- sions : which statement is true even of a proper name. For
the name John, for in- stance, underetood abstractedly, does not
sig- nify John as we now perceive him, or as we have perceived him
at any one time ; but it signifies our knowledge of him separately
from any of those perceptions. But we could not know of him separately
from our percep- tions, unless we had the power of setting up some
sign (whether the name or aught else) of what was common to all those
perceptions, and comparing them all with that sign *. • It is
not meant that we could not know him every time we perceived him, but
that we could not know of him separately from our perceptiong, if we bad
not the power spoken of in the text. It might be curious to trace this
distinction in the case of a dog. A dog knowE his master every time he
perceives him : — when he does not perceive him, he is reminded of
his absence by some change in his sensations, — (smcU, for instance, as
well as sight, and perhaps some others ;) he therefore seeks him, and
irets if he cannot find him. But abstracted from all perception,
and It appears, then, from
what precedes, that words and phrases which writers on Logic give
as examples of Perception or Simple Apprehension distinct from
Judg- ment and from Reasoning, are no examples at all of the first
distinct i'rom the latter two ; and equally groundless will appear that
dis- tinction which refers a proposition to an act of judgment
separate from reasoning. Not that an act of reasoning takes place
whenever a proposition or sentence is uttered. For, as we have seen
in the previous chapter, (Sect. 19.) a speaker does not always think of
the separate meaning of the words when he utters a sentence ; and
if a sentence denotes, as a whole, some sensation or emotion not
de- pendent on reason, (for instance, " My head aches;"
•' My eyes are delighted,") the ut- tering of it as a whole, without
attending to the sqiarate words, will no moj'e express aa
from all notice by change of sensation, it will scarcely be
contended that a dog knows of his master, as a ra- tionsl being knows of
his absent friend. act of reasoning, or even of judgment,
than would a natural ejaculation arising out of the occasion, and
used in place of the sentence. But the following propositions, "
Plato was a philosopher;" "No man is innocent ;"
which are given in Watts's Logic as examples of the act of the mind
called Judgment, stand on a different footing ; and we affirm that,
being used Logically, they involve not an act of judgment merely,
but express a conclusion drawn from acts of reasoning. 9-
Previously to shewing what has just been asserted, let us distinguish a
grammati- cal, and an historical understanding of these sentences ;
for a mere grammatical under- standing of them must be, and an
historical may be, essentially different from the logical
understanding of them. A grammatical un- derstanding, for example, of the
sentence, Plato was a philosopher, is merely a recog- nition of its
correctness as a form of speech without considering whether it conveys
any meaning or not ; and it would be grammatically understood if any
words whatever were substituted for those that compose the sen-
tence, provided they had a proper syntactical agreement. An historical
understanding im- plies some concern with the meaning of the
sentence ; but this may be very different in kind and degree, as
depending on the know- ledge whicli the mind is previously
possessed of. If the hearer did not know what Plato waa previously
to the communication, but knew the meaning of the word philosopher, he
would, by the sentence, be informed what he was, If he previously knew,
from history, how Plato lived, thought, and acted, but did not know
the meaning of the term philosopher, the ad- ditional information
conveyed to him by the sentence, would be but little : he would be
in- formed. Indeed, that he was called a philoso- pher, but why or
wherefore, he could, for the present, only guess. Let us suppose,
however, that before he comes to calculate why Plato is called a
philosopher, he had heard the word plied to others : if he bad heard
Socrates m [chap. II.
called a philosopher, and Confucius a philosopher, he would, on hearing
Plato so called, compafe the individuals in order to ascertain some
common qualities in all, of which the word might be the sign, and getting
these, he would know or have a notion of the word philosopher ;
though the notion would pro- bably undergo many modifications as
otlier individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous- seau, Newton,
were successively subjected to the common sign : — for if the hearer
fixes his notion at once, many individuals will perhaps be excluded
from his class of philosophers, which other people include under that
term ; and perhaps he will include many, which the usage of the
term excludes. In this way, then, while our knowledge of what is
included in separate words or phrases is imperfect, we may
nevertheless have some understanding of the sentences we hear or read ;
and this his- torical understanding suggests the reasoning process
just described, by which we get a logical understanding of the separate
words. But now to make a logical use of tfaem in framing a
proposition. We suppose the preliminary steps, namely the knowledge
included in the separate words ; we suppose it to be known, from history,
how Plato lived, thought, and acted ; we suppose it to be known
what is meant by philosopfier, by having heard the word applied to many
indi- viduals i but we have not yet applied it to ' Plato ; in
other words, we have yet to ascer- tain whether Plato belongs to the
class of in- dividuals denominated philosophers. Writers on Logic
talk of a comparison of ideas for this purpose, and of an intuition or
judgment ; but this, to say the best of it, is an imperfect and
bungled account of the matter. If, in- deed, to know how Plato lived and
acted can be called an idea, it is necessary to have this idea ; it
is further necessary to have a clear notion of the term philosopher, — if
this again can be called an idea: — and it is true enough that in
comparing Plato with this sign, we judge or know their agreement
intuitively. But out of this intuitive judgment an infer- ence
arises, and the sentence expresses that inference : a comparison has been
instituted through the intervention of a medium, in order to
ascertain whether Plato is to be as- signed to a certain class of
individuals ; we intuitively perceive his agreement with the
medium, and draw or pronounce our infer- ence accordingly, — " Plato
was a philoso- pher." Nor is this the splitting of a hair, but
a real distinction, marked and determined by that difference in the words
so often pointed out, when understood detachedly, and when
understood as a sentence. The proposition, Plalu was a pJiilosopher, may
be understood as a whole, without making the comparison in the mind
between what Plato, and what philosopher, abstractedly signify j
but this, with a full understanding of the whole sentence, can be done
only after the comparison has once at least been effectually made :
— then indeed, when the comparison has been made, and the inference
drawn, the sentence which expresses that inference, be- comes, like
any single word, the sign of knowledge deposited in the mind, and,
like such single term, it is fitted to be an instru- ment of new
comparisons, and further con- clusions. 11. Let us now take
another proposition : *' A philosopher, or every philosopher,"
(for the meaning is the same,) " is deserving of
respect." This, hke the other, is an infer- ence from a comparison
which took place in the mind ; previously to which comparison, the
notion or knowledge included in the word I philosopher was obtained in
the manner lately described (Sect. 9.) : and the notion included in
the phrase to be deserving of respect was similarly obtained, but
independently of the knowledge denoted by the other expression ; —
that is to say, the phrase deserving of re- spect, was originally, we
suppose, a sentence applied to some one thing deserving of re-
spect J whence it was successively applied to other things till a class
was formed — in other words, till a notion (knowledge) was esta-
blished in the mind of what things are de- serving of respect. Now, the
present ques- tion is, whether a philosopher is deserving of
respect ? To determine this, we consider what a philosopher is, (it is
presupposed tliat we have this knowledge,) and we then niea- Bure
our notion of a philosopher with our no- tion of what is deserving of
respect, and thus £nd that a philosopher is to be admitted among
the things to which we had been ac- customed to apply the designation
deserving qf respect : that is to say, we come to the conclusion,
that a philosopher is deserving of respect. Here, therefore, as before,
there has been a reasoning process previously to the proposition,
and the proposition expresses the inference from it. And the
comparison having once been made in this instance as in the other,
the sentence becomes, like any single term, the sign of knowledge
deposited in the mind, and like such single term, is fitted to be
an instrument of new compsrisons, and further conclusions. Well then, we
know from reasoning these two things, that " Plato IB a
philosopher," and that " a philosopher is deserving of respect."
These are detached WORDS* or sentences : but the mind, in com-
paring them, at once comes to the inference that Plato is deserving of
respect: and the whole may be expressed in one sentence ; thus ;
" Plato, who is a philosopher, is deserv- ing of respect j"
where Plato-who-is-a-pJiiio- sopher, is equivalent to a noun-substantive
in the construction of the whole sentence ; and,
deserving-qf-respect is equivalent to another ; and thus the two, with
the assistance of the verb which signifies them to be a sentence,
are but one proposition. Here, as in the former cases, a comparison has
been made \ij. means of the signs of deposited knowledge ^ for we
knew that Plato was a phUosopher; we knew a class of things or persons
deserv- ing of respect: — comparing our knowledge by • See
the second note (Aristotle's definition of a' vord bcuig the first)
appmded to Sect. 20. Chap. I. ir. means of the sign
deserving-of-respect, the in- ference follows, that " Plato, who is
a philo- sopher, is deserving of respect." And the comparison
having once been made in this instance as in the others, the sentence
be- comes, like any single terra , the sign of know- ledge
deposited in the mind, and either in this or any other equivalent form,
is fitted to be an instrument of new comparisons and further
conclusions. And in this manner are we able, ad infinitum, to investigate
new truths by means of those already ascertained, always making use
of former words or their equivalents, as the means of operation.
12. Now, so far as Logic is the art of in- vestigating truth, (and
we intend to show that its office ought not to be considered of
further extent,) this is the whole of its theory. We have defined
it as the right use of words with a view to the investigation of truth ;
and the way in which words are used for the purpose, is that which
has been described : — in brief, they are used by the mind in making
such comparisons as it cannot make intuitively. Of two objects, or
of a sensation or emotion twcie experienced, we can intuitively
judge what there is in common between them;, l< suppose a third
object, or a sensation, &c« thrice experienced, an intuitive judgment
can still be applied only to two at a time, and wei can but know in
this way what there is common to every two. But if we set up tf
sign of what is common to two, we can compare with the sign a third, and
a fourth, and a fifth, and judging intuitively how far it agrees
with the sign, we infer its agreement in thq same proportion with the things
signified, In Logic, the sign used is always presumed to be a word.
Now, in our theory of Ian- guage, every word was once a sentence ;
and every sentence which does not express the full communication
intended, but is qualified by another sentence, or becomes a clause of
a larger sentence, is precisely of the nature of any single word
making part of a sentence *. • See Chap. I. Sect. 28.
IM I^CMAP. 11, From the first
moment, then, of converting the expression used for a particular
communi. cation, into an abstract sign of the sentiment or truth
which that communication conveyed, the mind came into possession of the
instru- mental means for furthering its knowledge : and this means
always remains the same in kind, and is always used in the same
way. The word which once signified a present par- ticular
perception, ceased, through the ne- cessities of language, to signify
that percep- tion in particular, and came to signify, in the
abstract, any perception of the same kind, or the object of any such
perception. In this state, it no longer communicated what the mind
felt, thought, or discovered at the moment, but was a sign of knowledge
gather- ed by comparisons on the past. By u«ng this Bign, the mind
was able to pursue its inves> tigations, and every new discovery was
de- noted by a sentence which the sign helped to form, its general
application being limited to the particular purpose by other signs. But
if one WORD" ' may lose its particular pnrpose, and
become an abstract sign, so may another, and be the means, in its turn,
of prosecuting further truths, and entering into the com- position
of new WORDS. Thus will the procesa which constitutes Logic, be aiways
found one and the same in kind, having for its basis the
constitution of artificial language, such as it was ascertained to be in
the previous chapter. H 13. Now of this Lc^ic, — the Logic,
uni- H versally, of ntpotres, or woKD-dividing men, — H
let the characteristics be well observed, in order H to keep it
clear from any other mode of using H signs for the purpose of
reasoning, to which H the name of Logic is attributed. The
Logic H here described, is a use of words to regista- H
our knowledge as fast as we can add to it, by H new examinations,
and new comparisons of I things } each new esamination, each
new H sen! • The reader will bear in mind the
comprehenBive sense of the term which we have in view, when it is
printed in capitate. comparison, being made with the help and the
advantage of our previous knowledge. The reasoning takes place in the
mind in such a manner that it is not a comparison of terms, but a
comparison of what we newly observe, with what we previously knew. Words
indeed are used, because without signs of one kind or of another to
keep before the mind the knowledge already gained, we could compare
only individuals j but however words may in- tervene, it is always
understood that the mind, at bottom, compares the things, A man may
be informed, that, " Plato who is a phi- losopher, is deserving of
respect;" that, " William who is recommended to his
service, is an honest man ;" that, *• A particular tree in his
garden, is a mulberry tree ;" that, " Stealing is a vice, and
temperance is a virtue ;" that, " Throughout the Universe,
all greater bodies attract the smaller ;" that, " A
triangle described within two circles in such a manner that one of its
sides is a radius of both, and the others, radii of each
circle respectively, is an equilateral triangle;" — a man may
be informed of these and similar ^'things, and may entirely believe the
inform- ation; nay, hemayjustifiably believe it J for he may know
of those who give it, that their ho- nesty is such, that they would not
wilfully de- ceive him ; that their intelligence and inform- ation
are such, that they are not likely to say what they do not know to be
true : but a man can be said to know these things of his own
knowledge, and in this way to be convinced of their truth, only by a
process of reasoning that musl take place within his own mind ; a
process which can take place only in a mind by nature competent to it,
and which requires, in every case, its proper data or facts, aided,
it is true, by language, or by signs such as Ian- guage consists of, to
register each inference *, • The necessity of language, as a means of
in- vestigation, applies not to our last example. The mincl may
investigate (though no one can demonstrate) mathematical truths, with no
other aid than visible diagrams ; or even diagrams that are seen only
by " the mind's eye." and so to get from one inference to
another, and thus, ad infinitum^ toward truth. Be- cause the
several steps, leach of which is a conclusion so far attained, cannot
take place, without the instrumentality of signs to assist the
mind, we consider the process an art ; and if the signs used are words,
the art is pro- perly called Logic. But whatever aid the reasoner
may borrow from words, the only true grounds of his knowledge are the
facts about which the reasoning is employed. Without them, no
comparison of the terms can force any conviction further than that
the terms agree or disagree. He may be told that — " Every
philosopher is deserving of respect,*' and that, — " Plato is a
philosopher :** but if he knows not what a philosopher is, or what
it is to be deserving of respect, the comparison of the terms in order to
draw a conclusion from them, will be a mockery of reason : — it
will be reasoning indeed, but reasoning without a rational end. And
suppose the knowledge to have been acquired of what a philosopher
is by the application of the word to many particulars, and by a
consequent classification of them in the mind, — supposing the
knowledge of what is deserving of respect to have been acquired in the
same way, — supposing the inquirer has learned from history what
Plato was in his opinions and manner of life, — the conclusion takes
place by a com- parison of the thingSj by means indeed of words,
but not by any comparison of the terms independently of the things ; nor
is the con- viction in the least fortified, or the process ex-
plained, bya demonstration that in reasoning with the terms alone,
independently of their meaning, we get at the conclusion ; — by
shewing, for instance, that the terms which include the facts, may be
forced into cor- respondence with the following ^nwwfa; Every B is
A : C is B : Therefore C is A. Every philosopher — is—
deserving of respect : Plato — is— a philosopher : Therefore
Plato — ^is — deserving of respect. This way of drawing a conclusion from
a comparison of terms, is. properly speaking, to reason or argue
with words ; but in the Lo- gic we have ascertained, every conclusion
is required to be drawn from a comparison of the facts which the
case furnishes ; and words being used only for the purpose of
registering our conclusions, such Logic is properly de- fined the
art of reasoning by means of words. The inquirer who seeks to know, of his
own knowledge—" Whether William who is re- commended to his
service, is an honest man", — will gather facts of William's conduct
by his own observation ; and these he will com- pare by the light
of his previous notion (i. e. knowledge) of what an honest man is :
but then he must have that previous notion, or he cannot make the
comparison ; and the notion will have been gained by a process just
like that he is pursuing : and so downwards to the original
comparison of individiial tJujigs, from which all knowledge begins. So
again, if an inquirer seeks to know that " a particular tree is a
mulberry tree", — he must first know what a mulberry tree is; and
how can he know this but by a comparison of different trees? There
must be some art employed to classify the individual trees, otherwisehe
could never know more than the difference between every two trees.
By setting up one tree, or some equivalent sign, as a word, to
denote the common qualities observed in many, he comes to know what
a mulberry tree is ; and looking at the particular tree in question,
he sees that it has the common qualities indica- ted by the sign,
and infers that it is a mul- berry tree. So likewise, if an inquirer
seeks to be convinced that " SteaUng is a vice", or that
"Temperance is a virtue", — he must have such facts before him
as will enable him to come to a clear conclusion as to what is
vice, and what is virtue : and this conclusion will either include or
ex- clude stealing with respect to his notion of vice, and
temperance with respect to his notion of virtue, and he will consequently
be convinceti or not convinced of tlie proposition in question. So,
once more, if an inquirer desires to know, of his own knowledge, *'
Whether, throughout the universe, all greater bodies attract the
smaller", — he must first observe certain facts from which the
ge- neral law may be assumed hypothetical ly : — he must then
ascertain what, according to other notions gained from experience,
would be the effect throughout the universe of the general law
which he has so assumed ; and if the effects arising out of the
hypothesis cor- respond with actual effects, and no other by-
pothesis to account for them can be framed, he will have all the proof
the subject permits, and know of his own knowledge, as far as can
be known, the conclusion asserted. So, lastly, if an inquirer seeks to be
convinced that "a triangle described within two circles in
such a manner that one of its sides is a radius of both, and the
others radii of each circle re- spectively, is an equilateral
triangle", — he must first form within his mind the notions
of a triangle, and of a circle, the latter of which he will find can
be conceived perfect in no other way than in correspondence with this
definition : — "a plane figure bounded by one line called- the
circumference ; and is such that all straight lines, (called radii,)
drawn from a certain point within it to the circumference, are
equal to one another. " Having formed this notionr^ he will
find, by certain acts of comparison^ (which must take place within the
mind, al- though they may be attsisted by a* visible sign-J^ that
the previous proposition is an inevitable consequence of the notfon so formed,
and his' conviction: wiU be comffiete. If the convic- tion, in the
previous ifrstances, has not the same force as iiti the last^ — ^if, in
those instances, the force may be diffident m. degree, while in the
last there can be no coD^victioa short of lliat which iS' absolute an4-
entire, the cause^ in not that the reasoning process^ is different
in kind, but that the facts or data about which" it is' employed are
dii&re»t. In the last in^ stance^ the reasoning is employed about
notions, which admit uf being so defined, that every mind capable of the
reasoning at once assumes them before the reasoning pro- cess
begins ; but in the other instances, the facts or the notions may be
attended by cause for doubt. A man, if he have any notion of a
philosopher at all, cannot indeed but be quite sure (consciously sure) of
his own no- tion of a philosopher j but how can he be sure that
others have the same notion, or even quite sure that Plato had the
qualities that conform to his own notion ? In the same way, he will
be quite sure (consciously sure) of his own notion of an honest man ; but
he may be deceived as to the facts which bring William within that
notion. He will be quite sure (consciously sure) of the notion he
has in naming a tree a mulberry tree ; but that notion may be
totally unlike the notion which other people entertain ; or if the
general no- tion agrees, he may mistake the characteristics in the
particular instance. He will be quite sure (consciously sure) of his own
notion of vice or of virtue, and whether it includes or excludes
this or that conduct, action, habit, or quahtjr ; and in this case the
conviction is absolute and entire while the reasoner confines
himself to his own notion ; but the moment he steps out of this, and
begins to inquire whether it agrees with that of others, he finds
cause to doubt. He must be quite sure (sen- sibly sure) that bodies
near above the earth's surface have a tendency towards it ; and by
proper experiments he may convince himself that all bodies without
exception which are so situated, have the same tendency. In sup- ,
posing the fact universal of the tendency of smaller bodies to the
greater, his conviction of the consequences involved in that hypo-
thesis, must, as soon as he has mentally traced them, be absolute and
entire ; but he has yet to find whether reality corresponds with the
hy- pothesis. The strongest proof of this will be, the
correspondence of the consequences of the hypothesis with the phenomena
of na- ture, joined to the impossibility of forming 138
ON LOGIC. [chap. II. another hypothesis which shall account
for these phenomena; and the doubt, if any, will attach to that
impossibility, and to the accuracy of bis observatioda of the
pheno* rneoa* I^ then, there is roonr for doubt, and cocise^aently
for various degrees of assent, in all the instances except m that whose
facts or data are notions which the mind is bound to tstke up
according to the definitions before it enters on the argument, we are not
to con- clude that the reasoning process is different in kind iti
any of them ; since the difl^ence in the facts or data about which the
reasoning process i& employed, fully accounts for the ab-
solute and entire conviction which takes place in one instance, and the
degrees of convictioti which are liable to happen in such cases as^
the others. 14. But what IB a process or act of rea^ soning?
Is it, abstractedly from the means' u£^d to register its conclusions, and
so pro- ceed to new acts of the same kind, — ^is it aa act which
rules can teach, or any generalbsau- tion make clearer, or more
satisfactory than it is originally ? We shall find, upon examina-
tioH, that any such pretence resolves itself in- i to a mere verbal
generalization, or the appli- cation of the same act to itself; and that
this does in no way assist the act of reasoning, or explain, or
account for, or confirm it. A man requires not to be told — *' It is
impossible for the same thing to be and not to be," in order
to know that himself exists ; he requires not the previous axiom, "
The whole is greater than its part, or contains its part, " in order
to know that, reckoning his nose a part of his head, his head is
greater than his nose, or his nose belongs to his head ; neither is the
previous axiom, " Things equal to the same, are equal to one
another", necessary to be enounced, before he can understand, that
if he is as tall as his father, and his father as his friend, he is
as tall as his friend *. Whatever neatness of arrangement a system may
derive from being • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis
7 and 12. 1headed with such verbal generalizations, it
is manifest that they neither assist the reasoning nor explain it :
nor must a generalization of , this kind be confounded with the
enunciation of what is called a law of nature*, — (the law of
attraction and gravitation for instance, — ) since this last is a
discovery by a process of experiment and reasoning, but a verbal
gene- ralization is no discovery at all ; — it is merely a mode of
expressing what is known by every " rational mind at the very
first opportunity for exercising its powers. Or more properly
speaking, the laws of reasoning, which are gratuitously expressed by what
are called axioms, are nothing else than a mode of de- * See
Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he attempts to evade Dugald
Stewart's oh^ection to the Ariatotelian syllogism, that it is a
demonstration of b demoiigtration, by comparing the Dictum de omni
et de nullo to the enimciation of a law of nature. — It is rather
pleasant, in the first note of the Chapter referred to, to hear the
doctor running riot upon Locke's con- fuinon of thought and common place
declamation, be- cause the latter had the sense to sec the futility
and puerility of the syllogism. SECT. 14.] ON LOGIC.
141 scribing the constitution of a rational mind.;—* they are
identical with the capacity itself for reasoning: to view them in any
other light is to mistake a circumlocution for the discovery of a
principle. And this kind of mistake every one labours under who supposes
that, by any means whatever, an act of reasoning is assisted or
explained, accounted for, or con- firmed. Nothing is more certain, than
that if two terijns agree with a third, they agree with each other,
— if one agrees and the other dis- agrees, they disagree with each other:
but every other act of reasoning has a conclusion equally certain
(the facts or data about which an act of reasoning is conversant being
the sole cause of any doubt in the conclusion*,) and this or any
other attempt at explaining or accounting for the act, will therefore
only . * And note, that when people are said to draw a wrong
conclusion from facts, the correct account would be, that they do not
reason from them, but from some- thing which they mistake for them,
through their ina- ability to understand, or their carelessness to the
na- ture of, the facts given. I4!l
[chap. ir. amount to the placing of one such act by
the side of another; as if any one should set a pair of legs in
motion by the side of another pair, and call it an explanation of the act
of walking. Such would at once appear to be the character of the
Aristotelian Syllogism, were it not for the complicated apparatus
ac- companying it ; an apparatus of distinctions and rules rendered
necessary by the nature of the terms compared. For these terms
being obtained by the division of a sentence, are such that they
agree or disagree with each other only in the sense they bore before
the division took place. Our theory makes this plain; for it shows
that words which form a sentence limit and determine each other,
and thus have a different meaning from tliat which belongs to them
when understood abstracted- ly. Therefore, though it may be true
that " Plato is a man deserving of respect, ' does not follow
that " Plato " and " A maai deserving of respect "
shall agree togetiier as abstract terms : accordingly the latter
term understood abstractedly, signifies any or every man desei-ving
of respect, and does not agree with Plato. It must be obvious, then,
that terms obtained iirthis way, can be compared with other terms
similarly obtained, only un- der the safeguard of certain rules. Such
rules are accordingly provided ; and tliat they may not want the
appearance of scientific general- ization and simplicity, they are all
referred to one common principle, — the celebrated dic- tum de omni
et de nullo ; whose purport is, that what is affirmed or denied of the
whole genus, may be affirmed or denied of every species or
individual under it ; — which indeed is nothing more than a verbal
generalization of such a fact as this, that what is true of every
philosopher, is true of any one philosopher. All tliese pretences to the
discovery of a uni- versal principle, do but leave us just where we
were, a few high-sounding empty words ex- cepted; and this must ever be
the case when we seek to account for that which is, by the
constitution of things as far aa we can ascertain them, an ultimalefact. An act
of reason- ing is the natural working of a rational mind upon the
objects, whatever they may be, which are placed before it, when, having
formed one judgment intuitively, it makes use of the re- sult as
the medium for reaching another: and the pretence to assist or explain
this operation by the introduction of such an instrument as the
syllogism, is an imposition on the under- standing. 15. This
will more plainly appear when we examine the real use, (if use it can be
called,) of the Aristotelian art of reasoning. It may be described
as the art of arguing unreason- ably, or of gaining a victory in
argument without convincing the understanding. As it reasons "with
words, and not merely by means of words, it fixes on expressions not
on things, and is satisfied with proving a conse- quence, or
exposing a non-sequitur in those, without inquiring into the actual
notions of the speaker. " Do you admit " says a syllogi-
zer, " that every philosopher is deserving of respect? " "
I do;" says the non-syllogi- zing respondent. " And you admit,
(for I have heard you call him by the name,) that Voltaire is a
philosopher : you admit, there- fore, that Voltaire is deserving of
respect. " Now, if the notion of the respondent is, that
Voltaire is not deserving of respect, here is a victory gained over him
in spite of his con- viction. Arguing from the words, and allow-
ing no appeal from them when once conceded, the conclusion is decisive*.
But in looking beyond the words to the things intended, we shall
find that the respondent either did not mean every philosoplier, as a
metaphysical, but only as a moral universal, or else (and the
supposition is the more likely of the two) that in calling Voltaire a
philosopher, he called • " If," says a. doughty
Aristotelian doctor, " a imiyeraity is charged with cultivating only
the mere elements of mathematics, and in reply a list of the hooks
studied there is produced, ^should even any one of those books be not
elementary," [" / day here on my biynd,''] " the charge is
in fiiirncss refuted." Whately's Logic, Chap III. Sect. 18.
. II. him so according to the custom of others, and
not according to his own notion. In a Logic whose object is truth and not
victory, the business would not therefore end here. An attempt
would be made to change the notion of the respondent (supposing it to be
wrong) by an appeal to things. His mind might in- deed be so choked
with prejudice as to be in- capable of the truth ; but at least would
the only way have been taken to remove the one and procure
admission for the other. — To the foregoing, let another kind of example
be add- ed : " Every rational agent is accountable ; brutes
are not rational agents ; therefore, they are not accountable." *
" Non sequitur*^ cries the Aristotelian respondent. The other
man, who reasons by means of words and not merely mth words, is certain
that the internal process by which he reached the conclusion is
correct ; nor is he persuaded to the contrary, or at all enlightened as
to his fault, when he is told that he has been guilty of an illicit
pro- ♦ From Whately's Logic, Chap. I. Sect. 3. cess of
the major. He is informed, however, that his mode of reasoning finds a
parallel in the following example : " Every horse is an animal
; sheep are not horses ; therefore they are not animals.'* * But this he
denies ; be- <:ause he is sure that his mode of reasoning would
never bring him to such a conclusion as the last. All this time, while
the Aristo- telian has the triumph of having at least puzzled his
uninitiated opponent, the real cause of diflference is kept out of sight,
name- ly, that the one refers to that reasoning which is conducted
merely with words, and not by means of words only, while the other refers
to that reasoning which looks to things, inatten- tive perhaps, as
in this instance, to the expres- sions. If the latter had used no other
ex- pression than " Brutes are not rational agents ; therefore
they are not accountable ;•" — the as- sertion and the reason for
it, must have been suffered to pass; but because another sen- tence
is prefixed to these two, and the whole * Whately'*s Logic, Chap.
I. Sect. 3. l2 F 1 of
them happen to make a violated syllogism, the speaker is charged with
having been guilty of that violation, when in fact he has not at-
tempted to reason syllogistically at all ; i. e. to draw his conclusion
from a comparison of the extremes with the middle, but from a judg-
ment on the facts of the case. In a Logic which gets at its conclusions
by jneans of words, and not by the artifice we have just referred
to, an expression which does not reach the full facts reasoned from,
(every rational agent, for instance, where it should have been said
none but a rational agent,J would not be deemed an error of the
rea- soning, but a defect in the expression of the reasoning.
] 6. These examples will, it is hoped, be sufficient to show the
real worth of the Aris- totelian syllogism, ft is indeed, as its
advo- cates assert, an admirable instrument of ar- gumentation ;
but of argumentation distinct from the fair exercise of reason. It is a
pro- per appendage to the doctrine of ReaUsm, SECT.
16.]] 149 and with that exploded doctrine
it should long ago have been suffered to sink. While ge- nera and
species were deemed real independ- ent essences, to argue from words was
con- sistently supposed to be arguing from things : but now that
words are allowed to be only counters in the hands of wise men, the
Logic of Aristotle, which takes them for money, should surely be
esteemed the Logic of fools". The claim for its conclusions of
demonstrative certainty, rests solely on the condition that words
are so taken. Every conclusion from an act of reasoning, would have that
charac- ter, if the notions about which it was employ- ed were
notions universally fixed and agreed upon. In mathematics, this
circumstance is the sole ground of the peculiar certainty at-
tained. All men agree in the metaphysical notion of a point, of a line, a
superficies, a circle, and so forth t : if all men necessarily
* " Words are the counters of wise men, but the money
of fools," — Hobbes. f According tu Sugald Stewart,
mathematical agreed in the notion of who is a philosopher and who
is not, of what is vice and what is virtuBj and so forth ; our
conclusions on these and similar subjects, would, as in
mathematics, be demonstrative : but till definitions can be framed
for Ethics in which men must agree, there is little chance of erecting
this branch of learning, with any praciical benefit, into a
science, according to the notion insisted on with some earnestness in
Locke's Essay*, lu Physics we can do more ; for men agree pretty
well as to what is a mulberry tree, and what is a pear tree ; what is a
beast, and what is a bird ;— by experiment they can be shewn what
are the component parts of this sub- stance, what the qualities of the other
j and so forth : so that here, our conclusions need
definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather describe
notions of and relating to quantity, which, by the congtitution of the
mind, it must reach, if, setting aside the sensible instances of a point,
a line, a circle, &c., it tries to conceive them perfect ?
* Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same book Chap. XII. Sect.
8. not be wanting in all necessary certainty; although, as
that certainty depends on the conformity between our notions, and the
out* ward or sensible objects of them, it will be of a different
kind from the certainty obtained in meta-Phi/sicSj and therefore not
called de- monstrative. In the latter department, (Me- taphysics,)
the chain of evidence has its first hold, as well as every subsequent
link, in the mind, and the mind cannot therefore but be sure of the
whole. 17. As we propose to limit the province of Logic to
the investigation of truth, the re- marks and examples in the section
preceding the last (15.), might have been spared till we come to
consider Rhetoric, to which we in- tend to assign, among its other
ofiices, that of proving truth. How far the form of ex- pression
which corresponds to the syllogism, is calculated to be useful to a
speaker or wri- ter, may at that time draw forth another ob-
servation on the subject. Meanwhile we pro- pose to exclude it entirely
from Logic; and in truth the common practice of manlcind out
of the schools, has never admitted it as an in- strument either for the
one purpose or the other. Common sense has always been op- posed to
it ; and Logic is a word of bad reputa- tion, because it is supposed to
mean the art of arguing for the sake of victory, and not for the
sake of truth. In vain have Locke, Campbell, Reid, Stewart, and other
sound thinkers, endeavoured to clear the art from its reproach by
detaching the cause : the Aristo- telian Syllogism has been repeatedly
over- thrown ; yet some one is ever at hand to set it on its three
legs again, and argue in defence of the instrument of arguing : — some
per- tinacious schoolmaster may always be found Who e'en though
vanquished yet will ahgue still; While words oflearncd length and
thundering sound*. Amaze the gazing rustics ranged around.
* Videlicet, Terms middle and extreme ; premiss major and minor ,-
quantity and quality of propositions ; Universal affirmative ; Universal
negative ; Particular affirmative ; Particular negative ; Distribution
and non- distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro-
So much — (till, in the next chapter we come to a parting
word — ) so much for the Aris- totelian Syllogism. 18. As to
the Logic which we have en- deavoured to ascertain, it is, we repeat it,
the Logic which all men learn, and all men ope- rate with in
gathering knowledge ; and the only inquiries which remain are, i.
Whether, so far as we have gone, there is ground or ne- cessity for
principles and rules in the exercise of Logic, as there is for grammar in
speaking a language; and ii. Whether we ought to consider its
limits as extending beyond the cBss of the major ; Illicit
piocese of the Tninor ; Mood itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii,
Ferio, Cesare, CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis,
Datisi, Felapton, Bokardo, Feriso, Bramantip, Camenes, BU maris,
Fesapo, FrcBison ; Categoricals, Modals, Hypo- theticals. Conditionals,
Constructive form. Destructive form, Oatcnsive reduction, Illatire
conversion, &c. kc &c. Well may we join with Mons. Jourdain
— " Voila dee mots qui sont trop rebarbatifs. Cette logique
]& ne me rcvient point. Apprcnons autre chose qui soit plus
joli.'* . [chap. II. bounds proposed at tlie
commencement ot* this Chapter. 19. Though few persons would
be dis- posed to answer the former question in the negative, yet an
analogous case may induce a moment's pause in our reply. At the
conclu- sion of the first note appended to Sect. 4., allusion was
made to the fact, that men do not see truly by nature, but acquire,
through judgment and experience, the power of know- ing by sight
the tangible qualities of objects and their relative distances. Now, the
in- terference of rules, supposing them possible, to assist this
early discipline of the eye, would be useless — perhaps raiscliievous : —
why are we to think differently of the discipline of the mind, as
regards the use of those signs which, if our theory is true, are forced
upon us at first by an inevitable necessity ? Because the art of
seeing truly is necessary to the preserva- tion of the individual ; and
nature takes care, therefore, that we do not teach ourselves im-
pertectly or erroneously ; but the conducting of a train of reasoning
with accuracy and pre- cision into remote consequences, is unne-
cessary in a rude state of society j and man, who is left to improve his
physical and moral condition, has the instrument of that improve-
ment confided to his own care, that he may add to its powers, and form
for himself rules for using it with much more precision and much
more effect, than any random use of it can be attended with. Accordingly,
if we look to that department of knowledge which Locke calls
ipvaiK^ * , we shall find that it owes its existence to the accurate
Logic by which inquirers registered all their observations and all
their experiments, and by which they as- cended from individuals to
classes, till each had comprehended in his scheme all he de- sired
to consider. Here then begins the pro- per business of Logic as a system
of instruc- tion : it ought to lay open all the various me- thods
of arrangement and classification by ' Vide the
lutrixluction to this Treatise. which science is
acquired and enlarged ; and if something may yet be done toward im-
proving these methods, it should open the way to such improvement. The
Aristotelian rules for definition, which are a sound part of Logic,
should be explained and illustrated ; and the nomenclatures invented by
various philosophers, particularly that which is used in modern
chemistry, should be detailed and investigated. SO. But if,
by the application of a more accurate Logic than belongs to a random
use of language, men have been able to accom- plish so much in
^uo-ik^, it does not appear that they have great cause to boast of
their success in the other department, namely ■n-paKTiK-^. Do they
act, whether as com- munities or individuals, muck better with a
view to their real interests, than they did two thousand years ago ? If
improvement here, as in the other department, is possible, how is
it to be accomplished ? We live in an at- mosphere of passions,
prejudices, opinions, which mould our thoughts, and give a
cer- tain character and hue to all the objects of them ; — these we
do not examine, but take them as they appear to us, and our
reasonings too often start from them as from first facts. As to the
process itself, — a process which every individual conducts ■within his
avra mind according to the power which nature gives him, — we
affirm that it cannot be other than it is, and that, provided it starts
from true data, it can never lead us wrong : but if that is false
which at the outset we take for true, then indeed our conclusions may
be perniciously, ruinously erroneous. It is ac- cordingly the
business of the moralist to re- move the false hue which habit, opinion,
and passion, cast over the surface of things ; and it should be the
business of the politician to examine the principles on which the general
affairs of the world are conducted, and open the eyes of mankind to their
pernicious ten- dency, if in the whole or in part they are per-
nicious. But neither the moralist nor the politician can come at the
necessary truthis intvitiveljf : they must use the mediaj and the
media consist in that use of words which con- stitutes Logic, as we have
described it. We do not intend to say that language affords the
means of reaching equal results to every person who makes the right
logical use of it ; for men's minds are very different in natural
capacity; and some are able to perceive truths intuitively, which others
attain only by a slow process; as tall men can reach at once, what
short men must mount a ladder to : but we do intend to say, that, let
the natural powers of any human mind be what they will, there is no
chance for it of any ex- tensive knowledge, but through the employ-
ment of media to assist its natural operations ; <and, we repeat it,
the media which nature suggests, and leaves for our industry to im-
prove, is language *. Well then, if our im- * The reader does not
understand us, if he deems it an objection to our reasoning, that
many highly gifted men in point of understanding, do not provement in
ntpaKrucrfj is, at this time of ^ay, less than we might expect, is it not
reason- able to think that, with regard to this depart- ment, we do
not quite understand the instru- mental means, and consequently do not
ap- ply them with complete effect ? Surely there is some ground for
such a suspicion, when we find a doctor (of some repute we presume)
in one of our two great places of learning, de- claring that '^ the
rules of Logic have nothing to do with the truth or falsity of the
premises, but merely teach us to decide (not whether the premises
are fairly laid down, but) appear to have a skilful use of
language. A man may be rhetorically unskilful in language without
being logically so ; — he may be imable to convey to others how and
what he thinks ; but he may make use of media in the most skilful manner
to assist his own thoughts. And if his capacity is such that he
seei many truths intuitively for which others require media^ it is
evident that he cannot convey those truths to them till he has searched
out the means. The nature and the principle of such an operation
be- longs to our next chapter on Rhetoric. fim
whether the conclusion fairly follows from the
premises." * We acknowledge that the Logic to which this description
applies, has never been the Logic of mankind at large, however it
may have been the baby-game of men in colleges ; but that the office of
Logic should be described so completely opposite to what it really
is, at a time when its proper office and character ought to have been
long ago thoroughly understood, is not a little surprising, and may
reasonably warrant the suspicion stated above. We have no doubt our
reader is by this time convinced, that men who reason at all, do not want
rules for drawing their conclusions fairly, if we could but get
them to draw those conclusions from right premises ; and that to get at
right pre- mises is every thing in Logic. For this end, it is our
business to set all notions aside that have not been cautiously acquired
; and to begin the formation of new ones at the point *
Whateiy'a Logic. Provinceof Reasoning, Cliap- I. Sect. 1.
sf;ct. 20.] IGI where all genuine
knowledge commences, — the intuitive comparison of particulars or
single facts ; to make use of the knowledge (notions) hence obtained as
media for new comparisons or judgments; and so on ad in- Jinitum.
Alas! it is but too certain, that though we draw our conclusions faiily
enough, our premises, in a vast proportion of cases, are laid down
most foully, because they are laid down by our ignorance, our
passions, and our prejudices ; and because language itself, when
its use is not guarded, is a means of deception*. • We arc
somewhat backward in offering examples of general remarks, such as is
this last ; because it is scarcely possible to be particular without
touching on questions in religion or politics that carry with them,
either way, a taint of parti zanshi p ; and we hold it to be very
impertinent in a writer on Logic, to turn those general precepts for the
discovery of truth which he is bound to ascertain, into a particular
chan- nel in order to serve his own sect or party. What business
had Watts to exempliiy so many of hU cautionary rules by the errors of
Papistical doctrine, at a time when its doctrine was a subordinate
and But can the assistance which lan- guage is
intended to furnish, be rendered such party queBtioit, and be
himself was a sectarian opposed to it ? We trust that no exception of the
same kind can be taken {particularly as we give them only in a.
note) to two examples we are about to submit of the remark in the text,
that language itself may lie the means of deceiving us into wrong
premiseB : — they are by no means singular, hut Guch as may he met
with every hour on almost every question. The ph rase natural state
is, as we all know, a very com- mon expression, which we are much in the
habit of applying to things that have not been abused or per-
verted from the form or condition in which nature first placed them. Now,
because the same phrase happens to be frequently applied to man in a
rude state of society, we start, in many of our reasonings, with
the notion, that in proportion as we have depart- ed from such a state,
we have perverted and abused the purposes of nature ; when, in truth, it
seems wiser to inquire, whether we have yet reached the state which
nature means for creatures such as we are, and whether she is not
constantly urging us on to such an unattained state. Our other example is
of narrower in- terest, and belongs to politics, or rather to what
is called political economy. The word price, in general loose
speaking, means that which is given (be it what it may) to obtain some
other thing ; but in a strict as to lead us to truth in spite of
ignorance, passion, and prejudice, and in spite of the delusions of
which it is itself the cause? Why not, if the guarded and careful use of
it, is fitted to diminish these obstacles, and if we do not look
for the ultimate effects -faster than, by the use of the means, the
obstruc- tions ^ive way ? Nor are mankind inattentive to improve
the means, nor are the means and mercantile Bense, it has a
uniform reference, direct or indirect, to the quantity of precious metal
given for commodity ; inasmuch as gold and silver are the sole
universal medium of barter throughout the world, and every promise to pay
has reference to a certain quan- tity of one or the other of these
metals. These things premised, it must be obvious that the phrase price
of gold, using price in a strict sense, is an abeurdity, and could
arise only from confounding the meaning which prevails in ordinary speech
with the meaning in which the merchant uses it. What, then, are we to
think of an English House of Commons, which, some twenty years ago,
deputed to a committee the task of in- quiring into the causes of the
high price of bullion ? Might not the committee, with as much reason,
have been deputed to inquire, why the foot rule was more or less
than a foot ? without effect : for when we ask, whether
their moral and political condition is much ad- vanced beyond what
it was in the most pro- mising state of the world in past days *, we do
not mean to deny what every one of common knowledge and observation is
aware of, that it has advanced : all we urge is, that a sys-
tematic attention to the means of investigating truth, might,
peradventure, in politics and morals, as it has in physics, have been
at- tended with effects more widely beneficial. Neither do we afSrm
that existing works on Logic are destitute of many admirable pre-
cepts for investigating truth, although we assert that the precepts are
referred either * Note, that it is unfair to fix on a particular
part of the world in proof of what it was in the whole. States and
cities may advance themselves for a time by a partial policy which keeps
others backward : but the policy will fail in the end. By a natural
course of things the advanced state will merge in the mass and
improve it : and thus the world will keep on advancing, although the
spectator, who contemplates only the particular state, will think it is
retrograding. to a false principle, or to no principle at all
fitted to unite them into one body of sys- tematic instruction. The work
lately referred to *, fnrnishes, for instance, many excellent
precepts for avoiding errors in the use of words, and for guarding
against the snares of sophistry; and if such precepts and such ex-
amples as it offers, distinct from the doctrine of the syllogism, were
industriously collected, and brought forward in aid of the Logic
which all men learn and all men use, they would be of inestimable value.
A useful system of Logic will guard our notions from error not only
while we think, but while we are reasoned witht: for one chief way
by which truth enters the mind, is through the * Viz,
Whately's Logic. + Our meaning will be understood ; but wc
express it by ii distinction which is grounded on no real dif-
ference. He who is reasoned with, if he understands the ai^ument, is set
a thinking ; and his agreeing or disagreeing with the argument is the
effect of his own thoughts, however these may be set in motion, and
perhaps unreasonably influenced, by what he hears. medium of language as
employed by others : and Logic should therefore arm us with all
possible means for coming at truth so offered, through the various
entanglements by which the medium may be accompanied. Hence, the
various sophisms of speech accompanied by their appropriate names, would
still occupy a place in such a Logic ; nay, for this purpose, and
for this alone, would the Aristotelian doctrine of the syllogism deserve
explanation ; namely to understand how a conclusion drawn from mere
terms, may, as a conclusion from them, be perfectly true and perfectly
useless, and thus to induce us to bottom all our reasoning on
things. — Having thus offered, on the first of the questions proposed in
Sect. 18, such observations in the affirmative as we thought it
required, we now proceed to the second question. 22. That
question was. Whether we ought to consider the limits of Logic as
extending beyond the bounds proposed at the com- mencement of this
chapter : towards answering which, we may first inquire how far
other views of it extend. By the Scotch metaphy- sicians, and
generally in the schools of North Britain, the word Logic seems to be so
used as to imply the cultivation of the powers of the mind
generally, correspondently with M'atts's definition of tlie purpose of
Logic, namely, " the right use of reason." " I have
always been convinced," says DugaJd Stewart*, " that it was a
fundamental error of Aristotle, to confine his views to reasoning
or the discursive faculty, instead of aiming at the improvement of our
nature in all its parts." And he then goes on to mention the
following as among the subjects that ought to be con- sidered in a
just and comprehensive system of Logic. " Association of ideas ;
Imagina- tion ; Imitation j the use of language as the GREAT
INSTRUMENT OP THOUGHT ; and the artificial habits of judging
imposed by the principles and manners in whicli we have
* Fhilotiuphical Essays. Chap. 16s been
educated." * Now if the threeibld di- vision of human knowledge is a
just one, which, in the Introduction of this work, was
his * io the same purpose, Philosophy of the
Humat n the second volume of Mind, (Chap. III.
Sect. S.) he speaks thu^ ' The following,
(which mention by way of specimen,) seem to be among
the most powerful of the causes of our felse judgments. The
imperfections of language both as an instru- ment of thought, and as a
medium of philosophical communication. 2. The difficulty in many of our
most important inquiries of ascertaining the facts on which our
reasonings are to proceed. 3. The partial and narrow views, which, from
want of information, or some defect in our intellectual
comprehension, we are apt to take of subjects which are peculiarly
complicated in their details, or which are connected by numerous
relations with other questions equally problematical. And lastly, (which
is of all perhaps the most copious source of speculative error) the
pre- judices which authority and fashion fortified by early
impressions and associations, create to warp our opinions. To illustrate
these and other circumstances by which the judgment is apt to be misled
in the search of truth, and to point out the most effectual means
of guarding against them, would form a very important article in a
philosophical system of Logic," borrowed from Locke,— namely
into, it., the knowledge of things tiiat are, — ii., of things
fitting to be rfonc, — and, Hi., of the means of acquiring and improving both
these branches of knowledge;— it wUl at once appear that all the
subjects referred to in this enumeration of Stewart's, except the fourth,
which we print in capitals, come under the denomination of physica
: — they are energies or tendencies of the mind derived from nature, or
habits arising out of natural causes ; and they come accordingly
under the division of things ex- isting in nature, which things, as they
all concern the mind, it is the business of the Pliilosophy of the
human mind to explortf: but the fourth of the subjects mentioned in
the quotation from Stewart, viz •* the use of LANGUAGE AS THE GREAT
INSTRUMENT OF THOUGHT," comes under the third of the
divisions laid down by Locke, and ought cer- tainly to be distinguished
from the other subjects, because it is the means of becoming
acquainted with them : it is the instrument.
m and they are among its objects. True, we discover, as
we proceed in the use of it, and we are properly warned by those who
have used it before, that its efficacy is assisted or impeded by
extraneous causes, as well as by defects in the instrument itself:
similar dis- coveries will be made, and similar warnings must be
given, in the practice of almost every art: but these ought not to enter
into the de- finition of the art, although it will be proper to
bring them forward, incidentally, as we open its rules. " A method
of invigorating and properly directing all the powers of the mind
is indeed," says Dr, Whately, " a most magnificent object, but
one which not only does not fall under the province of Logic, but
cannot be accomplished by anyone science or system that can even be
conceived to exist. The attempt to comprehend so wide a field is no
extension of science, but a mere verbal ge- neralization, which leads
only to vague and barren declamation. In every pursuit, the more
precise aud definite our object, the more likely we ai'e to obtain
some valuable result j if, like the Platonists, who sought after
the avTodyaSov, — the abstract idea of good, — we pursue some
specious but ill-defined scheme of universal knowledge, we shall
lose the substance while grasping at a shadow, and bewilder
ourselves in empty generalities." *To these just remarks, we may add our
ex- pression of regret that Dugald Stewart never had opportunity to
do more than speak pro- ^'^ectively of *' a just and comprehensive
system of Logic ;" " to prepare the way for which, was,"
he says, " one of the main objects he had in view when he first entered
upon his inquiries into the human mind."t Had he himself completed
such a design in- stead of leaving it for others, we doubt not he
would have found the necessity of circura- scribing Logic within the
bounds we have proposed, in order to give it existence as an
• Whately's Logic ; Introduction, t Pliilos. Essays. Prelim. Diss.
Chap. II.: in the paragraph immediately following the last
quotation. fjtt ON LOGIC. [chap. U. art distinct
from the wide ocean of intellectual philosophy. 23. But Dr.
Whateiy, who deems, with us, that every consideration of the mind
con- ducted without reference to its making use of language as its
instrument, lies out of the de- partment of the teacher of Logic*,
com- pletely differs from us, as to the province of the art. Of the
question, " whether it is by a process of reasoning that new truths
are brought to light," he maintains the negative t, and
consequently denies that investigation be- longs to Logic. Afler what has
been ad- vanced in the former sections of this chapter, we think it
quite unnecessary to combat this opinion here ; and as Dr. Whateiy
concedes, that " if a system could be devised to direct
• Dr. Whateiy defines Logic (Chap. II. Part I. Sect. 2.) " the
art of employing language properly for the purpose of reasoning."
But with him, reasoning B argumentation. t Whateiy "s
Logic, Province of llcasoning, Chap. II. Sect. 1. ^
the. mind in the progress of inveBtigation ", it might
be " allowed to bear the name of Lo- gic, since it would not be
worth while to con- tend about a name " *; — as, moreover, we
propose to comprehend under Rhetoric all that belongs to the proving of
truth — that is, convincing others of it after we have found it
ourselves ; — we might be satisfied with stating that this is the
distribution we choose to adopt, and there let the matter end. Be-
lieving, however, that our reasons will shew this distribution to be not
only useful, but al- most indispensable, we proceed to offer them.
24, And first, that, so far as we have gone, the art we have described
ought to be called Logic, we think will hardly now be de- nied: —
for we have proved that from be-' ginning to end, it is a process of
reason, that is to say, a process to reach an end by mediae and we
have shown that the media are • Whalely't* Logic, Province
of Jteasoiiing, Chap. II. Sect. 4. Wi
words, (Xo'yoi.) If
the term Logic is not pro- perly applied to such an art as this, we
know not where an instance can be found of pro- priety in a name.
But shall we include the of- fice of proving truth under this name, as
well as that of investigating it ? We answer, no, for these two
reasons : first that the things them- selves are difierent, and ought
therefore to be assigned to different departments ; since it is one
thing to find out a truth, and another to put a different mind in a
posture for finding it out likewise : And, second, that persuasion by
means of language, which is the recognized office of Rhetoric, is not so
distinct from con- viction by means of language, as to admit of our
saying, precisely, where one ends, and the other begins. That common
situation in life. Video meUora proboque, deteriora sequor, proves
indeed there are degrees of conviction which yield to persuasion, as
thei'e are other degrees which no persuasion can subdue : yet
perhaps we shall hereafter be able to show, that such junctures do but
exhibit one set of motives outweighing anol^ier, and that the ap-
plication of the term persuasion to the one set, and of conviction to the
other, is in many cases arbitrary, rather than dictated by a corre-
spondent difference in the things. If, then, the finding a truth, and the
proving it to others, ought to be assigned to different departments
of Sematology, why not, leaving the former to Logic, consider the latter
as appertaining to Rhetoric, seeing that convincing is not always,
and on every subject, clearly distinguishable from persuading, which
latter is the acknow- ledged province of Rhetoric ? Thus will ana-
^5ii' uniformly belong to Logic, and synthesis to Rhetoric. While we use
language as the medium for reaching further knowledge than the
notions (knowledge) we have already gained, we shall be using it
logically : when, knowing all we intend to make known, we employ it
to put others in possession of the same knowledge, we shall be using it
rhetorically. As learners we are, according to this distribution, to be
deemed logicians }— .as 176 [chap,
II. teachers, rhetoricians. The two purposes are quite
distinct, though they are often con- founded under the same name,
reasoning ; which sometimes means investigation, and sometimes
argumentation*, or a process with • 111 spite of all we have said
against taking up no- tions from mere terms, (for " what's in a name
?") we confeES a strong antipathy to the word argumentatmi. It
no sooner meets our eyes, than, fearing the approach of some Docteur
Pancrace, we instinctively put our hands to our ears. " Voub voulez
peut-etre savoir, si la substance et Vaceident sont termes synonymes
on equivoques k I'egard de Tetre? Sganarelle. Point du tout. Je...
Pancrace. Si la lo^ que est un art, ou une science.^ Sgan. Ce n'est pas
cela. Je... Pancr. Si elle a pour objet les trois operations de I'esprit,
ou la troieieme seulement ? Sgan. Non. Je... Poner. S'il y a dix
categories, ou s'il n'y en a qu'une ? Sgan. Point. Je... Pancr. Si la
conclusion est Vessence du sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si
fessence du bien est mise dans I'appetibilite, ou dans la convenancc?
Sgan. Non. Je... Pancr. Si le bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He,
non! Je... Pancr. Si la fin nous pent emouvoir par son etre reel,
ou par son Stre intentionel ? Sgnn. Non, non, non, non, non, dc par tons
lea diables, non. (Moli&re's Mariage Force.) We join in our friend
Sganarelle'g a view to proof: and the confusion is promoted
by the circumstance, that the two pro- cesses are often used in
subservience to each other. Thus, when a writer sits down to a work
of philosophical investigation, it is to be expected that the general
truths he designs to prove, are already in his possession ; but he
has to seek the means of proving them. Now in searching for these, it is
not unlikely, that, with regard to the detail, he will frequently
come to conclusions different from those he was inclined to entertain,
though the final re- sult he had entertained may remain un-
changed. At one moment, therefore, he is a logician, at another, a
rhetorician. His reader, on the other hand, is a logician throughout
: in following and weighing the arguments offer- ed, he is an
investigator of the truths which deprecation, wishing to shun all
argumentation, except of that quiet kind which takes place when the
talkers on both sides are disposed to truth, ilot victory. If the
word conveyed to us the notion of so peaceable a meeting, we should have
no objection to it ; but we have confessed our prejudice.
the other undertakes to prove. In this man- ner may the same
composition, accordingly as it exercises the inquiring or the
demon- strating mind, be considered at one time with reference to
Logic, at another with reference to Rhetoric. Still must it be admitted,
that to investigate and to prove are different things ; and
conceiving there is sufficient ground for confining Logic to the
former office, we shall conclude our chapter as we began it, by
defining Logic to be the right use of WORDS with a view to the investiga-
tion of truth. Non posse Oratorem esse nisi viriim bonum.
AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3. In the chapter just finished, it
was shown that the use of language as a Logical instru- ment,
entirely agrees with the theory of Gram- mar we ascertained in the first
chapter, and that, on no other principles than those which arise
from that theory, can Logic be pro- fitably studied. We have now to show
that the use of language as a Rhetorical instrument agrees with the
same theory, and that the view of the art hence obtained, lays open
its true nature, and the proper basis for its rules. 2. The
language of cries or ejaculations, which in the first chapter we started
with, may be called the Rhetoric of nature. To this succeeds the
learning of artificial lan- guage ; and the process, whether of
invention or of imitation, brings into being the Logic described in
the preceding chapter. For whether we invent a language, or learn a lan-
guage already invented, (presuming it to be the first language we learn,)
we must learn, (if we do not learn like parrots,) the things of
which language is significant. All words whatever, not excepting even
proper names *, express notions (knowledge) obtained from the observation
and comparison of many par- ticulars ; and singly and separately, each
word has reference to the particulars from which the knowledge has
been gained. But it is by degrees we reach the knowledge of which
each single word is fitted to be the sign. We begin by understanding
those sentences, or single words understood as sentences>, that
signify our most obvious affections and wants, and which, taking the
place of our natural cries, retain the tone of those cries as far
as the articulate sounds they are united with permit. In all cases,
as a sentence expresses * Vide Chap. II. Sect. 7- ad fincm.
a particular meaning in comparison with the general terms of which
it is composed^ the hearer may be competent to the meaning of the
sentence, who is not competent to the full meaning of the separate words.
A cry, a gesture, may deprecate evil, or supplicate good ; and a
sentence which takes the place of, or accompanies that cry or gesture,
will, as a whole, be quickly interpreted. But the speaker and the
hearer must have made con- siderable progress in the acquirement of
know- ledge by means of language, before the one can put together,
and the other can separate^ understand, such words as, ^^ A fellow
creature implores"; "A friend entreats *\ It is by frequently
hearing the same word in context with others, that a full knowledge
of its meaning is at length obtained * ; but this implies that the
several occasions on which it * Consult, on this subject, Chapter
4th of Du- gald Stewart's Essay " on the Tendency of some late
Philological Speculations,^ being the fifkh of bis " Phi- losophical
Essays^. [chap. hi.
is used, are observed and comjiared; it im- plies, in short, a
constant enlargement of our knowledge by the use of language as an
in- strument to attain it. 3. But he who uses language as a
logical, will also use it, when need requires, as a rhe- torical
instrument. The Rhetoric of nature, the inarticulate cries of the mere
animal, he will lay aside ; or at least he will employ them (and he
will then do so instinctively) only on tliose occasions for which they
are still best suited, — for the expression of feelings re- quiring
immediate sympathy. On all other occasions, he will use the Rhetoric by
which a mind endowed with knowledge, may expect to influence minds
that are similarly endowed ; and our inquiry now is, how the effect is
pro- duced;— how, by means of words, (taking words to be nothing
else than our theory of language has ascertained them to be,) —
how, by such means, we inform, convince, and persuade.
4. According to our theory, wobds are to be considered as having a
double capacity ; in the first, as expressing the speaker's actual
thought ; — ^in the second, as being the signs of knowledge obtained by antecedent
acts of judgment, and deposited in the mind ; which signs are
fitted to be the means of reaching further knowledge. Now, when we use
lan- guage as a rhetorical instrument, we use it, or at least
pretend to use it, in order to make known our actual thought, — in order
that other minds should have that information, or be enlightened by
that conviction, which we have reached. Could this be done by a
single indivisible word — could we realize the wish of the poet
— Could I embody and unbosom now That which is most
within me ; could I wreak My thoughts upon expression, and thus
throw Soul, heart, mind, passions, feelings, strong or weak.
All that I would have sought, and all I seek, Bear, know,
feel, and yet breathe, into One Word* Were this instantaneous
communication with- ♦ Byron's Childe Harold, Canto III. Stanza
97- in our power. Rhetoric would be a natural faculty, not an art,
and our inquiry into its means of operation would be idle. But
getting beyond the occasions for which the Rhetoric of nature is
sufficient, and for which those sentences are sufficient that serve
the most ordinary purposes of life, an instan- taneous
communication from mind to mind, is impossible. The information, the
conviction, or the sensitive associations, which we have wrought
out by the exercise of our observing and reasoning powers, can be given
to another mind only by giving it the means to work out the same
results for itself ; and, as a rhetorical instrument, language is, in truth,
much more used to explore the minds of those who are addressed,
than to represent, by an expression of correspondent unity, the thought
of the speaker ; — rather to put other minds into a certain posture
or train of thinking, than pre- tending to convey at once what the
speaker thinks. Contrary as this doctrine will ap- pe$ir to common
opinion on the subject, a very little reflection will show that it must be
true. For a word can communicate to another mind what is in the
speaker's, only by having the same meaning in the hearer^s : but if it
have the same meaning, then it signifies no more than what the
hearer knows already, or what he has previously experienced. And this
is plainly the case with sentences (words) in familiar use, which
signify what all have at times occasion to express, which are used
over and over again for their respective pur- poses, and of which, while
uttering or hearing them, we do not attend to the meaning of the
separate words, but only to the meaning of the whole expression *. Here,
it is confessed, the communication is made at once ; but then it is
a communication which the hearer is pre- pared to receive, because he has
himself used the same expression for the same purpose. What is to
be done when the information or the conviction is altogether strange to
the mind which is to receive it ? In this case the ♦ Refer to
Chap. I. Sect 19. ON RHETOKIC. QCHAP. HI.
speaker will seek in vain, as in the first case, for an expression
previously familiar to the hearer; and he will have to form an
expres- sion. But how shall he form it? As words have the power of
representing only what is known on both sides, he must form it not
with signs of what is to be made known, but of what is already known. In
this way, he may produce an expression — whether that expression
take the name of sentence, oration, treatise, poem, &c. * — which, as
a whole, de- notes that which his mind has been labouring to
communicate — the information, the con- viction, or the sensitive
associations he is de- sirous that others should entertain in
common with himself. The necessity of so protracted, so artful a
process, must be set down to the hearer's account, not to the speaker's.
The latter is (or ought to be) in previous possession of what he
seeks to communicate — he has been through the process, and reached
the result : but that result he cannot give at once ' Compiirc
Chap. I. Sect. 20. and gratuitously to others : he can
but lead them to it, as he himself was led, by address- ing what
they already know or feel ; and his skill in rhetoric will be the skill
with which, for this purpose, he explores their minds. It will be a
process of synthesis on his part, and of analysis on theirs. He will form
an ex- pression out of WORDS which signify what they already know,
or what they have already felt : and the separate understanding of
these on their part, will enable them to understand his expression
as a whole. This being the theory of Rhetoric which grows out of
our theory of language, we now proceed to show that the actual
practice of every speaker, and of every writer, is in accordance with
it. 5. To begin with Description and Narra- tion : — Is it
not obvious, that, to procure in another mind the idea of things unknown,
we proceed by raising the conception of those that are known ? An
object of sight which the party addressed has never seen, we give
an idea of by allusions made iu various ways to objects he has seen :— or if,
being new as a whole, it is made up of parts not new, we give the
idea of the whole by naming the parts, and their manner of union. An
unknown sound, or combination of sounds, an unknown taste, smell,
or feel, is suggested to another mind by a comparison, direct or
indirect, with a known sound, taste, smell, &c. As to
conceptions purely intellectual, it is a proof how little one mind can
directly represent or open, itself to another, that, in the first
in- stance, such conceptions can be made known not by words that
directly stand for them, not by comparisons with things of their
own nature, but only by comparisons with affec- tions and effects
outwardly perceptible; as would at once be obvious in tracing to
their origin all words that relate to the faculties and operations
of the mind *'y although it is true * Thus afdrnvs^ amma^ +*'%»»,
originally signify wind or breath : ^vfiog /Mevog^ mens^ impetuosity ;
in- tellect is from inter and lego, I collect from among ;
perception and oonceptUm are from capio I take, — a that
these words at last become well under- stood names, that at once suggest
their re« spective objects, without bringing up the ideas of the
objects of comparison that once in- tervened. In narration we proceed by
similar means. We presume the hearer to be ac- quainted with facts
or events of the same kind as that which is to be made known,
though not with the particular event ; for we \x%Q generalievmSy i. e.
terms expressing kinds or sorts, in order to form every more par-
ticular expression. If the hearer should be unacquainted with facts or
events of die same kind, the communicator then has recourse to
use of the verb still common in such phrases as ^^ I take in with
my eye,'' and, " I take your meaning ;'' judgment is from jus dicere
; understanding suggests its own etymology ; refleadon implies a casting
or throwing back again; imagination is from imago^ an image or
representation; to thinks according to Home Tooke, is from thing ; —
" Res-^k thing (he says) gives us refyr I am thinged,'' i. e.
operated upon by things. These are etymologies suggested by
authori- ties universally accessible ; — the curious in this
depart- ment of learning would be able to add much more.
circuitous comparisons. If nothing is pre- viously known to
wliich the action or event can, however remotely, be compared, the
attempt to make it known must be as fruitless as that of giving an idea
of colours to one bom blind, or of sounds to one born deaf*.
* Not without reason does the angel thus speak to Adam in the
Paradise Lost : High matter thou enjoin'st me, O prime of men,
— and hard : for how shall I relate To human sense the invisible
exploits Of warring spirits ? And he proposes to overcome the
difficulty in the only way in which it can be concaved possible to be
over- — what surmounts the reach Of human sense, I shall
delineate so By likening spiritual to corporal forms, As may
express them best. Far. Lost. Book 5. 1. 5G3. Still must the
discourse of the Angel have been unin- telli^ble to Adam : for the latter
must be supposed ignorant not only of the things to be illustrated,
but of far the greater part of the illustrations. There was no
keeping clear of this defect in the philosophy of die jwem, if, in a
poem, we arc to look for philoso- phy. The discourse even of Adam and
Eve, though Thus, then, when we make use of words in order to
inform, we produce the effect by adapting them to what the hearer
already knows. In using words in order to convince and persuade, we
produce the effect in the same way. But to convince, it is ne-
cessary to inform — to acquaint the hearer either with something he did
not know before, or with something he did not attend to ; and the
information is called the argument * or proof. Thus the information that
"Plato was a philosopher," is an argument or proof that
he is deserving of respect: and the clear testimony that " a man has
killed another maliciously," proves that the perpetrator is
guilty of murder. But why do we account the information in the respective
instances an argument or proof of the conclusion ? For
Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things which the
least philosophy will teach us they could not be acquainted with.
* The word argument is commonly used iii the sense we here assign
to it ; though it is likewise often used with » more coniprelicnBivc
meaning. no Other reason than this, that it is addressed to a
notion (knowledge) previously acquired of what persons are deserving of
respect, (in the first instance,) and of what constitutes the crime
of murder, (in the second instance.) Take away this previous knowledge,
and the information remains indeed, and may perhaps be clearly understood,
but in neither instance can it lead the hearer to the conclusion, —
that is to say, it will not then be an argument for the end in view : it
will communicate, perhaps, what it professes to make known, but
there the matter will end. In every process, then, by which we propose to
convince others of a truth, there are three things implied or
expressed : i. that which we intend to prove true, and which, if stated
first, is called the proposition, if last, the conclusion : ii. the
in- formation by which we try to prove it, and which is accordingly
called the argument or pro of; iii. the previous notion (knowledge)
to which the information is addressed, and which is frequently
called the datum ; being that which is presumed to be already known,
and therefore conceded or given by the person reasoned with ; on account
of which, and solely on this account, the information is offered in
the capacity of an argument or proof. Now, here we have the parts of
a syllogism, (though in reversed order, viz. the conclusion, the
minor, the major,) and this may serve to show, without having
recourse to the Aristotelian doctrine of the comparison of a middle
with extremes, why the form of a syllogism, where necessary, must always
be a forcible way of stating an argument. For first we state that
which our hearer cannot but. concede j (major ;) then we state that
which he did not know or attend to, in such a way that he must receive it
on our testi- mony, or admit as evident as soon as it is attended
toj (minor;) and these two being admitted, they are found to contain what
we proposed to prove: which we then draw from them without the
possibility of a rational contradiction; (conclusion.) For example;
o our hearer knows by experience what persons are
deserving of respect: he knows, then, that ** Every
philosopher is deserving of respect.^ We then remind him of the
fact which he has learned from history, that " Plato is
a philosopher :'' Hence on his own knowledge we advance the
undeniable conclusion, " Plato is deserving of respect''
Is this conclusion at all fortified — is the process which led to
it explained — by shew- ing that a comparison of the terms
independ- ently of the things, produces the proposition which
expresses it ? Both the hearer and the speaker must have the
kno'wledgevfYiicYi the first two propositions refer to, or the conclusion
can- not be drawn for any rational end : and if they have the
knowledge, they have the conclusion in that knowledge. In convincing the
hearer, the speaker does nothing but remind him that he (the
hearer) has the necessary knowledge ; and the syllogism, we admit, puts
the matter home in a very forcible way : but that is all : another
form of speaking will oflen do equally well : for instance, " Plato
who is a philosopher is deserving of respect." Whether the
truth is stated in this way, or in the for- mer way, or in any other way,
the extract- ing of a middle and extremes out of the ex* pression,
and demonstrating that these agree or disagree, is, we repeat it, a
puerile addition to the process that has previously taken place.
Again, with regard to the other example at the beginning of the section:
— Our hearer knows, (suppose him to be a juryman,) either of his
own knowledge, or by the definition laid down by the judge, that
^^ Maliciously killing a man is murder.''^ This is the datum,
or major. He receives in charge, i. e. he is informed that A. B. killed
a man maliciously, which is tantamount to saying that
" What A. B. did, is killing a man maliciously.*" o
2 196 ON RHETORIC. [CHAP. Ill, This information
is to be the argument or minor by which the conclusion is to be
esta- blished; but the juryman must be made sure of its truth, — he
must know it, — before he can receive it in this capacity : — well, he
is made sure of its truth : — must he then go to Aristotle, and be
taught to compare the middle with the extremes, in order to pro-
nounce his verdict that " What A. B. did, is murder:''
that is, he is guilty of murder? Will he be MORE satisfied with his
own verdict, if he is able to do so ? Common sense pronounces, no.
Let us, then, for ever have done with the Aristotelian Syllogism ;
admitting, how- ever, in favour of the form of expression, that to
express (i.) the datum, — (ii.) the inform- ation which, because it is
addressed to the da- tum, is an argument,— and (iii.) the
conclusion from them — in three distinct propositions, is a very
forcible way of stating a truth which we have reason to believe our
hearer is prepared to admit the moment it is so stated. But the
syllogism thus detached from the artifice of comparing a middle with
extremes, is only one among the innumerable ways of express- ing a
truth, which the custom of language permits, and is no more the invention
of Aristotle in particular, than any of those other forms that
might be used instead of it *. 7. This brief notice of the
syllogism in addition to what was advanced in the last chapter,
occurs by the way : — ^the point we had in hand, was, to show that in
convincing others by means of words, we adapt our words to what
they already know. And this must be evident from what has preceded. For
we previously proved, that, in order to inform, * Our
observations on the syllogism are not meant to call in question the
intellectual capacity of the in- ventor. For what we conceive to be a
just estimate of his merits, we refer to Dugald Stewart'^s Second
Vol. of the Philos. of the Human Mind, Chap. III. Sect. 3., near the
middle of the section. we adapt our words to what our
hearers al- ready know ; and we have just shown that the process of
convincing them, is a process in which we address some information to a
pre- existing notion. Let us now see how this doctrine tallies with
the terras of art which are already in recognised use ; and, as
occa- sion may offer, let us inquire if there be any difference,
and what, between conviction and persuasion. 8. That every
argument used to influence others, is considered to derive its
efficacy from some pre-existing notion, opinion, or rul- ing
motive, whether permanent or transitory, in the hearer, is evident from
the following and similar expressions : argumentum ad Judi- cium,
by which we signify that our inform- ation is addressed to such general
principles of judgment as mankind at large are guided by :
argumentum ad hominem, by which we imply that we address those peculiar
principles by which the individual man is actuated. Again ;
argumentum ad vtrvcundiam, argumentum ad ignorantiam, argumentum ad Jidem,
argumcn- tum ad passiones, all imply arguments (infoim- ation)
addressed to some partial motives of judgment and action ; and in all
these, the conclusion arising out of the reasoning has the same
validity, as far as regards the mere act of reasoning : it is the
difference of the data that makes it of very different value. A
conclusion from an argument addressed to principles which all men
recognise, is obvious- ly a conclusion of universal force; but one
which arises from an argument addressed to peculiar principles, can of
course be convinc- ing only to such as admit those principles. So
likewise a conclusion which arises from the reverence entertained for the
author of the principles professed ; — or which follows in the
hearer's mind from his limited notions, and would not follow if he were
better inlorra- ed ;— or which follows because of his faith, and
would not follow, if he had not that iaith J— or because his passions are
previously disposed, and would not follow, if they were otherwise
disposed: — in these and in similar cases, the argument is valid, and
therefore ef- fective with respect to the minds for which it is
adapted, but addressed to other and more general motives or knowledge, it
may be no argument at all *. Here, then, we may perhaps see how the
difference arises between conviction and persuasion ; — mere
persuasion is conviction as far as it goes ; but it is con- viction
arising out of partial data : the person persuaded is conscious that the
reasoning process itself is right, but he suspects — perhaps more
than suspects — tliat the data which he has permitted his inclinations to
lay • Hence, what is Rhetoric at one tune and to one set of
auditors, may be none whatever at another time. Who has not admired tlie
Rhetoric of Marc Antony, (the Hpeecb over Ciesar's body,) in Shakspeare's
play of Jnhua Caesar ? But why do we admire it F Is it such
Rhetoric as would persuade all people under the circumstances supposed ?
No. But it is just such Rhetoiic as was fitted for the multitude under
those circumstances; and we admire the dramatist who so completely
suits the oration to the art of the speaker, und the minds of those whom
be has to operate upon. down, are wrong: he perceives
another con- clusion from other and less suspicious data, though he
has not resolution enough to em- brace it : so that the case we referred
to in the last chapter* as being so common in life, Video meliora
proboque^ deteriora sequor, amounts to this, — that we are divided
between two conclusions, the one drawn from data which we know to
have the sanction of uni- versal consent, the other from data
supplied by private motives. Thus, when Macbeth is bunging in doubt
between the suggestions of duty and ambition t, the conclusion from
each source is reasonably drawn : but he is not ignorant of the
different value of the respec- tive sources. He has nearly determined
in favour of the conclusion drawn from duty, when his wife enters,
who, by addressing con- siderations (information, arguments,) to
his known sentiments of greatness and courageous * Chap. II.
Sect. 2+. f Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7-
daring, persuades him to murder Duncan and seize the crown.
9. So much for the terms of art by which we signify the quaUty of
the arguments we use, as depending on the known motives, or
information, or disposition, of the persons addressed : which terms suit
our theory so well, that they seem to be invented for it. Nest, for
the terms by which the arguments themselves are technically
distinguished. First, we have a distinction of them into Ex- ternal
and Internal. Now, according to our theory, every argument consists of
some in- formation which we communicate to the per- son reasoned
with : — but this information may be something that he could not
possibly have discovered by any consideration of the subject itself
J or it may be something that he might have so discovered ; in which
latter case, our information will amount to nothing more than
making him aware of what he had overlooked. The former, then, will be an
ex- temal argument or
proof; the latter, an in- temal argument. Of the former, the
evidence in a court of justice is an example ; as are al- so proofs
from history and other writings, and irom the testimony of the senses. Of
the lat- ter kind, are all arguments from what are call- ed the
topica or loci communes : — for instance, from the definition or
conditions of a thing j as when certain lines are inferred to be
equal to each other from their nature or conditions as being radii
of the same circle : — from enumeration ; as when we prove that a
whole nation hates a man, by enumerating the several ranks in it,
who all do so : — from nota~ tion or etymology ; as when we infer that
Lo- gic has reference to the use of words in reasoning, from its
connexion with the Greek Xt'yw I speak, and \6yoi a word :— from genus
f as when we prove that Plato is deserving of respect, by showing
that he is one of a getius or kind that is deserving of respect : —
from species ; as when we infer the excellence of ^ virtue in
general from that which we observe eo* [chap. lit. in some
particular act of virtue : — anil so like- wise of the same kind, namely
internal, are aiguments from the other well known topics ; (not to
prolong the instances, which are easily imagined ;) from cause, whether
efficient, JiJial, Jbrmal, or material; from adjuncts, antecedents,
consequences, contraries, opposiles, similitudeSy dissimilitudes, things
greater, less, or equal: &c. The deriving of arguments from
these internal topics*, is nothing more, on the part of the
speaker, than turning a subject into every point of view that may suggest
a some- thing relating to it, overlooked perhaps by the hearer, and
which, by being brought to his notice, and addressed to his
pre-existing notions, may prove, or render probable, the
proposition in hand ; and according to the de- gree of force which the
argument carries, it is • The reader needs not be reminded how
largely this subject of topics, (or places for finding the internal
or artiiicial proofs in contradiGtinction to the external or artificial,)
ia treated by the ancients : for instance, by Aristotle, by Cicero, (vide
the book called Topu-a,) and by Quinctilian. deemed an
instrument of conviction or of persuasion. An argument from defimlion ; —
- (for instance from the conditions of a problem or theorem j as
where lines are required to he drawn which are to be radii of the same
cir- cle J ) which argument is addressed to a notion assumed among
the general conditions of the I reasoning ; (for instance, that " a
circle is suct]^ ] a figure that all lines, (called radii,) drawn,
j from a certain point within it to the circum- ference are equal
" ;) — an argument so derived and so addressed, is demonstrative of
the pro- position which it is brought to prove : (e. g^ that the
lines are equal.) An argument froni[1 enumeration, — (for instance, from
a statement 1 of the several ranks that are found in a n&- ]
tion,) addressed to a notion that the parta J enumerated are all the
parts, (for instance^ j that the several ranks of people that hate A.
j B. comprise the whole nation,) is also de- monstrative with
respect to that notion ; but if the enumeration should not comprehend
all the parts in the hearer's notion of the whole, or if the hearer
should doubt whether his own notion is sufficiently comprehensive, no
ab- solute conviction takes place. Still, the enu- meration may
induce belief, and will in such case be said to persuade, though not to
con- vince. The same might be shown of the ar- guments derived from
all the other topics. Entire conviction would follow from any of
them, if the hearer were fully satisfied both of the truth of what is
offered in the way of ar- gument, and of the correctness of his own
no- tion to which the argument is addressed : but greater or less
degrees of doubt may accom- pany each of these, and greater or less
de- grees of doubt will therefore attach to the conclusions which
flow from them. We may moreover observe, that the truths a speaker has
in view, do not always stand in need of demonstration : they are perhaps
admitted al- ready, but it may be that they do not suffici- ently
influence the hearer's sensibilities. The object of an argument will then
be, to awaken those sensibilities, and with this effect its purpose wiU
stop : as, for instance, when in or- der to awaken sensibility to the
frail nature of man's existence, (not to demonstrate it,) the
speaker draws his argument from simili- tude : Ah ! few and
full of sorrows are the days Of mieerable man ! his life decays
Like that fair flower that with the sun's uprise Its bud unfolds, and
with the evening dies. Here, the argument is obviously meant
for persuasion. There may, at the same time, be an ultimate truth
in view, which the speaker designs to enforce when he has prepared
the mind for receiving it; and he will then employ arguments of a
different kind, and address them to notions of universal dominion. —
But with regard to any of the arguments which, in this brief review
we have glanced at — whether external or internal, whether demon-
strative, or only inducing belief, whether de- signed to convince, or
fitted but to per- suade, — the process accords with the theory
assumed: — the speaker adapts words to knowledge the hearers have already attained,
or to feeliugs they have already experienced, in order to conduct
them to some discovery he wishes them to make, or to some
unexperienc- ed train of thought conducive to such dis-
covery. 10. The assumption of this as the great principle of
the art, will, in the next place, enable us to clear it from certain
misdirected charges to which it has always been liable. The
expedients which the orator employs, the various tropes and figures of
which his discourse is made up, are apt to be looked upon as means
to dissemble and put a gloss upon, rather than to discover his real
sentiments*. That, like all other useful * We refer more especially
to the following pas- sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on
the Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book. ^^ Since wit
and &ncy find easier entertainment in the world than dry truth and
real knowledge, figurative speeches and allusion in language will hardly
be ad- mitted as an imperfection or abuse of it. I confess in
discourses where we seek rather pleasure and de- SECT. 10.]
ON RHETORIC. 209 things, they ^re sometimes abused*, nobody
• E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^ d^Uag Tn roKzuTn
^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara ^ivruv Tuv ayaOav*
Arist. Rhet. I. 1. light than information and improvement,
such orna- ments as are borrowed from them can scarce pass for
faults. But yet if we would speak of things as they are, we must allow
that all the art of rhetoric, besides order and clearness, all the
artificial and figurative ap- plication of words eloquence hath invented,
are for nothing else but to insinuate wrong ideas, move the
passions, and thereby mislead the judgment, and so indeed are perfect cheats
: and therefore however laudable or allowable oratory may rehder them in
ha- rangues and popular addresses, they are certainly, in all
discourses that pretend to inform or instruct, wholly to be avoided ; and
where truth and knowledge are con- cerned, cannot but be thought a great
fault either of the language or the person that makes use of them.
What, and how various they are, will be superfluous here to notice ; the
books of rhetoric which abound in the world, will instruct those who want
to be informed : only I cannot but observe how little the
preservation and improvement of truth and knowledge is the care and
concern of mankind ; since the arts of fallacy are endowed and preferred.
It is evident how much men will deny : but to consider them by their
very nature as instruments of deception, only proves that the
objector utterly misconceives the relation between thought and
language. These expedients are, in fact, essential parts of the
original structure of language ; and however they may sometimes serve the
pur- poses of falsehood, they are, on most occa- sions,
indispensable to the effective communi- cation of truth. It is only by
expedients that mind can unfold itself to mind;— lan- guage is made
up of them ; there is no such thing as an express and direct image
of thought. Let a man's mind be penetrated love to deceive
and be deceived, since rhetoric, that powerftil instrument of error and
deceit, has its esta- blished professors, is publicly taught, and has
always been had in great reputation : and I doubt not but it will
be thought great boldness, if not brutality in me, to have said thus much
against it. Eloquence, like the fair sex, has too prevailing beauties in
it, to suf- fer itself ever to be spoken against. And it is in vain
to find fault with those arts of deceiving, wherein men find pleasure to
be deceived.'*' with the clearest truth — let him burn to com-
luunicate the blessing to others ; — ^yet can he, in no way, at once lay
bare, nor can their minds at once receive, the truth as he is con-
scious of it. He therefore makes use of ex- pedients : — he conceals,
perhaps, his final pur- pose ; for the mind which is to be
informed, may not yet be ripe for it :— ^he has recourse to every
form of comparison, (allegory, simile, metaphor*,) by which he may awaken
pre- disposing associations : — he changes one name for another,
(metonymy,) connected with more agreeable, or more favourable
associa- tions : — he pretends to conceal what in fact he declares
; — (apophasis ; — ) to pass by what * In referring to these and
other figures of speech, it is impossible not to be reminded of Butler'^s
distich, that All a rhetorician'^s rules Teach
nothing but to name his tools. The fact is as the satirist states
it. But then it is something to a workman to have a name for his tools
; for this implies that he can find them handily. — May we add to
our remark, that the world is scarcely yet in truth he reveals ; —
(paraleipsis) he interrogates when he wants no answer ;— (ero- tesis ; —
) exclaims, when to himself there can be no sudden surprise;—
(ecphonesis) he corrects an expression he designedly uttered ; —
(epanorthosis) he exaggerates ;— (hyperbole) he gathers a number of
particu- lars into one heap; — (synathroesmus) he ascends step by
step to his strongest position ; — (climax ) he uses terms of praise in
a sense quite opposite to their meaning ; — (ironia) he personifies that
which has no life, perhaps no sensible existence ; — (prosopopoeia) he
imagines he sees what is not actually present ;— (hypotyposis) he calls
upon aware how much it owes to such men as Butler, Moliere,
Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts of intellect,
that of plain sound sense, which enabled them at once to see, in their true
light, the vanities and absurdities of (misqalled) learningp But for the
histo- rian of Martinus Scriblerus, his predecessors and suc-
cessors, the world might still be under the dominion of a set of solemn
coxcombs, whose whole merit consisted in making small matters seem big
ones, and themselves to appear wiser than their neighbours.
the living and the dead ; — (apostrophe) all these, and many more
than these, are the ar- tifices which the orator* employs ; but
they are artifices which belong essentially to lan- guage ; nor are
there other means, taking them in their kind and not individually,
by which men can be effectually informedy or perstuidedj or
convinced. Could the prophet at once have made the royal seducer of
Uriah's wife fully conscious of the sin he had committed, he would not
have approached him with a parable t : that parable was the means
of opening his heart and understanding to the true nature of his crime ;
and it is a proper instance of the principle on which all eloquence
proceeds. It is true, we do not * We trust the reader scarcely
needs to be remind- ed, that the word Orator isused throughout this
treatise, in the comprehensive sense which includes all who wield
the implements of Eloquence. In modem times, the influential orator is
read not heard ; or if heard, his hearers are few in number compared with
his readers. t 2 Sam. 12. now make use of
parables fully drawn out ; but all metaphorical expressions, all
compa- risons direct or indirect, are to the same pur- pose ;
namely, that of bringing the mind of the hearer into a state or temper
fitted for the apprehension of truth. Nor, (we repeat,) must it be
thought that the means referred to, (excepting some instances in bad
taste,) are ornaments superinduced on the plain mat- ter of
language, and capable of being detached from it : they are the original
texture of Ian- guage, and that from which whatever is now plain at
first arose. All words are originally tropes ; that is, expressions
turned (for such is the meaning of trope) from their first pur-
pose, and extended to others. Thus, when a particular name is enlarged to
a general one, as our theory shows to have happened with all words
now general, the change in the first instance was a trope. A trope ceases
how- ever to be one, when a word is fixed and re- membered only in
its acquired meaning ; and in this way it is that all plain expressions
have originated. In a mature language, a speaker or writer may,
therefore, if he pleases, avoid figurative expressions. But the same
neces- sity, the same strong feelings, which originally gave birth
to language, will still produce new figures, or lead the speaker to
prefer those already in use to plain expressions, if, by the
former, he can touch the chords, or awaken the associations, that are
linked with the truths iie seeks to establish. Our theory of
language, and consequent theory of Rhetoric, will, in the next place, no
longer leave us to wonder at an ef- fect, which Dr. Campbell has laboured
to account for with much ingenuity; namely, that nonsense so often
escapes being detect- ed both by the writer and the reader*. For
according to our theory, words have a sepa- rate and a connected meaning,
each of which is distinct from the other. Now, suppose a succession
of words to have no connected Chap. VII.
See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book II. meaning,
which is as much as to say, suppose them to be nonsense ; yet, in their
separate capacity, they will nevertheless stand for things that
have been known and felt ; and if both the speaker and the hearer shbuld
be satisfied with the vague revival of this know- ledge and of
these feelings, they will neither of them seek for, and consequently will
not detect the absence of an ulterior purpose. The effect which is
produced by words thus used, (or rather misused,) extends no
further than that produced by instrumental music, and is of the
same kind. For no one will pretend that a piece of niusic expresses, or
can express, independently of words, a series of ra- tional
propositions ; yet it awakens some sen- timents or feelings of a
suflSciently definite cha- racter to occupy the mind agreeably. Now
perhaps it is not an unwarrantable libel on one half of the reading
world, if we affirm, that they read poetry and other amusing
composition for no further end, and with no further effect, than the
pleasure of such vague Sentiments or feelings as spring from music
: and to such readers it is of little moment whether the words make
sense or not. Ac- cordingly, when composition like the follow- ing
is put before them^ which presents striking though incongruous notions,
in words gram- matically united, agreeably jingled, and having a
connexion, probably, with certain sensitive associations, they are liable
to read on, not only without feeling their taste shocked, but
perhaps with some pleasure. Hark ! I hear the strain erratic
Dimly glance from pole to pole ; Raptures sweet and dreams
ecstatic, Fire my everlasting soul. Where is Cupid's crimson
motion, Billowy ecstasy of wo ? Bear me straight, meandering
ocean, Where the stagnant torrents flow. Blood in every
vein is gushing, Vixen vengeance lulls my heart ; See, the
Gorgon gang is rushing ! Never, never let us part *. * "
Rejected Addresses ;^ the particular example Nor is it in
(pretended) poetry alone, that the eflFect here alluded to tahes place.
Bring to- gether the rabble of a political party, and place before
them a favourite haranguer: — it 13 not by any means necessary that he
should make a speech which they understand, or even himself: he has
only to string, in plausible order, the accustomed slang words of
the party, and to utter them with the usual fer- vour ; the wonted
huzzas will follow as a matter of course, and fill each pause that
the speaker's art or necessity prescribes. And BO likewise in an
assembly of a different de- scription, — the piously disposed
congregation above being in ridicule of Rosa Matilda's
style. See also Pope's " Song by a Person of Quality."
The reader whose taste is gratified by such composition as is here
caricatured, stands at the other extreme from that mathematical reader,
who returned Thomson's Seasons to the lender with an expression of
disgust, that he had not been able to find a single thing proved
from the beginning to the end of the book. The reader for whom the
genuine poet writes, is equally removed from each extreme. of
a conventicle : the good man whom they are accustomed to hear has but to
put to- gether the words of familiar sound and evan- gelical
association — grace, and spirit, and new light, regeneration and
sanctification, edification and glorification ; an inward call, a
wrestling with Satan, experience, new birth, and the glory of the elect ;
interweaving the whole with unceasing repetitions of the sa- cred
name, accompanied by varied epithets of, blessed, holy, and divine : and
with no further assistance than the appropriated tone and frequent
upturned eye, he will throw them into a holy transport, and dismiss them,
as they will declare, comforted and edified. This effect, which is
apt to be attributed to hypocrisy because the ordinary notions of
language suggest no cause for it, our theory explains with no heavy
scandal to the parties. 12. Concerning the elements of
Rhetoric ranged under the divisions of Invention and Elocution, we
have now made what remarks our object required. There yet remains one
division, namely, Pronunciation *; which will, however, scarcely furnish
occasion for extend- ing our observations ; since our theory is not
in any peculiar manner concerned with it. As we started with the Rhetoric
of nature, namely, tone, looks, and gesture, so we are at *
Disposition and Memory are in general adde4 to these three. " Omnis
oratoris vis ac facnltas,'*^ says Cicero, ^^ in quinque partes est
distributa ; ut deberet reperire primum, quid diceret; deinde in-
venta non solum ordire, sed etiam momento quodam atque judicio dispensare
atque componere ; tiun ea de- nique vestire, atque omare oratione ; post,
memoria sepire; ad extremum, agere cum dignitate et venustate.^ De
Orat. 1. 31. As to two of these divisions, we have no occasion to notice
them, because there is nothing in our theory of language which requires
them to be viewed in a new or peculiar light : — We may take oc-
casion to observe, before' concluding the note, that the modem use of the
term Elocution, assigns it to sig- nify what the ancients denoted by
Pronunciation or Action : and Dr. Whately sanctions this modem
sense by adopting it in his Rhetoric. We have used it in the
foregoing page in the ancient sense : ^^ quam Graeci f^aa-iv vocant,^
says Quinctilian, ^^ Latine dicimus Elocutionem.'*'* Ins. viii. 1.
once ready to admit that these may, and ought to accompany the
language of art ; — that they ought not to be absent even from the
recollection of him who writes, lest his style be deficient in vivacity.
In union with these parts of Pronunciation, is that ele- ment of
artificial oral speech called Empha- sis ; and it will be to our purpose
to observe, how very inadequate are the common notions of language
to account for the actual practice of emphasis, as it may be observed in
English speech. The common view of words that make up a sentence,
is, that they respectively correspond to ideas that make up the thought
: and therefore, in a written sentence, if we would know the
emphatic word, we are de- sired to consider which word expresses
the most important idea*. Thus, when Dr. * To this end some
teacher of elocution (elocution in the modem sense) somewhere says : ^^
If, in every assemblage of objects, some appear more worthy of no-
tice than others ; if, in every assemblage of ideas, which arc pictures
of those objects, the same difference Johnson was asked how we ought
to pro- nounce the commandment, ** Thou shalt not bear false
witness against thy neighbour/* he gave as his opinion that not should
have the emphasis, because it seemed the most im- portant word to
the whole sense. But Garrick influenced by no assumed theory,
pronounced according to the practice of English speech, ** Thou
shalt-not bear," * &c. There is in fact no other rule than
custom in English speech for the accenting of words in a sentence,
any more than there is for accenting syllables in a word. A
peculiar or referential meaning may indeed disturb the usual accent of
a prevail, — it consequently must follow, that in every
assemblage of words, which are pictures of these ideas, there must be
some that claim the distinction called emphasis.^ All this ingenious
parallel, with Aristotle^s authority to back it, we affirm to be purely
visionary, and we hope the reader by this time thinks as^ we do.
Yet is the passage in entire accordance with the no- tions of language
that commonly — nay, it should seem, universally prevail. *
The story is somewhere related by BoswelL word : for instance, the common
accent of the word for^ve, will be displaced if the word is
pronounced referentially to a word that has a syllable in common ; as in
saying to give and loj'drgive. And just so will it be in a sentence
which is pronounced refer- entially to an antecedent or a
subsequent sentence, either expressed or understood : which would
be the case, if we pronounced tie ninth commandment in contradiction to
one who had said "Thou shaltbear false witness," &C.,
for then we should accent it in Johnson's way, and say " Thou shalt
n6t bear," &c. Now this is what is properly called
emphasis, namely, some peculiar way of accenting a sentence in
order to give it a referential mean- ing. A sentence pronounced to have a
plain meaning has its customary accents, but no emphasis. The
commonest example will be the best ; and therefore we will quote
one that may be found in every book in which emphasis is treated
of: "Do you ride to town to-day?" If this is pronounced without
allusive meaning, ride, town, and day, are equally accented by the custom
of the language, and there Is no emphasis properly so called :
which, by the way, is a pronunciation of the sentence that teachers of
read- ing, in their search after its possible oblique meanings,
forget to tell us of. Suppose we give an emphasis to ride, then
lide-to-toivn-to day will be allusive to ■wdlk-to-town-to-day, as
we might accent the word intrinsical in the mauner marked with a
reference to the word Extrinsical, although the plain accentuation
is intrinsical. So again to-loTvn-lo-day is allusive to
the-country-to-day, and to-town-to-ddy is al- lusive to to-town-to-m6rrow
; as the word powerless might be accented on the last syl- lable
with a view to poweiiful. That the ac- tual practice of emphasis
corresponds with this account, the reader may satisfy himself by
observing the conversation of the well- bred, — not their reading, for
that is oflen conducted on mistaken principles : — and we scarcely
need point out how completely this practice accords with our theory of
language. For with us, a sentence is a word, not more resolvabie
into parts that constitute its whole meaning, than a word made up of
syllables ; and as with regard to a word of the latter de- scription,
the accent is determined to one syl- lable by custom, but is disturbed
and placed on another syllable in making allusion to another word
having syllables in common ; so with regard to a sentence (word) made
up of words, the accents are likewise determined to certain words
that usually bear Ihem, but these accents are disturbed and placed
on other words in making allusion to a meaning which has, orwhich,
if expressed, would have, words in common. And here, with this new
kind of proof in favour of our theory, and with the last subject usually
treated of in Rhetoric, we might stop the hand that has traced this
OutHne. But there remain a few remarks that could not be introduced
earlier, for which the patience of the reader is en- treated a
little longer. We may take the liberty in the first place to
observe, that, with regard to the materials of Sematology which have been
con- sidered, our theory leaves them what they were : it pretends
only to show the true basis on which they stand, and that the
learned distribution of them, is not that which accords with the
actual practice of mankind. Suppose then, (if we may suppose so much,)
that our Grammars, our Books of Logic, and our In- stitutes of
Rhetoric, are to be altered in con- formity with the views which have
been opened, the changes will not affect the detail, but the
general preliminary doctrine, and the subsequent arrangement. As to
doctrine, the changes will mostly consist of omissions. In Grammar,
if we omit the common de- finitions of the parts of speech *, and
allow * God help the poor children that are set to learn
these, and other of the definitions in elementary grammars, particularly
English grammars; for the Latin ones are a little more sensible. That
jumble of a grammar that has the name of a Lindley Mturay in the
title page, after defining a verb to be ^^ a wend the tyro
to learn what they are by the parsing of sentences — that is, to ascend
from par- ihat Bignifiea to be, to do, or to suffer," {as if
no other part of speech signified to be, to do, or to suffer,) —
after saying what is true enough, but cannot be under- stood by a child
till he has practically discovered it, that " common names stand for
kinds containing many sorts, or for sorts containing many individuals
under them;" — with many like things, picked up from Lowth and
others, equally fitted for the instruction of young minds; condescends to
give a few plain di- rections for knowing the parts of speech, such as
the tyro is likely to understand: but the author, as if ashamed of
having been intelligible, remarks that " the observations wliich
have been made to aid learners in distinguishing the parts of speech from
one another, may afford them some small assistance ; but it will
certainly be mucli more instructive to distinguish them by the
definitions, and an accurate knowledge of their nature" Now the
observations referred to, are, in fact, the only passages calculated to
give a just un- derstanding of the parts of speech ; the
definitions wliich the writer enhances, being founded in an es-
sentially wrong notion of the nature of grammar. It is speaking to the
purpose to tell the tyro that " a substantive may be distinguished
by its taking an article before it, or by its making sense of itself;"^
that, " an adjective may be known by its making sense with
ticulars to generals instead of descending from generals to particulars,
— there la nothing the wortl thing, or any particular Gubstantive
;" that, " a verb may be diBtinguishcd by its making
sense with any of the personal pronoiuiB ;" that, " a
preposi- tion may be known by its admitting after it a personal
pronoun in the objective case ;" and so forth. These are not only
plain directions for the purpose professed, but they suggest the real
differences among the parts of speech; and if the compiler had
condescended throughout his book (or books, for there are appen-
dages) to adapt his explanations, in the same manner, to the minds of
those who were to be taught, he would have avoided the errors of doctrine
which he always runs into when be attempts to give, what as the
author of an elementary grammar he has never any buaiiiesa to give,
namely a philosophical or general principle. Moreover, in the arrangement
of his materials, he seems incapable of, ot at least is inattentive to,
the clearest and most necessary distinctions. Thus, (to take at
random two examples from liis book of ex- ercises,) he gives the
following as instances of bad grammar : " Ambition is so insatiable,
that it will make any sacrifices to attain its objects." (12mo.
edit, p. 128.) " When so good a man as Socrates fell a victim
to the madness of the people, truth, virtue, re- ligion, fell with
him." (Ibid 116.) The former of these sentences exemplifies the
Logical fault, non- in what remains that can be objected to :
the declining of nouns, the conjugatiiig of verbs, scquitur,
and the latter will advantageouBly receive the Rheimcal ornament
polysyndeton : but to give them as instanccB of defective Grammar, b to
blind the learner to the nature of the art he is studying. — The
grammatical works wc are referring to, seem, from the number of editions
they have gone through, to be in very general iise, or we should not
have deemed them worth so long a note. \Ve pass to a remark on
another grammatical work of very different character and value, the Greek
grammar of Matthise. This work has justly won the approbation of
the learned throughout the world; but we conceive the praise
belongs to its elaborate detail, and not to such principles as the
following. " Every proposition, even the simplest, must contain two
principal ideas, namely that of the Subject a thing or person, of which
any thing is asserted in the proposition, and that of the
I'redicate, that which is asserted of that person or thing." (Matth.
Gr. § 293.) To state our objections to tliis passage is difficult,
because we do not know how the author or translator may define a
propositic»i, or what they may mean by the principal ideas in it.
Perhaps they may consider no expression a proposition which does not
consist of a subject and predicate. Wc deny that, from the nature of the
thought, any commu* nication requires these grammatical parts, {they
are A and the other business of the
grammar-scliool, we deem, as it has always been deemed, in-
dispensable. In Logic, if we omit ail that is taught concerning ideas
independently of words ; if we omit what ia taught concerning the
two operations of the mind, Perception and Judgment distinct from
Reasoning, not because those operations do not take place, but
because every single abstract word fully understood, (and Logic begins
with words,) expresses a conclusion from a rational process as
efTectually as a syllogism ; and if we further omit (and the omission is
important) whatever is peculiar to Aristotelian Logic ; — all that
remains will, on the principles we have had before us, be essentially
useful to the learner ; namely, the precepts for accurate definition
; the precepts against the assumption of un- warranted premises j
the precepts for guarding against the false conclusions to which we
are merely g^rammalical,) though the necessities of
lan- guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL 25. ; about
the middle of the Section. liable when we reason tvith words, and
not merely by means of words; the precepts for guarding against
being led away by true con- clusions, when there may be conclusions like-
wise true and more important from other data ; which data, with their
conclusions, are, kept out of sight by the art of the speaker, or .
the blindness of the inquirer*. In Rhetoric, there is less to be omitted
than in the other branches ; but in this department, the general
views we have opened are important, because they exhibit the art in
connexion with a great and worthy end; an end which, it should
seem> has not always been thought essential to it.
* We mean to say, that the7na(e)'taZsof acomplete budy of
ioEtructioD ia Logic already exist in Literature ; but tliey esisE not in
any one system. They are more- over BO mingled with what is erroneous hi
doctrine, that the good is difficult to reach, without imbibing a
great many wrong notions that frustrate the practical benefit How
can it be otherwise, if what we have endeavoured to prove, is true, that
the principle of the Logic which all men use and all men operate witli,
has never yet been cxpIaiRvd ? For as Rhetoric is an
instrumental art, we are told that it ought to be considered ab-
stractedly from the ends which the speaker or writer may propose in using
it j and Quinctilian who insists that the Orator, (that is, of
course, the consummate orator,) must be a virtuous man, lias been classed
with those whom atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed ioto a
wrong estimate of the art*. As we think the good old Roman schoolmaster
is not quite beside the mark in his notion on this point, we
propose to inquire wliether the placing of Rhetoric on the basis we
have ascertained, does not lead to the position he so stoutly
maintains. Now, the immediate basis of Rhetoric is Logic ; and our
remarks will therefore begin with the latter. 14. Logic as
well as Rhetoric is an in- strumental art ; but if our definition is
correct, it is an instrument for the discovery of truth, and it is
then only perfect as an instrument when it is completely adapted to that
end. • See Whately's Rhetoric. A great and worthy end is therefore
essential to Logic ; and a correspondent effect will appear in
those who have made a skilful use of it. But the Logic we speak of, is
that which is applied to things, namely to Physicot and Practica *;
that is to say, which is em- ployed to ascertain the constitution of
the world in which we Uve, and of ourselves who live in it, and
thence to deduce what we ought to do: — but the examination of the
world, and of ourselves, and of our duties, is the examination of
particulars ; and our Logic has recourse to universals for no other
purpose than to understand particulars the better. If there is a
Logic, which, resting in universals, confers the power of talking
learnedly and wisely, yet leaves a man to act the part of an
Ignoramus and a fool in the commonest concerns of life, this is not the
Logic we have had in view. There is indeed a learned ig- norance,
aa there is an ignorance from want of learning ; there is also an
ignorance from natural incapacity, and an ignorance from
superinduced insanity ; by any one of wliich tbe mind may be prevented from
reaching truth. Not that in any case whatever the reasoning process
is wrong ; but if the reasoning proceeds on wrong or insufficient
premises, which it will in any of these cases, the conclusion will of
course be wrong. Some one has said that " the difference between
a madman and a fool is, that the former reasons justly from false
data, and the latter erro- neously from just data." This is
incorrectly said : — the idiot who walks into the water because he
knows no better, is incapable of the just datum, and therefore cannot be
said to reason from it : if he knew the datum, namely that the
water would drown him, he would not walk into it ; but he does not
know this, and therefore he walks into it : in doing which, he reasons,
so far as his know- ledge goes, as justly as the madman, who walks
into it because his disturbed fancy makes him take it for a garden. Wlien
the SECT. 14.] ON RHETORIC. 235 road to truth is
blocked up by either of these two causes, namely irabeciUty or insanity.
Logic can do nothing ; but ignorance whether from wrong learning or from
want of learning, is to be removed by the appUcation of ge- nuine
Logic to P/it/ska and Praclica. Still, independently of tlie toil to be
encountered, there are obstructions and delusions which are liable
to turn the most ardent inquirer out of the path. There may not be
natural im- becility, nor permanent insanity ; yet there may be an
habitual incapacity of judgment from the influence of prejudice, and
aa occasional insanity of judgment from the in- fluence of passion.
But among other things we learn in Pki/sica, these facts are to be
reckoned ; and the precepts which warn us of them, are among the most
important of those which belong to Praclica. In the mean time, that
we may be induced to persevere in the search after truth, till our real
interests become so plain that we cannot but embrace them, we are
not permitted to feel at ease under the mists which passion and
prejudice create. The fool and the madman to whom mists are
reaUties, are satisfied in their judg- ments; but it is not so with those
who see dimly through the fog, and suspect there may be better
paths than those they are pursuing. This suspicion, as light breaks in,
may at last become conviction, strong enough to subdue even the
habit or inclination by which a wrong path is made easy, and a
departure from it difficult. True, indeed, such over- powering
conviction may not reacii the ma- jority of mankind at present: they may
be compelled, as heretofore, to wear out life in struggles between
right and wrong, between inclination and duty, between future good
and present solicitation : but are we forbidden to hope, for future
generations, a gradual alleviation of so painful a conflict, in
propor- tion as what is good and what is evil shall be made plainer
to the eye of reason • P At least > * All vice is ignorance or
habit. Who would not take the best way of being happy, if he knew it —
that may we affirm, that all learniag has, or ought to have, this
consummation in view. is, knev it to conviction — and his habits
did not prevent him ? But he may discover the best way when hia
bahitE are fixed; as a miEerable dnmkard, who drinks on to escape from
utter dcepair, sees with bitter regrel the happiness of a sober life.
With a common notion of learning and ignorance, an objector will demur
to our statement ; but such an objectot should be told, that a man
may have run the circle of the sciences aa they are commonly taught, and
yet remain in ignorance of what is most important to be known. This is
s truth which not only Christian teachers, but the wise among the
heathen inculcate. In that admirable relic of Socratic philosophy,
£;EBHT02 niNAH, there are, among the personifications, two that bear
the names of naiitia and "Htuimaihla, (Learning and
Counterfeit-learning,) by the latter of which is ligured all that,
independently of the knowledge which makes I men permanently happy,
passes under the name of I learning. Now, in that knowledge which alone
ia | valuable, a man cannot be called learned, whose coik viction
is not strong enough to determine his practice. The thirsty wight Tiho,
in a state of profuse perspira* tion, calls for a glass of iced-water,
may know there is danger in the draught : but if his knowledge is
not strong enough to prevent the act, what is its value ?— at the
moment, it is even worse than useless ; since Such then is the aim
and scope of Lo- gic in relation to Physica and Pracika : it is
may be sufficient to disquiet the luxury of the draught, though not
sufficient to subdue the desire for it. When Macbeth, (for the case is
not dissimilar,) resolves to gratify his ambition, he is not ignorant of
the danger he runs, and the secure happiness he leaves behind him ; but
he is so far ignorant as to prefer the phantom of happiness to the
reality. Yet he is not so ignorant as his wife, and he reaps, in
consequence, less immediate gratification. Having once held the
balance, with some impartiality, between right and wrong, he is
incapable, even for a moment, of being a triumphant villain. The
crooked-baek Richard, (for having begun our examples with Shakspeare, we
will continue with him,) is not so distracted by divided data. "
Securely privileged," says Mr. Foster, " from all interference
of doubt that can linger, or hiunanity that can soften, or timidity
that can shrink, he advances with a grim con- centrated constancy through
scene after scene of atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way
through with a bloody ase.' He does not waver while he pursues his
object, nor relent when he seizes it." (Essays on Decision of
Character, &c.) Yet both he and Macbeth's wife at length get nervous
in their sleep : for so it is, that if one scruple of conscience
lurk in the soul, it will produce its effect sooner or later; and
tliat effect will begin when the bodily powers are the means of
discovering truth in botli these departments. Now we assume, that the
pro- weakest; and as body and mind have a mutual in- fluence, the
former -will sicken and perpetuate the horrors of the latter, unless, as
with Richard, a violent death intervene. The three wretches vc have
thus far referred to, have this in common, that they do not embrace
vice for its own sake, but as a means of reaching the phantom of
happiness that dances before them. But there is a state of vice brought
on by habit, in which a man finds a pleasure in doing evil, and is
in- capable of any other pleasure. lago is our example — a
character which, it is to be feared, is by no means out of life. Imagine
a shrewd and selfish child per- mitted from infancy to create for himself
a satis- faction in the disquietude of others — a little worrier of
defenceless creatures— a petty tyrant indulged in his worst caprices ; —
imagine such a one, as he grows up, placed where his habits cannot be
indulged but in secret, and where those around him are such, that
he must, in his own mind, either hate them, or hate himself:
imagine all this, and lago will appear too possible a character. Some
critics have objected, that there is no sufficient motive for the
mischief he brings on Othello, Desdemona, and Cassio. Can there be,
to Aim, a stronger motive, than that they arc noble- minded,
benevolent, and happy, and tacitly remind him, at every instant, that he
is in all respects a per business of Rhetoric is to make truth
known when found j which assumption, if ad- mitted, would at once
establish our position ; for to suppose a consummate orator would,
in such case, be to suppose one who is too fully possessed of truth
not to be led by it himself, while acting as a guide to others. After
ad- mitting the assumption, it would signify little wretch? He knows
and bitterly feels, tliat each " hath a daily beauty in his life
that makes him ugly-" The only pleasure which habit has given him,
in lieu of those of which it has made him incapable, is, to torture
the beings that wound his self-love to the quick, and to destroy the
happiness he cannot partake in. Such is the power of habit. Though the
means, when properly applied, of putting a human being in train to
become an angel, yet added to, and encouraging the tendencies of his
uninstructed nature, it will render him, prematurely, a fiend. lago is
utterly depraved — a be- ing incapable of Paradise if placed in it — more
odious tlian Milton has been able to depict even Satan him- self;
for that majestic bdng, (the hero of the poem as Drydeu truly says he is,)
never appears " less than arcliangel ruined. " The "
demi-devil " of the dra- matist, excels, in mental deformity, what
the epic muse has been able to conceive of " the author of all evil.
" to object the actual characters of those who speak
and write ; for they may be pretenders in Rhetoric j or their advance in
it, though real, may be very inconsiderable toward the perfection
we are supposing. But it may be said that the assumption begs the
question, and leaves us still to show that the office of leading men to
truth is essential to Rhetoric, in contradiction to those who view it as
a mere instrument equally fitted for the purposes of truth and
falsehood. Now, it must be con- fessed, with regard to the means employed
in Rhetoric, that they frequently seem adapted to the prejudices of
men, — to meet rather than to oppose their ignorance and their
passions. And if there were any way of conveying truth at once into
minds unfitted to receive it *, the * It is a comiuoii thing
to say of a person, that he vtiU not be convinced. The fact generally
stands thus : we use arguments that convince ourselves, and presume
they are fitted to convince him, not knowing or not observing, that all
argument derives its force &om the previous knowledge in the mind to
which it is addressed ; and that our hearer may have been so use of
such means would be conclusive against an honest purpose in the speaker.
But the instantaneous communication of truth, is, un- der most
circumstances, impossible ; and there- fore we may next ask, what
interest a writer or speaker can have in an ultimate purpose to
deceive. The answer will be, — to serve one or other of those partial
purposes, of which the common business of life, whether we look
into its private circles, or into the forum or senate house, furnishes
hourly examples. But may we not describe all this as a conflict, in
educated as to render convicUon impoBsible by iuch arguments as we
offer him. Suppose, however, it be true, that our hearer mill not be
convinced, — thai is to say, does not wish to be convinced, because his
par- ty perhaps, or his profession, or the career (be it what it
may) into which he has entered, does not agree witli what is sought to be
established : let us in candour consider in such a case what a vantage
ground we oc- cupy, inasmuch as we see our own interest, temporal
or eterual, coupled with the proposition in view ; and let us condescend,
by the argumeittum ad homhiem, to give him a similar advant^e, before we
expect his conviction from the argumentum ad judicium.
which each is eager to show just so much truth as suits the present
purpose, and to veil the rest? And will not the whole of truth be
shown in this manner, as far at least as men have discovered it, although
not shown at once ? Of these skirmishers that use the arms
ufiensive and defensive of the art, each takes credit for a certain
degree of skill j but among them all, which is thg Orator? Is it not
he who soars above partial views and partial pur- poses, who unites
into one comprehensive whole what others advocate in parts, who
teaches men to postpone petty for greater ad- vantages, and to seek the
welfare of the indi- vidual in the happiness of the kind ? If,
then, the palm of eloquence is permanently his alone, who contends
for it in this manner, our chain of argument will not want many links
before we reach the conclusion, that to undertake the art on a
valid principle, we must con- sider its purpose to be that of leading
men to truth. 16. A Rhetoric growing out of the Logic of
Aristotle *, which, as we have seen, is the art of reasoning mlh words,
and not merely by means of words, may indeed well be sus- pected as
a specious and delusive art. Aim- ing at plausibility alone, it gives the
power of talking largely without requiring the know- ledge which
grows up Irom experience in particulars ; and thus we have
statesmen, who, if we listen to them, are capable of setting the
world in order, but know not how to re- gulate their households ; we have
financiers ready to accept the control of a nation's •
Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work completely to its purpose
; that is to say, fitted to make men prevailing speakers at the time in
wliich he wrote, by exhibiting comprehensively the bearings of the
ques- tions they would have to discuss, and the various kinds of
persons they would have to influence. It is indeed remarkable how little Aristotle's
other works are of a piece with his Logic ; nor is it without some show
of reason that Dugald Stewart supposes he was aware of its empty
pretensions, and was too wise to be deceived by it himself, though lie
chose to impose it on others. Sec Vol. II. of the Philosophy of the Human
Mind, Chap, III. Sect. 3. wealth, that have never learaed to
manage their own estates; we have lawyers, whom the simplest
questions of right and wrong would be sufficient to pei-ples * ; and
priests who, once a week, discourse " in good set terms "
to well dressed congregations, of vir- tue and of vice, of this world and
the next j but who would be incapable of oifering, from their own
stores, a single argument fitted to deter a plain thinking, ignorant man
from vice, or to stop the commission of a specific offence by
remonstrance adapted to the case. This specious eloquence, however, like
the Logic from which it springs, has almost lost its re- putation
and influence: we now require from speakers and writers more substantial
recom- mendations than the power of dwelling on vague generalities
; and in proportion as • But perhaps, with regard to lawyers, we
are requiring knowledge, which, as matters stand, would be an
incumbrance to them. A special pleader may Bay, " what have I to do
with simple right and wrong ? My business is to see how the letter of the
law can be applied or evaded." Mfi
genuine Logic enlarges the empire of truth, will the necessity
appear of seeking in an en- lightened mind, and a heart kindled by
active philanthropy, for the true springs of eloquence. Thus will
ambition be brought to side with virtue} because there will be no
way of winning distinction, but by cultivating the powers of language in
subservience to that knowledge, which gives a man the de- sire and the
faculty of beiug useful to others, and governing himself. To
conclude ; — the theory which, in this treatise, we have endeavoured to
establiah is this, — that we come at all our knowledge by the use
of media, which media are, chiefly, words; and that, as the words procure
the notions, the notions exist not antecedently to language : —that
when, by these means, we have gained knowledge, and try, by similar
means, to communicate it to others, we do not, while the process is going
on, represent our own thoughts, but we set their minds a thinking
iu a particular train ; that our own thought 13 represented by nothing
short of the completely formed word, whose parts, if any or all of
them are separately dwelt upon, are not parts of our thought, but signs
of knowledge which we and our hearers possess in common, and which,
by bringing their minds into a particular attitude, enables them to
conceive our thought, when the whde WORD that expresses it, is formed : —
that i§ before this word is formed, there are parts by which
something is Communicated not known before, yet, being communicated, it
is still but a part of the means toward knowing something not yet
communicated, and stiU, therefore, the principle holds good, that
we are adding part to part of the whole word which is to express
something not yet communicated ; which word, even though it ex- tend to
an oration, a treatise, a poem, &c., is as completely indivisible
with respect to the meaning conveyed by it as a whole, as is a word
which consists only of a single syllable, or a single sound. If this
doctrine truly de- scribes the nature of the connexion
between thought and language, we claim for it the merit of a
discovery, because the common theory, that is, the theory which men
are presumed to act upon, and to which all pre- ceptive works are
adapted, — not the theory which, unawares, they really act upon, —
ex- hibits that connexion in a very different light. And, as a
discovery, we are the more dis- posed to urge attention to it, because
our soundest metaphysicians have expressed them- selves as if there
'ooas something to be dis- covered as regards the connexion we speak
of, before a system of Logic could be establisiied on a just
foundation. Locke says that when he first began his discourse on the
Under- standing, and a good while after, he thought that no
consideration of language was at all necessary to it. At the end of his
second book, he discovers, however, so close a con- nexion between
words and knowledge, that he is obliged to alter his first plan ; and
having reached his concluding chapter, he speaks as if he still
felt that he had not yet ascertained the full extent to which language is
an instrument of reason. Dugald Stewart, too, from whom, in the
conclusion of our first chapter, we quoted a passage which entirely
agrees, so far as it goes, with the views we have opened, '
has the following remark in his last work, the third volume of the
Philosophy of the Human ' Mind : " If a system of rational
Logic should ever be executed by a competent hand, this ** (viz.
language as an instrument of thought) '* will form the most important
chapter." Our doctrine is, that this will not merely form the
most important chapter, but that it wtU be the only chapter strictly
belonging to Jjo^ I ^c ; and yet the theory we offer keeps deaf of
the extreme which betrayed Home Tooke, who appears to consider reason as
the result of language. We pretend, then, to have inade the
discovery which Locke felt to be necessary, and the nature of which
Stewart more than i conjectured j but oura is only " «?i Outline ;
'* and the system of rational Logic which the Scotch metaphysician
speaks of, yet remains to be "executed by a competent hand:" —
we pretend but to have ascertained for it the true foundation. —
Something might be add- ed on the importance which the subject de-
rives from the aspect of the times : for the most careless observer
cannot but remark, how the rapid communication of knowledge from
mind to mind moulds and forms public opinion ; and how the opinion of the
many, ac- quiring, day by day, a character and a weight that never
distinguished it before, threatens to become the law to which not only
individuals, but governments, and eventually the common- wealth of
nations, must conform ; and hence we might be led to urge that Philosophy
cannot be employed more opportunely, than in a new examination of
the instrument by which so much has been, and so much more is
likely to he effected. The consideration is, how- ever, too obvious
not to have occurred to the reader, and we therefore close our
remarks. At page 55, the assertione, that the words of a sentence, "
as parts of that sentence'''', and the sentences of a discourse, "
na parts of that discourse"", are not by themselves
significant, would perhaps sound a little less paradoxical, if, instead
of each of the phrases quo- ted, the reader were to substitute " as
parts of that completed expression ". At page 88, supply
the other parenthetical mark after " imderstanding" in line
4. At page 196, line 6, the question is asked, whether the
juryman must go to Aristotle, and be taught to compare the middle with
the extremes ? The reader will observe that the example is already farced
into a form, namely that of a syllogism in barbara, which a juryman
untaught by Aristotle would probably never think of giving it, the other
way of speaking being by far the more obvious, viz. To kill a man
maliciously is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore
A. B. is guilty of murder. Here, instead of the Aria- totclian names
major and minor, we prefer calling the first proposition the datum, and
the second, with re- ference to the datum it is addressed to, the
argument ; and the truth of the argument having been proved by
testimony, we atfirm that the conclusion is as evident as a conclusion
can be, and that the Aristotelian formula is a needless and puerile
addition to a process already complete — a proof of what is proved : — it
is a use of language for the purpose of reasoning which does not
identify with, but goes beyond, and childishly refines upon that use of
language in which the logic of mankind at large consiets. The
doctrine of the whole work may receive some light from the following way
of stating it : — Man, in common with other animals, derives immediately
from nature the power to express hie immediate, or, as they are
commonly called, his natural wants and feelings. But he also possesses
the power of inventing or learn- ing a language which nature does not
teach ; and it is solely by the exertion of this power, which we
call reason, that he raises himself above the level of other
animals. By media such as artificial language consists of, and only by
such media, he acquires the knowledge which distinguishes him from other
creatures ; and each advance being but the step to another, he is a
being indefinitely improveable. But if words are the means of knowledge,
it is an error to describe or con- sider them in any other light ; and we
accordingly deem them not as, strictly speaking, the signs of
thought, but as the means by which we think, and set others a thinking.
This principle being admitted, renders unnecessary Locke's doctrine of ideas ;
and Sematology stands opposed to, and takes the place of, what the French
call Idealogy, With respect to these addenda, should the
reader ask, whether they are to be esteemed a part of our WORD, we
answer in the affirmative. We imagined our woED complete. If, on further
consideration, we had supposed so, we should not have added another
SYLLABLE. {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.) G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl,
SkJnnsi Street, Londoo. Giuseppe Capocasale. Keywords: sematologia,
la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a tear’ may be a sign of sadness –
or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but the kind of sign that an idea or
conception of the soul, or ‘rivelazione’ of the animus -- are related with are arbitrario
– ad placitum -- arbitrary, not necessarily a natural causal sign or nature.
The correlation between the segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic,
arbitrary, arbitraria, associative, associative, etc. A sign is not essentially
connected with the purpose of communication (smoke means fire, spots mean
measles, a tear means love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such –
a theory of communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the
intricacies of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because
he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on
‘lacrima’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Capocasale” – The Swimming-Pool Library
Grice e Capocci: l’implicatura
conversazionale del significare e santificare – il sacramento evangelico
significa grazia e sanctifica grazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Viterbo). Filosofo italiano. Grice:
“I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of
will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is
more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call
himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di
famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”.
Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del
potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae
de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are
surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono
in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di
Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de
peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and
Biblioteca di Montecassino, both of which ascribe the work to James. Ypma does
not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae
Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi
Neapolitani. AMBRASI, La Summa de peccatorum distinctione del b. Giacomo
da Viterbo dal ms. VII G 101... GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati Iacobi de
Viterbo, “ Analecta Augstiniana ”, XVI,Lectura super IV libros Sententiarum
Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de
animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De
perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione
Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De
episcopali officio Like many of his contemporaries,
James devotes serious attention to determining the status of theology as a
science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its
subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is
principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for
an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not
in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is
what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in
which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in
mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of
submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal
affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some
recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for
the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if
he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense,
it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its
principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in
which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in
which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more
perfect way. One way in which James illustrates the difference between both
approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for
metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not
God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God
as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes,
“theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way
than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common
being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl.).
Another way in which James illustrates the difference between natural theology
and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of
desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor
amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the
love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God
philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by
the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to
Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a
form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain
between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a
“community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it
is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords
is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture
is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century,
James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to
which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and
will” (Quodl.) and his absolute power, according to which he can do
whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems
concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James
considers several questions: can God add an infinite number of created species
to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make
matter exist without form (Quodl.)? Can he make an accident subsist
without a substrate (Quodl.)? Can he create the seminal reason of a
rational soul in matter (Quodl.)? In response to the first question,
James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of
Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an
infinite number of created species ad superius, in the ascending
order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot,
however, add even one additional species of reality ad inferius,
between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power
but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak,
no room for God to exercise his power (Côté). James is more hesitant about the
second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that
God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those
who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues
from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position
argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God
cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or
wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction,
they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the
second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends
human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human
comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist
without form is among those things exceeding human comprehension that God can
make come to pass.Another question James considers is whether God can make an
accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with
respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as
opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly
cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere,
for this would entail a contradiction. This is so because relations for James,
as we will see below, are modes, not things.
What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to
the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for
instance extension and color, a view for which he attempts to provide a
philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are
capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem).
Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not
capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to
exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is
somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist,
whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor,
texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however,
holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a
subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the
subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing
without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,”
i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with
health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational;
likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it
cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to
James, and are thus in principle capable of being made to exist without a
subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence
raises the interesting problem of whether the rational soul can come from
matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution
but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando).
The upshot of the investigation is that although there are many good reasons
(the soul's immortality, its spirituality and its per se existence)
to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in
matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a
possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God
has de facto instituted, the soul's incorruptibility is
repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can
miraculously cause something to come to existence through generation and confer
immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then
he can make it come to pass that souls are produced through generation without
being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that
something material could generate something endowed with per se existence,
it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence
upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their
substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul,
although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God
is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas
corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not
subject to change, the ideas must be eternally present in him, although
creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course
raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of
success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas
with God's unity: since there are many species of being, there must be a
corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any
multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the
ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one
denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as
exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to
them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential
solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that
divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is
capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his
essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct
from the essences of the things God creates (De veritate). One can
discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of
Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in
Sententiarum Aegidii Romani—assuming one accepts, as seems reasonable,
the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is
almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani). In his Quodlibeta,
however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the
following I will sketch James' position in the Quodlibeta as
it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with
the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can
be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God
knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the
essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God.
James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's
intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and,
secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means
of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as
necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67),
“if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than
him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which
must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing
cannot be understood.” But James also thinks that the necessity of positing
distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys
the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be
commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is
quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a
thing's cause. That means that God knows things through his own essence.
However, he does so by knowing his essence as a cause, and
that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”.
Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's
essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note,
as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of
this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse
essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res),
is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,”
viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus,
divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's
essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider
ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by
some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The
concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the
nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is
founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or
grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of
wholly different things, without there being any objective basis for the application
of the common name; such is the case -of equivocal names. Agreement is real in
the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance
between the many things to which a particular concept applies, in which case
the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and
is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many
things of which it is said, although it is not said of them relative to the
same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others,
insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is
predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement
displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution
(convenientia attributionis). James believes that it is according to
this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance
and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p.
25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense
of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being
is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation
of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a
prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason
why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is
that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only
being through something added to it. From this first difference follows a
second, namely, that created being is being by virtue of being related to an
agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of
God and creature, but according to a different ratio: it is said
of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in
a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the
distinction between being and essence occurs in the context of a question that
asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not
different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds
it difficult to see how one could account for creation if being and essence
were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of
the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors
does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the
views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction
is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of
essence: what properly exists is that which has essence, viz., the
supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The
kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms
signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution
closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without
committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles.
The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999).
Because identity or difference between things is determined to a greater degree
by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and
existence are primarily and absolutely the same (idem) and
conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is
conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones
de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of
edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a
proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to
examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis
praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian
relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in
general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence
adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable
influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he
disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The
question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental
reality or solely through the operation of the intellect, like second
intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of
each position, as Simplicius had already shown in his commentary on
Aristotle's Categories—a work that would have a decisive
influence on James' thought. For instance, in support of the view that
relations are not real, one may point out that the intellect is able to
apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between
a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the
relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then
the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved
is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations
come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking
place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a
child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of
eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred:
“the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good
reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle
clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten
categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a
view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot
consist solely of the perfection of the individual things of which it is made;
it is also determined by the relations those things have to each other; hence,
those relations must be real.The correct solution to the question of whether
relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given
relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on
arguments such as the first two above to infer that relations are entirely
devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those
who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are
distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each
other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must
lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their
subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real
is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to
which James adds some others of his own. However, showing that they are not
things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that
relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a
certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a
thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which
reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this
last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing,
the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a
thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of
its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation
of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and
thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are
not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that
they are modes of being of their foundations. “The mode of
being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute
another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its
foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33,
745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality,
as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being
equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number
and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they
are not, however, two things; they are two in the sense that one
is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In
making relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his
discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I,
q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first
treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of
James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1,
despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it
hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question
James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological
one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a
man would be numerically the same as he was before. In order to answer that
question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of
numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous
answers to that question and James provides a short account of each. Some
philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity;
others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions;
finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to
James, each of these answers is part of the correct explanation though it is
insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that
form and matter taken together are the principal causes of numerical identity
in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.”
Form and matter, however, are principal causes in different ways; more
precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by
‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact
of something's being singular, or we can point to a thing qua “something
complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21,
227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and
form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing
on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the
“substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by
quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the
perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is
the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks
he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as
Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II,
q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes
be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off
as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The
belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly
accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the
belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates),
all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We
will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his
doctrine of propensities in the will in Section 6. In this
section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important
reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine
enjoys the support of Augustine. Although James is sometimes quite
critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of
Rome, he is an unreserved follower of Augustine,
especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge
and natural causation. However, what is particularly interesting about James is
the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle,
Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian
convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons
in Quodl. II, q. 5. The question he raises there
is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all
Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how
one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has
two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an
active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5
is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that
forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of
Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation,
eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras'
“hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in
everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in
potency, according to James, entails that the potency of matter is
something distinct from matter itself. One argument in favor
of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it
remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas
matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he
does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the
contrary: potency is the potency of matter. However, potency
adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of
a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the
idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it
implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to
acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency
toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something
to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also
possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the
following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter
toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude
to take it on, so that four properties are included in the concept of potency,
namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the
form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in
which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise
technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary
on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative
state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or
modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of
actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James
is aware of the several objections that may be leveled against his conception
of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge
that their existence makes generation, i.e., the production of new beings,
impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this
fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to
Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q.
14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject,
for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results
rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this
to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter:
the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of
potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to
attain its completion. Generation thus requires two things (besides God's
general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause
and the intrinsic agency of the formae inchoativum which
inclines the potency to attain its completion.
James' doctrine of seminal reasons would
elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond
(Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of
Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e.,
attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who
argued against James' distinction between the potency of matter and potency.
But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian
Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in
the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the
late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According
to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's
form or essential information from the image or representation of that thing.
The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species,
which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual
understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of
Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the
information coming in through the senses is related to a thing's accidental
properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses
produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of
Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that
the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another
reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect
which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a
real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and
the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he
reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms
are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to
posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I,
q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent
sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were
an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural
power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles,
not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would
be required not only in the present life but also in the afterlife. But of
course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi,
is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only
when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by
denying the distinction between the two intellects, he was opposing the
consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter
to the De anima itself, though, as he would mischievously
point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so
obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170,
439). He replied that what he was denying was not the existence of a
“difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied
a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The
intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one
could account for its having these contrary properties without resorting to the
two intellect model. This is because intellection is not a transient action
(like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive
recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in
other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as
essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause,
spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons
tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their
inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's
analysis of the second species of quality. The intellect was described as a
general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally
innate) propensities, the number of which was a function of the number of
different things the intellect is able to know: “The intellective power is a
general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to
the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are
founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII,
q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the
intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection
without some input from the senses. However, the type of causality the senses
were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory”
(Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the
principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three
causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God
as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3)
the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have
just seen, James rejected the distinction between the agent and possible
intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of
psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and
its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the
debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at
least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's
structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative
accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who
had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one
in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul
was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed
in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis)
as belonging to the second species of quality, in Categories c.
8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the
soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers.
Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the
case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both
positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the
majority view was very much that there was a real distinction. It was the view
held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully,
namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a
commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction
and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the
soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James,
however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II,
q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63).
His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real
distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul
and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a
real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be
committed to the existence of a real distinction between the power in act
(e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is,
the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is
really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something
in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed
from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's
commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal
reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from
them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully
actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct
from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount
importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing
that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the
natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval
thinkers, usually involved showing that its act is independent of the
apprehension and judgment of the intellect. Although the
scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay
between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two
faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of
Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17),
so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua
non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that
exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of
Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and
Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position
like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of
the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the
will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the
will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position
is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by
another. As
we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what
he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the
similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually
knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The
pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely
passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In
order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's
postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved,
James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and
formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses
the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when
the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given
as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e.,
the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind
of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion,
James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form
naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their
completion and are prevented from reaching it only by the presence of an
external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move
downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis,
is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete
actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally
but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy
object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's
proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo
holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions
or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of
the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are
what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and
temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral,
partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17
James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound
Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it,
Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of
the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and
this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence,
prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral
virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is
connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl.
II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians
had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than
himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early
thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his
pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in
fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas
Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued
further that to deny man the natural capacity to love God more than himself,
while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the
operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to
the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy
it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II,
q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally
loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne
1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle
that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and,
hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of
numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain
conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being
Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the
same form. But the being something has by virtue of numerical identity is
“greater” than the being it has by reason of something it shares with another.
And given that the species of natural love follows the mode of being, it
follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl.
II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer
the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of
charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This
is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of
love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural
love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as
the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's
charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with
respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love.
In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim
that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely
by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in
his natural state man loves himself more than God. James' opposition to
the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God
would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as
Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and
attempted to refute his position (Jeschke 2009).
Although James touches briefly on political
issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive
discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On
Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting
Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De
regimine christiano is often compared in aim and content with Giles
of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical
Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical
supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De
regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy
that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De
regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized,
James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace
than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is
divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of
little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show
that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural
inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the
nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most
characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the
question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in
other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses
a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute
temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some,
e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort
of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no
way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of
Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal
derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever
“unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by
the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied
with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way”
between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's
institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material
and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected
and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the
temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just
mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule
independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme
and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand,
making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of
its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the
spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very
choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and
temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic
position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way”
would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the
temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although
“color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light
that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed,
not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De
regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that
although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is
ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works
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da Viterbo. L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente ARTE
L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente di Federico Nozza. Nell’arte
cristiana occidentale, ma anche in quella orientale, l’elemento dell’aureola
costituisce sicuramente uno degli attributi iconografici più
riconoscibili. La sua immagine identifica subito la rappresentazione di
un Santo, di Cristo stesso, ma anche della Madonna. Può essere
crocesegnata(ossia dotata di croce), per esempio nelle rappresentazioni di Cristo,
oppure semplice, come nei santi. Come elemento figurativo, la sua origine è
stata codificata iconograficamente fin dagli albori della figuratività
cristiana, ovvero nel IV secolo. Gli esempi del Mausoleo di
Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale a Ravenna (IV e VI sec.)
Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad esempio, i due mosaici delle
calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a Roma. Si tratta di un cimelio
architettonico costruito attorno alla metà del IV secolo per la sepoltura della
figlia di Costantino. Nei due mosaici, parzialmente restaurati e tra i pochi ad
essersi conservati delle volte, si trovano due rappresentazioni di Cristo. La
prima lo vede seduto sul Globo, mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a
Pietro (traditio clavium). La seconda, invece, lo identifica giovane e
apollineo mentre si erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden,
consegnando a Paolo la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In
entrambe le rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi
di iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola
blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura
un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo
nella dimensione del trascendente. Traditio clavium (a dx) e traditio
legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a
Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i sovrani-imperatori
stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da aureola, come negli
straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della chiesa di San
Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI secolo,
raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano e della
moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata. L’imperatrice
Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due mosaici del
presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo) Entrambi gli
esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle origini del
Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae)
un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa. I
primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca
un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel
Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che
affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti
altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate
ben prima della nascita del Cristianesimo stesso. Tale scelta
figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.
Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere
rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce
funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la
natura divina. Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è
quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e
inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il
disco solare ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del
sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.
Rappresentazione di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di
Nefertari nella Valle delle Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora
una corona raggiante Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di
aureole, occorre risalire alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra.
Questa è nata in origine dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o
Zoroastro) e successivamente, soprattutto presso l’Impero Romano, si è
costituita come divinità indipendente e inscritta in uno specifico culto (quasi
monoteista), detto appunto Mitraismo. Nella fase imperiale soprattutto,
il Mitraismodivenne la religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e
poi concorrente al Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare
però è che, in quanto dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle
rappresentazioni di Mitra, la divinità venne ben presto corredata con attributi
iconografici quali, per esempio, una “corona” raggiante. Rappresentazione
di Mitra come Sol Invictus su un disco argenteo romano Un simbolo trasversale
della divinità tra Occidente e Oriente Possono forse essere questi i
primi significativi antecedenti dell’iconografia dell’aureola? Ben presto
questa divenne un vero e proprio simbolo trasversale adottato in molte altre
religioni di origine orientale. Forse la sua adozione è legata all’efficacia
visiva con cui riesce a restituire allo sguardo un immediato riferimento alla
dimensione trascendente e/o spirituale. Dapprima adottato nel Cristianesimo,
questo riferimento venne poi, attraverso scambi culturali, trasmesso anche ad
altre religioni orientali, tra le quali il Buddismo. Sotto questo
profilo appare infatti singolare che proprio negli stessi secoli in cui l’iconografia
cristiana si codifica (tra il IV e il VI secolo), l’adozione dell’aureola come
attributo iconografico si manifesta anche in diverse rappresentazioni buddiste
in area cinese. Come si spiega questo utilizzo pressoché contemporaneo
dell’aureola come attributo figurativo del divino, in due religioni così
distanti e appartenenti a mondi diversi? La chiave di volta è costituita
ancora dal Mitraismo. Reliquiario di Bimaran, I sec. d.C. circa Il
Mitraismo è la chiave di lettura Per comprendere infatti la trasmissione di
tali scelte figurative tra la cultura latina e quella asiatica, occorre
risalire al primo secolo d.C. Per precisione quando gli Indo-sciti (popolazioni
nomadi originarie dell’attuale Iran, dove lo zoroastrismo e con lui il Dio
Mitra ebbero origine) e alcune popolazioni dell’Impero Kusana (originario
dell’attuale Afghanistan), invasero e conquistarono alcuni territori degli
attuali Pakistan e India. Portarono dunque con sé e trasferirono alle
popolazioni conquistate alcuni tratti della loro cultura e della loro
religione, tra cui anche il Mitraismo con i rispettivi attributi
iconografico-rappresentativi. Nella latinità mediterranea, dunque,
l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente quella cristiana.
Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale, la medesima
iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni orientali
(Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le quali anche
il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come testimonia il
celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il Pakistan), databile al
primo secolo d.C. Dipinto cinese raffigurante Buddha (al centro) Ci
sono poi altre importanti manifestazioni figurative del Buddismo, quali ad
esempio alcune statue di Buddha risalenti al II sec. d.C. e oggi conservate al
Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse pitture cinesi raffiguranti Buddha
sempre con il capo circonfuso da aureola. Insomma, dalla pur brevissima
disamina effettuata, ci si rende conto di quanto la cultura occidentale e
quella orientale, dopo tutto, non siano poi così distanti. In questo senso, le
testimonianze figurative nate dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne
costituiscono un memorandum preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum –
sin – holiness – aureola segno naturale della santita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” –
The Swimming-Pool Library. Capocci.
Grice e Capodilista: l’implicatura
conversazionale -- n principio era la conversazione – filosofia fascista –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Filosofo italiano. Grice: “I like
Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to
comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to
exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his
philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione –
metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“ “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un
pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da
esso.» (Quaderni). Appartenente ad una
famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo
Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni
sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger. Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo
da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione
dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva
così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza
nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito
intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza
di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua
universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il
nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei
valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi.
Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale
dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale
contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita,
universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di
contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la
popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una
diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due
resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il
problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede
autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la
convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere)
alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno
dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa
partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due
maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo
quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la
autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la
libertà di coscienza. I etruschi sono
nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa
azione originaria. Perché in ogni fede
vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci,
Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano
progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei
romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi
scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi
estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come
l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio
se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più
mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire
in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna)
del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che
abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella
sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli
intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della
sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità,
conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio
unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se
stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A
noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci
dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.
Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono
la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si
risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La
memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica. La forma
letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola).
Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di
creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come
destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale
e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive
per sé. L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà
assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta,
diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per
definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si
può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la
negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa
stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del
soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la
rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè
l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità
dell’atto. L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è
esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta.
L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? Tutto
ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro
pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. L’arte dello scrivere è
l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e
sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando
si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante
la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè
dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono
per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo
della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La
parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e
diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola
contiene il seme della frase, del discorso. Forse il nostro nome è soltanto uno
pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero
nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli
pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un
nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà
suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una
realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. Gli
scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i
modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma
breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto,
e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative
all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza,
ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. Il
Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una
forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare
privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la
coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al
discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore
obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? La
nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò
che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di
originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La
parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e
perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che
vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età
dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid
al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una
metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi
alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. Noi siamo la
verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo
quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria
creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un
Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo
espulsi ed esiliati. L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità
nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai
saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e
fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore
con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. Soltanto l’inesprimibile è
degno di un’espressione. La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista
in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è
soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la
Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati
simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è
identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore
della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la
massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non
possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità;
il numero può vivere? Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema
scadenza del silenzio. L’espressione più perfetta è quella che crea
l’inesprimibile. L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei
confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione,
la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi
motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte. Come esprimerò io il mio
pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere
l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere
l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui
ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e
simpatica affinità e parentela. La quantità di parole inutili che uno scrittore
inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello
scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere
tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere
tutte… (Q. 14, 1932). Il caso
della vendita della Palladiana Villa Emo a un magnate straniero. SEMBRA
CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA
CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE
IL BENE. La vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di
Vedelago è stata ufficializzata. Il
consiglio di amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la
proprietà (da quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo erede, il
conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino e ha
deciso: accetterà l’offerta di uno sconosciuto magante straniero. IL
PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di
credito ha concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa)
di alienare il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato
stampa che parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un
privato appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa
(Patrimonio Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di
cedere “il solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla
banca. L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione-
non rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di
amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche
alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della
transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto
dal D.lgs. a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti
autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una
beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel
mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli
affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi
che possa farsene carico un ente pubblico. LA STORIA La storia recente
del resto lo conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di
Bankitalia, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha
dovuto dire addio ai 325 mila euro annui che Credito Trevigiano versava.
Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi.
Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della
fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco.
Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione
“No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che
raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca,
negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci,
clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene
più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca
strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato
quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a
seguito di questo atto, non si riconosce più. IL CASO DI VILLA EMO Il
caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile processo
di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto se, solo
per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada Koon
Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova) e il
veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare un
po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio, di
una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non
generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese
sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione
strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche
il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si
presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in
rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli
immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente
inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’
l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda
verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole
soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci
di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che
appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo
proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere
il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per
nulla”. Rodenigo Villa Emo is one of the many creations conceived by
Italian Renaissance architect Andrea Palladio. It is a patrician villa
located in the Veneto region of northern Italy, near the village of Fanzolo
di Vedelago, in the Province of Treviso. The patron of this villa was
Leonardo Emo and remained in the hands of the Emo family until it was sold in
2004. Since 1996, it has been conserved as part of the World Heritage Site
»City of Vicenza and the Palladian Villas of the Veneto«.[1] History
Andrea Palladio's architectural fame is considered to have come from the
many villas he designed. The building of Villa Emo was the culmination of
a long-lasting project of the patrician Emo family of the Republic of
Venice to develop its estates at Fanzolo. In 1509, which saw the defeat of
Venice in the War of the League of Cambrai, the estate on which the villa was
to be built was bought from the Barbarigo family.[2] Leonardo di Giovannia
Emo was a well-known Venetian aristocrat. He was born in 1538 and inherited
the Fanzolo estate in 1549. This property was dedicated to the agricultural
activities that the family prospered from. The Emo family's central interest
was at first in the cultivation of their newly acquired land. Not until two
generations had passed did Leonardo Emo commission Palladio to build a
new villa in Fanzolo. Historians unfortunately do not have firm
chronology of dates on the design, construction, or the commencement of
the new building: the years 1555 or 1558 is estimated to have been when the
building was designed, while the construction was thought to have been undertaken
between 1558 and 1561. There is no evidence showing that the villa was
built by 1549: however, it has been documented to have been built by 1561.
The 1560s saw the interior decoration added and the consecration of the
chapel in the west barchesse in 1567.[1] The date of completion is put at
1565; a document which attests to the marriage of Leonardo di Alvise with
Cornelia Grimani has lasted from that year.[3] Partial alterations were
made to the Villa Emo in 1744 by Francesco Muttoni. Arches within both wings
that were close to the central build were sealed off and additional residential
areas were created. The ceilings were altered. The villa and its surrounding
estate were purchased in 2004 by an institution and further restorations
were made. Since 1996, it has been conserved as part of the World Heritage
Site »City of Vicenza and the Palladian Villas of the Veneto«.[1] The
villa is at the centre of an extensive area that bears centuriation, or
land divisions, and extends northward. The landscape of Fanzolo has a continuous
history since Roman times and it has been suggested that the layout of the
villa reflects the straight lines of the Roman roads.[2] Architecture
Marcok The main building (casa dominicale). Villa Emo was a product of
Palladio's later period of architecture. It is one of the most accomplished
of the Palladian Villas, showing the benefit of 20 years of Palladio's experience
in domestic architecture. It has been praised for the simple mathematical
relationships expressed in its proportions, both in the elevation and
the dimensions of the rooms. Palladio used mathematics to create the
ideal villa. These «harmonic proportions» were a formulation of Palladio's
design theory. He thought that the beauty of architecture was not in the
use of orders and ornamentation, but in architecture devoid of ornamentation,
which could still be a delight to the eye if aesthetically pleasing portions
were incorporated. In 1570, Palladio published a plan of the villa in his
treatise I quattro libri dell'architettura. Unlike some of the other plans
he included in this work, the one of Villa Emo corresponds nearly exactly
to what was built. His classical architecture has stood the test of time
and designers still look to Palladio for inspiration.[1]
Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the
villa and its estate is strategically placed along the pre-existing Roman
grid plan. There is a long rectangular axis that runs across the estate in
a north-south direction. The agricultural crop fields and tree groves were
laid out and arranged along the long axis, as was the villa itself.[1]
The outer appearance of the Villa Emo is marked by a simple treatment of
the entire body of the building, whose structure is determined by a geometrical
rhythm. The construction consists of brick-work with a plaster finish, visible
wooden beams seen in the spaces of the piano nobile, and coffered ceilings
like that within the loggia. The central structure is an almost square residential
area.[4] The living quarters are raised above ground-level, as are all of
Palladio's other villas. Instead of the usual staircase going up to the main
front door, the building has a ramp with a gentle slope that is as wide as
the pronaos. This reveals the agricultural tradition of this complex. The
ramp, an innovation in the Palladian villas, was necessary for transportation
to the granaries by wheelbarrows loaded with food products and other goods.
The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a column portico
crowned by a gable – a temple front which Palladio applied to secular
buildings. As in the case with the Villa Badoer, the loggia does not stand
out from the core of the building as an entrance hall, but is retracted into
it. The emphasis of simplicity extends to the column order of the loggia,
for which Palladio chose the extremely plain Tuscan order.[2] Plain windows
embellish the piano nobile as well as the attic. The central building
of the villa is framed by two symmetrical long, lower colonnaded wings, or barchesses,
which originally housed agricultural facilities, like granaries, cellars,
and other service areas. This was a working villa like Villa Badoer and a
number of the other designs by Palladio. Both wings end with tall dovecotes
which are structures that house nesting holes for domesticated pigeons.
An arcade on the wings face the garden, consisting of columns that have rectangular
blocks for the bases and capitols. The west barchesse also contains a chapel.
The barchesses merge with the central residence, forming one architectural
unit. This typological format of a villa-farm was invented by Palladio
and can be found at Villa Barbaro and Villa Baroer.[1] Andrea Palladio
emphasises the usefulness of the lay-out in his treatise. He points out
that the grain stores and work areas could be reached under cover, which was
particularly important. Also, it was necessary for the Villa Emo's size
to correspond to the returns obtained by good management. These returns
must in fact have been considerable, for the side-wings of the building are
unusually long, a visible symbol of prosperity. The Emo family introduced
the cultivation of maize on their estate (and the plant, still new in Europe,
is depicted in one of Zelotti's frescoes). In contrast to the traditional
cultivation of millet, considerably higher returns could be obtained
from the maize.[5] It is not clear if the long walk, made of large square
paving-stones, which leads to the front of the house, served a practical purpose.
It seems to be a fifteenth-century threshing floor.[6] However, Palladio advised
that threshing should not be carried out near a house. Hans A. Rosbach.
Frescoes by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A.
Rosbach [CC BY-SA 3.0] Hall West The exterior is simple, bare of any decoration.
In contrast, the interior is richly decorated with frescoes by the
Veronese painter Giovanni Battista Zelotti, who also worked on Villa Foscari
and other Palladian villas. The main series of frescoes in the villa is
grouped in an area with scenes featuring Venus, the goddess of love. Zelotti
appears to have completed the work on the frescoes by 1566.[1] In the
loggia, the frescoes have representations of Callisto, Jupiter, Jupiter
in the Guise of Diana, and Calisto transformed into a Bear by June. The Great
Room is filled with frescoes that were placed between Corinthian columns that
rise from high pedestals. The events in the frescoes concentrate on humanistic
ideals and Roman history alluding to marital virtues. Exemplary scenes
include Virtue portrayed in a scene from the life of Scipio Africanus. On
the left wall is the scene of Sciopio returns the girl betrothed to Allucius
and the right wall a scene showing The Killing of Virginia. The sides
of these frescoes have false niches that consist of monochrome figures:
Jupiter holding a torch, Juno and the Peacock, Neptune with the Dolphin,
and Cybele with the Lioness. These figures allude to the four natural elements
(fire, air, water, earth). Side panels contain enormous prisoners emerging
from the false architectural framework. On the south wall of the great hall
toward the vestibule is a false broken pediment that appears above a real
entrance arch. A fresco of two female figures, Prudence with the Mirror
and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the center of
the upper part of the building contains the crest of the Emo Family. It is
carved and gilt wood, surrounded by trompe-l'œil cornices and
festoons.[1] To the left of the central chamber is the Hall of Hercules.
It contains episodes referring mainly to the mythological hero. The intent
was to emphasize the victory of virtue and reason over vice. The frescoes
are inserted in a framework of false ionic columns. The east wall contains
scenes of Hercules embracing Dejanira, Hercules throwing Lica into the
sea, and The Fame of Hercules at the center. The west wall is Hercules at
the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the
doorway that depicts a Noli me Tangere («Touch Me Not») scene.[1] To
the right of the central chamber is the Hall of Venus. This hall contains
episodes that refer to the Goddess of Love. On the west wall within false
arches are the scenes of Venus deters Adonis from Hunting and Venus aids the
Wounded Adonis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south
wall is a panel above the doorway that shows Penitent St. Jerome.[1]
The Abstinence of Scipio appears frequently in cycles of frescoes for
Venetian villas. For example, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and
Villa Cordellina in Montecchio Maggiore, built nearly 200 years later, also
use this image, fostering ideals which, had in the 15th and 16th centuries,
resulted from the renewed discussion of the depravity of town life, in
contrast to the tranquility, abundance, and freedom of artistic thought
associated with rural existence. Hence, another room in the villa is
called the Room of the Arts, featuring frescoes with allegories of individual
arts, such as astronomy, poetry or music.[7]Within the many frescoes are depictions
of different flowers and fruit, including corn, only recently introduced
into the Po Valley. Many of the frescoes are presented within false architecture,
like columns, arches and architectural framework.[1] Media Markhole
[CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org
[CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was
featured in Guide to Historic Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's
three-part six-hour production for A&E Network. The movie Ripley's
Game used the Villa Emo as a location. The City of Vicenza and The Palladian
Villas in the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of
the Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities.
2009. pp. 186–191. ^ a b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993), p. 165 ^
Beltramini, Guido (2009). Palladio. Italy. . ^ Wundram. Palladio Centre
ArchivedJune 10, 2008, at the Wayback Machine (in English and Italian)Centro
Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, accessed September
2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic
Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at
the Wayback Machine Retrieved on 2008 05 31 Sources The City of Vicena and The
Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco
Office of the Municipality of the City of Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell,
Stephen R. »Andrea Palladio (1508-1580)«. Nexus Network Journal: 213–222.
Beltramini, Guido, Palladio. Italy; Boucher, Bruce (1998) [1994]. Andrea Palladio:
The Architect in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press. Rybczynski,
Witold; The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea Palladio.
New York: Scribner. Wundram, Manfred (1993). Andrea Palladio, Architect between
the Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen. Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la
conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il
taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” –
The Swimming-Pool Library. Capodilista.
Grice e Capograssi: l’implicatura
conversazionale degl’eroi di Vico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona).
Filosofo italiano. Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer,
but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his
attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he
stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen,
pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed
with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I
mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di
filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica
famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di
Salerno, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia",
in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra
individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua
filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli. Prende parte ai
lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. La sua
filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla
centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione
stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe
quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e
scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il
personalismo. Il positivismo giurdico in
Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una
Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio
perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come,
invece, pensa C.. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma
Fondamentale che Bobbio può osservare: Il C. sostiene che tutta la costruzione
kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi
presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si
fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione
è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p.
24. Per la posizione di C. si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista
trimestrale di diritto pubblico», poi in Opere, Giuffrè, Milano). Le
argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una concezione
giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il
criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a
dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o
ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il
cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla
concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è
comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che
il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza),
sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione
kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema
del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico,
con la 50 BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», poi ristampato in ID., Studi sulla
teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino; Il saggio è ora in ID.,
Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. Utilizzo quest’ultima
edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen,
«Sociologia del diritto», , ora in ID., Diritto e potere, BOBBIO, La teoria
pura del diritto ecc.. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su
Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», poi in ID.,
Opere, vol. V, Giuffrè, Milano, BOBBIO, La teoria pura del diritto, BISIGNANI
conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non
viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non
comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di
una fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il
pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della
Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una
“rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si
lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello
Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su
Kelsen. C. E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA
GIURIDICA. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto
formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”.
La “pars destruens” di C.. C. scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco
dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e
Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui
la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa,
andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva,
concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella
“pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La
dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi
della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e
deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se
uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe
quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era
così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più
problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono
più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è
sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e
distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con
tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere. Il diritto come concepito e teorizzato da
Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato.
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare
l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è
un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il
fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa
costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione
della legge. C. nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. C. osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza
sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo
può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente
formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere,
perché questo dovere non ha nulla del
dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando
la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale
è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a
differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà
giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti
di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie
della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema
gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto,
da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata
con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data
autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e
non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto
naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo
contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale
come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa
in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta
separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da
qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la
norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano
proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il
contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale». L’identificazione
perfetta tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e
“l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del
diritto «come forza», come «diritto naturale della forza». E’sistema di «norme
sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al
perpetuo oscillare della forza», ma la cui validità è “emanazione” di una
“norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’evento di forza
che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote
delle norme».Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il diritto
naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa
capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza
organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma
riveste la forza». La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme
con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo
libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i
bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi:
non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote,
terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse
preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini
vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto,
come è esposto in questo libro». Il diritto è, in definitiva, confuso dal
Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi».
La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del VICO ed alla
concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto
oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma
convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del C., la
storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come
prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto,
cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta
forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»; la
«necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità
vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e
quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello
per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella
realtà». Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi
sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del
diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie
«nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che
opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva
partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di
chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello
che fa colui che opera». Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge,
infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si
pone come scienza viene faticosamente e lentamente, perché fa il suo cammino
momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del
diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari
dell’esperienza che essa forma». E l’idea viva del diritto si forma come «parte
essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa
dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata
puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e
puntuali determinazioni». C., inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera di
Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo
conosciamo perché lo facciamo…»; richiama il monito, proprio del Vico, di non
«mettersi fuori dall’umanità…»E rileva che «se uno si mette al mondo
supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente
l’integralità dell’esperienza gli sfugge». In tal modo l’insigne autore coglie,
dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico di Kelsen, cioè la
netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la
“coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma
estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma». La “pars
costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in
perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto,
«l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’
“oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del
diritto e dello Stato di Kelsen. E l’illustre autore, perciò, individua la
«positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita»,
«coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle
«determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto», ricordando
un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali
del diritto” del civilista Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di C. e su
alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla
luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del
“nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana
al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto
contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande
pensatore abruzzese, si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per
riprendere il linguaggio dello stesso C., «una situazione che non vorremmo»,
«un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di
una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che
preferiremmo». Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti
dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a
parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Barcellona,
il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il
salvagente della forma”) di Irti ed “Il diritto e il suo limite” di Rodotà.
Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in
questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” (più precisamente del
“nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente
monografia di Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”, che lo distingue
dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata
dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con
lucidità, risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler
entrare nel merito di tutti i suoi significati, secondo il filosofo Severino ed
il giurista Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica
economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente». Franco Volpi
scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che
sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che
rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire
dell’uomo». Nietzsche ne parla come «il più inquietante tra tutti gli ospiti».
Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due
stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma
che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure
generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga
e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun
ordinamento» ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare
principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra
volontà», «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva”
nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di
soddisfare indefinitamente bisogni». L’idea di sistema giuridico unitario e di
diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai
destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della
globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme
conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Croce già
tracciava negli anni trenta. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non
conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità». Il “diritto
globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul
principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale
all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti,
«caratterizza l’economia globale», i cui spazi sono fluidi e sottratti al
controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come
opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie
giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove
applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità
del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno
che si afferma con il capitalismo mercantile. Non solo: i ritmi produttivistici
della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati,
pur se ritenuti ineluttabili da Severino, secondo lo stesso Irti «producono un
vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del
diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti,
poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono
pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la
disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i
contenuti…». Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità
giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto
della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello
“Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la
Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la
validità di qualsiasi ordinamento», è il trionfo del vuoto formalismo
giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella
razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al
riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa
formazione culturale, il filosofo marxista Volpe, che in un saggio dal titolo
emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia
contemporanea”, individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello
Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione
meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del
diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le
profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente
parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a
qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti. Per
tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della
scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di
un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”, “senza società”, come scrive Pietro
Barcellona realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni
della teoria sistemica di Luhmann. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive
che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata
l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe
ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto,
condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia
destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente
prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie
crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse
un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha
chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale. Per
cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile
individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza
del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle
società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali
degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i
diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di
un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una
guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le
scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla
prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza,
ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a
un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte
tecnologiche») Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto? Ed in che senso
l’antikelsenismo vichiano e personalista di C. è attuale e può costituire,
“storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle
asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi
sociali del diritto”? La critica
capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa
rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del
nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che
ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei
suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue
determinazioni positive»; anche perché il diritto, come scriveva un altro
importante giurista, Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere»
contrapposto all’«essere, “Sollen” staccato dal “Sein”. C. ne “L’ambiguità del
diritto”propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che
«quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non
fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che
l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto
globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e
massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino
ne “La filosofia futura”, che quasi lascia presagire la «fine della storia» e
del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere
Jhering, della “lotta per il diritto”. Il presente testo riprende, nelle linee
essenziali, la relazione presentata al convegno di studi internazionale sull’
“Attualità del pensiero di C.”, Sassari, Mulino”. C., Impressioni su Kelsen
tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, ora in ID., Opere,
Milano, KELSEN, General theory of law and State, Teoria generale del diritto e
dello Stato, tr. it., a cura di Cotta e Treves, Milano; PIOVANI, Introduzione a
G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, C., Impressioni su
Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto
critica verso il formalismo gradualista di Kelsen v. WINKLER, Teoria del
diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del
diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli (ove è scritto che «la dottrina
pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse
epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in
cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente
in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di
determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro
ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il
concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale,
lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A.
PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su
quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione a Pigliaru, Persona umana ed ordinamento
giuridico, in “Diritto @ storia”, dirittoestoria.it/5/Contributi/ Bianco-Pigliaru-persona-
umana- ordinamento-giuridico ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, KELSEN,
Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, KELSEN, Teoria generale del
diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato,
op.cit., 18 ss. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato; KELSEN,
Teoria generale del diritto e dello Stato. C., Impressioni su Kelsen tradotto. KELSEN,
Teoria generale del diritto e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto
e dello Stato. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126
ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra
“Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta
la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del
diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì
in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento
solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto
se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più
difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale
consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche
generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa
distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione
formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da
Costantino Mortati, Carl Schmitt, Guarino, peraltro con connotazioni peculiari
in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta
della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La
Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di
A. Catelani e S. Labriola, Milano. C., Impressioni su Kelsen tradotto, KELSEN,
Teoria generale del diritto e dello Stato. C., Impressioni su Kelsen tradotto.
C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni
su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni
su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su
Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen
tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen
tradotto. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono
intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come
forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza,
cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed
è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la
validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà
sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in
senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello
stesso fatto. Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli
interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma
come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle
norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della
norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé
nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via
e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è
altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte
la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più
riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e
compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale
e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica». C,, Impressioni
su Kelsen tradotto, C., Impressioni su
Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen
tradotto. C., Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con
introduzione di Pietro Piovani) C., Il problema della scienza del diritto. C., Il
problema della scienza del dirittv btg55zo, C. Impressioni su Kelsen tradotto.
C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su Kelsen tradotto. C., Impressioni
su Kelsen tradotto. C., Impressioni su Kelsen tradotto, C., Impressioni su
Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative
sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è
essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza
intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui
il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere
dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno
giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione
puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo,
proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto
nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e
immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e
della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il
collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita
concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della
storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre
immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci
sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del
diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47,
ora in ID., Opere. C., L’ambiguità del diritto contemporaneo; BARCELLONA,
Diritto senza società, Bari, IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il
salvagente della forma. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto,
Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo
giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, BARCELLONA,
Critica del nichilismo giuridico, Torino, RODOTÀ, La vita e le regole,
op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel
saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale
esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo
caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di
dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura
sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non
diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione
giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello
stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al
dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo
più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto». V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER,
Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F.
NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E.
Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano;
IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E.
SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e
metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il
nichilismo, Bari; NIETZSCHE, La volontà di potenza, IRTI, Atto primo, in N.
IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, SEVERINO, Atto primo, in op.
ult. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE,
Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v.
al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul
nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni
contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero
politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M.
Bassani, Macerata. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura
sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico; IRTI, Nichilismo e
formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25.
Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna; IRTI, Le categorie
giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto,
Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre
filosofo Id., La filosofia futura, Milano; Destino della necessità, Milano,
1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V.
N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica. IRTI,
Atto primo; VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea,
Roma, ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino; BARCELLONA, Diritto senza società; BARCELLONA,
Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca
della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della
società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si
realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto
dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come
metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica
sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma
dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella
democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono
inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».
BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria
surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti,
della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed
ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della
riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della
sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la
sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della
modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto
(1981), tr. it., Bologna. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non
diritto, RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Su cui v. in
generale le classiche pagine di JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con
introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è
il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non
debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato
opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi
intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per
il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità
del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di BIANCO, Nichilismo
giuridico. Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le
regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA,
Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III,
Padova, Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”,
Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova.
Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia
trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta,
in “Clio”. L’ambiguità del diritto contemporaneo. SEVERINO, La filosofia futura.
La volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa
direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire
quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano
determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è
quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel
futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più
potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in
cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in
ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e
cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo.
Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente,
tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il
divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente
riconosce la possibilità del proprio annientamento»). JHERING, La lotta per il diritto. Sostiene
l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento
storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello
sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo
dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto
incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha
trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude”.
C. The Antiquity of the Italian
NationThe Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy. Francesco. Oxford.
With Italy under Napoleon, the antiquarian topic of anti-Romanism is turned
against the dominant French culture and becomes a pillar of the nation-building
process. The antiquity of the Italian nation — prior to the Roman dominion — is
evoked in order to support an inveterate Italian cultural primacy and proves
very useful for creating Italian nationalism. The issue is completely forgotten
today because Italian studies of Roman history, following the example of
Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest Italy, while,
subsequently, Fascism openly claims the legacy of the Roman Empire. Italic
antiquity, however, remains alive throughout those years and it often returns
as a theme, intersecting deeply with the political and cultural life Italy. Philosophy
examines the constantly reasserted antiquity of the Italian nation and its
different uses in history, archaeology, palaeoethnology, and anthropology, from
the Napoleonic period to the collapse of Fascism. Examining the fortunes and
misfortunes of this subject, it challenges the view of 19th-century Italian
nationalism as an ethnical movement, suggesting how deeply the image of
pre-Roman Italy forged the political and cultural sensibility of modern Italy. Introduction
Source: The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. The resumption
of studies on Italian nationalism focuses upon the aggressive forms that
Fascism comes to represent. The introduction discusses the easy notions of
ethnic or racial nationalism, questioning these categories and suggesting how
complex Italian nationalism is. Regarding this, the theme of the antiquity of
the Italian nation—that is, the myth of a perpetual presence in the country
substantiating a cultural primacy—represents an important example. An
examination of the earliest Italy, as it was proposed in 19th-century Italian
culture, suggests how it did not have a racial or ethnic basis, its main
feature being cultural. This peculiar aspect of early Italian nationalism is
outlined in its historical perspective, and the structure of the essay is
described, indicating how the topic will be followed from its birth during the
Napoleonic years to its final demise shortly after the fall of Fascism.
Keywords: Italian nationalism, Fascism, earliest Italy.The historic
past of the nation The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. This
philosopher is devoted to the first explicitly nationalizing reading of the
myth of antiquity developed by Cuoco,
who, in his “Platone in Italia”, recalls the existence at the dawn of humanity
of a civilizing people, the Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish
antecedents for the Italian nation as it measures itself against the French
cultural model, could propose the ethnic-cultural unity of the peninsula’s
inhabitants since ancient times. Italian nationalists rediscover Cuoco’s thesis
and see it as the basis of Italian
political identity. However, some philosophers have underlined how this can be
regarded as a predatory operation, which overvalues the actual significance of “Platone
in Italia” in the cultural context of Italy. It also shows how “Platone in
Italia” remains known mainly for emphasizing the cultural primacy of the
Italians rather than its assertion of their ethnic uniformity. Cuoco,
Platone in Italia, Etruscans, Italian nationalists. A plural Italy. The
Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Cuoco’s interpretation of
Italian antiquity does not hold up against Micali’s Italy before the dominion
of Rome. Micali responds to Cuoco’s view, suggesting that cultural unity does not
lead one to believe that the country’s peoples necessarily share a common
origin. It is Micali rather than Cuoco that come to dominate the patriotic
culture of the Italians. The significant impact that Micali has is shown by the
fact that Micali became a subject of great interest throughout the country,
accompanying the national movement -- the so-called Risorgimento -- on its
progress towards the events of the
revolution. Micali, Italy before the dominion of Rome, Cuoco,
Risorgimento, revolution. Unity in
diversity. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. We
measure the impact of Micali on the political culture of the Risorgimento,
testing the importance of his “Storia degl’antichi popoli italiani” on the
studies of the Italic past published in several areas around the peninsula,
especially in Lombardia, which remains the main Italian publishing centre, Napoli,
and Sicilia. The analysis shows the multiple and different nationalizing uses
of Micali’s works in tthese regions and confirms how his reading of a cultural,
rather than ethnic, uniformity of the Italian people, is overwhelmingly
accepted by the patriots on the eve of the revolution. Micali’s model appears,
in fact, to be the only one that could be followed in a country which, though
culturally united for centuries, is at the same time deprived of political
cohesion. Micali, Storia degl’antichi popoli italiani, Risorgimento,
Naples, Sicily, Lombardy. The other Italy. The Antiquity of the Italian Nation.
Francesco. Oxford. Micali’s model comes under fire when, after the political
unification of the Italian peninsula, it becomes clear that the encounter
between the various parts of Italy is not particularly harmonious. The
problematic area of southern Italy seems to obstruct, rather than smoothen, the
way towards a rapid process of stabilization for the newly unified state. We cast
light on how the southern regions’s difficulty in becoming an integral part of
the new unified Italy determine the reflections on the roots of a diversity
which wocomes home to roost in the considerations concerning the Aryan race
which populates ancient Italy. Unified Italy, southern Italy, Micali,
Aryan race, Mediterranean race. The anthropology of the nation. The Antiquity
of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford Those who insist on the
racist nature of the unified state improperly rely on Sergi’s anthropology as
demonstrating firm evidence of his racist tendencies and establishing a
connection between liberal Italy and Fascism. Philosophers have reconstructed
Sergi’s career in order to re-situate him in his specific political and
cultural context. From this point of view, his theme of racial differences
within the nation suggests the existence of two different peoples on the
peninsula: one northern and Aryan, the other southern and Mediterranean. This
distinction remains popular and rapidly becomes a political matter, pertaining
to the left of the political spectrum rather than the right. It is used to
explain the reasons why the modernization of Italy seems to be grinding to a
halt, as well as to help sustain the political struggle that the radical left
launches against liberal Italy. Sergi, anthropology, racist tendencies,
liberal Italy, fascism Return to Rome. The Antiquity of the Italian
Nation. Francesco Publisher: Oxford. The Italian state seems to be heading for
an irreversible crisis. Faced with this challenge, many academics are quick to
reaffirm the value of the unified state and reject every reading of Italian
identity which does not sustain the idea of complete uniformity. This area is
covered by philosophy, which deals with the renewal of the study of Roman
history through the example of the work of Pais. A keen admirer of Micali, Pais
soon adopts the model suggested by Mommsen, which sees in Roman expansionism a
work of political and cultural unification of the whole of Italy. Pais’s main
concern, therefore, is the construction of the nation’s common historical
identity. That is why he aligns himself with all the political choices of the
nationalist movement, from colonialism to the interventionism of The Great War
and the acceptance of Fascism. Pais, nationalist movement, colonialism,
Fascism. The Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology. The
Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Romanism does not eradicate
the tradition of Italian plurality, founded on the specific contributions of
peoples of different origins. The theme of Italic antiquity is useful during fascism.
Following the war in Ethiopia and the foundation of the Italian Empire, the
idea of italic antiquity is used to reject the mixing of races in the name of a
civilising policy with regard to populations held to be inferior. This theme
helps to bring about a significant return of academic interest in relation to
the origins of Italy’s ancient civilisation. Basing his ideas on the example of the ancient
Romans, Pallottino is able to re-read Etruscan origins as the result of the
meeting of different peoples through a cultural model that becomes common
property. In this way, the process turns full circle and the work of Micali makes a powerful comeback.
Romanism, Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire,
Micali. Keywords: gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo
giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito
dell’Italia nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro
Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart –
Capograssi e il fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in
concetto di stato come medimen, medimen medimen medimen previous drafts -- il concetto di stato com medimen --– kelsen,
positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi
d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione,
agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo,
interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi,
Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The
Swimming-Pool Library. Capograssi.
Grice e Caporali: l’implicatura
conversazionale di Pitagora, l’italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Como). Filosofo
italiano. Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at
Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on
Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or
‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like
about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests
German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the
Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he
is, too!” -- Grice: “For the Oxonians I always recommend
his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras
to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo,
Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on
‘scienza nuova.’” Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia
e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che
all'estero, le scienze naturali e la matematica. Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al
movimento metodista, tanto che a Milano,
dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne
ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a
Terni. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse
dell'evangelicismo. A Perugia, e poi
come ministro a Todi finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel
contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza. La notorietà che ne
conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola
Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali
rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì
le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora,
che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e
latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione
pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione
della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita. Opere principali Geografia enciclopedica
rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano;
Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte
che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto; La
natura secondo Pitagora, Atanor, Todi; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi;
Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi; La Chiara
religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri
(della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi. L'Enciclopedia
Italiana, vedi, V. Vinay, Desanctis, Claudiana, Torino. In tal senso Croce, Pescasseroli, Laterza,
Bari, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella; Furiozzi,
C. tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia
liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico C.
da Como: da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia. C. su C. M.C.C., C. in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; Pilone, C. Dizionario biografico dei protestanti in
Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi. Filosofia Filosofo Filosofi
italiani Professore Como Todi Scrittori italiani Personalità del
protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA. Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei
Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo
sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così
gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle
aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo
Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum
Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare
ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera
veramente italiana, C., si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa
presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il
plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse
allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi
della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora
rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della
sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta
di 25 spessi fascicoli. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si
vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni
fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo
qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La
Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiano. La Formula Pitagorica della Cosmica
Evoluzione. L'Evoluzione anti-clericale Germanica nella disperazione. L'Evoluzione
anticl. germ. negli errori finalisti. L'Evoluzione malin tesa e la sua
negazione. Monismo Pitagorico antico. Perpetua voce umana— Commedia degli
Spiriti. La psicogenia pitagorica di Pauthan . La sostanza impasticciata di Pozzo.
Il principio Eraclitico con frontato col Pitagorico -- Pitagorismo di Bruno. La
formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale. La Sapienza Italica mmfà i opera
insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce
dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura. Atanòr,
Todi; La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e
sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat
àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog
èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e
nel continuo. Aristotele (Phys8). La Sapienza Italica i La Natura secondo
Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo
rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione
della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola. Atanòr.
Todi. MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA. Pitagora, secondo Teopompo,
Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), e figlio di un gioielliere
etrusco, che mercanteggia a Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre la
sua madre e incinta, dice: Avrai un figlio che sarà utile a tutti gl’uomini, in
tutti i tempi. Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, segue
le lezioni d’Ermodamate e quelle di Ferecide a Siro. Visita in Mileto Talete,
l'iniziatore della filosofia, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi,
presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, e
stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, e da essi ricevuto nel loro
tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa
sua iniziazione, il saggio di Crotone puo bene internarsi in esse, e
principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza del numero e dei principii
universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formida in un modo
originale. Egli arriva agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in
questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei
santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della
plebe, e condotto insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accresce il
suo sapere ed ha rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritorna
a Samo, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggia, e
volle subito fuggirne. Venne in Crotone, ove si stabilisce. Crotone, nel Golfo
di Taranto, e, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che ha
attinto a sì pure fonti di filosofia e acquistato grande esperienza della vita,
nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei altri filosofi,
dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che venne a diffondersi, ha
visione di un rinnovamento da effettuare fra gl’uomini. Onde stabilì di fondare
una setta dalla quale usceno, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei uomoni
dall'animo nel vero senso della parola virile, e che e il nucleo, come il punto
di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico di Crotone,
in corrispondenza al suo ideale filosofico. Secondo questo ideale, affinchè lo stato
e ordinato armonicamente, dovesi conciliare il principio elettivo con un
reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e
della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pedagogico di quei
tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione
laica che sia stato mai impreso; e in breve ha a fiorire in tal modo che, non
solo nell’area, come a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, sono
stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in
Etruria, la sacra terra donde il maestro e oriundo. Egli si circonda di scelti
discepoli, e tutti seduce, poiché avviluppa di grazia l’austerità dei suoi
insegnamenti. Essi doveno levarsi all'alba, adorare il sole, seguendo una
dorica danza, quando il sole appare su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell'
istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio,
affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccoglia all'inizio del giorno.
Indi, in ampie sale, venneno istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella
medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella
religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica
istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la preghiera al sole, si fa un pasto
frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si anda allo stadio per gli
esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, sono tenuti in
onore. Poi si discute di amministrazione della città, di morale e di 'politica
generale, e in fine si anda a cena, dove si mangia anche carne in piccola
quantità e si beve vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di X, poiché X
è il numero perfetto. Durante la cena, si fa una lettura ad alta voce, e questa
lettura e seguita da libere obiezioni e discussion. Poi si ricordano le regole
dell' Istituto, e, cantando un inno ad Apollo, si anda a letto. Il vestito di tutti
i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Pitagora ha due figli,
Arimneste e Telangete. Arimneste e autore di prose e poesie morali. Telangete
divenne più tardi il maestro di Empedocle di Girgenti e a lui trasmise i
secreti della dottrina. Altro pitagorico fu il più celebre degli atleti, Milone
di Crotone. Dall'Istituto pitagorico usceno anche geometri, medici, artisti,
amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portano, sotto certi
aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concede di entrare
nell' Istituto a scolari di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per
avere rifiutato un certo Cilone, ricchissimo, il quale desidera di far parte
dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre sta in casa di
Milone. E, cogliendo pretesto dal voto contrario che Pitagora da sulla
distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati hanno conquistate, il suo
nemico Olone induce la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e
ferendo molti alunni. Pitagora si rifugia negli istituti filiali di Locri, di
Taranto e di Metaponto, dove muore. Pitagora non crede nella metempsicosi, ma
sol-tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la
metempsicosi dei Misteri Orfici e presentata al popolo come opportuna per
spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato
in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava
sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento
della dignità morale, e dice che la virtù non è perfetta se non è accompagnata
dalla fede nel Sole, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina
ordinatrice e perchè il Sole solo può dare alla morale sanzioni efficaci.
Diogene Laerzio narra che Pitagora scrive tre saggi, uno sulla Educazione, uno
sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura. Ma andarono tutti e tre
perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri
filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distingueno Archita di
Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao,
Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Ipparco. Quando Platone viaggia in Italia, e
Archita di Taranto che gì' insegna la dottrina del numerante. Ma Platone la
guasta nell' intrecciarla alla sua teoria delle idee eterne ossia concetti
gènerali delle cose ch'egli suppone esistere da se, indipendenti e separati
dalle cose. Nella filiale pitagorica di Girgenti sorge Empedocle, il quale
abbraccia con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici. Ma mentre Empedocle
osserva da vicino una eruzione dell’Etna
soccombette asfissiato. Nella filiale pitagorica di Siracusa brilla Archimede,
il fondatore della idrostatica, il quale scopre anche la quadratura della
parabola, oggi ancora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere della
filosofia di questa setta di Crotone? Pitagora e l’enciclopedista del suo tempo.
Fonda la Filosofia Italica. Come fa notare Zeller gl’errori di Platone e di
Aristotele erano quelli del popolo ellenico, troppo idealista e portato a
giudicare le cose colla fantasia, ed a studiare poco la natura. Gl’ellenici
sono artisti e poeti, non filosofi o scienziati. Appena hanno fatto dell’osservazioni
superficiali, volano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora e in
stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della natura, sicché puo
fondare il Naturalismo Italiano. Da per primo il nome alla filosofia, come lo da
al mondo, chiamandolo “cosmo”, che vuol dire ‘ordine’, vale a dire che porta in
se la gran legge della tendenza di le IV elementi a formare più alta unità: in
modo che ogni particella sta in armonia col Tutto ed è fatta da una forza
numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione dell’energia
divina, che si contrappone i punti di forza o atomi, i quali, derivando da una
potentissima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla unità primitiva,
sicché tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del
Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del
Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere nell’assurgere
a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e
vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi. Ma
è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e volontà, che a poco a poco,
attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si
vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gl’organi ed i nervi. Egli
precisa con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la
tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovina per il primo che
la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli
in movimento. Scopre il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa
nel triangolo rettangolo. Calcola la teoria degl’ isoperimetri, dimostrando non
commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato. Introduce
nell’aritmetica il sistema decimale X, e nella musica l'ottava, VIII, la quarta
IV, e la quinta, V.. Il filosofo Lucio (in Plutarco Symp.) narra che gli’eruschi,
che stimano Pitagora quanto i Greci, osservano i simboli di Pitagora. Ad un
acuto osservatore come Pitagora non puo sfuggire la legge di attrazione e
coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne
supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare
più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la causa in pretese
pressioni dell'etere cosmico. Empedocle di Girgenti la chiama poeticamente “amore
universale”, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò
che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensa la Natura organica, piante
ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione -- benché
non conoscesse la cellula -- e la malattia e la morte come un processo di
dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in
continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove -- come
pretendeva Eraclito, l’eleno che emula Pitagora), ma è l'unirsi delle
particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre
il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del
pensiero pitagorico Anassagora, il primo filosofo che separa lo spirito dalla
materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di
Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono
le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma
i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il pitagorismo, in modo che
dopo Anassagora la filosofìa d’Atene si allontana dalla Italica. Pitagora e il
genio tutelare del pensiero laico Italiano, e da sempre il midollo alla coltura
nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non e
una provincia della filosofia ellenica. E grazie a Pitagora che un po' alla
volta e sorpassato il Platonismo ed e vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento
con le invasioni dei barbari dal Nord si oscura ogni luce di pensiero. Ma la
idea pitagorica torna a brillare per la prima e a dare impulso alla nuova
filosofia italiana grazie a Cuza, educato in Italia. Cuza scrive: «Ratio est
mensura quae omnia in multitudinem, magnitudinemque resolvit. Mens est viva
mensura quae mensurando alia, sui capacitatem atiingit. La mente è la unità che
si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L'
investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale della setta
Pitagorica venne promossa dall'Accademia di Cosenza, a 40 miglia da Cotrone,
fondata da Parrasio - dalla quale sorge Telesio che scrive: « Della natura
delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova del primo
Orto Botanico, dall’Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie,
dall’Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli
con Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per
la fondazione delle loro accademie maggiori. Bruno sostenne poi contro i
filosofi del Lizio che gli elementi medesimi della natura si ritrovano in terra
e in cielo, indovina la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che
se ne fa, nota che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale
convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un
dispiegarsi dell'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per
alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola
con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale.
Ma la verità Pitagorica della Attrazione e dimostrata da Newton e il newtoniano
Boscovich concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte
l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali danno ragione
agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Supponiamo che Pitagora siasi istruito
dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico,
che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La
progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti. Noi fondiamo
la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla
base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento
del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e
che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. L’Hegelismo, che,
invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il
Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per
farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo
nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che
questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca
la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna
esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio
filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di
prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima
determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare
nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. Terra, ma in tutti i 50 milioni
di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce
impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi
spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa
era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica,
ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere.
Nel voi. IV. delle sue opere egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato
a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo:
ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza
dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi
c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la
più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada,
per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe
saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello
spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B.
Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse
nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di
sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1)
S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag.
75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito,
senza impicciarsi di Natura. fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede,
per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di
risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti
sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia
di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma
pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è
meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino
ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una
Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la
volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è
un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo
Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V
Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché
essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di
istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia.
Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni
primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e
la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. La fisiologia dei sensi
ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi
l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora
nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro
è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio,
ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti,
mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può
ficcarvene dentro altri milioni allo infinito; altrimenti i punti si toccano e
diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la
realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro
subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non
vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un
luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà
del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il
veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere.
Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti
pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di
istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è
possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel
punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo
in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi
sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed
il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà
numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra
Hegel, così la loro realtà è certa. Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed
il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci
obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della
nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le
fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi
e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche
dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate
e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- Lo
spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere
fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni
numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle
minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che
per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e
del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso
muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del
moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo
senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è
il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo
» Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente
dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno,
infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione
adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che
oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello
spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto,
che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale
rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se
non in « relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì
spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le
quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri
provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono
anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come
Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte
dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza
e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a
distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il
rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole
dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre
ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione
delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi
fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra
anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria
non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905.
La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il
maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò
che si deve prenderlo per base di tutte le misure. Abbiamo riassunto le ragioni
e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina
81 a 84. La realtà del tempo poi che
(come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata
vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la
meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio
astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun
cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe
dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono
inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti
e di istanti, a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il
tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile
espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo
implica la interazione delle forze; lo implica il coesistere di un numero
enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro
senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli
istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna
{Numerorum Fons di Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è
l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione;
anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei
successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo
esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie
è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza
larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di sono
intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile
il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale.
Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze
infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che
limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva
qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non
nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non
è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si
trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono
realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto
degl' intervalli infinitesimi. Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i
punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili,
questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l'
ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e
linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà
la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello
spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili,
perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un
numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente.
Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra
Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non
riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche
gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti
sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. Contro questi intervalli
Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece
di rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti
una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella
Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei
corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la
posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la
indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra
alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla
lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre
piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le
superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni
variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a
constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non
fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le
proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero;
sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità
suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la
necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. —
Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e
spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano soltanto in parte e
allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non
hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione
dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto
ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia »,
1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum,
sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo
anche se l' Universo e i suoi, moti fossero affatto diversi da quelli che sono.
È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov.
1643) scriveva: « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi ».
Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto.
11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di
prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri
sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non
dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del
tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno
dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo
spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia
impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema
solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del
tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a
priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è
quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e
discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di
energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza
diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa
ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro
attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo
esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio
delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed
anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor,
lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto
si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni
possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine)
comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che «
omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ». La seconda estrinsecazione dell'
Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il
tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non
opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non
basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua; una siffatta materia
si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmosfera diffusa allo
infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero
indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come
dimostrò Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la
discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è
sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l'
indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi
fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre
proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici
specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze
fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo
esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo
aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero
concettuale dalla Unità Reale o sostanziale: e fu svolto il suo pensiero da
Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi,
intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia
propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità
del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si
presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia
atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze
incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si
lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una
attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si
dice che è la medesima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è
Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di
eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è
altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La
realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo
aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue
Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra:
ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il
potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce
sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa.
Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla
nostra « coscienza: le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà
conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione «
esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo
inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi ». Quando si dice che
gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri
sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si
sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la-
voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli
Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che
tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai
un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o
calorico e la elettricità dinamica. In altre parole si parla di quella
sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le
altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la
violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce
lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di
telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini,
fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai
più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a
tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che
manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa
pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai
essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha
lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua
saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che
arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime
molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da
varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra-
versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran
forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare
i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che
non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal
piacere di unirsi delle molecole di olio. L'atomo di una goccia di acqua non
vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma
ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto
chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di
atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da
nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti
non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli
atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più
semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si
vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar
arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti»
diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica
credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di
base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri
accidenti: mentre sono le vere realtà. La Materia (dice Righi) ha per proprietà
distintiva Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno
materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei
fenomeni fisici), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di
forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi
casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale
non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto
meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le
molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno
misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si
risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono
punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche
nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni
diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella
sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato
Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma
sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e
(secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si
dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla
scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia
di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico: ogni
Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre
misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la-
boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è
realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri,
né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si
può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un
modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia
cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal movimento dagli atomi
complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti
di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la
terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga
degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli
Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se
disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile
all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è
colpito si difende in modo diverso (Microcosmos). E Lasson filosofo di non
minor valore del Lotze, aggiunge: « Non esistono cose meramente oggettive,
passive, esterne». Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno
di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti
fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich,
Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt,
Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach
(1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo
sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. Marchesini
e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si
affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato
alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale
scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo,
ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling
ch'egli chiamò V Indistinto. La nostra
fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra
Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una
casa ». E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva: «
se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova,
non irradierebbe energia termica o elet- « trica; anzi non si continuerebbe il
moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per
l'attrito. Avviene l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia psichica ». Il
considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un
certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è
limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa
le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una
Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si
pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli,
meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e
dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce,
ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica
materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico
forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza
che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità,
l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla
periferia, fanno gli atomi ponderali, che tendono ad unirsi, se vicini, con la
coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato
della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un
punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le
forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella
di formare più alta unità anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi
sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è
negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli
atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta;
cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28
chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80
volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze
dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un
moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè
appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di-
sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un
eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una
distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non
può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente
mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la
coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di
questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto
Righi. tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle
correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già
nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in
elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo
possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli),
venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo
in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di
forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte
sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre
equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque
sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una
nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si
manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e
vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono
dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella
grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene
scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti
di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il
calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi
caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia
convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema: così alcuni
credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà; ma questo
sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio
nella sua energia potenziale. orientate, si lasciano molto riscaldare con lo
sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare
con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei
vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione
inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia
di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non
si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla
negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di
questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si
polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La
fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche
perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li-
quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi
elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di
atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi
trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni
materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa
i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin)
il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono
emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal
radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai
e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione
dell'Elettrone, Annalen der Physik. Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha
cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità,
supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e
rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un
magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il
fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto
continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per
la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il
nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che
subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare
altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e
di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo
neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti
di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che
scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo
arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for-
temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche
elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in
elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e
perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la
levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi
scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in
sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della
luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono
carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sor- gere l'elettricità
nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da
sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i
seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto
ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa
sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta
più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in
senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e
dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non
derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le
scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri-
cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni
elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e
scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi
opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi
Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas
elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo
spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e
premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi
perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso
di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione,
come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p.
257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La
efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della
distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la
positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili
alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde
dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma
colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi
senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz
dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni
degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una
pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al
polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo
positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o
Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si
fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il
(1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono
prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che,
urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe.
Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali.
piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici).
La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal
Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in-
focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della
temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per
successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa
240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la
elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura.
Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle
gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle
stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i
metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli
Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di
cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un
diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio,
Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio,
Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la
elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi
seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi
spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti.
Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia
gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o
in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti
combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli
Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi,
che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono
urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e
la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di
rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di
quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio.
Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale
di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e
Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale
(non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia,
ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i
fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La
meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una
mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro
Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito,
dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal
problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che
preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo
stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto
approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s'
introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema
conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei
moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione
impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace,
invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne
che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è
trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui
non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e
cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema
di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a
cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione
che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi
con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle
lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma
opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue
all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui:
ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che
ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887
Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato
la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per
quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo,
dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, come è sempre
ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia
potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di
gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne
andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle,
pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la
vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione.
Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem-
meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio:
ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che
è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più
lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia
sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le
ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che
abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto
e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è
caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale
Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è
riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i
corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli
Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano
a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua,
nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di
canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi
in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola
frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra
l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi
irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e
Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli
Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e
credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato.
(1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella
tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 —
Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a
dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione
ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità
energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza
a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri
Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday
commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV),
scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori
distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo
centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione
fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale
degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse
e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse
definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può
sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per
l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell'
Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che
lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che
tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la
scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli
perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale
pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata
impossibile. — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di
una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce,
non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di
Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal
flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così
imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in
Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani.
Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto motore che
agisca fuori e al di là dell'Universo. Esigono che la materia sia ora creata ed
ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità.
3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice
effetto di di- verse forze che ci sono ignote. Implicano la esistenza di
capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha
trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al
giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare
per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.)
(1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore
per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono
e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia
meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili-
Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà
dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del
libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità;
benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul
pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in
Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non
arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre-
deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia
inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla
Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi
dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione; dando prova
unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio
ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a
Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi:
ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il
meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i
risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed
assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu
riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli
Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare
a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: « Sic
volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe
sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di
sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello
che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma
Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse,
come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti
si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza):
perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono
elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di
millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4.
Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati.
Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e
disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le
molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo
spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se
lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi
strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla
superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono
con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non
è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole
mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a
grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro
superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide
che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti.
I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti.
Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau
(Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces
moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si
distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in
forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta
che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col
versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo
precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando
certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone
cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si
vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as-
sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una
pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli
anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso
e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori
anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di
inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce
impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo
esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi
simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che
l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare
delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che
sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline
di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti
Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi
quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non
si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di
traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e
Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa
della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi
Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1).
Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e
spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi.
Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla
piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa
vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo
spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas
corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un
suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate,
come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre
(1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le
gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del
Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le
molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di
Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse
costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici
chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare
che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di
aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in
un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa
da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che
su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano
via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di
stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la
solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente
non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma
anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi
ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare
quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali
inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono
coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un
secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di
seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei.
Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di
forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano
un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in
flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre
Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai
trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si
riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve essere in stato di relativa
quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della
Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole
e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono:
quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla solidarietà
dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della
parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal
prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando
la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il
moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri,
dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si
concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò
che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi
e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica
Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della
natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di
solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende
ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la
fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno
scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde
più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli
atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione
dei corpi, la disgregazione. La tendenza
all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei
gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani.
Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si
accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia
e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai
per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof.
Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico
sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il
Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1'
Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto
dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della
loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino
pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà
conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag.
20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse,
come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del
Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non
seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze
incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva
affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi
Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ».
Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi
solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più
elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire
la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare
la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della
fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo
stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. Il materiale
dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la costruzione è fisica, e
conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni
dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non
ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle
molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha
bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un
cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1)
L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che
« Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le
forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di
strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo
nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La
coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la
Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione
biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le
pareti; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra
i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo
stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le
soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale
che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi
perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello
spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri,
di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle
forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire
altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la tendenza
delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio
stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale
dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando
un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le
strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle
miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto,
dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In
qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o
spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo.
Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo,
l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il polo positivo si
riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la
luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve
cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi
gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei
cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della
medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi
nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in
forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o
molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di
cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che
tendono ad una elasticità variabile: però si induriscono facilmente in colle,
in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei
colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro
genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal
cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche
nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine
compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente
per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice,
dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. Nelle vere gelatine
le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle
roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di
cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as-
sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna
struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in
magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle
vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua
ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet
professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio,
soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua,
e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di
diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si
poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda
un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la
temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto
veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo
della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori; tutti cercano
di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le
forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si
trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc.
ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della
eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio della
variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia
dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento
dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di
quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si
forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata
nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si
formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche,
rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica
di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il
polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la
soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi
variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del-
l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù
propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti
dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la
conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre
proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del
cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti
efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto
diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. I
cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è
instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione
fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici
(riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai
vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell'
interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono
giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata
sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla
magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al
microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono
anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere
eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e
francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali
eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco
abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto
a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la
temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi
dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in
serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione
dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati
fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra
Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la
leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie,
della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad
ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed
ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti
organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti
misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von
Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il
prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro,
di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che
si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio.
lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne
succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma
rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina
nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo
quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate.
Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad
impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è
fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui
nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi
delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche
identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro
cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido
silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto
calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma
allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904
BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio,
guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni.
Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si
segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano
col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad
unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora
indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli:
sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola
centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale
che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma
pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici
coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle
roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La
contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do-
vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la
neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente
geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini
confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido
silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando
si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro
malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio
ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a
base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma
cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali
Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi
stellari. Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita,
la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che
mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che
parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una
filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti
che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e
nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che
si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed
intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione
e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un
cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a
fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto
della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di
questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto
alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della
materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere,
all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa
alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento
notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi
simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero,
il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono
sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi
dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia
di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro
equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare
36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono
tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi
di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto
(il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed
il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se
non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando
i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi
tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un
decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta la natura. Ma unito coi
metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la
fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i
corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano,
slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la
polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il
Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno,
l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono
continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti
gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con
ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas
acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed
il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro-
glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni
chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro
elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due
componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo
argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove
decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i
suoi elementi? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni
trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato?
~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle
famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione,
dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma
coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un
po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste
combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di
sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale
a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno
spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è
velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il
cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte
glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche
facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti
(che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile.
Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore
a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che
determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il
peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il
cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno
una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e
con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d'
idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo
di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che
è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche,
hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la
chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla
reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a
formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e
1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e
può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti
sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di
1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non
saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di
Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente
e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più
pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di
azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca
la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel
bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il
tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si
constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni
casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido
di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le
accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono
meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i
composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi,
ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per
formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo
si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di
potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione
superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico
dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si
frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così
nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a
provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido
solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto
più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono
meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di
ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali
poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore: meno
che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i
composti organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada oltre i
quaranta si distruggono. La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella
morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi,
scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno
mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi
degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio,
nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a
formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali
semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V
idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche avrebbero,
secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non
sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente
passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua
superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una
atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e
fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di
car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con
un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, i
quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio.
Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in
cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse,
secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare
più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando
capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da
queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra.
La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando,
abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono,
formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori,
l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali
avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno.
L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni
organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un
forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E
quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac-
qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di
sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza
delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so-
stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata
dagli Atomi; ma è Velevazione delle Unità atomiche ad Unità più alta e a
godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della
Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si
fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si
hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può
dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La
cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole
binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per
la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le
vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare.
Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane
per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e
sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non
vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a
prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera-
menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la
presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che
ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha
72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa-
recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi
granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di
minerali e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando
la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse.
Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti
delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro
combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si
scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma
staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte
le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è
vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non
quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che
la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il
protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione
dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro
quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della
quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma
non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le
materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni
non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la
struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a
vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo
nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non si accomoda da se, non
si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di
carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa
si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel
suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società
cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad
accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a
riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte
le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j
assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare
(come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che
incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli
elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi
e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole
operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia-
cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle
che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le
altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella
sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua
affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una
cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le
sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre,
e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli
microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo-
sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti
granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata
Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma
(rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma
cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di
fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie
contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la
cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la
Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni
di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle
piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva
in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione
meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno
che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716
ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli
Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo
assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne
derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita
incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. Se si raccoglie in uno
stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno
cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di
colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo
una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la
Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano
struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando
col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta
cel- lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In
questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa
la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza
all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco
a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima
che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono,
as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia
chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il
principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui
per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi,
nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello
che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono
formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose.
Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli
bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla
lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido
da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per
segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte
contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi
si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva
di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide
si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli
amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere
vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca
e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la
clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di
struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si
nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società
e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali
che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno
struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai
fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e
negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza
prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella
fabbricazione dell'acido solforico. I fermenti aerobi respirano l'ossigeno
dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria,
cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od
unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere
solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto
apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi,
degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi-
danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi
(sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne
l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei
germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo
zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma
vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono
aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le
circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei
bacteri sono anaerobi; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno
all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono
fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le
terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel
1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha
scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante
coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da
se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe
me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e
sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava
perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura
intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano
affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu
detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di
operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la
filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro
senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità
centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze incidenti dell'ambiente, al modo
Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza
unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella
cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il
sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es.
la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti,
venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la
libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a
tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei
Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore
Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai
diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte
funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la
chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare
che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni
cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi
in due) ha una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività
nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di
carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa
celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti
verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante
crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia-
cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi
protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si
sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere
gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere
disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo
Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il
medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente
dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici
costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi
di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia
ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno.
Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/
idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale
delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e
serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe
al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi
sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora
a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si
ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline
col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di
celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della
coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar-
rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti.
Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza.
Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del
collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata
meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce
raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a
tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di
fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche
Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche
Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e
che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo
che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare
si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore
dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1)
vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che
sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o
Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » »
Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca
Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o
Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene
montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto
in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui
Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino,
dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che
obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la
j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele
una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande
e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le
roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo
(1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche
costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra-
sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli
organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi
furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima,
mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in
linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui
fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le
linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il
corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie
chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur
l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa
pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli
scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno
prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero
i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di
anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30
milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi
caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un
mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite
nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor-
rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. —massima
della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare
l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più
rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire,
tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice
condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa
ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe
basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le
acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che
serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia
di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati
degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di
molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa
ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti
insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in
se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come
pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge
sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più
semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi.
In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici
vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi
talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai
loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti
ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati
i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re-
stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la
divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per
fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano
prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed
i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe
Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i
Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno,
ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne
studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli
che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte
migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro
ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti.
Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0°
gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a
16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno
il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile
strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto «
Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del
colera, della febbre gialla, della peste; riformò la teoria Le Fucacee furono
le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune
Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le
Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene
l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di
mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o
sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà,
mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli
anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee
vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante
maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido
malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra
cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine
(Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria,
messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed
abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio
in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono
cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del
mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania
delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si
conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i
giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i
Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi
si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione
delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle
Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in
alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e
gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore,
seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante: l'una intenta ad
accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore
ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età
paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli:
ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi
erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più
piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio,
diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo-
luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro
tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in
Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma
era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni
e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene
quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e
allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le
Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano
piccole, e crebbero in al- tezza. Fin dalle prime Ofioglossee il tallo
dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si
moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu ridotto quasi a nulla
nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e
spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé)
lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore
femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma
attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i
corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per
la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli,
emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme
(conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto
nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo
e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che
YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato
dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la
virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un
perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa
lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è
fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un
risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva
nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere,
nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e
respirano più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule
irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di
due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine: una di esse
farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta.
Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I
Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi
riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo
sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie
vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per
spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli
non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. —
Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni
nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè
spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante
attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione
alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti
giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie
persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta
perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal
centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano,
poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai
Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono
senza nozze. Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice,
e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta
dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre,
con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a
più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli
Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il
clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei
piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente,
vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano
subito; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria,
modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries
attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita
sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al-
l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del
bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all'
individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine
dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie,
anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle
Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più
attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si
sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno
riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a
parità di volume). Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto,
essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la
ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più
calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima,
benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi
dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La
Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le
piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900
da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904
Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F.
Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta
Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle
Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee-
eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione
naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo
nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e
prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per
sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la
moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici
sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più
si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere
beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più
presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e
sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice
e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero
andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel
terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli
nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi
e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla
intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi
sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie
il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa
la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione
notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma
assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono
l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili.
Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo
scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far
zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la
glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive
come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia,
re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di
ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando
l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi
elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non
saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti
gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il
loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono
l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio.
Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di
C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante acotile- doni
è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le
aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie
albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al
carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di
solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre-
scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli
amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il
quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce
del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si
cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata
insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può
tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0.
Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati
ad acido cianidrico. Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i
gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli)
si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la
temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te-
pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a
germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle
analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi
digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali
ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e
diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma
dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme
sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove
si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto
la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si
coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi
ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il
latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e
depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo,
formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia
delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano
le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei
fasci fibrosi vascolari arcuati sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni
il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste
Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così
avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano
presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la
corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del
mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache
son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera
impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la
evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni
d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento
resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i
succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei
cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante
sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce
all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono
invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The
dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una
macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la
morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno
interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle
animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle
basi ed ai sali.Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di
carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è
idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in-
grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata
myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il
glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è
alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive
pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti
len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo
nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro
acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono
polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno
i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti
detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle
sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della
veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi
ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi
è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui
germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la
papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali
quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi,
distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio,
con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si
moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal-
damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica
in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate
sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o
parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad
investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro
formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura
fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa
altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di
fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza
ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono
strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio
Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili
della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie
abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori,
all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni
». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo
abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il
contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere
l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e
giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni
forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura
che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire,
desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi
lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente,
cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più
complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus
submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a
rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta,
e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di
combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali
superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la
respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. La
formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e
procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in
organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e
robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a
quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il
materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di
branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non
hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la
funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto
miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si
sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da
tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si
compiono meno bene, ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli or-
gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si
scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le
funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere
fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo
della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma
esterno viscoso: e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa
comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un
centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda,
detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le
larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi,
che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti
dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e
quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove
circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più
presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche,
essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega.
L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di
Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle
isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella
stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso
numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si
ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1)
Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori
microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se
ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia,
nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula
dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti
che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono
al loro corso: i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti
nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche
vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con
poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi
piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando
mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per
respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la
quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano
del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea
viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una
funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo
leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare
opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so-
pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente
attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le
successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole
negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni,
con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a
vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza
le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando
un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi
animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in
favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine
segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli; ma discendendo dalle
frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ritornando più
volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono
a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il
Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad
allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le
acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il
Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule
prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno
scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte
in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che
va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi
caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli
organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che
YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto
osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte
con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo
gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più
chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico
universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato
sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che
atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira,
dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza
ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale
tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere.
La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta
una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li
combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo
averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver
imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono
centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè,
con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i
muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri
nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di
sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia
generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale
condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento
comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che
^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che
sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei
muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come
vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le
sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole
unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio,
Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia
ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco,
ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va
presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove
aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti.
Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che
si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei
cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il
lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della
Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze
particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi
acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio,
e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale
per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the
sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più
milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti
geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause
intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo,
desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato
che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si
stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e le isolava; cosicché alla
fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli
allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi.
— La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La
umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen-
sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al
miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte
sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute
bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state
lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai
genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione,
non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come
lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano
a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di
vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita,
nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti.
Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e
perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che
fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume
Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra
loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le
piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune
specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la
fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le
branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero
gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle,
zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di
respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si
fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia
del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova
con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente.
Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi
bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con
sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin
e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un
paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione
sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni
della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro
approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di
cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la
testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e
Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio
erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. Come
dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni.
(Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai
piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini,
il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione
alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus
(che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei
quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i
Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo:
tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo
Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come
polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per
cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le
accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano
ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni,
abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni
membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane
inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione
bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio
che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati
Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche
forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili
roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche
erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità
intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari
nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel
cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età
Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo
Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già
Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un
sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o
centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano
diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea.
Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico
al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E.
Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das
Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. stacci, i Zoofiti, i
Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai
notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco
aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di
quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi
enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino
questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei
grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili
divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava
freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per
i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua
secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole
derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa
le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre
sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte
erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi
avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi
arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso
delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla
velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra
la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai
Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle
costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che,
senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute
nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno
quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle
acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano.
Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della
Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro
sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo;
essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti,
avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede,
e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si
estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si
vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix
di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni
degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci
come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni.
Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto,
detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel-
lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione
che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per
cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando
il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo
modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo
succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil'
Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a
proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del
Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda
alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e
più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di
un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e
mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un
po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il
Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle
dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano
quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe-
roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita
sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una
società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di
abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di
erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù
selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini
civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all'
origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze
fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e
l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali
imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel
pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi
(1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne
vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come
fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica
ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a
diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco
Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i
coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai
nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà
sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i
peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per
ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli
Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che
tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel
periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più
minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i
Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori,
svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della
coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti
pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene
dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli,
digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé
nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e
nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la
digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere
i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli
Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati
sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe
cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più
alte delle Palme le Giraffe allungarono molto il collo; per nutrirsi di mosche
e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un
mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve
come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le
allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le
corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani;
per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a
stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af-
flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò
l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit
trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni
all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo
Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a
quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente
in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio,
Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o
evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione
della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo
non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo
indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la
Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle
funzioni, giacche la modificazione degli organi per farli servire a funzioni
nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i
molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le
specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante
volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il
sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i
figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e
perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali
migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di
pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far
atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e
quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un
risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne
abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi
per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò
nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine
nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz,
disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 «
Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del
quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse
Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235. « La Unità ordinatrice dello Indistinto
assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma
in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto
Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine
nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione
naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad
ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu-
de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di
provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però
noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è
mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può
essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar
fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può
tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal
di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice
volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza
viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi
ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro
maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive:
«L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite,
succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà
questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato « fisiologico riuscito, per aggiunte e
modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ».
Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più
nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice
ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L'
Indistinto a che cosa è ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da
Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo
invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il
Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è
indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto
sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. «
Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura
infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della
nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo
radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come
Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una
sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente
Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel
proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare
l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate
come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si
vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto
Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità
è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga
evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva
Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la
causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente
infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e
cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi,
e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero
Positivismo armonico, pitagorico, Italico. Come la psiche fa la vita interna
sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » )
stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il
pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità
inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al
disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano
senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso,
come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio
sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che
la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità
del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot-
trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte
schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è
« la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale
adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e
molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della materia
insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del
ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato «
dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la
ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie-
« gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo
Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve
nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire
è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito
che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le
piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il
suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non
l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero
filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling
ed egli non ha mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso
assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per
cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì
evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto
deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di
pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a
quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della
continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene
che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida
in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i
punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta,
non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende
troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto,
secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime
nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della
fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si
fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa,
formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della
di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi,
dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi
della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire
vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi
combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone
che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo.
Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei
Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti
accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca,
faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa
un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle
Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il
pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in
sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si
afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe.
Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli
Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si
sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule
delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione
di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono
alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran
simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). Meno nella Tenia ed in altri
parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un
apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e
respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del
secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e
di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa
dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue
l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar-
rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare -
volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra
at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le
ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto
retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e
dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare
una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il
sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per
accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono
finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo
gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una
finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di
Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed
evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa
anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali
superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa
inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. Gli animali, mangiando vegetali,
ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle
albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo
fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli
dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e
mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo-
logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i
vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità
organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto
dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che
assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi.
Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal
tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie
dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare
veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono
mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e
per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule
linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze
velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi
fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non
utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi
(circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel
sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi.
Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero,
albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina,
glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta
sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno
alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie
formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si
combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa
composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso
loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la
individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità
generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da
elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi
sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi
troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa
entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue
vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago
sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come
provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza
recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre
non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa
consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. l'ossido di carbonio
uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si
spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna
persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene
contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente
accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel
feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire
l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo.
Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la
sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della
Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono
mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che
scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che
una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in
muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel
tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra
loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse
albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie parti
del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i
muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le
accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse
per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni
distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della
linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere
e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista
morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il
Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni
essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le
materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria
Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la
funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif-
ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere:
è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi
sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà
nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la
divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di
assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in
glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido
lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei
Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e
il piacere. Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli
farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle
cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del
ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e margarina; nelle
api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere,
vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono arrivati nei diversi
organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove.
L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto
una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso,
ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo
e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non
esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema
nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo
rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri
albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la
Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina,
ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine
secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la
cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la
sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler
parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione
dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e
a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel
suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra).
Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il
caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli
dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così
VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua
ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di
tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia
d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che
non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio
di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri-
menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti
a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata
dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad
ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo
pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere,
godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro
Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la
splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo
prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. Se no, allora
l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la
unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio
divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso
(compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel
delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita
sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna
ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale
può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi
sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi.
Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi
nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il
plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero)
e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli
rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina,
lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che
intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione
circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il
sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo
molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette
sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe
ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato
alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come
la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di
vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili
od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi
fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così
anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono
formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari
liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di
una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua
emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di
aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in
piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La
funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e
perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali,
vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le
non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il
glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal
sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche
soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina,
lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa
il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per
litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato
di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di
carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non
vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta
unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite
avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le
funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono
sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto
più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha
imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente
nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la
facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la
Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi
o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la
Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da
disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari
sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari.
Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il
nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione
generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori:
quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi
rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema
cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo
sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa
da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano
a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i
vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l'
inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi
o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la
sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno
dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità
generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la
Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia,
ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura
che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura
che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere
deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi dei quali ha bisogno (1) portano
verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco
nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di
rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite
nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per
la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del
calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far
sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare
la salute; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta.
La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini
vasomotori ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi
sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli
organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le
alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è
maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più
benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole
e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro
milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi
della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per
darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo
induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o
Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle
ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati
della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i
Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici
corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un
processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di
queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I
quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per
portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a
purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le
insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto
pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo
e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia
sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano
leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire
il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi
dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni
velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve-
nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna.
Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di
gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati,
che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare
l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica
eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno
del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per
combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso
le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e
cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per
rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la
psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si
opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L'
uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la
capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è
rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto.
Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale
con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo,
i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una
negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta
Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il
male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è
soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va
verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato
nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo;
se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si
può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una
membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche
nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con
membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni
calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca
dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini,
cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una
vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose,
la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le
antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo
(1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a
lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro
organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per
tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come
dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando
se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli
Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a
centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i
bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città
industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da
provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla
Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le
malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva,
ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza.
Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle
cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei
tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri
cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi,
che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po'
alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere
per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico,
dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del
sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per
eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano.
Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio
muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta
nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali
inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue
che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la
dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla
coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi
mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio
e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato
liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la
flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al
funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando
ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso;
mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre
ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni
elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il
moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue
modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane
e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa,
formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo,
salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa
di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli
Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli
esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati
che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno
pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la
tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary
Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i
suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute;
guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies
Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le
religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella
moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni
anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in
tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel
quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un
unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo
delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo
Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle
cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione
col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti,
ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse
fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux
résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi
disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e
dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di
idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel «
Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella
sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di
ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze
con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia
cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano
rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione.
Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero.
Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e
l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e
ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono
fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata,
appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore
che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da
stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti
sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di
inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore
efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla
guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente
la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli
organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata
meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema
Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute,
depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli-
catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi
delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è
assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle
Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce
bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi
formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano
specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si
accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli
Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso
ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i
Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema nervoso si
concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e
YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e nei Pesci
inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio
(di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che
ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la
diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata
delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi
e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la
composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei
Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più
instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno
cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza
nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di
albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre
sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che
stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore,
ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule
grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che
arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza
fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio,
ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza
che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle
cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con
crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta.
Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello,
dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi,
grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti
gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal
cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e
quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo
scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal
cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle
celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più
tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti,
sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi
ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l'
infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali
sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei
globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la
defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i
minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al
popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano
decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri
tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina
dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed
il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i
sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno
per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei
moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi
moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori,
giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla
unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di
tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti
compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi
sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal
sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre
ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche
nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato
o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il
nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello
degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi
dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in-
trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono
quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le
cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative
action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti
di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi,
divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle
cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è
fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla
periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la
bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran
parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro.
Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e
al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie
sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline.
Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova.
Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più
vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa
molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la
scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si
avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di-
sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una
nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato,
ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che
dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta
o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione
erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi
diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche
generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra
questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è
necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa,
che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la
noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi
sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le
due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof.
Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più
basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque
centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita
intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di
cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la
sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono
magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi-
sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La
convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule
grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per
ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della
convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode,
soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una
minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia
sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si
può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto
focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di
questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte
nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni,
mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più
piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini.
Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque
volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le
astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule
grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule
grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali,
senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i
quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini
materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose
vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi
dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando
ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del
senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute,
toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia
fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda,
rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è
un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei
muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne
contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta-
bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore
regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso
muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni
posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e
ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è
chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un
altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le
meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i
cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel
pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono
svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione
dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto,
si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi
pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo
«L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo,
ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due
vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono
i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli
Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in
termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come
sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque,
relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del
cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo
veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo
come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo
negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si
compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il
protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia
assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i
nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a
morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai:
è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo
che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi
movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si
pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie)
e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola
che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un
cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta
va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca-
vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la
contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse,
chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto
eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente
nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a
contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta
continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che
sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la
propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso;
anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in
grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene
(1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e
l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma
se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e
quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina,
cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di
nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i
sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei
muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa
contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del
calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima
volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la
elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano
contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta
sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed
atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che
sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici,
mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la
Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i
muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così
continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua
energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria
di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più
delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente,
secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i
nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell'
influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare
una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può
contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la
Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore
comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è
centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla
periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni
dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo motore muove
un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore
è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici, perchè gli
estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero
elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al
decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con
l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo,
di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune
professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui
corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un
complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di
vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti
impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente.
Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli
equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i
pròtagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove
circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca,
Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad
innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono
incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli
hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare,
col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche
anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola
sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà.
Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre
liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella
vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si
con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai
delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran
simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo
l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per
sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla
colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi'
intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti
dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della
Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una
interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali,
rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta
dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la
laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza.
La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il
suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra
dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si
contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un
soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono,
senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare
questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note
per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni
fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il
Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è
possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze
fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa
ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e
precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad
esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare.
assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore,
bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli
altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli,
nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La
Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi
di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il
volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto
Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo
quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco.
All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie
abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non
divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte
generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso
abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di
poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere
la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i
tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1
muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere
irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei
muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso
respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita,
appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità
conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli
perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione,
delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando
e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a
quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner
una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie,
in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i
coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni
di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si
riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di
fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della
specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna
precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco
filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di
un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge,
una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso.
Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli
assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di
Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche
sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri
mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente,
necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre
cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza
imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici:
camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non
quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si
può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so-
stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a
Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto
sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione
all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della
natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con-
fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o
statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo
av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe
straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come
può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il
dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la
loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia?
Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea. In realtà non vi è affatto questa pretesa
lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la
figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea,
Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale
fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano
impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che
dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai
sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in
una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del
sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale
dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le
generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta
con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza
dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono
vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della
struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e
nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato.
Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende
tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione
della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo,
con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per
germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali.
Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i
nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei
Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un
progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare
un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia
disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono
necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione,
volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione
morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali
inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta
impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si
sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati,
Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un
organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda
il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei
Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si
muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà
poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra
di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei
Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che
si isolano nuotando per godere le nozze, le fanno. Un siconoforo è una
federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori
e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi
è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il
rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono
formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle
altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa,
ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe,
nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre
piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna
le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede
nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono
con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione
si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare,
portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i
Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi
dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià,
non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati
dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o
parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle
Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti
segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il
gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni
nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche
senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani-
maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali
quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una
crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i
germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando
il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A.
Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita,
prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore
totale. L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei
tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi
nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si
sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof.
Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e
semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle
uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con
acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina
ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un
centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si
biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper-
matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da
svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che
incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale
in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai
genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula
uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida)
l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo
prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto
sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane,
facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei
mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida
esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa
di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di
più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori
dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i
materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle
vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi
contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano
strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così
Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici
l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La
spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male.
Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna
al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette
del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo
sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi
estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li
conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il
corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di
fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte
dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone,
il testicolo cresce a spese della neratrice è affidata a questi elementi
chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando
corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione
de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate
dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di
sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne
zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che
gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono
opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera: ma presto
ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la
fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella
cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si
moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline come
mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della
Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi
sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono
diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di
formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La
Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo
organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La
sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita
animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici)
detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i
muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
secondi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei
vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti
dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi
all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze
dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è
abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate
nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di
minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento
alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il
cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini,
nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica
depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei
sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si
arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al-
largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più
difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti
al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o
paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e
in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui
nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e
facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a
preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè
consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti
senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte
fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi
di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate
sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione
del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione
della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il
dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti-
nuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia
che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza
muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta
nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il
dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi
ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in
condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi
scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo
di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che
la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura
la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non
danno latte. nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa ascendere i
piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le
cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di
promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen
(nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al
cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e
ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la
respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di
vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il
cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più
frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco,
la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei
piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche
negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un
bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol-
tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che
fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono
superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore
piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1)
Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è
minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i
vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono
variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con
l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita
e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la
pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la
circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini
tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza,
la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e
la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che
lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli,
dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e
restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori,
raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce
ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un
rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione
vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva
dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti
ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie
specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani
desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe
sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali
e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un
fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di
avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta
sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera
l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del
calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette
e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie
di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il
carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le
ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di
osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate,
Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che
i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che
ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e
vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte
pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta
più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di
estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di
monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come
osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts,
deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola
generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del «
Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli
(Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed
hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è
l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste
rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un
buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il
domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale,
è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie
a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue
abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e
per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti
delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la
Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a
poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del
carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema
vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca
l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di
moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente
penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista,
at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui
l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più
che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando
guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti
malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie,
p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo
può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il
controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne
l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi
Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria
amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l'
ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a
Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi
obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli
ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il
Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in
giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi,
venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti
dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A
guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i
sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le
cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio
coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a
convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva
inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti
erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i
feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal-
tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta,
passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed
altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa
quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad
in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera
quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici
ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un
sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento
religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può
trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo
intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di
adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento
religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che
abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia
Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e
Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era
piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi
primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli
spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi,
nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che
tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze
naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi
che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità
uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza
di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù
selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed
entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi
propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia
centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte
che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si
trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche
se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta.
L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi,
per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli
Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha
confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel
conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come
realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari
opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece
annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene
più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si
prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è
invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la
speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per
conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si
fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il
Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei
Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto
il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull'
Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici,
primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e
nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra,
Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani,
che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del
fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole.
Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari
primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la
Maya o illusione del mondo. Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito
un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni.
L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si
estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio-
riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli
Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore
dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti,
anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo
Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si
prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya
o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio
del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva
fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che
contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo
e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di
rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia,
intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la
universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a
svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla
il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente
nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe-
ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti
volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla
solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del
sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart,
«L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non
conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione
francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo
per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei
geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento,
centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non
s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti. La Unità Numerante nella Volontà Se il
Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è
il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i
muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio
piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla
capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del
cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e
rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i
movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed
il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli.
L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello
e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il
yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli
antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale.
I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori
vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The
functions of the Brain), vide che i centri inibitori impediscono la distra-
zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali.
Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per
inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la
faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e
la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile,
una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e
fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, La Volontà non può
essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta; è
tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa
spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i
muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le
fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in
meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del
meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII
sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la
Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non
manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si
fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre
la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi
sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti
riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora
l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della
imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli
antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di
processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che
l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura
nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto
nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta
la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va
concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono
svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e
piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano
facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che
si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica.
Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del
processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti
dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire,
volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere,
Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La
coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o
esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle
quali si astrae il concetto di spirito o di anima). Il riferimento delle
sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per
intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne
facciamo poco a poco l'abitudine. Dunque non vi sono schemi a priori
dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me,
prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle
forze incidenti. Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il
soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non
un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è
altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni
logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina
163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli
atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per
errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono
solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come
altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni,
gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen-
sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non si faceva dal di
dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse: no,
erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi
a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si muore ». E
dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio
e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere:
tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li
segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano,
buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico
bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in
porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi
minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E
questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la
Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il
Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello
Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling.
L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non
è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente
nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi? Se è
l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti
gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà
l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che
lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique
» 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima
differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo
l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto
spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi
nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo
è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero
stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne
sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente
inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed
assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato
sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la
scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio
alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella
Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare
l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della
Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia
del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente
magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme
Philosophique come «profonde et habituelle distinction ». Essa concilia in modo
strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della
giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo;
ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del
Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère
de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero
egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno
sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti,
agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai
frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare
dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o
i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i
veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V
intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso;
i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili,
meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed
ottimisti. Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti
e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile,
corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano
poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date
adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento, pensiero e
volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe
osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al
Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all'
Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente); quelli senza
carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte);
quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri-
spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I
grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori
industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò
sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e
passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle,
di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza
carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale,
e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando
i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge
di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio,
idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des
caractères dans la sante et dans la maladie. Le conversioni sincere come quella
di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere,
mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere
dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri
nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo
da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se
mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio
instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da
mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la
finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto
di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le
cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere,
agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed
il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo
interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che
essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro
piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate:
assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il
succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il
cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti
a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza
simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un
abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non
vi è punto,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il
centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che
si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una
carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire,
ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi
lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non
sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza
numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la
direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo
d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la
ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza
negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio
1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono
tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il
Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione
della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno
risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la
Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i
tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie,
conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli
animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per
terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di
paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide
a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre
potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla
fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Spesso un uomo d' ingegno ha
volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono
non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la
Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e
piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne
economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà,
quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o
qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei
nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci
minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa
le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare
gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore,
si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i
vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la
forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia
Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l'
ilarità irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole,
oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali
inevitabili: giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni,
se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro
dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il
torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il
sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le
idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di
superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa
generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali
inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si
annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità
nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra
l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni
meschinità.Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. La prima estrinsecazione
del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »
La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e
ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV.
- La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche
combinazioni » L'Unità assimilatrice cellu- lare » Come le Unità cellulari si
ac- centrano nelle Piante per godere l'amore »Origine psichica delle specie
animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana »Come la
Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso
» Come la Psiche fa il Sistema Muscolare »
La Psiche generatrice... » La Unità intima nel Senti- mento » La Unità
Numerante nella Volontà. » 181 ^ LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra
filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- SAUNIER La
Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE
TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r
Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia
» 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3,
— Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli
nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita
pubblica. La filosofia di Pitagora che è generalmente conosciuta appena
in alcuni dei suoi punti fondamentali come la metempsicosi, l’armonia
delle sfere, la scienza dei numeri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, e
in realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un ve?v e propìzio
sistema di speculazione e di morale, la cui conoscenza ci è tuttavia
possibile soltanto in piccola parte sì per la scarsità dei documenti scritti
originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi
cultori osservarono scrupolosamente, sì per le amplificazioni, le
falsificazioni, e le invenzioni che partorirono le fantasie di tardi
seguaci di pseudo-eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale
filosofia e non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera e ragionata speculazione
a cui si accompagna, parallela, ima conseguente e logica ragione di vita,
sì che, mentre da un lato potè attrarre, seducendole col fascino delle
verità da essa chiarite e coll’armonica bellezza dei suoi insegnamenti. le
anime di molti cui pungeva r assillante aculeo della conoscenza.,
incontrò daW altro ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie
interessate o di volghi ignobili e sciocchi. Divulgata. se
non creata interamente ex novo, per opera di Pitagora, del quale, come di
Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa e coltivata prima che
altrove, sulle rive dell' Ionio nella Magna Grecia e in Sicilia., di dove
si diffuse, sebbene osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca.,
com'essa era., di principii che oggi si direbbero idealistici e
tra- sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una sua
particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva teorica insomma
e pratica nello stesso tempo., essa era ben atta ad informare di se
religione e scienza., politica e morale. consuetudini e leggi. Essa w
da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottriìie della Grecia, dell’Egitto,
dell’ India e per fin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto o in
parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di somiglianza, ma
altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti ricalcata sulle
sue orme. Conservata poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e
tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto delle scuole,
essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi, quando, inalveatesi nel suo
letto altre correditi di pensiero, alimenta le speculazioni della teosofia
neoplatonica e nieopitagorica di Plotino, di Porfirio e di altri molti, e diede
origine a molteplici scritture, quali più quali meno profonde ed attendibili,
intorno alla vita ed ai primi insegnamenti dell’antico maestro. Da essa
infine trassero ispirazione alcuni filosofi della rinascenza, e qualche sua
derivazione può dirsi non del tutto spenta anche oggi.
Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque massime per noi italiani, lo
studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e ìiarrarne le vicende
nei vari tempi e nei vari paesi: poiché sebbene molti abbiano fatto studi
e ricerche in proposito — basta ricordare fra tanti, i lavori di Bitter, Zeller,
Gomperz, Chaignet e Mullach, e, in Italia, di Capellina, Centofanti, Gognetti, Martiis,
Ferrari e Ferri -- e benché da
tutti Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Hamburg, Zellbe,
Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortràge und Abhandlungen geschichtlichen
Inhalts^ Leipzig, 1865 e Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P
Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2* ed. alleni, par
A. Raymond, Paris, Alcan, Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor.,
Paris, Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc- cessoribus, in
Fragmenta philosoph.. graecor. Paris, Capellina, “Delle dottrine dell'antica
scuola pitagorica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad.
di Scienxe di Torino -- Centofanti, Studi sopra Pitagora, in La
letteratura greca, Firenze, Le Monnier -- CoGNETTi De Martiis, L'Istituto
Pitagorico, in Atti della R. Accad. delle Scienxe di Torino, Socialismo
antico, Torino, Bocca -- Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in
Rivista ital. di Ulosofia, Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni
degl'Italiani intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R.
Accademia dei Lincei, Rendiconti, -- questi e da altri studiosi non solo
si siano raccolte molte notizie ma si siano anche esaminate e discusse
quistioni importaìitissiìne pure troppe cose ancora rimangono da chiarire
e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo. E
fors'anche^ riprendendone i?i esame il contenuto, ossia tenendo l’occhio
alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola importante,
qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata dall'antico saggio,
potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale da poter resistere
agli assalti del nostro più acuto criticismo. Gli studi
raccolti in questo volume furono già da me in gran parte pubblicati in
Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie ricerche, modificare
alcune delle conclusioni alle quali ero giunto, e nuovi fatti ho potuto
chiarire, mi sono indotto, anche per aderire al desiderio e alle
sollecitazioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.
Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia che or ora
dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno a dimostrare che intorìio a
queste importantissime dot- trine non si è detto ancora tutto e che
inolio ancora si può indagare e scoprire. Da diverse tradizioni
furono connessi i piiì antichi istituti religiosi e politici di molte
città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo. Ne fa meraviglia che alle
dottrine di Pitagora si fa risalire anche le prime istituzioni e le
più antiche leggi di Roma. Numa, il sacro legislatore della città
capitolina, e ritenuto scolaro di Pitagora, e le stesse leggi di Le XII Tavole,
copiate dalle legislazioni della Magna Grecia e della Sicilia, che alla
loro volta traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, sono
altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e
interessante poter determinare in che consistessero questi legami di
dipendenza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi
dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze e degli
istituti religiosi e della fondamentale legislazione Seneca, per esempio,
(Epist. ad Lucilium) sull'autorità di Posìdonio, dice, parlando dei
grandi legislatori dell'Italia. Hi non in foro, nec in consultorum atrio,
sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti
lune Siciliae et per Italiani Oraeciae ponerent -- romana; ma
purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si sia fatto in proposito, non
è, per ora, possibile una determinazione neppure approssimativa. Ma
insieme con questa azione, da alcuni ritenuta soltanto leggendaria, su ciò che
costituì l'anima della vita civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un
ulteriore influsso, determinando attraverso le vicende della sua storia
vasta e complessa, una corrente di filosofia sua propria, continua o
interrotta, palese o recondita? Di vera e propria tradizione scritta
non ci restano tracce, se non frammentarie; di una tradizione orale
abbiamo invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di
non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ha in Roma. Anzi noi
possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte le conclusioni di
queste nostre ricerche, che questi innamorati cultori di una così riposta e
difficile sapienza non furono già uomini oscuri nè poeti o scrittori di
second’ordine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,
pensatori insigni e grandi uomini politici. Cosicché la filosofia pitagorica,
non morta nella scrittura o negli insegnamenti orali, ma viva e operante nelle
menti di magistrati famosi, come APPIO CLAUDIO e il maggiore SCIPIONE,
nelle fantasie di autori eccellenti, come ENNIO e VIRGILIO, nei
cuori di cittadini nobilissimi, come FIGULO, VARRONE e i SESTII,
accompagna in certo modo passo per passo il progredire della potenza e della
grandezza di Roma; finché poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua
virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura
e l'indole dei romani, e il meno idoneo ad allettarli, e all'antica
razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un lato fantasticherie e
aberrazioni come quelle di un ApolIonio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi
elementi eterogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,
essa si ritira di nuovo nel silenzio e nella segretezza di qualche
scuola, illumina appena la vita e lo spirito di qualche solitario amante
della verità e del sapere, e finì per disperdersi e dileguare nelle acque
torbide delle speculazioni di un Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono
indotto pertanto a raccogliere con la maggior diligenza possìbile i
ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe,
che di sé lascia il pensiero pitagorico
nella storia e nella letteratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e
studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di trovare. Brevi
cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere di Zeller, Chaignet, Mullach,
nella “Storia di Roma” del Pais, e in storie generali e particolari
della letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lunghe e
pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse qua e là un po'
dappertutto. L'importanza e il valore delle mie ricerche non consistono
dunque nella novità dei risultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un
tema fin qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella
quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne ho fatto,
seguendo l'ordine cronologico; e qualche questione spero anche di avere
maggiormente chiarita, sebbene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso
costruire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni
definitive. Che molte delle antiche istituzioni di Roma sono derivate
dalla filosofia pitagorica e riconosciuto ed ammesso esplicitamente da CICERONE,
il quale nelle Tusculane scrive: “Pythagorae doctrina cum longe lateque
flueret, pernianavisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniectura
probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indicator.” A conforto dunque
della sua opinione CICERONE adduce due argomenti, uno congetturale e uno
di fatto. “Quis enim est qui putet cum fiorerei in Italia Graecia
potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque
primum ipsius Pythagorae, deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset,
nostrorum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas fuisee f Quin
etiam arhitror propter Pythagoreorum admistrationem NUMAM quoque regem
pytagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et
instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientìam a maiorihus suis
accepisseut aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatenii eum, qui
sapientia excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse.” E
questa è la congettura. L constatazione di fatto poi è, che nelle
istituzioni romane e in alcune antiche scritture vi sono molte non
indubbie tracce di pitagorismo. Quanto alle istituzioni, CICERONE trova
materia di raffronto nell'uso dei canti e della musica. “Vestigia autem
Pythagoreorum, quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur. Nam
cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius
tradere et mentes suas a cogitationum intentione eantu fidibusque ad
tranquillitatem traducere, gravissimus auctor in Originibus dixit CAIO
morem apud maiores hunc epuìarum fuisse ut deinceps qui accubarent,
canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum
est et cantus tum fuisse discriptos vocum sonls et carmina. Quamquam id
quidem etiam XII TABULAE declarant, condi iam tum solltum esse carmen, quod
ne licer et fieri ad alter ius iniuriam lege sanxerunt. Sec vero illud
non eruditorum temporum argumentum est, quod et deorum puloinaribus et
epulis magistratuum fides praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua
loquor, disciplinae.” E quanto alle antiche scritture CICERONE ricorda un
carme di APPIO CIECO, che a lui pare pitagoreo. “Mihi quidem etiam APII
CACCI carmen, quod valde PANAETIVS
laudat epistula quadam, quae est ad Q. TVBERONEM, Pythagoreum videtur.”
CICERONE conclude: “Multa etiam sunt in nostris institutis ducta ab
illis; quae praetereo, ne ea, quae repperisse ipsi putamur aliunde
didicisse vi-deamur.” È davvero un peccato che Cicerone, per sentimento d’orgoglio
nazionale — che non doveva peraltro essere soltanto suo — e forse anche
per ragioni, se non di stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e
di utilità pubblica, *tace* intorno a queste molte altre
derivazioni d'istituti romani dal pitagorismo, alle quali, come si è visto accenna
per ben due volte; tanto piii che CICERONE e per le cariche da lui
coperte, e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e
sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda cultura storica,
letteraria e FILOSOFICA, e bene in grado di fornirci in proposito
notizie, documenti e prove certo assai interessanti. Ci è forza dunque
accontentarci di questa sua affermazione categorica, per quanto generica,
e vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano validi e, in
secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi.
Che in verità il pitagorismo importato nella Magna Grecia “temporihiis
isdem” — come dice lo Cicerone — “quibus L. Brutus patriam liberavit” -- e
propagatosi in tutta l'Italia meridionale, dove si conserva, non dove rimanere
ignoto ai romani e dove esercitare su di loro, presto tardi, qualche
influsso notevole, è ovvio, e le presenti ricerche dimostrano appunto la
cosa alla luce dei fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale
influsso si possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei
-- [E detto che Pitagora venne in Italia “superbo regnante” --
suoi primi seguaci, come Cicerone crede, oppure, come crede LIVIO, se
esso si fa sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la
conquista della Campania e della Magna Grecia -- e, d' altra parte, se questa azione sia
stata così larga e profonda da dover lasciare molte tracce di sé negli
istituti politici e religiosi di Roma, o se si sia esercitata solo sulle
prime manifestazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime speculazioni
filosofico-religiose. Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me
che dimostrino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima
dell'Arpinate, e precisamente PRIMA della conquista dell'Italia meridionale,
dove essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla sua
dottrina e alle sue leggi e debitrice di molto Roma. Il primo di questi fatti è
che durante la guerra sannitica e innalzata a Pitagora ai lati del comizio
in Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase poi sino
ai tempi di Siila. Ora la guerra contro i San-niti si combattè in tre periodi. Pais
crede che la cosa si debba ritenere avvenuta appunto in questi ultimini anni.
Ma in realtà non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire anche
ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un poco posteriore, è
che dopo la presa di Turis, di Eraclea -- La cosa ci è
attestata da Plinio, il quale però non cita la fonte da cui ha attinto la
notizia. Dice PLINIO infatti. “Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus
Comitii positas statuas, cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset
fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco
dicari.” Cfr. Plutarco, Numa. -- e di Taranto e con l'arrivo nella città
di Livio Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale, sono
dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno Zaleuco. Ora perche
mai sono stati concessi a Pitagora due onori così distinti e di carattere
pubblico, se non si sono riconosciute le sue benemerenze verso Roma?
Evidentemente, in quei tempi più antichi, l'orgoglio nazionale non ha
ancora oscurato, come più tardi, il senso della verità storica! Ciò
premesso, veniamo ad esaminare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla
più antica civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà CICERONE. I
carmina convivalia che, ormai disusati nell'età ciceroniana, sono invece
ancora in uso al tempo della seconda guerra punica e che
risalivano, come afferma CATONE, a molte generazioni prima di lui, sono
certamente anteriori alla legislazione decemvirale. Cicerone, infatti,
per dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti
musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei tempi più
antichi di Roma, ricorda nel passo citato, insieme con la testimonianza di CATONE,
il fatto che le leggi di Le XII TABULAE comminavano gravi pene a chi
avesse usato quei canti “ad alterius inkiriam.” Senonchè Cicerone,
come appare da un altro passo dei suoi scritti -- Vedasi il framm. nei Fragni.
Hist. Graec. e Symm. ep. X, 25. -- Cfr. De rep. IV, fr, 12. “Nostrae
XII tabulae quuni perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque
saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod
infamiam faeeret fìagitiumve alteri” -- e
vedi auche Plinio, Nat. Hist. -- audò anche più oltre, ritenendoli
già esistenti a tempo del re NUMA. Se così è, non avrebbe dunque
dovuto valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva, come
si è veduto, alla leggenda che il re Numa e stato scolaro di Pitagora? Neppure
di questi antichissimi canti egli puo logicamente ammettere la
derivazione dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji
istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro autore
credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del filosofo di Samo.
Cosicché o il raffronto istituito da Cicerone e la analogia da lui messa in
rilievo non ha alcun valore storico — e così dovrebbe ritenersi
senz'altro, se fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più
antica storia di Roma — , oppure, come è più probabile, in conformità dei
risultati generali e particolari a cui è giunta la critica storica
nell'esame delle primitive leggende romane — l'ipotesi della derivazione
dei canti dal pitagorismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da ritenere
che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto fa risalire all’antico
un'usanza che dovette essere piu nuova. Quanto poi
all'analogia considerata in se, in che consisteva essa?
Semplicemente -- (De orai. “Nikil est autem tam eognatum
mentibus nostris quam, numeri atque voces; qtiibus et excitamicr et
ineendimur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam
saepe deducimur; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior et eantibus,
non neglecta ut mihi videtur, a NUMA rege doctissimo maioribusque ìiostri
ut epularum sollemnium fides ac tibiae Saliorumque versus Indicarli ; maxime
autem a Graecìa vetere celebrate.” Di questi canti poi Cicerone parla anche
altrove, e cioè nel Brutus e nelle Tusculane. Si vedano anche TACITO,
Ann. Ili, 5, Val. Massimo, Nonio ad assa voce ed ivi Yabbone, de vita
pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner. nell'uso comune del canto e della musica
in occasione di feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel
contenuto dei canti stessi, che gli uni. -- cioè i Pitagorici, adoperarono come
mezzo terapeutico e di insegnamento esoterico, e gli altri invece, cioè i
Komani, per esaltare la memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici
erano soliti tramandare sotto il vincolo della segretezza certi
insegnamenti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti
accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga meditazione, così
gl’antichi Romani soleno, al principio dei banchetti, cantare al suono
delle tibie le lodi e le virtù degli eroi, ed hanno anche l'usanza di far
precedere tanto alle mense in onore del divino, quanto ai banchetti dei
magistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico dei
Pitagorici. Insomma, le piu antiche manifestazioni dell'arte musicale in Roma
si ha per l'influsso diretto del Pitagorismo. A quel modo che si è
dimostrata la possibilità che sono derivate dal pitagorismo queste
antichissime manifestazioni dell'arte musicale, si puo anche riconoscere
come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensa Cicerone — la notizia dei
rapporti fra Numa e Pitagora. La notizia che il re Numa e stato
scolaro di Pitagora è probabilmente vecchia. Anzi il Pais afferma
che essa si deve forse far risalire ad Aristosseno. Ma in tal caso e necessario
credere che Aristosseno conosce una cronologia della storia romana diversa
da quella che fu poi consacrata dalla storiografia ufficiale, secondo i
computi della quale l'esistenza di Nu- [Storia di Roma] ma e
anteriore a quella di Pitagora. Tanto è vero che quasi tutti i filosofi
presso i quali troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Alicarnasso,
Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio — notano e discutono
variamente questa inconciliabilità cronologica, concludendo tutti press'a poco
come fa Manilio nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di
queste relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali e
quindi da ritenersi un errore inveterate. Ora che dal punto di vista
romano o di scrittori romanizzanti così dovesse concludersi, è troppo
naturale. Data la indiscutibile verità della tradizione e della relativa
cronologia, non puo esservi dubbio per loro sulla impossibilità per
parte di Numa di essere alunno di Pitagora. Ma tale impossibilità non
esiste per noi, che sappiamo come la storia delle origini di Roma sia di
formazione relativamente assai tarda, come i computi cronologici che a
quella si riferiscono siano il risultato di una lunga elaborazione
tradizionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di verità, e
infine come molte figure della leggenda siano soltanto dei simboli
rappresentativi di un complesso di fatti di istituzioni appartenenti
talvolta a tempi successivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che,
se e validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sussiste più oggi
che la critica storica ha demolito l'antichissima cronologia di Roma, non
rimane altra obiezione che [De re publ.: «Inveteratus
ho77tinum errore. Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic.{.Exc. de vlrt. et
vii.; Livio; Plut. iVwma; Plinio, Nat. Hist. quella sollevata da LIVIO,
il quale ritenne impossibile ogni rapporto fra Numa e Pitagora anche per
ragioni di distanza e DI LINGUA. Dice Livio infatti. “Auctorem doctrinae
Numae quia non exstat alius, falso Samium Pythagoram edunt, quem Servio
Tullio regnante Romae, centum amplius post annos, in ultima Italiae ora
circa METAPONTUM HERACLEAMQUE ET CROTONA iuvenum aemulantium studia coetus
habuisse constai. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset quae fama
in Sabinos e aut quo LINGVAE commercio quemquam ad cupiditatem discendi
excivisset e quove praesidio unus per tot gentes dissonas sermone
moribusque pervenisset e suopte igitur ingenuo temperatum animum
virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus
quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum quo genere nullmn
quondam incorruptius fuit.” Ma nel campo della storia, come giustamente
osserva De Marchi, è forse detta l'ultima parola sui rapporti che legarono in
antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni
italiche del centro? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una
“disciplina tetrica ac tristis” presso i sabini non è cosa molto più
problematica di quello che non sia probabile l'andata di qualche sabino o
romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra
Numa e Pitagora dovd dunque, a parer nostro, accettarsi come rispondente a
verisimiglianza, e il regno di Numa, se questi è realmente esistito, o,
in ogni modo, -- “Passi'scelti da Livio ad illustrare le
istituzioni religiose, politiche e militari di Roma antica” (Milano, Vallardi il
formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che la
tradizione riporta a Numa, dovd ritenersi posteriore almeno al tempo di
Pitagora, appunto perchè dalla tradizione e tenuto in stretto rapporto di
dipendenza dal pitagorismo. In tal modo non e più necessario, come fa il
Pais, di ritenere inventata d’Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto
a questo filosofo che parla genericamente di Romani accorsi ad
ascoltar Pitagora, e piu facilmente si comprendeno alcuni dati della leggenda
di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, e il
fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, ammetta la realtà dei
rapporti, senza neppure discuterla. Racconta ancora la tradizione che Numa
ha tanta venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare a
un proprio figlio il nome di “Mamerco”, in onore dell'omonimo figlio del filosofo.
Che significato può avere questo nuovo particolare? Alcuni hanno creduto
di scorgere in esso un tentativo da parte degl’Emili Mamertini di
far risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa. Se
così e, noi doviamo allora ammettere che quando il particolare e inserito
nella leggenda, la cronologia di questa non e ancora quella ufficiale. Altrimenti
il tentativo e puerile. Ma così non è, come e giustamente osservato da Mtille.
Probabilmente il (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp -- cioè Pitagora
-- &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog,
xal Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice
Porfirio nella sua Vita di Pitagora; e il medesimo affermano, senza
citare Aristosseno, Diogene Laerzio e Giamblico (Vita Pythag.). Quanto a
Pais, vedasi St. di Roma -- Plutarco, Numa -- Emilio -- Q. Ennius, Pietrob. -- particolare
non ha altro ufficio che di avvalorare con un indizio di piu la leggenda.
Un'altra notizia, a proposito della quale non è veramente fatta menzione
alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per
la quale Numa ha particolare venerazione. Allude forse essa alla pratica
del silenzio e della segretezza, di cui parla costantemente la tradizione
pitagorica? È possibile. E il miracolo della mensa carica di ricco
vasellame, che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di coloro
che dubitano delle sue facoltà soprannaturali, non ricorda le analoghe
facoltà magiche attribuite a Pitagora dalla tradizione? Veramente queste due
notizie, per il loro carattere favoloso, pouo indurci a credere
l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione storica
immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del saggio di Samo. Ma un
altro fatto, sulla cui verità storica non è possibile il dubbio, sembra
indurci a conclusione diversa. Voglio alludere al fatto della scoperta
dei famosi libri di Numa, avvenuta in occasione di uno scavo sul
Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta e la inverosimiglianza di
una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tradizione, che questi libri
sono antichi. Siano poi essi stati opera del saggio Numa — la cui
esistenza, come s'è già detto, dove necessariamente porsi in
un'epoca posteriore — o di qualche
altro sapiente imbevuto di sapienza italica, essi starebbero sempre
a dimostrare che effettivamente il pitagorismo esercita una qualche azione
sull'antica civiltà di Roma. Plutarco, Numa -- DioN. Hauc. Dal complesso
di queste notizie e di questi fatti noi possiamo dunque inferire che non
solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dove essere assai diffusa
ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di vero. Di guisa
che se Cicerone la disce “inveteratus hominum error” noi possiamo senz'altro
accettarne la vetustà. E, quanto
all'erroneità, essa e probabilmente soltanto un desiderio di uomini di
stato e di eruditi animati da un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual
cosa Ovidio, che pure scrive dopo che diversi filosofi hanno mosso
alla leggenda le critiche accennate, puo ben accettarla senza discuterla
affatto come una cosa ovvia e risaputa e fare in certo modo dipendere le
istituzioni religiose attribuite a Numa, persino la sua riforma del calendario –
gennaio, febbraio --, dalla educazione pitagorica da lui ricevuta. Anche
alcune disposizioni legislative di Le XII TABVULAE sono messe in relazione col
Pitagorismo. Cosa ben naturale, se si pensi alla loro origine. Non sono esse
infatti ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,
che, alla lor volta, com'è ben noto, si informano ai principii di quella
dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla con CICERONE, semplice
coniectura, ha poi la sua riprova nel contenuto delle leggi stesse, quale
può desumersi dai frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto
punitivo in esse sancito s'ispira al principio del taglione: « Si
[Metam., Fast., Pont.]. e. membrum rup{s)it^ ni cum eo
pacit^ TALLO està », dice il secondo frammento della XVIII TABVLA, e
questo principio, che, come attesta Demostene, ha largo svolgimento
nelle leggi di Zaleuco, e indubitatamente tolto dai pitagorici, i quali
lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice infatti Aristotile che la
giustizia e da loro consideata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in
una proporzione — non inversa, ma diretta, come notò bene Zeller — fra l'offeso, l'offensore e il Giudice. Nel
che essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i
criteri della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver
luogo che la distributiva. Ora, dice Chiappelli -- in qual modo si determinasse
dal pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica
del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere quali
elementi di essa penetrassero in le XII TABVLAE e a quali trasformazioni
anda soggetta in Roma. Un punto tuttavia è possibile stabilire, sebbene
solo in modo negativo. Alla legge generale, in le XII TABVLAE segueno le
leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa
Timocr. « ò'^xoz yàp aòxó^t
vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv
éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j- oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg
Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX- jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st
zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si ritrovano in quello che 1'
autore della Grande Morale ci riferisce dei pitagorici, il ohe è una
riprova del rapporto storico fra questi e Zaleuco. -- Eth. Nic.-- xst
5s xtat xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi
nuO-ayópsiot Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò
dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ». Sopra alcuni frammenti di le XII TABVULAE
nelle loro relazioni con Eraclito e Pitagora, in Areh. Giuria 00 misura
della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad uno schiavo. Ora i
Pitagorici non pare che avessero fatta questa distinzione, se l'autore
della Grande Morale combatte la dottrina pitagorica del taglione, come
quella che non si può applicare incondizionatamente al servo o al
libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto, se gli abbia
fatto ingiuria, deve accrescersi la pena corrispondente. E in verità siffatta
distinzione e bensì impossibile nel sistema dei pitagorici, per i quali
il corpo e come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne
trasmigrazione, e il più alto precetto etico e l'imitazione del divino
per via della virtù, l'osservanza della legge e il rispetto verso tutti
gl’uomini. Ma e invece possibilissima, anzi necessaria, nella legislazione di
Roma, dove così netto e il distacco fra cittadini liberi e schiavi.
Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse ispirato ai principii della
filosofia pitagorica il poemetto di APPIO CLAUDIO CIECO, che, censore e
console, e indubbiamente uno dei personaggi storici più importanti e, se
non il primo, certo uno dei primi rappresentanti di una larga cultura.
Orbene, che il giudizio di Cicerone non e errato parrebbero
dimostrare a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci
sono rimasti. E in verità la famosa sentenza “fabrum esse suae
quemque fortunae” non puo esprimere meglio il fondamento della dottrina morale
di Pitagora. L’altra, altis- [Si veda il fr. 3 della stessa
tav. Vili ; « Manu fustive si os fregit libero CCC, si servo GL poenani
subito.” Magn. Mar. « xò Si^ TotoaTov
o5x èaxt Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv
xaOxóv »] sima, come dice Pascoli, se fosse certa la lezione e l’interpretazione
– “amicum cum vides obliscere miserias; inimicus sies; commentus nec
libens aeque idem tamen teneto” -- «tu dimentichi la tua miseria
quando vedi un amico; ora sia tuo nemico "quello che tu vedi:
ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l'amico, tieni lo stesso
contegno, tuttavia” , è pure strettamente conforme alla dottrina
pitagorica, che insegna amore e fratellanza. Il terzo infine « sui
quemque oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis stuprique
ferocia pariat” non e certo disforme dalle pratiche e dagl’esercizi spirituali
degli adepti al pitagorismo, che dovevano acquistare padronanza assoluta
non pure del proprio corpo, ma anche delle proprie attività
interiori, per dirigerle al bene. Non si apponeva dunque male
Cicerone. Senonchè anche intorno all'autenticità di questo antico poema, che e
una delle prime manifestazioni letterarie di Roma, si sono sollevati dei
dubbi. Il fatto che la notizia di esso e data da Panezio in una sua
lettera a Quinto Tuberone ha indotto per esempio Pais a pensare che si
tratti di una falsificazione posteriore, da collegarsi con le altre
falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno ai romani
scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di Roma. Ma come è ciò
possibile, se Aristosseno e Appio furono contemporanei? E se Appio visse,
come è certo, nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lucania
che ragione c'è per negare che Appio conosce quelle dottrine e da esse trarre
ispirazione per [Lyra romana, Livorno,St. di Roma] il suo
poemetto? E poi come dubitare con qualche fondamento dell'autenticità
dell'opera che un Panezio e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente
breve, attribuirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo
Pais riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercita sopra
gli uomini di stato romani dal tempo di Appio e di Pirro? L' ipotesi di
una falsificazione, della quale poi non si vedrebbe neppur chiaramente la
ragione, non ci sembra dunque per nulla fondata. Sì che noi
possiamo con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in conformità
dei dati tradizionali, esercita una qualche azione tanto sulla più antica
civiltà di Roma, quanto sui primi prodotti del pensiero e dell' arte -- Chi,
più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma la conoscenza delle
dottrine di Pitagora e senza dubbio ENNIO, il padre della filosofia romana.
Nativo di Rudie, paese fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, Ennio
studiato a Taranto, che era il centro italico, in cui si conservavano più
pure le tradizioni pitagoriche. Versato nell'osco, nel latino, e nel
greco, Ennio diceva scherzando di avere tre cuori. Si trova a militare in
Sardegna fra gl’ausiliari che Taranto manda -- Gellio, N. A. -- ai Romani, e quivi da Catone e invitato a
recarsi a Roma. Come si spiega tale invito? Quali vincoli si stabilirono
fra questi due uomini, destinati a sì grandi cose, che si incontrarono
fra gli orrori di una guerra di conquista? Sono vincoli di simpatia e di
amicizia creati dalla comune grandezza d'animo e da comuni aspirazioni? Si sono
essi già conosciuti prima, quando Catone e in Taranto ospito del
pitagorico Nearco? Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la
profonda scienza e il forte intelletto del rudino dovettero certo
colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che alle qualità
pratiche dell’uomo di stato une l’attitudine del filosofo. In virtù della sua
sapienza Ennio dove apparire al nobile cittadino di Roma come assai atto
a cantare le antiche gesta di Roma; ed è forse per questo che Catone,
ragionando con lui delle istorie primitive della patria e delle relazioni
che essa ebbe con la Magna Grecia, dove suggerirgli l'idea del poema, che
quegli poi realmente scrive, e per la composizione di esso ojffrirsi di
agevolargli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e
promettergli tutto il suo aiuto -- il quale, e per la condizione e per
l'ingegno dell'offerente, non poteva non apparire ad Ennio prezioso e
inestimabile. Ad ENNIO d'altro lato, piena l'anima dell'antica sapienza
della sua terra, di quella sapienza che nessuno in somnis
vidit priu' quam sam discere coepit -- Plutarco, Gaio maior, — Cicerone, Caio
maior -- Annalee, (Yalmagoi)] dovette balenare come in uno splendore radioso
l'idea di illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al
tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza sconosciuta alla città che
forse il suo spirito veggente presagiva sarebbe stata nuova fucina di
cultura e di sapere e maestra di nuova civiltà alle più lontane
generazioni! Venuto in Roma, Ennio vi si dedica totalmente a diffondere
fra i romani colti l'amore del sapere. Ennio chiama intorno a sé, a
formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti cittadini e da
essi seppe farsi amare ed onorare per le cognizioni vaste e profonde, per
la nobiltà dell'animo e l'integrità del carattere, per la modestia della
vita e dei costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascoltarlo
accorsero fra gli altri SCIPIONE Africano, Scipione Nasica, Aulo Postumio
Albino, Marco e Quinto Fulvio Nobiliore, e con tali amicizie Ennio sa
vivere sempre sereno, mostrando così con l'efficacia dell'esempio, che le
verità da lui insegnate e praticate sono le più atte a dare la felicità e
la pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio Elio
Stilone sole dire che Ennio fa il ritratto di sé medesimo nei seguenti
versi degli Annali, che descrivono il vero amico – “Haece locutus vocat,
quocum bene saepe libenter mensam sermonesque suos rerumque suarum
comiter inpartit, magnam cum lassus diei partem trivisset de summis rebus
regundis -- E « decemvir sacrorum » (Livio). Consilio indù
foro lato sanctoque senatu; quo res audacter magnas parvasque
iocumque eloqueretur cuncta simul malaque et bona dictu evomeretj si
qui vellet, tutoque locaret; quocum multa volup et gaudia clamque
palamque, ingenium quoi nulla malum sententia suadet ut faceret
facinus levis aut malus ; doctus, fidelis, suavis homo, facundus, suo
contentus, beatus, scitus, secunda loquens in tempore, commodus,
verbum paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas quem facit et mores
veteresque novosque tenentem multorum veterum leges divomque
hominumque, prudenter qui dieta loquive tacereve posset.” In questo
ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente pitagorico, che sa trattare
le faccende pubbliche e raccor gliersi nella meditazione, che sa parlare
con piacevolezza e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non
commette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'amicizia e
servizievole contento del suo, felice, che infine sa molte cose profonde
e recondite, ma le tiene ermeticamente chiuse nel fondo della sua anima, per
non darle in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri
atto ad intenderle. E anche possibile, come osserva acutamente
Pascal, che in questi versi Ennio vuole altresì rappresentare i suoi rapporti
col grande SCIPIONE, del quale si puo dire assai piu convenientemente quello
che Macrobio scrive d’'Emiliano, che cioè e “vir non minus [Gellio
– “L. Aelium Stilonem dicere solitum ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec
scripsisse picturamque istam morum et ingenii ipsius Q. ENNI factam esse.”
I versi sono secondo il testo dato da Valmaggi (Mìjller, Baehrens).
Antologia latina, Milano] philosopMa quam virtute praecellens -- e l'ipotesi
tanto pili è accettabile se pensiamo che Scipione e forse il migliore dei
discepoli d’ENNIO, il quale lo ha in tanta considerazione da comporre
intorno a lui un poemetto — Scipione — e da fargli dire – “A Sole
exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui factis me aequiperare
queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli
caeli maxima porta patet.” Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza,
oltre che per la fama delle sue imprese, non lo scolge come
protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De Repuhlica [Di
Ennio e notissimo ai Romani il sogno col quale incominciavano gl’Annales
e di cui ci sono rimasti appena alcuni frammenti insieme con le testimonianze
di Lucrezio, Cicerone, Orazio, di Persio e altri -- In Somnium Seipionis^
I, 3. (2) Cicerone, Tusc., Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca
poi, nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione – “animus eius
in eaelum ex quo erat rediisse persuadeo rtiihi.” Vedili in V. J. Vahlen
Enn. poes. rei., Lipsiae, ediz. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. e nei
Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, Vedi anche le osservazioni del
Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, e lo studio di Valmaggi pubblicato nel
Bollettino di filai, classica – Lucrezio -- Cicerone, Somn. Scip., -- Aead,
-- Orazio, Ep. -- Persio, -- Schol. in
Pers. Sehol. Cruq. in Orazio, Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep.12, p. 74 Nab.;
Sergio, ad Aen. Questo sogno che leva grande rumore nel mondo romano e di
cui spesso si parla, ora con serietà filosofica, ora per ischerzo, tanto
che divenne quasi proverbiale -- dove essere abbastanza lungo. Al poeta
addormentato sarebbe apparso sul monte Parnasso il fantasma piangente di
Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno all'ordine dell'universo, alle
trasmigrazioni di ogni anima umana attraverso un proprio ciclo di vite e
alla sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma
intermedia fra l'anima e il corpo e a ricordargli le mutazioni della
propria anima, trasformatasi, dopo la morte del corpo, in un pavone e
rinata appunto in lui, il -- Pasdera, Il sogno di Scipione, Torino,
Loescher, -- Persio, Prol. “Nec fonte labra prolui eaballino Nee in
bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodirem », e Schol. ad
V. 21 « tangit Ennium qui dicit se vidisse sommando in Parnaso Homerum
sibi dicent em quod eius anima in suo esset eorpore. La ragione di questo
pianto non è detta. Era forse pianto di gioia per il momentaneo ritorno a
contatto con un essere terreno? -- Lucrezio, “rerum naturam
expandere dictis” -- Lucrezio, “an contra nascentibus insinuetur
anima” “ pecudes alias insinuet se ». Lucrezio, « Etsi praeterea tamen esse Acherusia
tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque permaneant aniìnae
ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis palleniia miris »
. Persio, Sat. « Cor iubet hoc Enni, postquam destertuit esse
Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo. Tertulliano, de an., “pavum se meminit
Homerus Ennio sommante » ; Hbid. «
perinde in pavo retunderetur Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ;
cfr. eiusd. de resurrectione I, G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10;
Persio, YI, 9, e schol. ; Lattanzio in Theb. Ili, 484. discendente del re
Messapo, il poeta rudino. Tale, press'a poco, il contenuto di questo
sogno, notevolissimo non solo per l'esposizione delle dottrine
filosofiche, ma altresì per l' accenno alle trasformazioni e
incarnazioni dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela
spirituale dei due poeti. Che il pavone poi, importato dall'
Oriente in Samo, la patria di Pitagora, ha nella filosofia mistica di
questo iniziato un'importanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche
— per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stellato, al quale
salivano dopo ogni morte corporea le anime umane -- onde l'espressione
per me simbolica del fieri pavom usata da Ennio) -- opportunamente fu scelto
dal poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'anima di
Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora. Il fatto che il grande
poema storico degli Annales, il quale hada par te dei Romani un culto
analogo a quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomincia con
tale sogno, ha grande importanza per la diffusione e conoscenza del pensiero
pitagorico in Roma. Poiché, appunto per lo studio che del poema si fa,
fin [Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII,
393. MuELLER, Q. Ennius Cfr. Hehn, Kulturpflanxen und Hausthiere. Dall'interpretazione
letterale data a tale espressione o ad altre consimili nacque forse
presso gli antichi — uno dei primi e Senofane, contemporaneo di Pitagora, nei
versi citati da Diogene Laerzio i quali peraltro hanno un' intonazione
scherzosa, se non satirica — l'opinione che Pitagora crede nella
metempsicosi anche animale. nelle scuole di grammatica e
di rettorica (e per le pubbliche letture di esso, ancora in uso
nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo, si dovette
necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di
quella parte della dottrina di Pitagora, che nel sogno si ricorda e che
era poi una delle principali di detto sistema. Difatti sono assai
frequenti nella letteratura posteriore le allusioni alla teoria della
metempsicosi; la quale del resto e forse introdotta in Roma anche per
altro tramite, sia cioè per mezzo dei misteri, nei quali si
insegnano appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle
pitagoriche, sia per mezzo della filosofia platonica e quella del PORTICO,
che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore air apparire
del neo-pitagorismo, e derivata almeno in qualche parte fondamentale,
dalle dottrine pitagoriche stesse. Se nel poema di Ennio vi e altri
accenni alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli
scarsi e slegati frammenti che ce ne restano. Ma non è improbabile che, a
proposito di NUMA, e non solo notate incidentalmente, ma fors'anche
illustrate con una certa ampiezza le somiglianze fra la sua legge ed
istituzioni e quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per
la prima volta e stata inserita in un'opera filosofica latina la notizia
desunta dalla tradizione orale anteriore, che il gran re Numa ha a maestro Pitagora -- SvETONio, de
gramm. Noctes Atticae, MuELLBB, Q.
Ennius. In altro scritto invece
noi sappiamo con certezza che Ennio tratta ancora delle dottrine
pitagoriche: e precisamente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato
dal nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più
valenti seguaci della scuola italica. Anche in questo lavoro, il nostro
scrittore finse un sogno. Nam videbar somniare med ego esse morluum” e che il filosofo
Epicarmo gli comunicasse, nelle regioni infernali, dottrine di filosofia
naturale sull’origine e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri,
è il verso nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo
il noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco – “terra corpus est, et
mentis ignis est.” Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso
dello stesso Ennio, scrive – “animalium semen ignis qui anima ac
mens: qui caldor e caelo quod Mnc innumerahiles et immortales ignes.
Itaque Epicharmus de mente umana dicit: istic est de sole sumptus
isque totus mentis est.: Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt,
Quaest. epich. Yedasi anche lo
studio del Pascal, Le opere spurie di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in
Biv. di fìlol. e di istrux. classica^ a.-- Cicerone, Aead. pr.^ II, 16,
51. -- Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii
all'Eneide, YI, -- De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili
sg. -- Un'altra sentenza pitagorica è quella che ricorda Cicerone (“de
divin.”) a proposito dei sogni : « aliquot somnia vera inquit Ennius sed
omnia noenum necesse est.” Ma
oltre che alle opere filosofiche, le quali, hanno tarda efficacia, Ennio rivolge
l'attività dell' ingegno, trasfondendovi i tesori della sua sapienza,
all'insegnamento orale. Senza dire poi che l'esempio della sua vita
intemerata sprona all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i
nobili cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Ennio si studia di
volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e ad una concezione
individuale delle cose, alla quale non sono certo avvezzi i romani,
educati sotto una disciplina ferrea. Abituando le loro intelligenze alle
bellezze ed alle sottigliezze della filosofia, insegnando in privato
le dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero le
superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti ignoranti,
predicando infine che l'uomo ha da trovare in se stesso, nelle profondità
dell'anima, il fondamento del proprio valore, della propria libertà e
della propria felicità, da impulso a una vera rivoluzione razionalistica
nello spirito romano. Sì che fra quei valorosi soldati e pratici
legislatori comincia ad essere tenuta in conto la filosofia, ad
esercitarsi la libera attività del pensiero anche in fatto di fede, e a
formarsi un'aristocrazia vera e legittima, fondata su ciò che l' uomo ha di più
sostanziale e di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo
spirito. Non è improbabile che appunto per questo CATONE, il quale,
sopra tutto e innanzi tutto, vede l'interesse e il bene dello stato
romano, osteggiasse il movimento a cui ha dato egli stesso involontario
impulso e perseguitasse l'A- [ (1) GiussANi, Letterat.
romana^ Milano, Yallardi, Si veda anche su Ennio il saggio critico del
Lenchantin De Gubernatis (Torino, Bocca). - Bl -
fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé molte
ire violente e molte accuse politiche, si ritira sdegnosamente nella sua villa
di Literno, nella Campania. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, sono scoperti
i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai strano, venneno molto
opportunamente a confermare gli insegnamenti pitagorici di Ennio. La
notizia della scoperta risale, per quel che ci è noto, all'annalista
Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio narrava come un
impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei lavori in un suo podere sul
Gianicolo, ha scoperta e [Livio, -- Sull'esilio e sulla morte di
Scipione Africano Maggiore vedi C. Pascal, Fatti e leggende di Roma
antica -- Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, “Ueber
die Bueeher des Numa”, negli Atti dell' Accademia di Monaco -- Nat. Eist. XIII,
84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter: “Cassius B. Emina vetustissimus
auctor annalium, quarto eorum, libro prodidit Cn. Terentium, scribam
agrum suum, in laniculo repastinantem offendisse arcani in qua NVMA qui
Romae regnavii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L.
f. Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno NVMAE colliguntur
anni DXXXV, et hos fuisse a charta maiore etiam num mir acuto quod tot infossi
duraverunt annis. Quapropter in re tanta ipsius Heminae verba ponam;
mirabantur alii quomodo ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem
reddebat : « Lapidem fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum,
candelis quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse
propterea arbitrarier tineas non tetigisse: IN HIS LIBRIS SCRIPTA ERANT
PHILOSOPHIAE PYTHAGORICAE – EOSQUE COMBVSTOS A Q. PETILIO PRAETORE QVIA
PHILOSOPHIA SCRIPTA ESSENT.” -- scavata la tomba del re Numa, che
conteneva i libri di lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono,
cotesti libri di carta s'erano perfettamente conservati. Ma, come spiega Terenzio,
tale conservazione era dovuta al fatto che, essendo posti sopra una
pietra quadrata che si trova quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni
dall'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I
libri stessi poi contenevano scritti di filosofìa pitagorica, per la qual
ragione furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso
racconto fa pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Frugi, secondo
il quale però detti libri erano VII di diritto pontificio e altrettanti
pitagorici. XIV ano pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano
e contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate infine essi
sono invece XXIV, XII pontificali e XII di filosofia, e non si
sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca
adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi
[Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : “Hoc
idem tradii O. Piso censorius primo commentari or um, sed libros VII
iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse.” (2) Plinio l. e. = H. R.
rell. I, p, 142-143 P : “Tuditanus decimo tertio Numae decretorum fuisse”
Plinio /. e. : « Libros XII fuisse ipse Varro Humanarum
antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII pontificales totidem
praecepta philosophiae continents. Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^
=z H. R. rell. I, p. 240-241 P. Si noti però che Peter crede (/. e. p.
CC.) che Livio cita per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio
Pisone] ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la scoperta dei
libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego e di M. Bebio Panfilo
sia la loro pronta distruzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non
è possibile dubitare che il fatto e avvenuto. Senonchè la critica
piu recente si è affrettata ad affermare che essi dovettero essere
un'abile falsificazione di qualche scrittore, fanatico dell’idee
pitagoriche, in quegli anni appunto diffuse in Roma dal grande Ennio, e
accettate da Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad
una grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non
vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la tradizione pitagorica
che base dell' insegnamento di questa dottrina era la segretezza e il
mistero? E proprio un pitagorico divulga le dottrine della sua
scuola, in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma
così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già la tradizione
ammette la filiazione degli istituti e delle leggi religiose di Numa dal pitagorismo?
Ed è poi possibile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su
parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente
scoperti, non vi e alcuno in grado di comprendere una così grossolana
mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri furono bruciati con la
convinzione che essi sono quelli del re sapiente e perchè contenneno,
[V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da Agostino (De
civ. dei), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto la sua narrazione
Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1, 12), di Festo (p. 173
M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa, 22) e del de vir. ili. 3.
Livio osserva che questa convinzione deriva dall' opinione diffusa che
Numa e discepolo di Pitagora, opinione che [secondo la
testimonianza di Varrone la spiegazione degli stituiti religiosi di Numa
(“cur quidque in sacris fuerlt institutum”) fondati, come quelli di tutte
le religioni, su ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione
particolare della natura. Ora, dice assai giustamente Chaignet, questa interpretazione razionale ed
umana delle credenze e delle istituzioni religiose, togliendo ad esse un'
origine e un fondamento sovrannaturale, ha certo, divulgandosi, tolta
ogni consistenza a quella religione di stato che, come tutte le religioni
dogmatiche, si esauriva per i più nelle pratiche del culto (le «
religiones » di cui parla Livio) esigendo, come condizione della propria
esistenza, la fede cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo
pensarono il pretore urbano e il senato, che si affrettarono a far scomparire
sul rogo i pericolosi libri, nei quali e filosoficamente provata ed attestata
1' origine del diritto pontificale romano, cardine e fondamento primo
dello stato, dall'occultismo pitagorico. Se pure il motivo di tale
distruzione non fu quello stesso per il quale Cicerone non volle troppo
approfondire la ricerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo
e i piu antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-
[egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio » (XL,
29). (1) Pythag. et la philos. pytkag.^ Parigi, Didier, [È
interessantissimo a questo proposito il passo d’Agostino (De civit. dei), il quale
spiega per quali ragioni demoniache Numa compone i suoi libri e poi li
fece seppellire nella sua tomba, e il Senato li fa abbruciare. Né meno
interessante è il capitolo seguente in cui si parla delle arti « idromantiche »
e delle evocazioni di Numa.] arco,
infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso e per ordine suo
sepolti con lui. E ciò perchè, secondo la massima pitagorica, non era
bene affidare la conservazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita,
anziché alla sola memoria di quelli che ne sono degni. E, forse, per
questa medesima ragione i pitagorici romani non dovettero fare molta
opposizione alla proposta di distruggere i libri stessi, gelosi come sono
delle loro dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili
di scherno e di riso, se male interpretate o fraintese. Nel tempo in cui
Ennio si adopera così efficacemente per introdurre in Roma l' antica sapienza
della Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e penetrano
nella grande metropoli anche i culti bacchici e le sette orfiche,
intimamente legate con le pitagoriche per gli stretti rapporti che vi sono
fra le due dottrine segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicano II senato-consulti
e si istituirono tribunali (quaestiones de Bacchanalibus sacrisque noeturnis
extra ordinem), che ne di- [Sklden, nell'intro-
duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam, volendo
sostenere ch.e ogni sapienza viene dall’Oriente tre volte
rinnovata, di cui gli orientali erano i depositari, afferma invece che
Numa Pompilio e in segreto un adoratore del vero divino, che i libri da
lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua morte sono la
giustificazione della sua fede e la glorificazione del divino d’Oriente,
e che appunto per questo il Senato ne ordina la distruzione, perchè
racchiudevano la condanna della religione di stato. Ne pubblicò
per tutta l'Italia uno (scoperto in Calabria) che ordina, fra le altre cose:
Bacas vir ne- quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini »
. mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il
violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano pronunciò
nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal- vagi culti forestieri : «
contra pravìs et externis religionidus captas mentes » (1). E ben vero che
queste associazioni misteriose — “clandestinae conmrationes” come dice
Livio — e questi culti sempre
perseguitati dall' ortodossia romana venneno in parte dall' Etruria e dalla
Campania, ma le ricerche giudiziarie ne fa scoprire diversi focolari
nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e specialmente a Taranto, uno
dei centri d'origine del Pitagorismo. Così delle tavolette d' oro,
scoperte recentemente in tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica
Thiirium ci conservano l'eco di versi orfici che sino ad ora non si
conoscevano per altro che per una citazione di Proclo, neo-pitagorico. «
lo “L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat
reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni exsecutus est cura” – “L.
Duronio praetori cui provincia Apulia evenera adiecta de Bacchanalibus quaestio
est : cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam
priore anno adparuerant. Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè.
Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli scavi^
e nel Journal of Hellenic Studies. Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche
edite ed illustrate^ Firenze. Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx)
^àog "^sXCoio » quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j,
^^ux^ KpaXin-Q cpàog sono sfuggita al cerchio delle pene e delle
tristezze», grida in uno slancio di speranza l'anima che ha «
subita tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora «
implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina dei luoghi
sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre divinità dell'Ade; essa
si vanta di appartenere alla loro «razza felice», e domanda ad esse che
la mandino ora nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la
parola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale! » In questi
brani, dice Gomperz, bisogna vedere redazioni diverse d'un testo comune
piti antico. Parecchie altre tavole, che risalgono in parte alla stessa
epoca, trovate nelle stesse località. Altre sono state scoperte
nell'isola di Creta e datano dall'epoca romana posterior. Tutte prescrivono
all'anima la sua strada nel mondo sotterraneo. Ora è notevole il fatto
che un cap. del « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione
negativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello che le tre
tavole di Turio condensavano in poche parole. In queste, come in quello,
l'anima del defunto proclama con enfasi la sua « purezza » e solo su
questa purezza YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino,
richiama 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche H. DiELS,
nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, -- Cioè alla serie delle rinascite
e delle esistenze terrestri. Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris,
Alcan, Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull. de
corr. héll.Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism, Cfr.
Maspéro, Bibl. Egyptol. e Brttgsoh, Steinin-schrift und Bibelwort. Y. anche
Maspero, Hist. ancienne -- fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se
l' anima dell'orfico pretende di avere espiato « le azioni inique » e
quindi si sa liberata dalla sozzura che ne deriva, l'anima dell' Egiziano
enumera tutte le colpe che ha saputo evitare nel suo pellegrinaggio
terrestre. Pochi fatti, dice Gomperz, nella storia della religione e dei
costumi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di quest'antica
confessione, in cui si vedono accanto alle colpe rituali, e ai precetti
di morale civile accolte da tutte le comunità incivilite, l'espressione
d'un sentimento morale non comune e che ci può persino sorprendere per la
sua squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non ho
allontanato il latte dalla bocca del lattante ! Non ho reso il povero più
povero! Non ho trattenuto, l'operaio ai suo lavoro più del tempo
stabilito nel contratto ! Non sono stato negligente! Non sono stato
fiacco! Non ho messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padrone!
Non ho fatto versare lacrime a nessuno!» Ma la morale che scaturisce da
questa confessione non si è contentata di proibire il male; ha anche
prescritto degli atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il
morto, ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato chi
aveva sete, vestito chi era nudo! Ho dato una barca al viaggiatore in
pericolo di arrivar tardi !» ET anima giusta, dopo aver subito
iiyiumerevoli prove, arriva finalmente nel coro del divino. « La mia impurità,
grida piena di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso
l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti gloriosi.... » « Yoi che mi
state dinanzi aggiunge rivolta agli dei già nominati, tendetemi le
braccia...., sono anch' io uno dei vostri ! » Nessuna meraviglia
quindi che i filosofi del tempo di ENNIO, quasi tutti venuti a Roma dal
mezzogiorno, fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.
Di Stazio Cecilio, che fa parte del collegium poetarum
dell'Aventino e abita in Roma nella stessa casa con Ennio, ci
restano troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del
contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però r intimità sua
col filosofo di Rudie dove esercitare un qualche influsso sulla
formazione del suo gusto e della sua arte. Con Ennio visse
pure in Roma, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote
Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi, si ritirò poi a Taranto. Che
egli dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre che
l'esplicita dichiarazione di Pompilio: “Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit
Enni^ Emiius Musar um^ Pompilius clueor -- i due frammenti
del suo Ghryses^ nel primo dei quali mostra la stessa libertà di spirito
e di parola, rispetto ai falsi sacerdoti, che anche notata Ennio: nam
istis qui linguam avium intellegunt, plusque ex alieno iecorc sapiunt^
quam ex suo, magis audiendum quam ausoultandum eenseo; pr. Cic. de div.
I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio 246, 9. -- Si confrontino i
versi di Ennio : Sed superstitiosi vates impudentesque arioli, Aut
inertes aut insani aut quibus egestas imperai, Qui sibi semitam non
sapiunt^ alteri monstrant viam. Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam
ipsi petunt’, e gli e nel secondo esprime intorno all'etere un
concetto affatto, pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v
hoc vide circum supraque quod complexu continet
terram.... solisque exortu capessit candorem, oecasu
nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera:
quidquid est hoe^ omnia animai format alit\ auget^ creai,
sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,
indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.
mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat. Istic est is lupiter'
quem dìco quem Or acci vocant a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber
postea, atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo, kaece
propter luppiter sunt ista quae dico tibi, quia mortalis aeque turhas
beluasque omnes iuvat. Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^
Milano.) era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è
rimasto il fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio. Se il
pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre e della Terra
madre risale al suo maestro Anassagora e peraltro indubbiamente abbastanza
comune fra i mistici. Questi versi ed alcuni altri, se sono per sé
poca cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti
superstiti di questi primi filosofi di Roma, mostrano una certa
continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure ad un esame
superficiale. Così, per lasciare in disparte i altri : « Qui
sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e « Omnes dant consilium
vànum atque ad voluptatem omnia ». (1) Congiunse così questi versi
(citati in diversi luoghi da Varrone, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo
concetto dell'aria poi ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :
(2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35). versi
di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che si possono anche
spiegare con la dipendenza dai tragici greci, nonché il suo concetto
della virtu, come non pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o
indiretto ne sia stato r influsso — quando leggiamo sentenze come
queste di Sesto Turpili, l’una che ci afferma la felicità consistere
nella limitazione dei desiderii. “Profecto ut quisque minimo contentus
fuit ita fortunatam vitam vixit maxime ut philosopki aiunt isti^ quibus
quidvis sat est -- e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere
: Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est
sapientia. Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? E
se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti di questo poeta (200
versi appena), avessero badato piu al pensiero che alla forma e quindi ci
avessero dato una raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di
arcaismi [V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le
note. (2) Pascal (p. 42) : “nam si a me regnum Fortuna atque
opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem- eumque
tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas ingenium infirmai bonum ?
(3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl
pkilosophi... isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il filosofo,
imitatore di Monandro, ha alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo quanto
si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo, di cui Gellio
{N. a. IV, il) puo scrivere: mediae comoediae proprium argumentum fuit
Fythagoreorum exagitatio ». (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67).
Si notilo spissum iter., che forse può intendersi in senso proprio, non
traslato. e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi
ugualmente notevoli e significativi. Così veramente notevoli sono
le sentenze di comici ignoti citate dal Pascal, che certo non sarebbero
fuor di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono motivi
etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pitagorismo quanto di altri
sistemi posteriori. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus. Non est beatus
esse se qui non putat. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit. Quod
vult habet qui velie quod satis est potest. In nullum avarus bonus est in se
pessimus. Ab alio expectes alteri quod feceris. Beneficia in volgus eum largiri
institueris perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. Quid ? tu non
intellegis tantum te adimere gratiae quantum morae adicis ?
(S) (1) pag. 68 sg. (2) pr. Cic, Farad. 5, 35,
che lo riferisce ad un sapiens poeta; esso ricorda la sentenza di A.
Claudio su citata. Secondo alcuni si tratterebbe di un altro verso, che
Lachmann ricompone così : “suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche
pr. Nepote, Vita Att. Il, 6 ed altri, di cui Ribbeck, Gom. Fragm.^ p.
147. (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità,
come dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o
non l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermano
ripetutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer. Questa e la precedente
pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la prima sentenza di Turpilio su
citata. (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9. (6) pr.
Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex. Sever. 51 : «
quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm. epigr. lat.
192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris». (7) pr.
Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62: « benefacta
male locata malefacta arbitror » . pr. Seneca, de benef. II, 5,
2. Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:
Felicitas est quam vocant sapientiam. Tutare amici eausam, potis es,
suscipe. Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter. In amici
causa es, imm,o certe potior es. Iniuriarum remedium, est oblivio. Ma queste
sono quisquilie, che, se pur dimostrano una certa diffusione del pensiero
pitagorico in Roma, non possono tuttavia essere prese per se come indizi di una
vera e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della filosofia
latina dalla ellenica è da credere che anche gli accenni, spesso
accidentali, a quelle dottrine filosofiche, fossero presi di sana pianta
dalle opere che i filosofi latini imitano o traduceno. Il fatto tuttavia di
trovarli frequenti anche in opere prettamente romane dimostra che le
dottrine stesse avevano un contenuto ideale — morale specialmente — con-
sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale, sopra ogni
cosa, ha un profondo senso del giusto, che poi attuò nel suo mirabile
sistema di leggi. Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio
Lucn.10 noi potremmo certo aver notizia del Pitagorismo, quale egli potè
osservarlo praticato e seguito in Roma al tempo suo, se ci restassero,
dei suoi trenta libri di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare
che si occupasse principalmente di mettere in parodia e in derisione, ed
anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte- [QuiNTiL.
YI, 3, 97. (2) Charis. V, p. 253 P. (3) Seneca, epist.^
94, 28.] nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro
sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo filosofo poco o nulla ci
resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente libera dai pregiudizi
volgari. Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena vivere et esse
homines^ sic ist soinnia fèda vera putant credunt signis cor inesse
in ahenis sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo
frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e nobile fosse il
concetto ch'egli ebbe della virtu. Virtus, Albine, est pretium persolvere
rerum quis in versatnm quis vivimus rebus potesse, virtus est
homini seire id quod quaeque valet res. Virtus seire homini rectum utile quid
sit honestum quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ;
virtus quaerendae fène^n rei seire modumque ; virtus divitiis
pretium persolvere posse ; virtus' id dare^ quod re ipsa debètur
honori ; hostem esse atque inimicum hominum morumque malo
rum, contra defensorem hominum morumque bonorum,
magnifècare hos, his bene velle his vivere amicum ; commoda
praeterea patriai prima putare deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra.
(1) (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13.
(1) fr. 119 del Bàhr. = Latt. VI, 5, 2. D’Agostino (ci è stato
conservato, dell'opera Yarroniana De gente populi romani un passo per noi
importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse in renascendis
Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav Graeci ; hanc scripserunt
confici in annis numero CDXL ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint
coniuncta in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniunetionem »
. Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano nella risurrezione
dell'anima e della carne e ne fissavano persino il compimento nello
spazio di quattrocento e quaranta anni? Essi erano studiosi di discipline
magiche ed astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi di
caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma col decadere dei culti
ufficiali e l'in- [De civitaie dei, XXII, 28.] filtrarsi di
riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado
così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle
sorti dello stato. Poiché, come dice Pascal in un suo geniale e
interessante studio, svolgendo in particolare la dottrina della
resurrezione dei morti (filiazione diretta della metempsicosi pitagorica) la
fecero entrare in un sistema di loro particolari teorie, la congiunsero
con predizioni contenute nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero
anche di conoscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi
umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini, dal concetto
che gli dei manifestassero la volontà loro per mezzo di segni
particolari, ma dal concetto, razionalmente svolto, « che tutto fosse
armonico e regolato da leggi e da rapporti immutabili nell'universo e che
quindi, all'apparire di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente
seguire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque, aggiunge
Pascal, « un tentativo di giustificazione scientifica, tratta dal fondo della
dottrina pitagorica e platonica, della credenza popolare che la vita di
ciascun uomo fosse regolata dall' astro che lo aveva visto nascere. Strani
davvero questi filosofi che si sforzano di ribadire con argomenti
razionali e di ridurre a ragioni scientifiche le superstiziose credenze
del volgo! e che riescono tanto bene nel loro proposito da far sentire a
Favorino il bisogno di abbattere con una confutazione sistematica il loro
edifizio logico, ancora saldo sulle sue basi [La resurrezione della
carne nel mondo pagano, in Atene e Roma, e in Fatti e leggende di Roma
antica, Firenze, -- AULO Gellio, Noct. Att. XVI, 1, riporta quasi
testualmente il discorso di Favorino a più di due secoli di distanza! Io
in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo
mondano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai
Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argomenti che Pascal porta a sostegno
della sua affermazione mi inducono piuttosto a credere il contrario e
cioè che l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica
greco-italico-romana e da, questa passasse poi al volgo per mezzo dei
responsi sibillini e dei poeti che l'accolsero e la diffusero per il popolo.
Di più, un'altra credenza notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei
Genetliaci: la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano
dovesse essere il Sole od Apollo che avrebbe bruciato l'universo e
riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini rinnovati alla vita;
quell'Apollo che pure Orazio (Carm. I, 2) invoca perchè venisse a
redimere l'umanità dal peccato. Tandem venias precamur^ ISube
candentes umeros amictus Augur Apollo. Così Cicerone ci parla nel
De divin. II, 46, 97 di un' altra scuola di astrologi per la quale
1'estensione di tempo era molto maggiore, e cioè di 470000 anni !
(2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre- detto
che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ». Orazio,
I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI, 748-751; Ovidio,
Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg. Servio nel commento al
v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta il seguente passo del quarto
libro de diis di P. Nigidio Figulo : “Quidam deos et eoì'um genera
temporibus et aetatibus fdistin- guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um,
regnum, Saturni^ deinde lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi
etiam^ ut magi, aiunt Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne
ardorem sive illa ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il
Lobeck, Aglaophamus^ pag. 791 sgg. La rigenerazione degli uomini e
la conflagrazione dell'universo per virtù di Apollo — conflagrazione
probabilmente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da alcuno
come reale ed effettiva — furono dunque due concetti paralleli ed uniti
anche nel dogma pagano, e più precisamente in quelle dottrine mistiche,
nelle quali sappiamo quanta parte e che profonda significazione avesse il
mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere stato creazione
popolare? Veramente forse un po' troppo, e non solo in fatto di mitologia
e di credenze, si vuole attribuire al popolo, a questo essere
impersonale, così immaginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così
credenzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi più elevata e
razionale, a una creazione veramente intellettuale e FILOSOFICA, che, passando
dai dotti agli indotti, dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e
degenera dall'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto
parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni realistiche e
concrete? In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane
deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in Roma, uscendo
dal segreto sacrario delle scuole dei saggi e mescolandosi, in mezzo al
popolo, a credenze d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che
siffatte credenze, aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo,
fossero, come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro popolare, e
d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci del Pitagorismo
dell'antica maniera, per sottrarre le loro [Y. il passo dei
Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82 d. C, citato dal Pascal e che
questi crede composto da qualche terapeuta od esseno. dottrine al
ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti col popolo, sentissero il
bisogno di raccogliersi nuovamente in segreto, nel silenzio delle loro
case e delle loro scuole, per meditare, lontano dal profanum vulgus, V
antica sapienza loro tramandata attraverso tante generazioni. Chi
sopra ogni altro si curò di far rivivere la filosofìa di Pitagora, che, in un
certo senso, poteva dirsi ormai estinta come complesso di teorie e
d'insegnamenti pratici ben distinti da quelli di altre scuole, fu un
grande sapiente, del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo
e amicissimo di CICERONE. Il quale appunto nel proemio del Timaeus
seu de Universo lasciò scritto parlando di P. Nigidio FIGULO: « Fuit vir
ille cum ceteris artihus, quae « quidem dignae libero essente ornatus
omnibus^ tum acer « investigator et diUgens earum rerum quae a natura
invo- « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico
« post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta « est
quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » . Senatore, pretoro,
legato in Asia, e infine esiliato da C. Griulio Cesare, forse non
soltanto,mper aver seguita la causa di Pompeo. (2).
(1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia di
questa sua legazione con le parole : « Nigidius, eum. me in Gilieiatn
profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex legatìone ipse decedens.” SvETONio
fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45 a. C. : « Nigidius
Figulus Pythagoricus et MAGVS in exsilio moritur ». Si noti che ancora una
volta vediamo qui congiunti, come nella tradizione che si riferisce a
Numa e come, del resto, sempre, il Pitagorismo e la magia. S. Agostino
(De civ. dei) parlando di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».
Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone, e benché
non ci restino che pochi e scuciti frammenti dei suoi scritti, pure
sappiamo che FIGULO scrive molto e con profondità di ricerche « che
arrivava fino all'astruseria », come dice il Giussani, cioè oltrepassava quel
limite al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non vedono che
nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam- MONico, come ci riferisce
Macrobio (II, 12) lo disse « maximus rerum naturaUum indagator », e lo stesso
Macrobio [Sat. YI, 8) lo dice « homo omnium bonàrum artlum di-
scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto, lo giudica
acuto e diligente studioso dei più involuti fenomeni naturali, e precisamente
di quelle ricerche e di quegli studi, che furono la cura di pochi
solitari d' ogni tempo, quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai
più. AGOSTINO lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e mago '.
Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto mago, dimostrano anche
altre testimonianze e dello stesso SvETONio e di Apuleio e di Dione
Cassio. Il primo racconta come cosa nota a tutti che il giorno in cui
Ottaviano nacque, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Catilina, ed
Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente, essendo arrivato un
po' in ritardo, Publio Mgidio, conosciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa
del parto, afferma che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la
terra. Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto [Cfr.
NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889. (2)
Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230. (3) SvETON.,
Aug. 94: “a quo natus est die, cuni de Catilinae coniuratione ageretur iti
Curia et Octavius ab uxDris puerperium serius adfuisset, nota ac vulgata
est res P. Nigidium comperta — si- che di essa fa, con
qualche leggera variante, Dionb Cassio (1. XLY, cap. T), alle
elucubrazioni astrologiche di Nigidio. Apuleio a sua volta riferisce di aver
letto in Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte
somma di denaro, anda da Nìgidio per consultarlo e questi, per mezzo di
fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed incantesimi (Carmine) ossia,
coma oggi si direbbe, ipnotizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire
dov'era stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le
altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo
Catone; ciò che fu pienamente confermato dai fatti. E dove mai aveva
acquistate il nostro filosofo siffatte conoscenze magiche ed
astrologiche? Forse durante un viaggio in oriente? Non sappiamo, sebbene
d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella Grecia impara che la
terra si muove con la velocità della ruota di un vasaio (2).
– “morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù
num terrarum orbi natum.” (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me
ajìud Varronem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,
eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum
quingenios denarium perdidisset ad Nigidium consultum, venisse; ab eo
pueros cannine instinctos indicavisse ubi locorum defossa esset crumena
cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum etiam denarium^ ex eo
numero habere CATONEM philosophum^ quem se a pedissequo in stipem
Apollinis accepisse Caio confessus est ». Ciò si desume da una nota
del Commentum a Lucano dove è detto che Nigidio ha il soprannome di Figulo perchè
« regressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae
figuli torqueri.” Del soprannome altri davano una ragione un po' diversa,
in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così spesso fatta
agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo [Quanto
alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora che usava una dieta
assai parca, possiamo dire che furono molte e di varia natura. Nigidio scrive
di filosofia, di astrologia e anche di filologia. Di lui si ricorda
un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto dei quali, per
esempio, trattava dei vari regni ed età degli dei, secondo Orfeo e i
Magi, e nel sesto e nel decimo accennava alla teoria etrusca delle
quattro specie di dei penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli
degl'Inferi e quelli degli uomini, cioè, probabilmente, gli spiriti celesti,
acquatici, terrestri (gli elementari dell' occultismo) ed umani. Perchè di
quest'opera ci restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il
grammatico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius
solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theologia^ Me in eommunihus
litteriSy nam uterque utrumque scripserunt » . La luce di Varrone dunque
oscura quella di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti
soltanto, come dice lo Swoboda, dagli investigatori della
dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90),
Gellio, N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e
S. Agostino 1. e. (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius :
nos ìpsi ieiunìa ientaeulis levibus solvimus. Egli sostenne, come
ci attesta Gellio N. J.., X, 4, CHE IL LINGUAGGIO E D’ORIGINE NATURALE E NON
CONVENZIONALE. Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem
(Ni- gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas
sequens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^ alios
Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos., inexplicable
nescio quid dieens » . (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli,
emend. enarr. quaestiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p.
25, ] più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone, uomo
assai dotto. Di Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla
divinazione per mezzo delle viscere e intorno ai sogni, una Sphaera
graecanica e una Sphaera barbarica, un libro intorno agli animali ed
altri, interamente o quasi interamente perduti. Un'altra causa di
questa perdita è spiegata in parte da Gellio (N. a.) il quale ci fa
sapere precisamente che mentre le opere di Varrone erano lette e conosciute da
tutti « Nigidianae commentationes non proinde in vulgus exibant et
obscuritas subUlitasque earum tamquam parum utilis derelicta est » . Dunque gli
scritti di Nigidio hanno un carattere piuttosto riservato e
segreto, sono poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza.
E che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-
bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata? dai lettori o dagli
scrittori in genere o dai cultori di quelle stesse dottrine filosofiche ?
Se noi pensiamo alla diffusione delle conoscenze pitagoriche, sempre
maggiore dal tempo della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva e
all'infinito numero di profezie, di predizioni, di oracoli che sempre piìi
chiaramente annunziavano l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ;
se pen- siamo che fu questa appunto l'età nella quale, (1) Si veda, intorno a lui,
Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port, dell'anno 1877. (2)
Gellio, N. A. XVI, 6, 12. (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p.
95, 14 — 96, 3 Wachsm. (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.
(5) Serv. ad Qeory. I, 19. [in Roma fece la sua
apparizione la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redivivo,
che ebbe immagini e culto divino da parte degl'imperatori, non può esservi
alcun dubbio. Se Figulo e costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli
amici le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze
nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ha molte noie) ; se lo
stesso dovettero fare, dopo di lui, i Sestii, che sono ugualmente perseguitati;
le vecchie dottrine di Pitagora andano tuttavia sempre più
diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà di parola e
d'azione ai loro seguaci, che poterono finalmente abbandonare in gran parte la
segretezza e il mistero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui
si servivano prima. LUCANO nella sua “Farsaglia” riferisce una
oscura predizione di Nigidio, che com'egli dice, si studia di conoscere il
divino e i segreti del cielo e in queste conoscenze astrologiche e superiore ai
sapienti dell'Egizia Menfi – “At Figulus, cui cura deos secret ac/ue
caeli nosse fuit quem non stellarum Aegyptia Memphis acquar et visu
numerisque moventibus astra aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum
mundus et incerto discurrunt sidera motu : aut, si fata 7novent, orbi
generique paratur humano maturalues Nigidio predice dunque alla
terra e agli uomini un vicino flagello, proprio come, prima di lui,
avevano fatto e con lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi
veramente pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti
di semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi migliori?
Certo le condizioni dei cittadini romani e del mondo, su cui l'aquila di
Roma anda stendendo e allargando sempre più le sue ali insanguinate, erano
assai tristi. Ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise
talvolta per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa senza
dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabilmente certa.
Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di Cicerone,
con Nigidio Figulo si inizia in Roma un vero e proprio risveglio delle
dottrine pitagoriche, vediamo ora in qual guisa egli tentasse questo
rinnovamento dell'antica disciplina italica. Noi possiamo desumerlo
da altre testimonianze, le quali non solamente accennano a una vera e
propria scuola, a un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in
modo, che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio stesso
abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse tenuto da chi, forse
troppo tenero e non disinteressato amico del nuovo ordine di cose creato
in Roma dal trionfo di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè
vagliarle troppo, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori
dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli scolii
bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio queste notevolissime notizie. “Fuit autem
illis temporibus NIGIDIUS quidam vir doctrina et eruditione
studiorum praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec ab
obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iactiabatnr, qaamvis ipsi
Pythagorae sectatores existimari vellent.” l(1) V. tomo V,
part. 2, p. 317 delI'Orelli. -- A altrove si dice di un tale che €
ablit “in sodalicium sacrilegii Nigidiani.” In casa sua dunqae
Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai misteri della
filosofia pitagorica e forse anche vi si dedicano a pratiche mistiche, come ci
persuade la ciarlataneria di quel Vatinio, che, volendo farsi credere
pitagorico e dottissimo, fa evocazioni di morti e si abbandona a
nefandità d'ogni genere. E questi convegni finirono col suscitar dicerie,
maldicenze, sospetti, calunnie, e vi furono degli ohtrectatoreSy i quali
andavano sussurrando qua e là che quella era una setta riprovevole e
sacrilega; le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto minore
era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi, furono forse un
ottimo pretesto per legittimare l'allontanamento da Roma e l'esilio di un uomo
d'antica tempra repubblicana. Che poi il tentativo di NIGIDIO ha un
carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico- stituzione
del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza sociale e nella
comunanza dei beni, il sogno della nuova felicità umana, è cosa più che
probabile, ma non certissima. E così il sapientissimo mago, il maestro
pitago- [PsEUD. CicER. in Sali.] – “Tu qui te
Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni nomen tuis immanibus et
barbar is moribus praetendere cum inaudita ac nefaria saera susceperis eum
infernrum animas elicere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas »
Cicesone, in Vatinium. Dal che si può vedere, sia detto incidentalmente,
che lo spiritismo non è un'invenzione moderna! V. quanto afferma a
proposito di lui e dei Sestii Pascal. Il rinnovamento umano negli scrittori di
Roma antica (Riv. d'I- talia, Fatti e leggende, Firenze, Le
Monnier). rico, il matematico P. Nigidio muore nell'esilio, nel
tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di ottenerne il
richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma dove essere davvero tenuto per
uomo assai pericoloso il sacrilego Figulo, se, non ostante che i famigliari di
Cesare e quelli ch'egli ha più cari ne parlassero con ammirazione e
ne avessero alta stima, il divo lulio non si lascia troppo commuovere, a
favore del fiero repubblicano ! Gli è che in verità in quel momento di
trapasso dalla repubblica (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo
l'interesse dello Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di
fronte agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.
Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente conservataci, nella quale
Cicerone, dando notizia all' esiliato delle pratiche ch'egli fa
indirettamente presso Giulio Cesare e delle speranze che aveva di poter
presto riuscire a ottenergli il perdono, dice cose così interessanti e
adopera espressioni di così alta stima, che metterebbe conto
davvero che la riferissimo per intero. Basti accennare tut- tavia
che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni omnium doctissimo et
sanctissimo et maxima quondam gratta e suo amicissimo, e che accingendosi
a conso- [È la lettera 13* del quarto libro Ad familiars. In
essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere primum ipsius animuìn, qui
plurimufn potest, propensum ad salutem tuam », ma questa era la semplice
illusione, creata in lui dall' amicizia che aveva per Figulo e dal desiderio
che sentiva del suo ritorno ; poiché in realtà il filosofo e lasciato
morire in esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — «
familiares eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi
sunt, mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit
eodem vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !] larlo crede
opportuno di premettere : « at ea quidem facultas vel tui vel alterius
consolandi in te summa est si umquam in ullo fuit.” Cosicché, “eam partem
quae ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non
attingam: tibi totani relinquam -- e concliiudendo termina col pregarlo “animo
ut maximo sis nec ea solum memineris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed
illa etiam, quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges et
sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt, sapienter
feres. Sed haec tu melius vel optime omnium.” Ora se insieme con queste
eloquenti e perspicue parole si ricordano i versi citati della “Farsaglia”,
e se si pensa ancora al contenuto dei frammenti che di questo
sapiente ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse,
possiamo formarci un'idea approssimativa del genere di dottrina e di conoscenze
che ha e di cui si fa maestro: il misticismo pitagorico, la dottrina dei
numeri, la divinazione (quella che oggi si dice chiaroveggenza) in tutte
le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in un modo
oscuro e involuto, forse per via di simboli, che fu poi una delle cause
maggiori, se non la maggiore di tutte, per la quale le opere di lui
furono poco lette e a poco a poco caddero nell'oblio. E dopo la
morte del maestro, che ne fu dei suoi seguaci? Probabilmente non si
dispersero e continuarono a riunirsi. Tanto piu che non manca certo fra
loro chi potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e
la sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo, ci fu
in Roma un'ALTRA setta, ch'io non dubito punto fosse continuazione di
quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi insegnamenti: voglio alludere
alla “Sextiorum nova et romani rohoris seda » la quale però « Inter
initia sua, quum magno impetu coepisset, extincta est » Decisamente i
tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a certa filosofia! E in
verità non potevano essere molti quelli che, in Roma, desiderassero di
attendere sul serio alle speculazioni filosofiche: le ricchezze e la
potenza della nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi
divertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia di dedicarsi a
meditazioni gravi ed ingrate! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali
avrebbero pur voluto richiamare i concittadini alla serietà d'una vita meno
fatua e più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco
duraturi. Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca?
Le notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma sufficienti
tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corruzione, come uomini
desiderosi piu delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi, amanti
più della verità e della scienza che delle ricchezze e degli onori; come
uomini infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto
maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo di essi, di
nome Quinto, parla specialmente, e sempre con parole di profonda e
sentita ammirazione, il più grande dei moralisti romani, SENECA, in
quelle sue mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica
sapienza e così degne d'essere studiate e meditate più che non
siano! In una di queste, la novantottesima, volendo Seneca provare al suo
alunno Lucilio che spesso molti disprezzarono quei beni che i più
desiderano come fonti di felicità, cita gli esempi di Fabrizio e di
Tuberone, e poi aggiunge che il [ Seneca, Quaest. nat. cap.
ultimo.] padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere un
giorno governare la cosa pubblica, rifiuta persino la carioa di senatore,
offertagli da Giulio Cesare. Poiché egli non annette alcuna importanza ai
pubblici onori, ritenendoli, come sono, troppo incerti e transitory. Una
rinunzia di questo genere non e certamente cosa che tutti sapessero e
volessero fare in quei tempi di sfrenate ambizioni ; e tanto meno poi per
ragioni filosofiche! Ma tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona
altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno
visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero, che fosse
conquista della sua intelligenza e della sua virtù, che nessuno potesse
riprendergli e che egli potesse liberamente trasmettere senza pericolo di
manomissioni o di latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza; per la
quale e acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,
progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desiderio, fu sul punto,
un giorno, di suicidarsi. Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ricchezze;
anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene, ripete quanto fa il
filosofo Democrito, il quale, avendo previsto da certi segni astrologici
una carestia d'olio, prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza
delle olive faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a
buon [€ Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut
rempuhlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non recepii;
intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse.” Plutarco, « Del modo di
conoscere i propri progressi nella virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv
xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià
cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal
xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t, dXtyow
Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ». mercato tutto l'olio del
paese, e poi, sopravvenuta realmente la carestia, restituì ai primi
proprietarii la merce acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli
sarebbe stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto. Ma che uomo era
Sestio! Che scrittore vigoroso e ardito, e come diverso da tanti filosofi
che scrivendo siedono in cattedra, discutono, cavillano, e non danno
all'anima alcun vigore perchè non ne hanno! A leggere Sestio — son parole
di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore, uno spirito libero e
superiore, uno che ha virtù d'ispirarti sempre una gran fiducia in te
stesso ! In qualunque stato d'animo, quando si legge il suo libro, si
sfiderebbe la fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro
qualsiasi ostacolo! Poiché Quinto Sestio ha questo grande merito, che,
pur mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non ti
fa disperare di raggiungerla. Quinto Sestio la mette bensì molto in alto,
ma in luogo accessibile a chi la voglia conquistare, sì che ammirandola tu
speri. Quale più alta lode [Plinio, Naturalts Historia: “Ferun
Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli
societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium, praevista
ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum vìlitate propter
spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum, mirantibus qui
paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant in primis cordi esse.
Atque ut apparuit causa, et ingens divitia- rum cursus, restituisse
mercem anxiae et avidae dominorum, poe- nitentiae, contentwm ita probasse
opes sibi in facili, quum vellet, fore. Hoc postea Sextius e romanis
sapientiae adsectatoribus Atkenis fecit eadem ratione.” (2)
Seneca, Epistola – “Lectus est deinde liber Quinti Sextii patris; magni,
si quid miài credis, viri, et, licet neget. Stoici. Quantus in ilio, Dii
boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc non in omnibus philosophis invenies.
Quorumdam, scripta clarum] per un uomo, di questa entusiastica esaltazione
fatta da Seneca ? E i suoi insegnamenti poi quanto erano
sentiti e pro- fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu
persuadere un uomo della bruttezza dell'ira? egli ammaestrava: portalo,
mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che vi si veda riflesso ; poi
fagli intendere che s'ei vedesse a quel modo anche l'orridezza dell'anima
sua sconvolta ed agitata ne sarebbe atterrito. Della onestà e della
virtù egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo
habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-
tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni legeris
Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est, dimittit tne
plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione mentis sim; quum hune
lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro- vocare, libet exelamare : Quid
eessas, Fortuna? congredere! para- tum vides. Illius animum induo, qui quaerit
ubi se experiaiuT, ubi virtutem suam ostendat, Spumantemque
davi pecora inter inertia votis Optai aprum, aut fulvum descendere monte
leonem. Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia
exereear. Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet
Ubi beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet.
Seies illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn
virtus tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres.” Seneca,
De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait Sextius iratis profuit
aspexisse speculum; perturbavit illos tanta mutatio sui: velut in rem
praesentem adducti non agnoverunt se, et quantulum ex vera deformitate
imago illa speculo repercussa reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta
materia perlueere pos- set., intuentes nos confunderet, aier
maculosusqite, aestuans., et distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta
deformitas eius est per ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis :
quid si nudus o- stenderetur ? et e. onesto non per altro essere
inferiore al sommo Giove, che per avere una virtù meno stabile e duratura
; ma per tutto il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto
felice quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi la felicità
umana e la divina differenza se non di durata. Ond'è che egji potè
veramente additare ai volonterosi il bel cammino della virtù ed esclamare
: « Di qui si monta alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^
for- tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di
popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa, persuadendo che
gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi la mano. . . . (1).
(1) Seneca, Epistola LXXIII: “Solebat Sextìus dicere^ «
lovem plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae
' praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-
cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re- gendi
gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque navigium est.
lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus est. Sapiens nihilo se
minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio breviore clauduntur.
Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui senior decessiti non est beatior
<?o, euius intra pauciores annos terminata virtus est : sìe Deus non
vincit sapiente ut felicitate^ etiam, si vincit aetate. Non est virtus
maior^ quae longior. lupi- ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit
habenda. Ad ipsum hie unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est:
sapiens tam aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et
hoc se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens
non vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et
clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,
secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;
admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem ad deos ire?
Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in hom.'ines venit.
Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo- ribus kumanis divina
dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.” Questa sicura fede, questa virile
forza di pensiero suscitatrice di virtù, era la nota caratteristica di
Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofa scrivendo con gravità romana,
e che paragona l'uomo sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo
animo, a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e pronto
alla battaglia. Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per
esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio, simìlia origini
prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur- gunt: si malus^ non
aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne- cat, ac deinde creai
purganienta prò frugihus » . (1) Seneca, Epistola – “Sextium ecce
quam maxiìne lego^ virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus
philosophantem. Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine
exercitum^ ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum.
Idem^ inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique
expan- dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata
praesidia sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod
in exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^
ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae, ut signum
ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ; hoc aliquanto magis
necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim saepe hostem timuere sine
causa ; tutissimumque illi iter, quod suspeetissimum fuit. Nihil siultitia
pacatum habet ; tam superne UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai
latus ; sequuntur pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^
et ipsis terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum
munitus est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si
ignomi- nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus
et contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa
debilitante diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim
inquinati sumus, sed infecti ». (2) Nel De illustr. grammat.,
§ 18, rammenta di lui che « ad Q. Sextii philosophi sectam transiisse
dicitur ^ . Alcuni codici però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.] questa
sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli col vigore della
sua persuasione e con la nobiltà della sua vita, sdegnosa d'ogni viltà e
d'ogni bassezza, potè far sorgere quella « romani rohoris seda » , di cui
abbiamo fatto già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia
dei seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria, che
fu maestro anche di Seneca, Cornelio Gelso, [Dì lui parla
Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24. Vedi anche Gellio, èi. A., I,
8. Nella interessante epistola, Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice
come oltre all'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai
funghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri, aveva
anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e ciò per gli
insegnamenti di Soxione che dimostrava la inutilità e i danni di questo cibo,
valendosi, oltre che degli argomenti di Pitagora e di QUINTO SESTIO, anche di
ragioni proprie. Riporto quasi per intero il passo di Seneca, che suona così :
« Quonìam coepi Ubi ex- ponere quantum maior impetu ad philosophiam
iuvenis aeeesse- rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi
amorem Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus
ab- siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^
sed uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-
posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,
aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse quam
dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua m,ersis
illum quondam hominis animum morari? Non cre- dis nihil perire in hoc
mundo, sed anulare regionem? nec tantum caelestia per eertos circuitus
verti, sed ammalia quoque per vices ire., et animos per orbem agi ?
Magtii ista crediderunt viri. Ita- que iudicium quidetn tuum sustine:
ceterum omnia tibi integra serva. Si vera sunt ista., abstinuisse
animalibus innoeentia est., si falsa frugalUas est. Quod istic
credulitatis tuae àamnum est ? Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio.
His instinstus abstinere animalibus coepi., et anno peracio non tantum
facilis erat m,ihi consuetudo., sed dulcis... » [Quintiliano,
Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa Cornelius Celsus., Sextios
secutus., non sine cultu ae nitore.”] Papirio
Fabiano, Moderato di Cadice, ed altri. I Sestii dei quali abbiamo
notizia furono due. Il primo quello di cui si è parlato finora, che
sarebbe vissuto al tempo di Ottaviano e anche di Cesare, se, come dice
Seneca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante », e avrebbe pure,
secondo il surriferito passo di Plinio dimorato, non sappiamo quando né
per quanto tempo, in Atene. L’altro QUINTO SESTIO, suo figlio, anch'esso di
prenome Quinto, che prosegue l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene
a torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome di
Sesto pitagorico, della cui vita infine non sappiamo assolutamente
nulla. Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi,
ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi? [Seneca,
Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Controversie^ prefaz.
Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, e famoso per i suoi
insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei numeri, e maestro di Lucio
Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv. Vili, 7) e scrive un'opera
voluminosa intorno alla dottrina pitagorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33
ed. Nauck; Stefano Bizantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure
Porfirio, Vita di Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.
(3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,
che fiorì ai tempi d'Ottaviano, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade
195. 1 = 1 d. C). (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10. (5) Vedile nella
collezione del Mìjllach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parigi,
Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi,
a proposito della paternità di esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso
Mullach v. II, pp. XXXI sg.), anche l'esauriente discussione che fa lo
Zeller, Die Philosophie der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg] Essi ebbero intanto una propria dottrina
psicologica, se, come riferisce Claudiano Mamerte spiegarono che l'a-nima
è una certa forza incorporea, ilìocale e inafferrabile, che, essendo capace
senza spazio, assorbe e contiene il corpo. Ma questo evidentemente è
troppo poco per determinare a che scuola essi appartennero. E ben
vero che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epistola LXIY)
che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era un filosofo del
PORTICO; ma quel « volere o no » ci fa comprendere che in realtà Sestio non si
professa un filosofo del PORTICO. E infatti qualche altra testimonianza
lo dice pitagorico, e tale lo proverebbero non solo le sue conoscenze
astrologiche, dimostrate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì
alcune abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di
ogni giorno l'esame di coscienza e quella di astenersi dai cibi
carnei, l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei seguaci del
Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima è da notare che Sestio non
la giustificava, come Pitagora, [De statu anirnae, II, 8 : «
... Eomanos etiam eosdemque philosophos testes citamus^ apud quos Sextius
pater^ Sextius fìlius propenso in exercitium sapientiae studio apprime
philosophati sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft .
Incor- poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque
indeprehensa vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et
continet-» . Y. pag. preced., nota 3. . Seneca, De ira^
lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc Sextius ut consuniTnato die^ quum
se ad noeturnam qutetem. re- cepisset^ interrogaret animum suum : Quod
hodie malum tuum sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? »
. A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca
riportata nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da
Origene, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che
suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più
conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non già
del nostro Sestio. — escori la dottrina della metempsicosi,
ma con argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè
meno astrusi. “Gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri
«alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci si abitua alla
crudeltà provando piacere nel divorar della carne; si deve dunque ridurre
al minimo ciò che può alimentar la lussuria e conclude dicendo che
la varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per i
nostri corpi. Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii non
furono ne filosofi del PORTICO ne pitagorici, ma ebbero un proprio
sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di elementi
pitagorici ; e che questo loro sistema non e ne inorganico, né dubitoso
(come quello degli accademici dell'ultima maniera) né materialista -- come i
filosofi del Giardino --, sibbene avvivato da una profonda fede,
illuminato da una chiara luce spirituale e fondato su convinzioni ben
salde e su opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo
insomma, che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'oziosa
occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria forza organizzatrice
e ordinatrice della vita, e per ciò appunto destinato a raccogliere pochi
seguaci e a vivere per tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni,
di corruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la grande
Roma nel trapasso dalla repubblica al principato. [Seneca,
Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimentorum eitra sanguinem esse
eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi- nem fieri^ ubi in voluptatem
esset addueta laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae^
eolligebat bonae valetudini contraria esse alimenta varia et nostris
aliena eorporibus ». Poiché si è visto come, dopo NIGIDIO, i
Sestii cercano di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non sarà
certo inutile indagare quali tracce esso lascia di sé nella filosofia
romana, siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o semplici
notizie incidentali. Così infatti potremo non solo farci un'idea del
giudizio che ne fecero gli scrittori di quel tempo, ma ci si
offrirà anche il modo di esporne e chiarirne qualcuno dei punti più importanti
o di metterne in luce gli aspetti più notevoli. Certo, in
un'età nella quale le più svariate credenze religiose e i più diversi
sistemi di filosofìa affluendo in Roma da ogni parte del mondo, e
specialmente dalla Grecia e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per
vicendevole influsso, non è facile sceverare e seguire uno per uno
i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che, come la filosofia
pitagorica, essendo molto antichi e avendo avuto larga diffusione e gran
numero di seguaci, trasmisero parte dei loro principii alle speculazioni
filosofiche posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci permette
almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori latini dell'ultimo
periodo repubblicano nei quali si fa esplicita menzione di Pitagora, e di
esaminare altresì quei luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a
dottrine e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per
concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di Samo.
Incominceremo pertanto dal poema di LUCREZIO, che e, come tutti
sanno, il più mirabile tentativo di elaborazione poetica in lingua latina di un
sistema filosofico precisamente del sistema epicureo. Altri felici
tentativi di esporre in versi dottrine di filosofi sono bensì stati fatti da APPIO
Claudio, da ENNIO, da qualche altro, ma per brevi trattazioni. Sì che
Lucrezio — pur conscio della grandezza del cantore degli Annales — puo ben
affermare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare di
esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e dell’Italia romana, non ancora
assueta alle sottigliezze, alla profondità, alla precisione del
linguaggio filosofico, la speculazione. Il “Della Natura” infatti non
solo espone con ordine sistematico la complessa dottrina de la filosofia
dell’Orto intorno air essere delle cose in generale, all' infinità
dell'universo, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, composizione e
mortalità dell' anima, alle cause delle sensazioni e delle funzioni
fisiologiche, alle origini del mondo e della vita vegetale e animale,
alle cause dei fenomeni meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè
abbiano piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,
le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e combatte le
argomentazioni contrarie e le obiezioni possibili degli avversari.
Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora su fondamenti
nuovi, e polemica in quanto combatte e distrugge principii vecchi o
diversi, è ben naturale che noi dobbiamo tener presente soprattutto la
parte polemica, per vedere se e quanto in essa il filosofo – come
rappresentante dell’Orto -- h tenuto conto delle dottrine di Pitagora.
Ora, su due punti essenzialmente LUCREZIO discute e lotta ad oltranza
contro indirizzi di pensiero diversi dal suo. Sulla teoria atomica e
sulla teoria dell' anima. E a proposito della prima combatte e confuta
esplicitamente, nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del
filosofo di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né qui ne
in altra parte dei poema. Ma ciò non toglie che un attento esame del “De
rerum natura” stesso non ci permetta di scoprire dove e quando, pur senza
dirlo, LUCREZIO pensi a combattere i principii della filosofia
pitagorica, È ben nota, in verità, la disistima che la filosofia
dell’ORTO ha per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci
escludere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì, per un
sistema che studia e rappresenta sotto l'aspetto numerico il mondo, e nel
quale le ricerche matematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però
possiamo escludere a priori soltanto questo: che i filosofi dell’orto tenesse
presenti in qualche modo le dottrine della scuola italica nella parte
fisica del suo sistema. E infatti lo studio del “De rerum natura” di Lucrezio
conferma senz' altro questa induzione; tanto nella parte teorica che in
quella polemica dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e
lo svolgimento dei principii intorno al mondo e alla materia, e la
teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi accenno, anche indiretto e lontano,
alle dottrine pitagoriche. Ma queste, oltre al mondo fisico,
governato dal numero e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico
(anima e il dividno), e quanto all'anima, pur considerando anche di
questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano soprattutto il concetto
della sua eternità. Non mai nata, perchè esistente ab aeterno^ essa vive,
perenne e immortale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene
(metempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di Pitagora
dove pure essere tenuta in qualche considerazione dall’Orto, se scopo
fondamentale della sua speculazione fu di combattere i due grandi timori onde
nasce r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello del
divino, e se, per vincere il primo, difese con tutte le armi della logica
il principio della materialità e della mortalità dell'anima. Non
risalivano forse in gran parte alla filosofia pitagorica la dottrina
platonica e le speculazioni del PORTICO intorno alla origine divina e
all'immortalità dell' anima? E la filosofia pitagorica non si uniforma forse,
spiegandole e chiarendole, alle più inveterate superstizioni, alle più profonde
convinzioni, alle più diffuse credenze religiose degli uomini?
Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione teorica dei
suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, accettata da Democrito la teoria
atomica e fattane 1' appli cazione al mondo fisico, l’estendesse, come
fece realmente, al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d'
un aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza della
mortalità dell' anima o, più precisamente, del necessario dissolversi dei suoi
atomi alla morte del corpo. Ma, giova ripeterlo, egli volle anche
soprattutto combat- tere il timore della morte, il quale nasce, secondo
lui, dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e
dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo, l'anima
sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre- denza una ve n' era —
largamente diffusa dalla religione, dai misteri, da oscure predizioni
sibilline, da filosofi e da poeti — secondo la quale 1' anima non solo
continuava ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi
corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter- rena :
insomma l'antichissima credenza nella metempsicosi. E per di più questa
credenza, anche nei termini strettamente epicurei, poteva in un certo
senso apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità del tempo e
nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli atomi materiali, era ben
lecito ammettere come possibile il ricostituirsi dell' identico
conglomerato atomico che ricreasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima
anima. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende che l’Orto dovessero
esaminarla anche al lume della logica interna del loro sistema, per
dedarne le loro conseguenze in rapporto alle due questioni dell'eternità
dell'anima e del timore della morte. Tanto ciò è vero, che Lucrezio
svolge appunto in modo ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale
discussione polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità
dell'anima e la vanità del temere la morte. Ma prima di esaminare ed
analizzare questa parte del poema che si riallaccia così strettamente con
la dottrina pitagorica, è necessario premettere che già al principio del primo
libro, in quel mirabile e tormentato proemio dove il poeta espone le ragioni,
l' ordine e la materia della sua trattazione, è fatto cenno delle varie
credenze e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale
che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema epicureo, in
ordine alla necessità di sradicare dall' animo umano il timore della
morte. E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo
che ad esso si collega del famoso sogno di ENNIO, ha pure
importanza per il nostro tema. Per rassicurare infatti MEMMIO — al
quale Lucrezio dedica “De rerum natura” — che potrebbe dubitare, accettando la
dottrina epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lucrezio
dimostra che anzi la religione fu causa che gli uomini commettessero
delitti nefandi, come il sacrificio d’Ifigenia in Aulide. E poi soggiunge
che, vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner sempre
quell' altro timore, che è alimentato dalle spaventose favole dei poeti sulla
vita d' oltretomba, da sogni e da apparizioni, e trova la sua ragion d'
essere nell' igno- ranza umana intorno alla vera natura dell' anima. Di
qui pertanto la necessità di studiare — insieme con la natura delle cose
celesti, degli dei e della materia — anche il problema dell' essenza dell'
anima e della natura dei sogni e delle visioni. E precisamente nei questi
versi si accenna in par- ticolare alle varie dottrine intorno all'origine
dell'anima e intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:
Ignoratur enim quae sii natura animai, nata sit^ an cantra
nascentihus insinuetur^ et simul intereat nobiscum morte dir
empia, an tenehras Orci visat vastasque lacunas^ an pecudes alias
divinitus insinuet se, Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno
detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per gentis Italas kominuìu
quae darà clueret\ 120 etsi praeterea tamen esse Acherusia
tempia Ennius aeternis exponit versibus edens^ quo ncque
permanentanimae ncque corpora nostra^ sed quaedam simulacra modis
pallentia miris; unde sibi exortam semper fiorentis Homeri
125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas coepisse et rerum
naturam expandere diciis. Quanto all' origine dell' anima, l’Orto sostene
che essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata già
fatta nel corpo al momento della nascita (an contra [Mi pare
qui perfettamente accettabile la lezione già proposta dal Gobel
(permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più ragionevole
correzione del permaneant dato dai codici. Ne so vedere in qual modo tale
correzione urti, come dice Giussani, con- tro il senso di
permanare. In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi,
mi attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum
na- tura, Torino, Loescher, nascentibus
insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava al morire del corpo le
opinioni invece erano tre: l'epicu- rea, che r anima si dissolvesse col
dissolversi degli atomi corporei [simili intereat nobiscum morte
dirempta) ; la popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne
[te- nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che
passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pecudes alias divinitus
insinuet se ). Le due ultime però non erano in contraddizione fra loro ;
tanto è vero ap- punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali,
pur esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza
dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen- deva non già
l'anima (questa passava — subito? — in altri corpi), ma un' ombra, come a
dire un doppio, del- l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella
precisamente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno — doppio dell'
anima del divino Omero — che, piangendo a- mare lagrime, gli svelò
l'essere delle cose. E dunque evidente, per questo accenno alla
dottrina psicologica epicurea in contrapposizione con quella di
altri filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di
Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e lo è infatti esaurientemente
— la teoria pitagorica della metempsicosi. Ma non v' è forse cenno d' un'
altra concezione che fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio
dire della concezione dell' anima- armonia? La cosa,
del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lucrezio compose verosimilmente
questa parte del proemio del primo libro, quando già aveva composto il
terxo. Si veda in proposito la paziente e lucida analisi del Giussani
voi. II, pag. 4-5). È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di
ac- cingersi a determinare la natura materiale - atomica dell' anima
nelle sue due distinzioni dì animus od anima., confuta una dottrina • —
certo ancor diffusa ai suoi gior- ni — che negava 1' esistenza dell'
anima, o meglio le ne- gava una consistenza sua propria, non pure
extracorporea, ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una
spe- cie di armonia delle funzioni organiche : 98 sensum
aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^ vermn habitum quendam
vitalem corporis esse^ 100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat
nus vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens : ut bona
saepe valetudo eum dicitur esse corporis, et non est tamen haec pars ulta
valentis, sic animi sensum non certa parte reponunt. Ora chi,
prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot- trina, che anche ai tempi
di Platone e di Aristotile era tanto diffusa da far sentire all' uno e
air altro (1) la ne- cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e
spe- cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato e
svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale concetto non
potesse avere pei Pitagorici il senso datogli (1) Platone,
Fedone e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del- Vanima^ I, 4. Dopo
Aristotile la svolsero ancora, accettandola e difendendola, Aristosseno
talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e DiCEARCo di Messina
(Cicerone, ibidem^ I, 20). La si fa risalire veramente a Parmenide
e a Zenone d' Elea (Diog. Laerzio): ma che debba riconoscersi anche
come propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel
suo Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico
chi la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate
pitagoreo la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).
qui da Lucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel dialogo di
Platone, è appena necessario di dire, se esso si accordava — nel sistema
di quella scuola — con l'altro della metempsicosi, ossia con il concetto
della preesistenza e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana
dun- que dei versi 131-135: ... recide harmoniai
fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi — sive aliunde ipsi porro
traxere et in illam trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -
quid quid id est habeant. . — come le argomentazioni di Socrate nel
Fedone — era- no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro
quella interpretazione e limitazione materialistica di essa, per cui r
anima era ridotta a semplice funzione del corpo. Ed è ben naturale che —
così limitata e interpretata — la combattessero, insieme con gl'idealisti
platonici, anche i materialisti epicurei : poiché per gli uni
rappresentava la negazione della essenza individuale e quindi della
immor- talità dello spirito, e per gli altri, significava l'
inesisten- za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-
riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre tre
sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u- mana (1). Si comprende
quindi che Lucrezio, prima di [Pell’Orto, 1' anima è bensì
nativa e mortale, ma è però, fin che vive il corpo, sostanziata di
materia atomica ed è parte dell' essere umano — ne più ne meno di quel
che ne siano parte le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) —
e localizzata nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è
adibita alla re- cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle
funzioni intel- lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia
veniva a cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle
imaccingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu- tasse
questa dottrina, che non solo negava all' anima una sua localizzazione
nel corpo, ma veniva in ultima analisi a negarne 1' esistenza (1). Dimostrata
la materialità dell'animo, Lucrezio passa a dar le prove — ventotto in tutto —
della sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat- tono
il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già del persistere
dell' anima dopo la morte, ma del suo pree- sistere alla nascita del
corpo e della possibile pluralità delle sue esistenze terrene (vv.
668-710, 711-738, 739-766, 774-781). Qui siamo evidentemente
nel campo della metempsicosi, e occorrerà quindi esaminare quest' altro
centinaio di versi. Veramente non soltanto i Pitagorici — con la
dottrina della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-
stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli Stoici; e inoltre,
come ho già osservato più volte, tale dottrina non fu che la elaborazione
filosofica d' una cre- denza largamente diffusa nelle leggende popolari,
nella poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-
magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche
queste vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma
non produce essa stessa. (1) Cicerone infatti, parlando di
Aristosseno e di Dicearco, dice appunto che essi con la loro teoria
venivano a dimostrare « nihil esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum
inane^ frustraque ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse
animum vel animam nec in bestia.” {Ttcsc.^ I, 21), e più
esplicitamente più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ...
nullum omnino animum esse dixerunt ». segnamenti religiosi che s'
impartivano nei Misteri. Sì che gli argomenti di Lucrezio — possiamo
affermarlo con si- curezza — non sono esclusivamente contro i
Pitagorici. Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e
fra il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo- gliono,
dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede veste filosofica, e su
di essa fondò 41 suo sistema dottrinario, dal quale mossero, dopo di lui, e
Platone e gli altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del
poeta epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia ed
a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica. Gli argomenti
che Lucrezio adduce contro 1' opinione della preesistenza dell'anima sono
quattro, svolti in quattro successivi e continui gruppi di versi, e
rincalzati poi — dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua
trat- tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore della
morte. a) Il primo argomento è desunto dalla mancanza in noi
di ogni ricordo dell' esistenza anteriore alla nascita (1): se la nostra
anima è esistita un'altra volta e quindi è entrata nel corpo al momento
della nascita (2), perche non siamo assolutamente in grado di
ricordarci del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-
[C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale
ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti- colari di
una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in- controvertibile
esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun uomo — Platone
deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza dell' anima e quindi della
sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone ì capitoli l8-22ì. 2)
E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato nel proemio al
primo canto. membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima
ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà di ricordare le proprie
vicende ? Se così è, questo non differisce molto dalla morte ; bisogna
quindi concludere che r anima di prima è morta e che quella che
abbiamo in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).
Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della memoria del
passato, la conclusione che sembrerebbe le- gittima : « dunque 1' anima
non è preesistita » ; ma dice soltanto che — dato pure che potesse essere
material- mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del
passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità (personalità
infatti non è altro che persistere di una me- desima coscienza), cioè che
è morta da quella che era, per diventare un'altra. Praeterea
si immortalis natura animai constai et in corpus nascentibus
insinuatur, 670 cur super ante actam aetatem meminisse
nequimus nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ? nani si
tanto operest animi mutata potestas, omnis ut actarum exciderit retinentia
rerum, non, ut opinor, id a lete iam longiter errai; 675 quajjropter
fateare necessest quae fuii ante interasse, et quae nune est nunc
esse creaiam. Insomma in questi versi non si nega la possibilità
che siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-
ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-
fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come
vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice cenno
(al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan- do alla
possibilità della rinascita dell'anima e del corpo. stere in eterno della
coscienza, che, per Epicuro, deriva dai moti atomici dei quattro
componenti dell'anima. D'altra parte, continua il poeta, se 1'
energia vitale del- l'anima entra in noi quando, formato il corpo,
usciamo alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa — che
si vede che è cresciuta col corpo e con le membra immedesimandosi nel
sangue, — ma dovrebbe, non fusa col corpo, vivere a sé come in una
prigione. Ora, poiché avviene proprio il contrario — e cioè 1' anima é
diffusa per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-
sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é entrata in esso
perfetta, e che, partecipando delle vicende del corpo, nasce (e quindi
anche muore) con esso. E am- messo pure che, • perfetta e in sé raccolta
all'atto di en- trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua
parte appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e
dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a un morire per
rinascere tosto altra da quella di prima. b) Un altro argomento
pare a Lucrezio di poter trarre dal fatto del formarsi dei vermi onde
pullula il cadavere in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è
costitui- ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari
dell'ani- ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa,
potendo frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette- re
— ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi si incarnino anime
preesistenti; nel qual caso, lasciando pure a parte la stranezza che
mille subentrino là di dove una è partita, o esse stesse si formano il
proprio corpo dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi
en- trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,
piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontaneamente a
rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces- sariamente dovranno
soffrire; nella seconda varrebbe il ragionamento fatto precedentemente
che un' anima non può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo
già formato senza snaturarsi. 720 quod si forte animus
extrinsecus insinuari vermibus et privas in corpora posse
venire eredis, nec reputas cur milia multa animarum conveniant unde
una recesserit, hoc tamen est ut quaerendum, videatur et in discrimen
agendum, utrum tandem animae venentur semina quaeque
vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint, an quasi
corporibus perfectis insinuentur . at neque cur faciant ipsae quareve
laborent dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,
730 sollicitae volitant morbis alguque fameque: corpus enim
magis his vitiis adfine laborat, et mala multa animus contage fungitur
eius. sed tamen his esto quamvis facere utile corpus cui subeant:
at qua possint via nulla videtur. 735 haut igitur faciunt animae
sibi corpora et artus, nec tamen est uiqui perfectis
insinuentur corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse
conexae, neque consensus contagia fient. c) In terzo luogo, se
veramente ci fosse la metem- psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue
peregrinazioni, un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo
o quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per modo che ne
nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e colombe feroci ? Invece i
caratteri psichici delle singole specie si ereditano e sono costanti in
esse al pari dei caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i
corpi, questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe molte
eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mutando corpo, muta carattere,
allora vuol dire che essa non rimane la stessa, che cambia natura,
insomma che muore per rinascere un'altra: Dejiiqiie cur acris
violentia triste leonum 740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga
cervi» a patribus datur et patribus pavor incitai artus^ et
iam cetera de genere hoc, cur omnia membris ex ineunte aevo, generascunt
ingenìoque, si non, certa suo quia serrane seminioque vis aniìiti
pariter crescit cum corpore toto ? quod si immortalis foret et
mutare soler et corpora, permixtis anirnantes moribus essent,
eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe cornigeri incursum cervi,
tremeretque per auras 750 aeris accipiter fugiens veniente columba,
desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum. illud enini
falsa fertur ratione, quod aiunt immortalem animam mutato corpore flecti
: quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo. Se poi si
volesse invece sostenere la metempsicosi solo entro i limiti di ciascuna
specie, e dire che un' anima umana non s'incarna successivamente in altro
che in uomi- ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può,
di [Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni
deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini della
specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui- scono ai
seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu- crezio accenna
nei versi or ora citati, tali testimonianze si può dimostrare che o sono
esagerate per amor di polemica o di satira, sono errate per confusione
della metempsicosi pitagorica con quella egiziana od orientale in genere,
o, in qualche caso, possono spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al
passaggio dell'ani- ma nel corpo di un animale. In tale categoria
rientra, per me, la testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato
degli Annali, fasaggia che era, diventare sciocca, dal momento che non s'
è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu- ledro esperto come
un robusto cavallo ? Forse che la men- te in un corpo tenero, si fa
tenera anch' essa ? Allora dunque non è immortale se, trasmutando corpo,
perde in tal modo la vita e il sentimento di prima: Sin
animas hominum dicent in corpora sem,per ire humana, tamen quaerain cur e
sapienti 760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,
762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?
scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem confugient, quod
si iavi fìt, fateare necesscst 765 mortalem esse animam, quoniam mutata
per artus tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.
d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore umoristico, di
questa serie di argomentazioni contro la preesistenza e la metempsicosi —
non è cosa oltremodo ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e
ad ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in numero
innumerevole, immortali aspettino membra mor- tali, e lottino e gareggino
a chi prima e di preferenza riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le
anime il patto che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi
non ci sia fra loro nessuna lotta violenta: Denique conubia
ad Veneris partusque ferarum llb esse animas praesto deridieulum esse
videtur, expeetare immortalis niortalia membra innumero
numero, ceriareque praeproperanter cendo esporre dall' anima
di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa anche dire d'essere divenuta un
pavone (« pavone » qui significa « cielo »). Perciò credo prettamente
pitagorica, e non stoica, la dottrina della metempsicosi che svolge
Virgilio nel sesto dell'Eneide. inter se quae prima potissimaque insinuetur
; si non forte ita sunt animarum foedera pacta, 780 ut, quae prima
volans advenerit, insinuetur prima, neque inter se contendant
virihus hilum. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle
credenze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in quella parte
di questo stesso terzo canto in cui si dimo- stra la vanità del timore
della morte, è formulata l' ipo- tesi della resurrezione delia medesima
anima nel mede- simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno
identificata con l’analoga dottrina pitagorico-stoica della
palingenesi, dobbiamo esaminare anche questo passo.
Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della mortalità
dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima conseguenza che la morte
non ci riguarda per nulla. Come non abbiamo sentito niente di ciò che è
acca- duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra non
esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per- chè una volta
avvenuto il distacco fra corpo ed anima (e la conseguente dissoluzione di
questa) noi, che esistia- mo solo per l'intima unione di entrambi, non
esisteremo e quindi non sentiremo più. E giunto a questo punto
conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi, come infatti, sembra, si
fermò in una prima redazione del poema, nella quale seguivano a questa
dimostrazione i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,
tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la suddetta ipotesi,
che dobbiamo appunto esaminare. Accetto senz' altro le conclusioni di Giussani,
sì per l' interpretazione, sì per la composizione di tutto que- sto
interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci- tata,
voi. Ili, pp. 106-107. Poiché in essa è detto anzitutto che se
pura, dopo avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di
sentire, anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi, che
siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in un'esistenza unica
(vv. 841-844). La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta
staccata dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha
detto precedentemente, che non era assolutamente ammis- sibile (1),
perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste, consistendo la morte, per
lui, nel rompersi del legame tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi
degli ato- mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.
Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più poteva
apparire ad alcuno non del tutto in contrasto — come la precedente — con
la dottrina epicurea ; l'ipotesi cioè di un possibile ricrearsi materialmente
identico del nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso
però la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione
della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo- tesi appunto
il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in questo modo : [Giussani
crede di poter sostenere che l'ipotesi, per quanto strana, non è però in
contraddizione assoluta — in astratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue
ragioni non sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia
formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina d'
Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi- stenza del
sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal corpo, se per
lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori del corpo che la
tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata l'inverosimile ipotesi
? Forse unicamente come ipotesi di transizio- ne alla successiva; se pure
non si tratta qui di un'argomentazione per absurdum. 845
iVec, si materiem nostram collegerit aetas post ohitum rursumque
redegerit ut sita nunc est, atque iterum nobis fuerint data lumina
vitac, pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum, interrupta
semel cum, sit repetentia nostri; 850 et nune nil ad nos de nobis
attinet, ante qui fuimus, neque iain de illis nos adficit
angor, nam cum respicias immensi temporis omne praeteritum
spatium,, tum. motus m,ateriai multimodis quam sint, facile hoc adcredere
possis, 855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta
haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse : nee m,emori
tamen id quimus reprehendere mente : inter enim iectast vitai pausa,
vageque deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes. Ora a
prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire identica a quella già
formulata nei versi 668-676, dove si fa pur cenno della interruzione
della coscienza. Tanto che si è voluto da alcuno vedere in questi versi
un'allu- sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che
nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la medesima anima rivivessero
insieme (1) e ciò dipendentemente dalla dottrina della palingenesi
universale che era propria dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità
qui non si tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si
parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi, e nella dottrina
dei Genetliaci si parla del ricongiungersi dell'identica anima e
dell'identico corpo (nell' un caso e neir altro però 1' anima non ha mai
perduto la sua perso- nalità), qui invece si considera il caso di una
duplice (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore
inglese di Lucre- zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino
{De civ. Dei XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap.
III. creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi, cioè si
considera la possibilità della rinascita d' un iden- tico aggregato
atomico corporeo-psichico nel rispetto della teoria epicurea. Che poi ciò
fosse legittimo e logico è un'altra quistione (1); ma sta di fatto che
Lucrezio for- mula r ipotesi secondo la logica del sistema di
Epicuro. 7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo
ve- duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi- nioni
intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma risulta dall' armonia
delle funzioni organiche (teoria di Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa
nasce e si distrug- ge col corpo, ma ha una propria ubicazione
nell'organi- smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi
(moto, caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-
rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade, donde può
uscire per apparire agli uomini (credenza popolare); 4^) che essa, non
solo sopravvive al corpo, ma è preesistita ad esso e può incarnarsi più
volte. E abbia- mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale
abbia- mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in modi
diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol- teplici esistenze,
cambiando specie animale (teoria egiziana); h) l'anima immortale passa
attraverso molteplici esistenze, ma entro i limiti della propria specie e
conservando la propria identità personale (teoria
pitagorica-platonica-stoica); e) l'anima può bensì rinascere, magari
nell'identico corpo. [L'ha posta con molta sottigliezza
Giussani. Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto Pascal nel suo saggio
“Morte e resurrezione in Lucrezio” Riv. di Filologia classica, ristam-
pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti. senza però conservare
la propria identità personale (ipo- tesi (1) epicurea-lucreziana).
La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup- pata, poiché
vi era chi sosteneva che l' anima potesse bensì reincarnarsi, ma in corpi
sempre nuovi; chi invece che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in
atti- nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se- condo
la quale non pur l' anima e il corpo umano anda- vano soggetti a
periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni- verso si distruggeva e si
ricreava perfettamente identico (pitagorici, stoici e genetliaci).
Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza nell'Ade o
Averne come luogo di espiazione, poiché, se anche l'anima riviveva,
scendeva all' Ade un suo doppio (eidolon, simulacrum) che poteva anche
riuscirne (e ve- rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima
tornava a nuova vita terrena) (Ennio). Quanto alla teoria
pitagorica in particolare, abbiamo veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza,
in due luoghi: 1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2")
nella confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel
terzo libro; e che non debbono ritenersi affatto come riferi- menti a
Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima- armonia (e. Ili, vv. 98-135)
né l'ipotesi della rinascita, come è formulata nei vv. 845-859 dello
stesso libro. (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di
Epicuro ; che, in so- stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere
opporre l' argo- mento per lui capitale della interruzione della coscienza
anche a coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina,
avessero potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col
medesi- mo corpo. Veri e propri trattati d' indole pitagorica
sappiamo con certezza che compose VARRONE, di Rieti. Eruditissimo in ogni campo
della filosofia, e, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare di
mettere insieme ed ordinare in Roma una grande biblioteca, specialmente di
opere latine. Ciò che gli diede agio di allargare e approfondire ancor
più le sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse
per comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati
argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, raccogliendo con cura
particolare tutte le tradizioni sacre e profane della patria, e dettando
pure a quel che ci ha lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica
in versi {praecepta sapientiae versibus tradidit). Della sua
prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere letterarie,
storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano di lui non meno di 74
opere in CCCCCCXX libri — non ci restano purtroppo che scarsi avanzi (poco più
di IX libri) e numerose citazioni che da Varrone attinsero largamente
notizie d' ogni sorta. Sì che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della
maggior parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena
appena il titolo. Così dei suoi famosi “Logistorici” che sono in LXXVI libri, e
contenevano discussioni di argomento filosofico con miscela di notizie
storiche, conosciamo i titoli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o
meno largamente di filosofia pitagorica. Tali sono: “Atticus sive de numeris”,
“Tubero sive de origine humana,” “Gallus de admirandis,” “De saeculis” ed altro
de philosophia; ma quale ne fosse precisamente il contenuto non sappiamo. Così,
d' altra parte, ci è rimasta notizia d' un' opera in IX libri “de
principiis numerorum”, la quale, messa accanto sìi Attico già citato e
alla testimonianza [intorno a Varrone si veda l'opera di
Boissier, Etude sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri
Antiquitatum rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo
studio dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-
band I Heft, Leipzig, 1di Gellio (Notti Attiche), che riferisce come
Varrone tratta in maniera oltremodo compiuta del numero settenario – “Varrò
de numero septenario scripsit admodum conquisite” -- prova che il grande
reatino dovette conoscere profondamente la teoria pitagorica e
specialmente la dottrina fondamentale dei numeri. È veramente un peccato che di
tali opere non resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse
potuto trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,
che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica di Pitagora.
Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto, vale a dimostrarci che larghe
e geniali applicazioni potè avere per opera del Maestro e dei suoi
seguaci la teoria stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili
scoperte nel campo delle scienze sperimentali. Poiché le
investigazioni matematiche dei Pitagorici non furono soltanto rivolte alla
ricerca delle proprietà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell'
aritmetica e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe
applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni naturali. Una
delle prime e forse la più importante scoperta di Pitagora fu dovuta a
una di quelle felici intuizioni che, in ogni tempo, sono state il
privilegio del genio; intendo parlare della determinazione matematica
degli accordi, che poi dalla musica, applicata a particolari fatti della
natura, [Kathgeber (“Grossgriechenland und Pythagoras” (Gotha)
scrive. “Dem M. Terentius VARRO AUSS REATO, der aufgeklàrt iiber
Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gelegenheit zur Erwàhnung dar.” portò
a molte curiose osservazioni come quelle che riguardano le due diverse specie
di parto (a termine e settimino), e, applicata all' astronomia, portò
alla teorica dell' armonia delle sfere e alla concezione dell'
universo come di un tutto perfettamente armonico (kósmos). h)
Fu un caso che fece volgere la mente speculativa di Pitagora alla ricerca
della teoria matematica degli accordi musicali, la cui determinazione, prima di
lui, era affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Passando
un giorno per istrada accanìo a due fabbri che martellavano
alternatamente un ferro sopra l' incudine, Varrone e colpito dai suoni
cadenzati e armonici dei martelli : quelli acuti dell' uno rispondevano così
giustamente a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente
nel suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Varrone
ha così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno al quale già da
qualche tempo lavora col pensiero, e non si lascia sfuggire 1' occasione
per chiarirlo. Avvicinatosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro
e nota i suoni che sono prodotti dai colpi di ciascuno. Credendo
che la loro diversità di tono dipende dalla diversa forza degli operai,
fa che essi si scambino i martelli e si accorge che invece essa dipende da
questi. Allora volge tutta la sua attenzione a determinare con
esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fa fare altri martelli più
o meno pesanti di quei due. Ma dai loro colpi nasceno suoni diversi da
quei primi e per di più non intonati. In tal modo, capì che
l'accordo dei suoni nasce da un determinato rapporto matematico dei pesi,
che cerca subito di calcolare. Trovati che ha tutti i numeri che corrispondeno
ai pesi dai quali nasceno suoni intonati, passa dai martelli alle corde
musicali. Prende alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale
grossezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi proporzionati
a quelli di cui fa il computo e determinato il rapporto coi martelli. Fattele
risuonare per mezzo della percussione, non solo trova che le corde
tese da pesi uguali vibrano all'unisono al vibrare di una sola di
esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente dalle corde i cui
pesi stavano in rapporto di III:IV 3:4 ( 5tà xeaaàptóv o èrul xpiTov o
supe?^ tertium), di 2 : 3 II:III (5tà
Tcévxe) e di 2:4 II:IV (5tà Traawv). Per averne poi un'altra
riprova, ripetè r esperienza con alcuni flauti. In questo modo: ne
fa preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza diversa, il I,
poniamo, lungo VI pollici, il II, VIII il III, IX e il IV, XII. Poi
facendoli sonare a due a due trova che il primo e il secondo
armonizzavano in accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4) – VI:VII::III:IV;
il primo e il terzo in accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) – VI:IX::II:III e
il primo e il quarto in accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) –
VI:XII::II:IV. In tal modo Varrone riusce molto genialmente alla
determinazione matematica degl’accordi, ciò che permise in seguito di
estendere e perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo conduce
alla scoperta non è molto dissimile da quello per il quale il Galilei,
dall'osservazione dei movimenti d'una lampada in chiesa, fu tratto a
investigare e scoprire le leggi della oscillazione del pendolo o da
quello in virtù del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò
a scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è
[Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-
cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de die natali
10,7. vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre
partito dalle cose e dai fatti più semplici ! -- E una volta
messosi su questa via, che mirabile serie di investigazioni non seppe
escogitare quella profonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì
due fabbri all'incudine arriva non pure alle leggi dell'armonia
musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto l’universo! Poiché
applicando i suoi calcoli al corso e alle distanze degli astri e dei
pianeti vaganti fra il cielo e la terra — dai quali, secondo lui, era
regolato il corso della vita e degli eventi umani — trova che essi
avevano un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e
suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accordo, da formare una
dolcissima armonia, non però percepibile da orecchio umano, per la sua forza
che supera la facoltà del nostro udito. Calcolate infatti le
distanze dalla terra a ciascun pianeta in stadi italici di 625 – CCCCCCXXV piedi,
trovò che dalla terra alla luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo
rappresenta per lui r intervallo di un tono. Dalla Luna a Mercurio (Stilbon)
calcola una distanza uguale alla metà, ossia un semitone. Di qui a
Venere, altrettanto; da Venere fino al Sole, tre volte tanto, come a dire
un tono e mezzo. Il sole quindi distava, secondo Varrone, dalla terra tre
toni e mezzo, formando così con essa un accordo diapente e dalla luna
due toni e mezzo, formando un accordo diatessdron. Dal sole poi a Marte
(Pyrois) stima esserci eguale distanza che dalla terra alla luna, ossia un tono.
Di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitone. Da Giove a Saturno,
altrettanto, cioè ancora un semitone. Di qui finalmente al cielo delle
stelle fisse, press' a poco un mezzo tono. E però da questo cielo al sole
pone un [FIRMAMENTO Orbita
di Orbita Saturno Giove Marte e- 3 Q. ooII» HK> •Wi■O-SOLE Venehe
Mercurio Luna © •0 Wi
TJSKBà, d>>3 Q. •«
O o tt) •0 u
cs i) > »3 o 8 ti
•0 u e ^ 7. —] intervallo diatessdron (di
due toni e mezzo), e dallo stesso cielo alla Terra un intervallo in
accordo diapason (di sei toni) [Per
queste osservazioni e scoperte è ben naturale che Pitagora dove
convincersi che nell' universo tutto è regolato dal numero, ossia che
nulla vi è di casuale, di fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da
leggi divine e da una determinata e determinabile proporzione. Sicché
dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, ' alla tisiologia,
trova nel decórso del puerperio ancora una riprova della regolarità
matematica dei fenomeni naturali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora
fa della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso dei processi
fisiologici, cioè alla generazione, e appunto spiegata in una delle opere
varroniane ricordate (“Tubero seu de origine humana”). Queir acuto e
profondo osservatore infatti avendo studiato accuratamente il decorso delle due
diverse specie di parto, l'uno di sette – settimino) e Y altro di dieci
mesi lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e 274
giorni dopo la concezione, e avendo determinato i. numeri corrispondenti
ai giorni nei quali, per ognuno dei due parti, si compiono i mutamenti
più importanti — del seme in sangue, del sangue in carne, della carne in
forma umana — trova che il parto settimino è in rapporto col numero VI e
quello a termine col numero VII; non solo, ma che i nùmeri suddetti,
tanto nell' uno quanto nell'altro, si trovano nello stesso rapporto degli
accordi musicali. Ed ecco in qual modo. [Censorino, de die
natali, cap. 13. (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4,
14. Nel parto di VII mesi, per i primi sei giorni dopo la
fecondazione, l’umore che è contenuto nell' utero è di aspetto
lattiginoso. Nei successivi VIII giorni è di aspetto sanguigno. Il
rapporto fra VI e VIII è, come abbiamo veduto più volte, quello
precisamente che forma accordo diatessd- ron (6:8 = 3:4). –
VI:VIII::III:IV -- Nel terzo stadio si hanno IX giorni, in cui comincia
la trasformazione dell' umore sanguigno in carne : e il IX col VI forma
il secondo accordo diapènte (6:9 = 2: 3) – VI:IX::II:III ; finalmente nei
XII giorni seguenti si ottiene il corpo già formato : e il rapporto di XII con VI
forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). VI:XII::I:II. Questi
quattro numeri 6, 8, 9, 12 – VI VII IX XII sommati insieme formano 35 XXXV
giorni, i quali moltiplicati per 6 VI danno appunto il nu- mero totale
dei giorni, di durata della gestazione, ossia 210. CCX -- Nel parto a
termine invece, con analogo ragionamento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9
1/3, 10 1/2, 14, -- VII IX XII X XII XIV che sommati insieme danno 40 XL e
una frazione; 40 XL moltiplicato per 7 VI dà 280 CCLXXX, da cui detraendo
6 VI si ha 274 CCLXXIV. Vale a dire che nel parto di dieci X mesi iL
mutamento del seme in umore latteo avviene in sette VII giorni
anziché in sei VI, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo 40
XC giorni interi, che moltiplicati per 7 VII danno 280 CCLXXX, cioè
quaranta XL settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo I giorno
dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei XV giorni, onde ne
restano 274 CCLXXIV Tanto il 210 CCX che il 274 CCLXXIV sono veramente due
numeri pari, laddove Pitagora dava speciale importanza al numero dispari,
tanto da ritenere — in virtii delle sue molteplici osservazioni — che
tutto è regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino
(1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad Bmol.
Vili, 75. che riporta tutto questo passo Varroniano, egli non
era qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari 209 CCIX e 273 CCLXXIII sono bensì compiuti, ma
non si compie ne il 210 CCX né il 274 CCLXXIV giorno in cui il parto
avviene; in conformità precisamente di quanto ha fatto la natura sia riguardo
alla durata dell' anno (365 CCCLXV giorni più una frazione) che a quella
del mese (29 XXIX giorni più una frazione.
Non è il caso di entrare qui in merito al valore intrinseco e alla
veracità di siffatte osservazioni. Poiché anche se errori vi sono, bisogna
naturalmente tener conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine
e di esperimento da oggi al tempo di Varrone, e pensare dall' altro
che molte delle applicazioni della teoria dei numeri non dovettero neppure
essere l' opera diretta di Pitagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi
seguaci. In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-
duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano campate nell'aria
e nelle nebulosità della metafisica, ma trovavano la loro base e la loro
ragion d' essere nell' os- servazione scientifica dei fatti naturali; sì
che fu indub- biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello
di aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione dei
tempi, non fu merito piccolo. f) Se la teoria dei numeri trovava
così mirabili ri- scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben
naturale che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica degli
uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi- steri e alle profonde
verità del Pitagorismo. Ond' é, per esempio, che un'altra testimonianza
varroniana ci ricorda (l) Censorino, de die natali 9 e 11.
Si confronti con questo il passo di Gellio, Notti attiche, III, 10,
7. la particolare considerazione in cui erano tenuti i così
detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere i Pitagorici ne
tenevano conto scrupolosamente badan- do di comporre in una sola volta
216 righe o versi (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! Ora
questo è uno di quei particolari che, presi a se, prestano facilmente il
fianco al riso e alla satira; ma in verità se noi non possiamo spiegarci
la cosa in modo ra- gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non
conosciamo tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica
; poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rientrassero nell'
ambito del sistema per puro amor dell' ordi- ne e doll'euritmia, al solo
scopo di far sottostare a una certa regola anche gli atti minimi e più
insignificanti della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi,
di esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi
insegnamenti del Maestro. Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte
quisquilie, è ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla
— quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di Pitagora,
e come egli medesimo se ne dilettasse al punto, che ogni sera prima di
addormentarsi e ogni mattina al suo svegliarsi cantava, accompagnandosi
con la cetra, per meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini. Oltre
a queste notizie, che io, valendomi delle indagini già fatte da altri
(3), ho cercato di esporre si- [ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p.
104, 1. (2) Censorino, de die natali 12, 4. (3) Si veda
nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha- goreae doctrinae
adumbratione (Giyphiswadensiae) l'appendice a pagina 76 « Varronis
Pythagoreae doctrinae frag-menta continens ».]
stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei numeri,
altre se ne trovavano nelle opere di Varrone, intorno alla vita di
Pitagora, intorno alla sua scuola e ai suoi seguaci e intorno ai
principii del suo sistema. Così Varrone pone 1' esistenza di
Pitagora al tempo di Tarquinio Prisco e quindi implicitamente non accetta
la tradizione che Numa e suo scolaro a Crotone. Anch'egli attribuiva a
Pitagora il merito di essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante
del sapere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire : già a
questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure
accennava altrove alla sua andata a Turio (Sibari) nella Calabria. E
Agostino ci ha conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero
romano, esprime la sua ammirazione perchè 1' ultima cosa che Pitagora
insegna ai suoi discepoli, quando già fossero perfetti, sapienti e
felici, era quella del governare la cosa pubblica. Appartiene al libro
quinto dell' opera intorno alla lingua latina un brano in cui Varrone afferma
che Pitagora insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come finito
e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e notte. E quindi parimenti
due i modi di essere : stato e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo;
il dove si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che « vi è
nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò « che quasi tutte le
cose siano quadripartite ed eterne, poiché ne paò mai esservi stato tempo
se non prece- [S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.
(2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.
(3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54. « duto da moto, — se
tempo è appunto l' intervallo fra « un moto e l' altro — ; né moto senza
spazio e senza « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove
e <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove «
e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio « e corpo, tempo
e azione ». Altrove ci ricorda Varrone un altro pensiero fondamentale di
Pitagora, assunto poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che
l'esistenza degli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto
principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti. E parimenti faceva
risalire a lui quella teoria dei quattro elementi (terra, acqua, aria ed
etere o fuoco) che comu- nemente si suole invece attribuire ad Empedocle
di Gir- genti, vissuto un secolo dopo. Non manca neppure nelle
opere varroniane qualche accenno alla teoria pita- [Varrone,
de Lingua Latina, -- Pythagoras Samius
ait omnium rerum initia esse hina ut finitum et infinitum^ honum et
malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo, status et m,otus
: quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur locus; dum. agitatur,
tempus; quod est in agitatu, aetio; quare fit^ ut ideo fere omnia sint
quadripartita et ea aeterna, quod nc- que unquam tempus quin fuerit
motus, eius enim intervallum tempus; ncque motus ubi non locus et corpus,
quod alter um est quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non
actio ihi; igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio
». Varrone, de re rustica, Sive enim aliquod fuit prin-
cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno Gittieus ;
sive cantra principium horum exstitit nullum, ut credidii Pythagoras Samius et
Aristoteles Stagirites\ necesse est humanae vitae a summa memoria gradatine
descendisse » . Cfr. CenSORINO, de die natali, IV, 3. ViTRUVio, de
architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI, 724; ad Geòrgie IV, 2l9;
Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg. E cfr. Diogene Laerzio, VIII,
25. gorica deir eternità dell' anima e alla sua dottrina
della metempsicosi, a conferma della quale ricorda persino le sue vite
anteriori, essendo stato prima un certo Etalide, poi Euforbo, poi il
pescatore Pirro e finalmente Ermotimo. Altrove ancora Varrone accenna
alle pratiche di evocazioni dei morti, che del resto erano largamente usate
neir antichità, come dimostra, fra le altre, la rappresentazione di una
scena di necromanzia dipinta in un monumento cretese, scoperto da poco,
che risale ai tempo pre-omerico della così detta civiltà micenea o
minoica. È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non manca di
parlare del famoso divieto pitagorico di mangiar fave, connesso con la credenza
nella metempsicosi e con la concezione che Pitagora ebbe della vita
post-mortale Symmaghus, Ep. I, 4.
(2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello, p.
121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; Ago- stino, de cìv.
dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13. (3) Tertulliano,
de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII, 24. (4)
Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiònis idem Varrò e
Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et postea Pythagoram
philosophum usum fuisse commemorai ; ubi adhihito sanguine etìam inferos
perhibet sciseitari et nekyoman- teian graeee dicit vocari » . Quanto
alle rappresentazioni di scene di necromanzia si veda, per esempio,
Drerup, Omero (Bergamo I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si
ricordi la famosa Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.
(5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.
XVIII, 118, XXXV, 160. Tali a un di presso le notizie di contenuto
pitagorico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità delle
opere superstiti e la varietà degli autori da cui sono raccolte, esse sono
slegate e frammentarie, ma tali però da farci ancora una volta
rimpiangere la perdita quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la
quale si è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie
utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'antichità classica.
Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto da Varrone,
come delle sue speculazioni e delle sue ricerche storico-filosofiche debbono
essersi serviti non poco i filosofi contemporanei o che vissero poco dopo
di lui, così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo rimane nelle
opere di altri filosofi di questo tempo, potremo ricostruire e svolgere qualche
altro punto della dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della
conoscenza che ne ebbero i contemporanei di Giulio Cesare e d’Ottaviano.
Fra gli amici dVarrone è degno di essere ricordato queir APPIO CLAUDIO
FULCRO, del quale sappiamo che e augure, pretore, console, censore,
governatore della Cilicia e legato in rapporti di amicizia anche con Cicerone,
di cui ci restano diverse lettere a lui indirizzate. Convinto
che la scienza augurale avesse il suo fondamento non già nel desiderio o nel
bisogno di giovare anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii
interessi dello stato romano — come la pensa l' altro grande augure GAIO
CLAUDIO MARCELLO — ma che realmente e un dono concesso dal divino agli
uomini, perchè questi sono in grado di meglio intendere la loro volontà e
di regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta, era solito far
sortilegi, oroscopi, evocazioni di morti. Ne più né meno di quello che,
secondo la tradizione fa Numa, il
filosofo Ferecide di Siro, il suo discepolo Pitagora, e Platone. Questa
convinzione , suffragata dalle dette pratiche della divinazione
artificiale cui era dedito, dove appunto indurre Appio a scrivere
quei suo “Liber auguralis,” forse di carattere polemico, che dedica all'
amico Cicerone, lì quale fra l’interpretazione utilitaria e razionalistica di
quelli che la pensa come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pensano
come Appio Claudio, ha un'opinione intermedia, in questo senso : che cioè
una vera e propria scienza e arte augurale e già esistita in antico, ma
che di essa però non e più depositario, al tempo suo, il collegio
degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per l’abbandono e la
negligenza in cui s' era lasciata, era, (1) CicEBONE, de
divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio vestro inter Marcellum
et Appiutn, optimos augures, ynagna dissensio fnam eorum ego in libros incidi,
quom alteri plaeeat auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae
composita, alteri disciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .
(2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus
amicus Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ;
58, 132. (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII,
i capitoli 34 e 35. (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17,
39. (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone,
R. R. 3, 2f 2.] secondo lui, svanita. Dichiarazione questa, che
per essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo di
lieve momento. Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi
nella ricerca di quel che e proprio questa ra antica, come la
chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ha nella vita degl’Elioni e
degli antichi Italici. Ma questa trattazione mi porterebbe troppo lontano
dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto ricerche abbastanza
ampie, se non proprio in tutto soddisfacenti ed esaurienti, sono già state
fatte in proposito. Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria
si esercita in forme e modi diversi — con l’osservazione del volo
degli uccelli in un punto determinato del cielo detto “templum” -- onde
trasse origine la parola “contemplazione”), con 1' esame dei visceri (cuore,
polmone, fegato) di animali sacrificati a questo scopo (“hostiae
consultatoriae”) con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con la
considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, fulmine, ecc.), cogli
oracoli, coi pubblici e privati carmi profetici - ; e che era pure
praticata da Pitagora, il quale vi annette anzi un particolarissimo
valore, tanto da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il
che (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non
est, quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et
vetustate et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui
negai unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui
esse etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70. (2) Si
vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsenschììtz, Sogni e
cabala nelV antichità, Berlinoe del Cak- TANi-LovATELLi, Sogni e
ipnotismo nelV antichità, Roma 1889. (3i CiCEBONE, de divinatione,
L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè alla divinazione) magnani auctoritatem
Pythagoras,.. tribuit, qui no
naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche prova di
virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli ne diede infatti non
poche. Altro amicissimo di Varrone e, come è noto, Cicerone. Negli
scritti che in gran numero ci restano di CICERONE frequentissimi sono gli
accenni a Pitagora, alla sua scuola e alla sua filosofia ; non però tali
da farci pensare a una elaborazione personale e originale, o all'
approfondimento di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come e
di un eclettismo che sta fra l’Accademia e il Portico, iniziato ai misteri
religiosi, augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore
della filosofia, della quale si fece divulgatore, creando quasi ex novo per
essi, dopo il mirabile tentativo poetico di Lucrezio, la lingua
filosofica, autore anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso
di arte, tratta dei più svariati argomenti sì metasifici che
morali, Cicerone ha senza dubbio una conoscenza abbastanza larga dell'antica
filosofia italica, l'unica forse che ha già avuto in Roma insigni
divulgatori e seguaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori
come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per
tale conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi l’amicizia di
Varrone e dello stesso Nigidio Figulo, e la lettura dei loro scritti. Ma
non per etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed
anche 45, 102 : « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt,
sed etiam hominum, quae vocant omina » . questo possiamo dire che
i'Arpinate fa particolari studi intorno a quel sistema di dottrine, che,
se collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-
sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute, si prestavano
assai meno delle posteriori e piìi note filo- sofie ad essere facilmente
comprese dai profani e divulgate artisticamente. 3. — In ogni
modo, volendo raccogliere dalle sue opere le notizie che si riferiscono a
Pitagora e alla sua scuola, dovrei prendere le mosse da quel passo delle
Tuscolane in cui Cicerone parla delle dottrine pitagoriche, della loro
diffusione in Italia e delle tracce che esse lasciarono nelle istituzioni
e nella LEGGE dì Roma. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che e discepolo
di Ferecide, specialmente per la sua dottrina suir eternità dell' anima,
in quanto egli insegna l’esistenza di un' anima universale, compenetrante tutta
la natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la derivazione da essa
di ogni anima umana. E per ciò che riguarda la natura di questa, Cicerone
stesso accetta la distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone
— (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: «
Pherecides Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. ..
Rane opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».
(2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani- mum
esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem, ex quo nostri animi
earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au- dieham, Pythagoram
Pythagoreosque numquam dubitasse, quin ex universa mente divina
delibatos animos haberemus ».] dell' anima in due parti, l’una ragionevole, in
cui questi filosofi poneno la tranquillità, cioè una placida immutabile
costanza, e l’altra irragionevole, onde traevano origine i moti torbidi
sì dell' ira come del desiderio. Per la quale credenza l’uno e l'altro ammisero
la possibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,
specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse disposto
opportunamente con particolare dieta e con una meditazione preparatoria;
e credettero nella divinazione, al punto che Pitagora pretende di essere
egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei viaggi di quest' ultimo
nelle terre più lontane (3), del suo colloquio con Leonte, il capo dei
Fliasii, in cui per la prima volta si chiamò filosofo (4), della
successiva venuta in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio
d'un (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem
Pytkagorae pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum
in duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y
alte- rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy
id est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus
turbi- dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni
». Cfr. libro I, 17, 39. (2) De divinatione, II, 58, 119: «
Pythagoras et Plato,., quo in somnis certiora videamus, praeparatos
quodam eultu atque victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem
Pythagorei utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur
». Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule
11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,
eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con- fronti de
divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119. (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25,
55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87. (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr.
sopra e vedi Diogene Laerzio, Proemio, 12, che desume la notizia da un
libro di Eraclide pontioo. bue alle Muse per aver trovata la soluzione
d'un teorema, della sua dimora a Crotone e a Taormina in Sicilia,
della sua operosa vecchiezza, e infine della sua dimora e della morte a
Metaponto. Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin- cipio
autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello che ho
accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone ricorda la teoria dei
numeri (7), 1' armonia del mondo e il culto della musica (8), l'astinenza
dai sacrifìcii cruenti e il rispetto per gli animali, naturale e logica
conseguenza del concetto pitagorico della vita, il divieto del suicidio e
infine la bella concezione dell' amicizia, vera comunanza di spiriti e di
vita, che diede fra gli altri il mirabile e notissimo esempio di Damone e
Finzia; oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri
pitagorici. (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per
altro non par cre- dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle
sacrificare una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di
sangue un altare. E non ha torto. (2) De re publica II, 15,
28; ad Atticum IX, 19, 3. (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita
Pythag . 122. (4) De senectute 7, 23. (5) De finibus V,
2, 4. (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di
questo principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio
pitago- rico di Crotone » . (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad.
pr. II, 37, 118 e Somnium Sei- pionis, 12 e 18. (8) De nat.
deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113. (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re
pubi., Ili, 11, 19. (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4,
5. (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y,
23, 66. a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus,
II, 24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.] e cioè Filolao di
Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate di Locri, Timeo
ed Acrione contemporanei di Platone. Di quest'ultimo poi egli dice
esplicitamente che, dopo la morte di Socrate, prima si reca in Egitto e
poi in Italia e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte
da Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè
procurarsi i commentarli di Filolao (che esponeno per iscritto per la
prima volta le dottrine del maestro, fino allora trasmesse solo oralmente
e sotto il vincolo della segretezza) ; e poiché allora appunto era più
che mai celebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, pratica con
Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, prediligendo egli Socrate
sopra ogni altro e volendo rappresentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse
insieme la piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità
del simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il
maestro in modo che, anche quando discuteva di morale e di politica, si
studia di mescolarvi i numeri, la geometria e r armonia, alla guisa di
Pitagora. Dal quale poi (1) De finibus, V, 29, 87.
(2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis
ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus denique de
republica disputet, numeros tamen et geometriam et harmoniam studeat
Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio : Sunt ista, ut dtcis, sed audisse
te credo, Tubero^ Platonem, So- crate mortuo, primum in Aegyptum discendi
causa, post in Ita- liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae
inventa perdisceret, eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro
multum, fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo
tem- pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et
hominibus Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem
uniee dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem
Socraticum tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità
dell'anima, aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale. Un
complesso dunque di notizie, o meglio di accenni, superficiali e
sconnessi, che rappresentano press'a poco il grado di conoscenza che del
Pitagorismo hanno gli uomini colti dell'età di Cicerone. Ma vi è un'
opera di questo secondo scrittore, anzi un frammento della sua opera
"più importante, sul quale dobbiamo fermare un poco più
particolarmente la nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi
pitagorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione così famoso e di tanta importanza per la
storia della mistica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che
ha; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni, da Macrobio e
da Eulogio, che ne fecero amplissima analisi, all'inglese Wynn Westcott,
che su Milìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et
cum illa flurimarum artium gravitate contexuit » . (1)
TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno- sceret, in
Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque de animorum
aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha- goram sed rationem etiam
attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 : « Neque enim adsentior iis, qui
nuper haec disserere coeperunt, cum corporibus simul animos interire
atque omnia m>orte deieri. Plus apud me antiquorum auctoritas valet,
vel nostrorum m>ajo- Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt
magnamque Orae- ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat,
institutis et praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo
sapien- tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in
plerisque, sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum
ex corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~
stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur » (2)
AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom- Quentarius
ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii EuLoan oratoris
almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipionis, scripta Superio y. e. cos.
Provinciae Bizacenae. non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione
dicendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento che non sia una
semplice presunzione ipotetica) un fram- mento dei Misteri (1).
Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che, affermando
pitagorico il contenuto di questo sogno, non voglio con ciò asserire né
che Cicerone e un seguace di quella filosofia, né che desumesse
direttamente le idee informative del sogno stesso da scritti pitagorici :
poiché so bene che studi fatti recentemente da valentissimi critici come
Gylden, Corssen, Pascal, hanno messo in chiaro che fonti ciceroniane per
la materia di esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed
Eratostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso tutti quasi
i concetti suesposti, che Cicerone stesso attribuiva a Pitagora e ai suoi
seguaci ; il che dimostra ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno,
che i filo- sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno
all'altro molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-
niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'esposizione di principi
filosofici già era venuta, agli albori della filosofia romana, a un
grande scrittore e poeta, pitagorico per giunta: voglio dire ENNIO.
(1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a
fragment of the Mysteries, London, 1899. (2) Vestigia Platonis in
Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848. (3) De Posidonio Rhodio M. T.
Gieeronis in l. I Tuscul. disp. et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae,
1878. (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di
Cicerone, nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e
belle Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta »,
Firenze, Le Monnier. Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione
di questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che abbiamo
sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone, che opinione Pitagora e
i suoi avessero intorno al sonno e alle forze conoscitive dello spirito
nel riposo e nella quiete del corpo. Questo sogno, poi,
secondo le osservazioni di Macrobio, partecipa contemporaneamente di
tutte e tre le forme principali o profetiche dei fenomeni del sonno,
oracolo, visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in
quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio Emilio Paolo e il
padre adottivo Scipione Africano Maggiore, uomini venerandi, che avevano anche
coperto cariche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe
fatto come generale e come magistrato e la sua morte; visione (visio =
Spajjta), in quanto durante il sonno parve all' Emiliano di essere
trasportato in cielo e più precisamente nella via lattea, dove avrebbe
poi dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa dal
divino ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù contemplare r universo e i
pianeti e la terra stessa divisa nelle sue cinque zone ; sogno
propriamente detto {som- nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità
delle cose a lui dette dalla grande anima di Scipione non puo
essere svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica. Tanto è
vero che il commento interpretativo di Macrobio è di gran lunga più
esteso che tutti i sei libri della Repubblica, e non meno lunga è la
dissertazione di Eulogio, che verte specialmente intorno alle qualità
mistiche dei numeri e alla musica delle stelle. (1) Macbobio, 1. I,
e. 3. Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini che -si
resero benemeriti della patria e mostrare quale premio, dopo la morte,
fosse dato alle loro virtù, quello cioè di ritornare alla loro patria
celeste, immaginò che uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla
Repubblica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narra agli altri
interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo tribuno in Africa, e
ospite del re Massinissa, grande amico di Scipione il Maggiore.
Uscita dal corpo durante il sonno, l’anima dell' Emiliano si trova
trasportata, a un tratto, nella via lattea, dove, giusta le credenze dei
Pitagorici, avevano loro sede le anime degl’eroi, tanto prima di scendere
in terra a vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro
pellegrinaggio quaggiù. Ascoltata dall'Africano la predizione delle
sue imprese e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua
(1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,
adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi
beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores
hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-
SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti a
proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è detto che
le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle porte del Sole e al
popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli asfodeli, dove abitano le
anime, ombre dei trapassati » scrisse Porfirio (àe antro ISiympharum, e. 28)
che il popolo dei sogni non sono altro che, secondo Pitagora, le anime
che dicono raccogliersi nel cerchio della via lattea. Poiché il prato
degli asfodeli i Pitago- rici appunto lo immaginarono in quel cerchio.
Anche Plutarco (de faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime
dei buoni si indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla
del cielo che chiamavano prati dell' Ade. età avesse percorso « uno
spazio di otto volte sette giri e rivoluzioni del sole e questi due
numeri (ognuno dei quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era
ritenuto perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli
anni la somma a lui predestinata », e saputo — quasi a conforto del suo
triste destino — che egli pure sarebbe salito lassù, dove si trovava
anche suo padre Paolo, « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli
altri che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,
anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami corporei come da
un carcere siamo veramente vivi; la vostra, che si chiama vita, è morte
». E riveduta, con intensa commozione, 1'anima del padre, chiede ad
essa: « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo indugiarmi e
vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli viene risposto, se quel Dio a
cui appartiene tutto l'uni- verso non ti ha prima liberato dal carcere
corporeo, non ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli
uomini sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa il
centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo, originario di quei
fuochi eterni che chiamate costellazioni e stelle e che, di forma sferica
e circolare, animati da menti divine, fanno i loro giri e descrivono le
orbite loro con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gl’uomini pii
dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e non disertare,
contro la volontà di chi ve l'ha data, dalla vita d' uomini, perchè non
sembri che voi vogliate [Somnium 4, 12. Della pienezza o
perfezione dei due nume- ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e
VI, adducendone partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le
teorie e le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.\
sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio » . Perciò il padre lo esorta ad essere
giusto ed a coltivare la pietà, perchè così vivendo si aprirà la via per
ritornare al cielo fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora
separate dalla materia corporea, abitano la via lattea. Dalla quale poi
l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo dell' universo stellato e il
roteare dei nove cerchi o meglio globi, di cui il pili esterno, che abbraccia
gli altri, è quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso divino
supremo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri, cioè i cieli
di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio, della
Luna, nel mezzo dei quali sta, immobile, la Terra. E mentre osserva i
cieli roteanti, ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella
cioè che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro percuotere neir
aria, onde si producono suoni acuti e gravi, che insieme formano i sette accordi
della lira: proprio secondo la dottrina pitagorica. L' ammirazione per la
grandezza e la novità delle cose che vede e ode non fa però che
Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano [Somnium,
7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute (20, 73) dove è detto
esplicitamente che questo concetto è di Pi- tagora : « vetat Pythagoras
iniussu imperatoris, id est dei, de praesidio et statione vitae decedere
». (2) Somnium, 8, 16. (3) Tutta questa concezione
della terra immobile nel centro di un ambiente sferico, intorno al quale
s'aggirano col firmamento i sette cieli planetarii, è prettamente
pitagorica ; e tale fu pure, se- condo il Martini, la scoperta della
direzione del corso dei pianeti e della eclittica. Vedasi il Gìjnther,
Oeschichte der antiken Natur- wissenschaft in Miiller's Handbuch V,
1. (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I,
10, 12.] gliene mostra parte a parte i
circoli, le zone, le acque e conclude che essa è campo ben ristretto per
la gloria degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la
quale non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi anni
mondani. « Se tu dunque, conchiude la grande anima, vorrai mirare in alto
e tenere volto lo sguardo a questa dimora eterna, non curarti dei
discorsi del volgo né porre la speranza delle tue azioni nei premi
degli uomini: bisogna che la virtù per sé stessa con le sue
blandizie ti tragga alla vera gloria » Esaltato dallo spettacolo delle
cose viste e dalle promesse, dalle predizioni, dai consigli uditi, Emiliano
promette di adoperarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1'avo
lo conferma nel suo proposito dichiarandogli l’immortalità dell' anima. «
Ricordati che non tu, ma il tuo corpo è mortale ; e che tu non sei quello
che codesta forma corporea fa apparire. Ciascuno é ciò che é l'anima
sua, non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che tu sei
divino; se divina è quella forza che anima, che sente, che ricorda, che
prevede, che regge e modera e muove questo corpo, a cui è preposta, così
come il sommo divino regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso divino
eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così il fragile corpo
è mosso dall' animo sempiterno » Della
durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine dei Genetliaci,
dei quali ho accennato nel capitolo terzo. (2) Somnium, 17,
25. (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non
esse te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma
ista declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura,
quae digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem
est deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam
« Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime sono le cure
spese per il bene della patria (1); onde l'animo che in esse si adopera e
si esercita volerà piti velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi
tanto più presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo
saprà uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, staccarsene il
più possibile. Perchè gli animi di quelli che si abbandonano ai piaceri
del corpo e si rendouo quasi schiavi di essi e, sotto l'impulso dei
desideri obbedienti ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti
dal corpo vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a
questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agitazione molti secoli »
(2). E con 1' enunciazione di questi concetti pitagorico-platonici il
magnifico sogno finisce. regit et tnoderatur et movet id
corpus, cui praepositus est quam kune mundum ille princeps deus ; et ut
mundum ex quadam parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus
animus senipiternus movet ». [Anche questo, è bene
ricordarlo, era un concetto pitagorico; tanto è vero che Pitagora,
serbava come insegnamento ultimo ai suoi discepoli quello relativo all'
esercizio dei pubblici poteri. V. S. Agostino, de ordine II, 24,
54. (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt
autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer- citatus
animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit. Idque ocius
faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore, eminebit foras et ea,
quae extra erunt, contemplans quam maxime se a corpore abstrahet. Namque
eorum animi, qui se corporis voluptatibus dediderunt earumque se quasi
ministros praebuerunt impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium
deorum et homi- num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram
ipsam volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis
rever- tuntur ». Nel tempo del quale ci stiamo occupando non
è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i suoi riflessi
soltanto negli scritti di prosa e di poesia del genere di quelli che
abbiamo già visti, destinati a un pubblico eletto e relativamente
limitato ; che anzi l' insegnamento fondamentale della dottrina di Pitagora,
cioè la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle
fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel dominio pubblico, da essere
oggetto di satira e di riso nel teatro popolare. Fra quelle specie di
farse infatti che sono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione di
morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di Cicerone e del quale
Tertulliano ricorda una satirica interpretazione della metempsicosi : «
Insomma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio secondo 1'
opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo e la serpe dalla donna,
e in tavore di questa opinione volgesse, con parola efficace, tutti gli
argomenti possibili, non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non
indurrebbe forse anche a credere che ci si debba perciò astenere dalle carni
animali? Chi potrebbe esser sicuro di non comperare eventualmente del
manzo di qualche suo antenato ? » Laberio dunque avrà tirato
scherzosamente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro
sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile pensare che
gliene abbia data occasione una situazione comica in cui fossero in
contrasto 1' ostinata cocciutaggine d' un uomo e la velenosa malizia d' una
donna. Il commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle
carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è forse la prima testimonianza,
in ordine di tempo, che ci rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica;
voglio dire i noti versi di un'elegia di Senofane, contemporaneo di
Pitagora: E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol
maltrattato, Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò : €
Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico r anima, che
ravvisai, quando 1' ho udita guair » Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si
qui philosophus adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae,
hominem fieri ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia
argu- m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et
fìdem, infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum,
quis habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »
(2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)
Anche in questi versi infatti, come nel commento di Tertulliano,
attribuendosi a Pitagora la metempsicosi anche animale (per una falsa
estensione però, come ho già detto), se ne mette scherzosamente in mostra
il lato ridicolo. Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato
Cancer, è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un «
dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo ritenere che fosse
la stessa metempsicosi. Finalmente Cicerone e Seneca ci hanno conservato
il ricordo di un terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato
Faba, del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso
dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e 1' astensione
dalle fave. Né è davvero il caso di me- e prendendoli da
lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno- phanes). Si veda a
proposito di essi e delle altre antiche testimo- nianze pitagoriche che
risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc. ciò che ha scritto lo Zeller
nei Siizungsber. d. preuss. Akad. 1889, n. 45, pag. 985. Si è
recentemente messo in dubbio che questi versi si riferiscano a Pitagora ;
ma tali dubbi sembrano al GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota)
infondati. Ed ha per- fettamente ragione. (1) Prisoiano. vi,
2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal. Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33
e 109, 3 : « nec pythagoream dogmam docius ». (2) Cicerone,
ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no- strum, quem Curio antea
apotheosin vocabat, si hic factus erit, fabam mimum futurum ? » e Seneca
Apocoloc. 9 : o olim magna res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis
». Debbo tuttavia notare che da qualcuno si è proposto di leggere
8-aù[jia in luogo del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in
proposito la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.
(3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,
Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere ] ravigliarsene,
solo che si consideri con che argomenti piccini e con che sciocche
ragioni si cercava di persuadere della necessità di tale astensione. Del resto
anche ORAZOP si prende amabilmente gioco di questi due stessi punti della
dottrina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava con vivo
senso di nostalgia le parche cenette di campagna fatte di fave e di erbaggi
conditi col lardo, è evidente che egli — da buon epicureo — si infischiava
del precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un po' in
giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di Pitagora ».
E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare, per dirla
col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici in azione la
parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava e l’uomo, ed il
passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste, più che opinioni del
severo filosofo, sono certo stramberie di begli spiriti, che gliele
attribuirono per burlarsi meglio di lui e delle suo idee, come fa ORAZIO,
per esempio. Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di
Poefirionk. (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64: quando faba
Pythagorae cognata siwiulque XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo
? Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli
inter- preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni
seu pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo
trucidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi che
anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei morti) verrebbe
a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che s' occupa di filosofia —
e con lui la dottrina pitagorica della metempsicosi, alla quale verrebbe
data una ben larga estensione. Qualcuno peraltro (per es. Ritter) nega
ogni allusione. che ammettono la sopravvivenza dello spirito,
sistemi quasi personificati in Archytas, per opera del quale il
Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » Dice infatti il poeta :
« Te, o Archita, che misuravi il mare e la terra e l' innumerabile arena,
tiene ora fermo presso il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia,
e nulla ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo
abita, e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato a
morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur banchettava con gli
dei, e Titone, che fu tolto alla terra e sollevato neir aria, e Minosse,
che fu ammesso agli ar- cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche
il figlio di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta
(dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene, con lo scudo che
fece staccare (dalla parete del tempio di Giunone argiva in Micene) data
testimonianza del tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla
nera morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la pelle
(2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido mallevadore della
verace scienza del tutto lo sai bene.- Ma tutti ne attende un' uguale
notte senza fine e tutti dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come
tu credi) la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-
[Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti. Per altri modi d'
intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda il commento dell'
Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher, 1900, voi. I, pag.
119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso autore Uode d' Archita.
Roma, 1893. (2) habentque Tartara Panthoiden iterum
Orco Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo Tempora
testatus nihil ultra Nervos atque cutem morti concesserat atrae.
dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro di morte
ai naviganti ; si susseguono senza posa i funerali sì dei vecchi che dei
giovani, l'implacabile Proserpina non ebbe mai rispetto ad alcun capo
». E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che
tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor- tale, e
contrapponendo in particolare la sua affermazione al ricordo « di
Pitagora redivivo » , come lo chiama altra volta (1), fa doli' ironia
bella e buona alle spese del « fi- gliuolo di Panto ». E VIRGILIO
-- in qual conto tenne le dottrine pitagoriche? Esercitarono esse
qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio visibili neir opera sua,
dal momento che sappiamo — per quello che ce ne dice egli stesso e per
quello che ci hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che
egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che desiderio di
tutta la sua vita fu quello di potervisi dedicare di proposito? Nel
tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far rivivere in Roma la
filosofia pitagorica, è possibile pensare che uno spirito come quello di VIRGILIO,
colto, curioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche, non
ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non v' è argomento di dubbio,
ma credo di poter dire anche [In uno degli Epodi (XV, 21)
Orazio accenna ancora alle varie vite di Pitagora nel verso « nee te
Pythagorae fallant arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione
al carat- tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire
no- mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e
nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52). a;
ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti credette di
ravvisare nelle pratiche e nei prin- [Pitagorismo Torigine di molte delle
più antiche L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na- ;e
anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera giore mirò a rappresentare
in un meraviglioso r insieme le origini e lo svolgersi della
potenza e che perciò fece lunghi studi intorno alle ) e alle
antichità romane, dovette proprio in modo re rivolgere la sua attenzione
alla filosofia pita- a quale per di più aveva già ispirato anche il
Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo- i quali fu condotta 1' Eneide.
Questo mi par che i affermare con certezza, anche indipendentemente
3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che procediamo a questo
esame — ancorché molto rio — non solo sarà confermata a posteriori
la induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu- )he di lui
fece il Fontano, quanda lo disse esplici- te « poeta augurale e profondo
conoscitore della la di Pitagora » (2). ne tutti sanno, agli
studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato in
essi da un ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.
r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe [Servio,
ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet omnem romanam historiarti
ab Aeneae adventu usque ad sua tempora summatim celebrasse Virgilium,
quod ideo latet quia eonfusus est ordo, etc. ». (2) « Poeta
auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » , come è detto in una
nota al Commento di Macrobìo al Somnium Seipionis, nella edizione di
Lione del 1670, pag. 66. 9. anche rinunziato in gran parte
alle « dolci Muse ^ ! Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro
amabile tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filosofo.
Filosofia e in Virgilio solo in potenza : i germi latenti nel suo
pensiero — che pur si delinea abbastanza chiaramente a chi ne mediti l' opera
poetica — sarebbero certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse
vissuto più a lungo, sì che, condotta a perfezione 1' “Eneide”, egli ha
potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente maturato e più volte
espresso — di poter attendere alla FILOSOFIA : così noi avremmo forse,
accanto al poerna di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del
materialismo epicureo, un poema virgiliano informato ai principi dell'
idealismo pitagorico-stoico. L' avviamento epicureo eh' egli ebbe
da Sirone, e l'animirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-
sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale, neir opera sua
giovanile, nei poemetti bucolici e nelle Georgiche ; ma in queste stesse
poesie già si manifesta abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico
affatto op- posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà
e larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria
sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga ; ma dobbiamo ben
guardarci dal darle un' importanza maggiore di quella che essa ha
realmente, col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne
perciò che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e
della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista fa parlare i
personaggi che sono figli della sua fantasia secondo criteri e leggi lor
proprie. Non solo, ma alla stessa stregua allora altri potrebbe ritenere
specchio delle idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu
scritta poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-
gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona propria, in
secondo luogo perchè il concetto che l' informa tornerà insistente e
sempre più preciso negli scritti posteriori. Ma in verità il pensiero di
Virgilio non doveva in quegli anni essere ancora definitivamente
orientato e formato. La quarta ecloga fu composta quando il
poeta aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a. C,
allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione, console designato
per 1' anno successivo. Sulla inter- pretazione di questo carene, così
stranamente suggestivo, s' è tanto discusso, che non si sente davvero il
bisogno d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai
commentatori cristiani si credette di poter vedere in quest' ecloga, scritta in
tempi così vicini all' apparizione del Cristo, qualche accenno alla
imminente venuta del Messia; anzi il fanciullo di cui si celebra la
nascita fu addirittura identificato col Nazareno, e non con Ottaviano,
come Virgilio affirma. Non e' è da meravigliarsene, che r intuizione
artistica — nei grandi — giunge tal- volta a tali profondità e 1'
espressione poetica acquista tal forza di significazione e un tale
carattere "di univer- salità, che essa par quasi attingere
inesauribilmente, dalle [Generalraente si ritiene composta al
principio del 40, anziché alla fine del 41; ma essendo la pace di
Brindisi stata conchiusa sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in
quello scorcio di anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo
(che, secondo Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare
che non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal
modo meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule
del y. 11. disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del
pensiero di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi
proprio Virgilio ha consapevolmente ‘profettizato’ ex post fato la nacita
d’Ottaviano per conoscenza che avesse delle predi- zioni messianiche,
questa è un' altra quistione, risoluta dai critici in senso non del tutto
negative. Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo — che
si ritiene generalmente e, se non Ottaviano, Asinio Gallo, figlio di
Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — Virgilio afferma ormai venuta 1'
ultima età (quella di Apollo) predetta dall' oracolo in versi della Sibilla di
Cuma, e sul punto di iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del CONSOLATO
di Pollione, una nuova serie di generazioni umane, un nuovo anno mondano,
col quale sarebbe tornata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e
sarebbero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia l’età dell'
oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere (1) Mancini
p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron) scrive: (p. 48/ : « Non si
può appunto escludere assolu- « tamente (sebbene io non lo creda
necessario) che Virgilio avesse « in qualche modo conoscenza delle
profezie messianiche certo « pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa
per tratteggiare « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma
gli ef- « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio
si acquistò con questa ecloga dedocata a Asinio Gallo, per ha quale fu
sollevato alla dignità dei profeti, si veda il CoMPAEETTi, Virgilio
nel Medio Evo (Firenze.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione di questa eclog a Asinio Gallo era già
molto in voga presso i filosofi. Si vedano anche i lavori di C. Pascal, “Il
culto d’Apollo in Roma nel secolo d’Ottaviano e La questione dellEcloga
IV di Virgilio (Torino), ristampati nel volume Commentationes
vergilianae (Palermo, R. Sandron,). una nuova progenie d'
uomini » (v. 7 : jaw, nova pro- genies caelo demittitur alto). Sì che il
fanciullo, Asinio Gallo, figlio del console Pollione, allora nascente,
avrebbe visto scomparire del tutto la « gens ferrea » e crescere insieme
con lui la « gens aurea » e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe
veduto sulla terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con
loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui delle colpe delle
età trascorse (e in pari tempo condizione necessaria al ripetersi delle
vicende umane) — nuove spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove
guerre, come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto a
pieno la felice pace della nuova età, della quale già si allietavano e
cielo e terra e mare. Come si vede da questo accenno, siamo lontani
le mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa concezione d' una
palingenesi che Virgilio tratta con sì profondo entusiasmo poetico? Pura
finzione del suo spirito? No, senza dubbio. Una predizione dei carmi
sibillini prometteva certo con l’ età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi
periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo e il ritorno
dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filosofiche allora correnti e che ho già
avuto occasione di ricordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico
dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei medesimi eventi e il
ritorno alla vita degli stessi corpi e delle stesse anime (teoria
pitagorico-stoica e dei genetliaci). Pensa dunque Virgilio, nel fingere
che proprio col cominciare dell'anno colla nascita del figlio del console si
iniziasse l'ultima età mondana designata dai carmi sibillini, a queste
teorie ? A me pare che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà
chiedere se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che
tra- sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »
che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora « sarà
mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi di tali eventi, il
ritorno al medesimo punto della vita universale, oppure indichino soltanto
una generica legge dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur
così vi- cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo quei
nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi simili, ma non
proprio gli stessi. "Certo però che, assegnando Virgilio alla seconda età
dell' oro già imminente quei medesimi, identici caratteri che la
tradizione dotta e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto
in- dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato e
rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua arte divina, l'
avverarsi della teoria pitagorico-stoica della palingenesi. E ancora :
parlando della <^ nova progenies », la quale « eaelo demittitur alto »
, a che cosa ebbe pre- cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla
sua immaginazione come un flusso di anime emananti dal- l'anima
universale all' inizio del nuovo anno o periodo mondano posto sotto 1'
egida di Apollo ? (1). L' anima del fanciullo — nel pensiero del
poeta — non v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie
spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum suboles, magnum
lovis mcrementum » (v. 49), non par- rebbe che si dovesse intendere
altrimenti che la sua anima è emanata pura e semplice direttamente da
Giove, e Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio
dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima] Mi pare, non ostante il diverso parere di
qualche commen- tatore (p, es. di Pestalozza), che si debba precisamente
dare all' espressione il suo senso proprio e letterale.
dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an- cora
riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e che doveva svolgere
più compiutamente là dove, dall'ani- ma di Auchise, fa esporre ad Enea,
giù negli Elisii, la famosa « storia dell' anima ». Vero è
che, come ho già rilevato, bisogna andar molto cauti nella
interpretazione di siffatti motivi poetici e nel- r inferire da essi il
pensiero filosofico animatore operante neir artista; che questi può,
indipendentemente dai pro- cessi logici normali, assurgere per pura
intuizione alla visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso
nostro il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale
com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno ad essa
reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi nuovi di pura
elaborazione fantastica; ed espressioni poe- tiche di tale natura sono
per sé indeterminate e male si prestano ad essere analizzate e misurate
con le rigide seste della logica. Non potevamo però non tenerne
conto, almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,
che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc- cessivi momenti
dell' attività poetica del nostro autore. Da ispirazioni così diverse e
lontane come quelle della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque
che prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-
vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non lo aveva
neppure orientato definitivamente quando compose le Georgiche ; poiché in
queste si osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e di
forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano immagini e
concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare, per questi ultimi, i
bellissimi versi del quarto libro nei quali VIRGILIO accenna, senza ancora
accettarla come propria, ma con evidente simpatia, la concezione
panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e degli stoici)
secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri viventi non è che una parte,
più o meno grande, dello spirito divino che, suscitando in mille forme la
vita, per- vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.
His quidam signis atque kaec exempla secuti 220 esse apibus partem
divinae mentis et haustus aetherios dixere : deum namque ire per
omnia, terrasque traefusque maris eaelumque profundum. Hine
peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^ quemque sibì tenues
naseentem arcessere vitas ; seilieet hue reddi deinde ae resoluta
referri omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \
sideris in numerum atque alto succedere eaelo. Il filosofo,
esponendo il pensiero come di altri (quidam... dixere)^ fa ancora le sue
riserve; ma il poeta evidente- mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte
ci dice la profon- dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il
fatto che uno di questi versi mirabili non è nuovo, ma Virgilio lo
ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga, lega idealmente questa col passo
delle Georgiche. L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo
a lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave- vano
combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio; ma il suo
temperamento prima e poi le convinzioni che via via si vennero elaborando
in lui col maturare degli anni e degli studi dovettero riportarvelo
fatalmente ; sic- ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide,
immergendosi tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle
antichità romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leggenda
collegava colla sacra figura del re Numa, che aveva ispirato anche l'
arte di Ennio e che aveva in que- gli anni cultori come Nigidio e come i
Sestii, egli do- vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e
assimi- larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle poi
dare anche più precisa e più degna espressione là pro- prio dove il poema
attinge la più alta romanità e acquista nel medesimo tempo carattere di
universalità. Al principio del libro VI dell'”Eneide”, che si
ritene generalmente dagli antichi contenesse la più profonda dottrina
virgiliana, Servio credette di dover premettere queste parole: « Tutto Virgilio
è pieno di scienza, nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui
la parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del canto
XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplicemente (cioè senza allegoria),
molte sono prese dalla storia, molte provengono dall'alta sapienza dei
filosofi. Talché parecchi hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali
cose che trovansi in questo libro». Di questi trattati peraltro a noi non ne è
giunto alcuno, nemmeno quello, certo assai interessante dal punto di
vista del nostro tema, che scrive Macrobio, 1' erudito grammatico; poiché
dei suoi Saturnali, che pure ci restano in buona parte, è andata perduta
proprio quella parte in cui si conteneva l' esame del valore
filosofico dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,
(1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi
dei Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito,
come ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V). Anzi, per la
superiorità della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1'
esposizione di Eustazio e la prima di tutte, come appare da ciò che è
detto come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii elementi
pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del quale, per esempio,
ricordando nel commento al Somnium Scipionis il terque quaterque beati,
riconosce neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri.
Non è certo il caso di andar cercando, come qualche antico ha
fatto, in ogni espressione, in ogni parola di questo mirabile libro, al
quale doveva ispirarsi Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse
allegorie, e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel
comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come la chiave di volta
di questo canto e che indubbiamente è di quelli che Servio ha detto
provenire dall'alta sapienza dei filosofi, noi fermeremo la nostra attenzione.
ENEA, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso all'Inferno. Passata la
palude Stigia sulla barca di Caronte, attraversato 1' anti-inferno o
limbo (dove sono le anime dei neo-nati, dei condannati a morte
ingiustamente, dei suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per
causa d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il
Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mutilo
; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori, e si deve far
risalire al tempo in cui questi tendevano ad accentuare il carattere
profetico di Virgilio. [Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in
ogni genere di sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al
Somnntm lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum
om- nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :
omnium diseiplinarum peritus. (2j Per esempio Elio Donato, il quale
attribuiv a Virgilio un sapere straordinario e cercò nei suoi versi
dottrine risposte e scopi filosofici ai quali certamente non aveva pensato
mai. (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti
co- loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane e divine)
è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che sono il felicissimo regno
dei beati locos laetos et amoena mrecta 630
fortunatorum nemorum sedesque heatas. Quivi, in una luce
perpetuamente serena e fiammante, le anime dei beati (eroi morti per la
patria, sacerdoti, poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità)
trascor- rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in
bo- schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro
abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al quale Enea chiede
notizie d' Anchise e che gli si offre per guida. Il padre d'ENEA sta in
quel momento ad osservare con attenzione le anime che si trovavano
chiuse nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare
alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle che dovevano
rincarnarsi nei suoi discendenti, per conoscerne il destino, le vicende, il
carattere, le opere future. At pater Anchises penitus eonvalle
virenti 680 inclusas animas superumque ad lumen ituras
lustrabat studio recolens omnemque suorum forte recensebai numeruni
carosque nepotes fataque fortunasque virum 7noresque manusque.
Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon- tro, dopo il
quale Enea vede da un lato della valle un bosco appartato e cespugli
pieni di suoni e il fiume Lete (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle
placide sedi e intorno a questo una infinita moltitudine di anime
svo- lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sussurro, simile
al ronzio che fanno pei prati, nei sereni meriggi estivi, le api, quando
si posano su ogni sorta di fiori e si addensano intorno ai candidi gigli.
L' eroe, stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia
quello, e che uomini quelli che si affollano così numerosi sulle sue rive. E il
padre subito gli risponde : « Le anime alle quali è dovuto per destino un
altro corpo, bevono alle onde del fiume Lete le acque che
sigilleranno in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e
della vita trascorsa »: animae, quibus altera fato
corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm 715 seeuros latices et longa
oblivia potant. Queste anime appunto egli si accinge a
mostrargli, enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-
scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da Silvio a Marcello
il giovane) perchè s' allieti con lui di essere finalmente giunto alle
spiaggie d' Italia. Ed Enea subito gli chiede : « padre, si deve dunque
credere che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-
tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual mai assurdo
desiderio della vita terrena hanno le infe- lici ? » : pater,
anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est 720 sublimis animas
iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido
? [Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla
pa- lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine
(Sabbadini). Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh io ho chia-
mata la storia dell'anima : « Anzitutto un' interiore forza
spirituale anima il cielo, la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle,
e un' intelli- genza infusa per tutte le sue parti agita e
compenetra la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli
ani- mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che si
muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a- nima universale
disseminate nello spazio, hanno vigore etereo e origine celeste ; ma, più
o meno, li inceppa la lue corporea e le membra terrene e periture li
ottun- dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri, a
gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car- cere, le anime
disconoscono il cielo onde derivano. Tanto che, anche quando nel dì del
trapasso le abbandona la vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni
male né le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle
quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono necessariamente crescere
nel loro intimo per lungo tempo in modi meravigliosi. Perciò sono
sottoposte a pene e pagano con supplizi il fio delle passate colpe :
delle cui infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-
ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo abisso d' acqua
(negli abissi oceanici ?), altre bruciando nel fuoco. Tutti subiamo da
morti la nostra espiazione, dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e
pochi soltanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo volgere
d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le traccio d'ogni sozzura
contratta nel corpo e lascia puro il senso etereo e il fuoco della
semplice aura. Tutte queste invece, quando son volti mille anni, sono
chiamate da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè,
immemori del passato, rivedano la volta del cielo e comincino
a sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v. «
Principio caelum ac terras camposque liquentis 725 lucentemque globum
lunae Titanìaque astra spiritus intus alit totamque infusa per
artus mens agitai molem et magno se corpore miscet.
inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum et quae
marmoreo feri monstra sub aequore pontus. 730 igneus est oUis vigor et
caelestis origo seminibus, quantum non noxia corpora tardant
terrenique liebetant artus moribundaque membra. hinc metuunt
cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras dispiciunt clausae
tenebris et carcere caeco. quin et supremo cum lumino vita reliquit,
non tamen omne malum miseris nec funditus omnes corporeae
excedunt pestes, penitusque necesse est multa diu concreta modis
inolescere miris. ergo exercentur poenis veterumque
malorum supplicia expendunt. aliae panduntur inanes suspensae
ad ventos, aliis sub gurgite vasto infectum elicitur scelus aut
exuritur igni ; quisque suos patimur manis ; exinde per
amplum mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, donec
longa dies, perfecto temporis orbo, concretam exemit labem purumque
relinquit aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.
has omnis, iibi mille rotam volvere per annos, Lethaeum ad
fluvium deus evocai agmine magno, scilicet immemores supera ut convexa
revisant rursus et incipiant in corpora velie reverti ».
Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti vaghi e
imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di una teoria, nella quale
è riaffermato anzitutto il concetto di uno spirito immanente nell'
universo, di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli
esseri animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ; cioè
il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel quarto delle G-eorgiche,
e perfettamente identico a quello che Cicerone, come s' è visto,
attribuiva a Ferecide, mae- stro di Pitagora. Di piti la forza
spirituale, di origine divina ed eterea, che è nell' uomo e negli
animali, e concepita in perfetta antitesi con la materia del loro
corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe- dimento, e che è
la causa degli errori, delle passioni, delle colpe, dei traviamenti.
Sicché la vita è un male (vv. 730-734). Anche questo concetto di un
dualismo o antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-
partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come s' è pure
veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti, per i malvagi e per i
buoni, tutti, dopo la morte, deb- bono purificarsi delle infezioni
corporee. La purificazione infatti avviene per mezzo di pene e di
tormenti, non però eterni, che debbono subirsi per il tempo
necessario all' espiazione perfetta. Ne sono mezzi i tre
elementi dell' aria, dell' acqua e del fuoco (quelli stessi che si
adoperavano appunto nelle cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1'
espiazione pu- rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo
di beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che furono
in terra i migliori, rimangono a godere una serena felicità, anche questa
non eterna, ma che dura fintantoché non sia compiuto il tempo prescritto
— tempo assai lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e
scom- paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-
Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78. (2)
Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove. cordo delle belle opere
umane (1) — per riprendere poi la primitiva natura eterea e spirituale e
di nuovo dis- solversi in seno all' anima universale. Le altre invece,
e sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una delle
convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate da Dio a bere nelle
acpue purificatrici del fiume Lete r oblio della vita trascorsa e si
incarnano in nuovi corpi. Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo
dice, se queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ritorneranno
poi ancora, dopo la seconda morte e conse- guente espiazione negli
elementi, all' Elisio, vi resteranno tutte in attesa di convertirsi in
puro etere e spirito, o se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla
terra. Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe
limitato ad un massimo di due — una con prevalenza del male e una del
bene — , nel secondo sarebbe inde- finito. Ma in un modo o nell' altro la
teoria della resurrezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal
mo- mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale fino al
momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet- tamente conchiuso ; il
concetto panteistico e il processo di involuzione ed evoluzione dello
spirito, appena accen- nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti
compiu- tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte che
si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba e che espone la dottrina della
metempsicosi (vv. 748- 751), sia, come le prime, foggiata secondo i
principi del- l' Orficismo e del Pitagorismo. Appunto per tale
attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio le occupazioni a cui
attendevano sulla terra. Sarebbe certo oltremodo interessante
svolgere questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e
chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo di emanazione
delle anime dallo spirito universale avve- nisse una volta tanto, o ad
intervalli, o ininterrottamente. Si vedrebbe allora che, non potendo
avvenire ne una volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo
delle anime individuali in seno all' anima universa, ne sarebbe seguita
in un determinato momento la scom- parsa della vita dalla terra), né
ininterrottamente (parche in tal caso, essendo sempre infinitamente
maggiore il numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo
punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il male), ma dovendo
considerarsi come avverantesi ad in- tervalli, r idea di tale processo d'
emanazione si ricolle- gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni
mon- dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema- nano
non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei bruti, ci si potrebbe
chiedere che cosa dovesse avvenire di queste, alla morte dei loro corpi.
E si vedrebbe come, dal modo in cui dovette esser risolto questo problema
da qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi
(1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era
diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto il
particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,
filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-
nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni stessi
era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se- coli ; e in
ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre identico di
emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e si ripetevano gli
stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto più su (§ 4) parlando
della quarta ecloga. 10. unanimemente attribuita a
Pitagora — d' una metempsi- cosi anche animale (1). Ma
prescindendo da queste considerazioni, che ci por- terebbero al di là di
quello che Virgilio ci ha voluto o potuto dire, come si concilia questa
storia dell' anima con tutta la rappresentazione precedente dell'
anti-inferno e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-
damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein- feruo e le
punizioni evidentemente eterne che subiscono quelle dei malvagi nel
Tartaro non si possono accordare con le pene temporanee per mezzo dei tre
elementi. Sic- ché noi siamo indotti a pensare che nella
rappresentazione virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un
ten- tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima del
poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio — di fondere insieme
quella che era rappresentazione po- polare e il concetto o
rappresentazione filosofica del poeta. E poiché, considerata in sé
stessa, questa storia sug- gestiva e profonda ha un senso compiuto e
perfetto, e d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide
a pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe la voglia
di credere che essa sia stata scritta a parte, fors' anche
indipendentemente e in tempo anteriore a quello della composizione del
poema, e poi opportuna- mente inserita in questo, allorché il poeta —
artista, fi- [Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le
incarnazioni del- l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo
umano, ma anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei,
secondo che le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che
nel- r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò
rappresentato uno stato di vita intermedio fra due vite umane.
losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di valersi,
per esaltare la grandezza della Patria e per la rappresentazione dei
grandi spiriti di Roma, della dot- trina della metempsicosi, antichissima
e largamente dif- fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi
concit- tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi
parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse proprio vedere in
essa un brano di quel poema della Natura al quale Virgilio già pensava
quando finì il se- condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse
ad- dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre eh'
esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo prese e imitò da
Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve- duto, si iniziavano appunto con 1'
esposizione della dot- trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi
dunque la teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto una
finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto per ottenere una
grande e suggestiva efficacia di rappre- sentazione, ma esprimerebbe la
genuina e schietta con- cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel
contra^^to (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa
Macrobio nel l. VI dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno
alcuno di rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad
Enea e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne
parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella quale
appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera virgiliana
fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una effettiva
somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come sono indubbie
alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli arcaismi che si
trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere un altro indizio d'
imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom- mentat. vergilianae, p. 143
sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha derivato la sua esposizione
dottrinale dal proemio degli Annales. a cui abbiamo accennato fra
l' idealismo pitagorico-stoico e il materialismo epicureo, sarebbe
insomma il suo testa- mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che
la- sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e
sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii albori del
pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra- smessa di generazione in
generazione da una civiltà al- l' altra, dall' Oriente all' Occidente,
custodita con cura gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la
verità più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,
come già nei miti immortali di Platone, alla luce della poesia e dell'
arte. Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-
condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco- laro di Pitagora. Raccogliendo
là tutte le testimonianze di questa tradizione, ho anche accennato a
quella che ne fa Ovidio nelle Metamorfosi. Essa ha una importanza
specialissima e merita di essere studiata sepa- ratamente dalle altre
anche per questo, che della tradi- zione stessa il poeta si vale per fare
un'esposizione, se non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e
la pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —
della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due punti
fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e la
metempsicosi. Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso
Romolo, si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave
com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e che una fama non
menzognera designò all'impero Numa, già famoso per la sua giustizia, per
la sua pietà, e, so- pratutto, per la sua sapienza: che, non solo
conosceva a perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,
abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti ed essendo avido
di scrutare i più ardui problemi della natura, aveva abbandonato la
nativa Curi e si era recato a Crotone: Quaeritur interea qui
tantae pondera niolis Sustineat, tantoque queat succedere regi.
Destinai imperio elarum praenuntia veri Fama Numam. Non ille satis
cognosse Sabinae 5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci
Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit. Iluius amor curae,
patria Guribusque relictis, Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis
urbem. Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi
60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che or ora
esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo di che ritornò in paCria
e prese le redini del governo di Roma, insegnando al popolo del Lazio i
riti sacrificali e le arti della pace: Talibus atque aliis
instructo pectore dictis tn patriam remeasse ferunt., ultroque
petitum Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas: Goniuge
qui felix nym^pha ducibusque Gamenis Sacrificos docuit ritus, gentemque
feroci Adsuetam bello pacis traduxit ad artes. Come si vede —
e l'ho già rilevato, — Ovidio non solo accetta senza discuterla, come
cosa ovvia e risaputa^ la tradizione che faceva di Numa un discepolo di
Pita- gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes- sione
di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a Numa e l' educazione
pitagorica da lui ricevuta ; per quanto con l'accennata collaborazione
della ninfa Egeria e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto
rap- presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella
creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe- riodo regio
(1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei dubbi e delle critiche
messe innanzi da qualche erudito, preferì seguire senz'altro la
tradizione leggendaria, che pur Cicerone aveva chiamata inveteratus
hominum ei-ror; e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva
mi- rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-
tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe- ma come le
Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil- mente, la tradizione era più
che mai viva nella coscienza dei contemporanei, per i quali il poeta
scriveva, massime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.
[Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast.) accenna alla
possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a Numa
dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen- sit abesse
duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos putat, Egeria sive
monente sua ». (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si
legge nella terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta,
immagi- nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa
maestro, lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti
da quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo
verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. : In
Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il quale, nativo dell'isola di
Samo, aveva abbandonato spon- taneamente la patria, mal sopportando la
tirannide onde era governata, e s'eia dato a profondi studi di
filosofia. Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,
per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio celeste, fino
agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel- letto ciò che la natura ha
negato alla vista degli uomini»: 60 Vir fuit hic, ortu Satnius ;
sed fugcrat una Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul
Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^ Mente deos adiit et quae
natura nogabat Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit. Ecco
subito, in questi magnifici versi, messo in evi- denza Pitagora, e
determinata con molta precisione e con grande efiìcacia rappresentativa
la natura del suo misti- cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo
dell'intelletto e la profonda intensità del meditare, per giungere alla
vi- sione e alla comprensione delle più alte verità. Cumque
animo et vigili perspexerat oinnia cura In medium discenda dahat,
coetusque silentum Dictaque mirantum magni primordia mundi Et rerum
causas et, quid natura, docebat : Quid deus, unde nives^ quae fulminis
esset origo, luppiter an venti discussa nube tonarent^ Quid
quateret terras, qua sidera lege fnearent, Ed quodcumque latet.
At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ; In Phryga
nee satyrum talis Olympus erat ; Praemia nec Chiron ab Achilli talia
eepit, Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam. Nomina neu
referam longutn collecta per aevum, Discipulo perii solus ab ipse
meo. E in questi altri versi ecco parimenti accennata con grande
chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti, che il filosofo
impartiva all'attonita e silenziosa schiera dei discepoli e che
abbracciavano « le origini primordiali dell'universo, Je cause della
materia e l'essenza della na- tura e della divinità, l'origine delle nevi
e del fulmine, del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato
il corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi della
filosofia naturale e della scienza » Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta,
vietò di ci- barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione
con molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva- zione
: Primusque anitnalia mensis Arguii imponi : primus quuni
talibus ora Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis.
Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per- sona, l'uso
delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età dell'oro, quando gli uomini non
conoscevano ancora tale uso; e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo
ac- cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni
più ardue e a svelare più riposti misteri : Et quoniam deus ora
movet, sequar ora moventem Rite deum, Delphosque meos ipsumque
recludarn 145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.
Magna, nee ingeniis evestigata priorum, Quaeque diu latuere, canam.
luvat ire per alta il) I vv. 67-71, cke riassumono la
supposta fisica pitagorica, sono manifestamente ispirati da Lucrezio,
dice il Lafaye, Les mé- tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs,
Paris, Alcan, 1904, p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii
dello stoicismo. Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta
Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^ 150 Palantesque homines
passim ac rationis egentes Despectare procul^ trepidosque
obitur/ique timentes Sic exhortari, seriemque evoltere fati.
« E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina, seguirò
gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il rito, e vi svelerò i miei
arcani e lo stesso etere e vi schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel
profondo della mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate
dalle menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte. Mi
piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban- donata la terra e
questa inerte dimora, lasciarmi traspor- tare da una nube e poggiare
sulle spalle del vigoroso Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi
qua e là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con
trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere la visione del
loro destino con queste parole... » Siamo alla rivelazione della
metempsicosi, la cui cono- scenza appunto deve distruggere negli uomini
il timore della morte : genus attonitu7n gelidae formidine
ìnortis ! Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana
timetis, Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1) Corpora,
sive rogus fiamma, seu tabe vetustas Abstulerit^ mala posse pati non ulla
putetis, ^ Morte careni animae; semperque priore relieta Sede
novis domibus vivunt habitantque reeeptae. (1) Cade ovvio a questo
punto il raffronto coi famosi versi delie Georgiche (II, 490-492) :
Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas, Atque metus omnis et
inexorabile fatum Subiecit pedibus strepitumque Acherontis
avari, « schiatta attonita
per lo spavento della fredda morte ! Che temete lo Stige, la tenebra e i
suoi nomi vani, fan- tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente?
Non crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la sua
fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire mali di sorta, E
quanto alle anime, esse non muoiono ; e sempre, abbandonata una sede,
vivono e abitano in di- more che nuovamente le accolgono ». E
in prova di ciò Pitagora ricord d'es- sere vissuto ancora, al tempo della
guerra troiana, nel corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente
chiarita ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-
garmente attribuita a Pitagora : Omnia mutantur, nìhil interit :
errai et illìne Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai
artus Spiritus: eque feris humana in corpora transita Inque feras
noster, nec tempore deperii ullo,
Utque novis facilis signatur cera figuris, Nec manet ut
fuerat^ nec formas servai easdem, Sed iarnen ipsa eadeni est;
animam sic semper eandem Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras.
« Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er- rando e si
muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna nel corpo che si presceglie;
e dalle fiere passa nei cor- pi umani e viceversa, né mai vien meno. E
come la molle che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi
i filosofi dunque giun- gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità
del timore della morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1'
uno, cioè Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione,
o passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al-
tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to- tale e
definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi onde
l'anima si compone. cera si foggia in nuove figure, sì che,
pur non restando quale era prima e non conservando le stesse forme,
tut- tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem- pre
la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1). Da ciò un
nuovo argomento per astenersi dall'usar carne. A questo punto la
trattazione di Pitagora si allarga, e il filosofo passa a dimostrare 1'
evoluzione perpetua e il divenire incessante di tutto il creato :
Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis Vela dedi : nihil
est tato, quod perstet, in orbe. Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur
imago. « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto
mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto l'universo. Tutto
fluisce, e si foggia incessantemente ogni mutevole aspetto ».
E questa nuova proposizione illustra con una lunga serie di esempi,
tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen- darsi delle stagioni, dalla
vita dell'uomo e dalle vicissi- tudini degli elementi (vv.
179-251). Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di
muta- menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-
versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor- ganici e negli
organici trasformazioni impreviste, che i saggi osservano con curiosità,
ma di cui essi ignorano le cause : questi fenomeni straordinari — spesso
elencati e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate
(1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto
proba- bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui
si è già visto. Paradoxa — Ovidio li fa esporre da
Pitagora, non sen- za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv.
307-336 riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia
fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418- 452), che
descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società umane, sino al glorioso
principaio d'Augusto, predetto già da un oracolo fin dal tempo della
caduta di Troia : Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere
Rotnam^ Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis Mole sub
ingenti rerum fundamina pomi. Haec igitur forviam crescendo mutata et
olim 435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates
Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor, Dixerat Aeneae^
cum res Troia?ia labaret^ Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis :
(1) « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae 440 Mentis
habes^ non tota cadet te sospite Troia. fiamma libi ferrumque
dabunt iter: ibis, et una Pergama rapta feres, donec Troiaeque
tibique Externum patria contingat am,ieius arvum, Urbem etiam cerno
Phrygios debere nepotes, 445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus
annis. Hanc aia proceres per saecula longa potentem^ Sed
doininam rerum de sanguine natus Tuli Efficiet. Quo cum tellus erit
u>sa, fruentur Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ».
Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae Mente mem,or refero, cognataque
moenia laetor Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos.
Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po- tenza
d'Augusto, come con analogo procedimento, nel (1) La sola
predizione che troviamo accennata, a proposito di Enea, nei poemi
omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302, 306-308), e fu
riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98). poema virgiliano la
dottrina pitagorica della metempsicosi è assunta quale mezzo artistico
per la predizione della futura grandezza di Rom3. Nei pochi
versi che seguono (453-478) Pitagora finalmente ritorna al punto di partenza e
conchiude : « Poi- ché tutto cambia, poiché al termine della vita la
nostra anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia- mo
le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia- mo scorrere il
sangue di nostri congiunti ? » . Analizzato così il contenuto della
esposizione ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale
sia stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.
Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa domanda noi possiamo
rispondere negativamente senz' om- bra di esitazione : la vita e
l'operosità poetica di Ovidio, anche nel periodo posteriore alla composizione
delle Me- tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con
gl'inse- gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare
pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a quelle dottrine ; d'
altra parte Ovidio non ebbe certo tem- pra di filosofo né eccessivo amore
per le ricerche e spe- culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o
almeno una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia ci
sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua maggiore le ha
fatto così larga parte, con una esposizio- ne quasi sistematica, ma altre
volte ancora accenna ad essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni
versi delle Tristezze (1). (1) ìrist,, III, .3,
59-64: Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^
Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. E quasi certamente poi questa
predilezione del poeta si deve ritenere l'effetto della rinascita del
Pitagorismo, che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima
metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali traccie se ne
riscontrino nella letteratura dell' età di Ci- cerone e di Yarrone), e
che al tempo stesso del poeta fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che
Ovidio potè averne notizia sia dalle opere degli scrittori che
appartenevano alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva
voce e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci. Gli studiosi
infatti che, proponendosi la questio- ne delle fonti di quest'ampia
trattazione ovidiana del Pitagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter
quindi determinare il valore storico della trattazione stessa,
hanno riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere state
le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi- narum e sopratutto il
dialogo Gallus^ de admirandis) Nam si morte carens vacua volai
altus in aura Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis, Inter
Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^ Ferque feros manes kospita semper
erit. Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima
col corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga
alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi- rito,
immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri gì'
insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà costretta a
vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e- stranea tra feroci
anime di morti ». Il passo è importante, perchè mostra che, di fronte al
pensiero della morte, il poeta era in so- stanza ancora incerto fra
coloro che negavano e quelli che affer- mavano la immortalità
dell'anima. oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche
dei loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1). Sicché,
qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi, sta di fatto che le
fonti a cui Ovidio ha attinto non sono moìto anteriori a lui.
D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio, più poeta
che filosofo, non intese certo di trattar l'argo- mento con rigore di
metodo scientifico e filosofico, atte- nendosi scrupolosamente a questo o
a quell'autore ; ma che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e
che (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre che dei
ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se- guito soprattutto il
suo sentimento artistico, giovandosi della materia dogmatica nella forma
genuina soltanto nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera
sua e non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando di sua
propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo- strare, per esempio, che
certe intrusioni nel sistema pi- tagorico di principii appartenenti ad
altri sistemi — come a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono
affatto imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute negli
scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi- (1) Si
vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De Pythagora omdiano
\ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag. 100-107); A. ScHMEKKL, De
omdiana Pythagoreae doctrinae adum- hratione, Gryphiswad, 1885 e Die
Philosophie der mìttleren Stoa, Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove
sono modificate in parte le conclusioni dell'opera precedente); G.
Lafaye, op. cit., cap. X. (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La
dottrina pitagorica e la eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova,
1909 ripubblicato nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920,
p. 207; e per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^
Firen- ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. zione del sistema di
Pitagora acquista pertanto il valore di documento storico, in quanto che,
supplendo in parte alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito,
dovuta alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei
Sestii,^ ci mostra molto approssimativamente in che consistesse il
neo-pitagorismo romano. L'esame che abbiamo così compiuto della filosofia latina
dalle origini fino a tutto il secolo della sua maggior fioritura ci ha
dimostrato non solo che il Pitaorismo e nelle varie età di Roma abbastanza
largamente conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune
delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tramandate, come il sogno
di Ennio, il sogno di Scipione e il Canto VI dell' Eneide : sicché
dobbiamo concludere che nelle idee che quel sistema svolse era implicita
una grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.
Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono notevole influsso
nel sorgere delle più antiche istituzioni romane, e che contro di esse
mossero guerra invano l'arte titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di
Orazio, la forza politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il
sodalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo tenere per
certo che in esse fosse insita una grande forza di resistenza e quella
specie di malìa fascinatrice che suscita le pili alte energie morali. Se le
idee tanto piii valgono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna
e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita degli individui
e dei popoli, le concezioni pitagoriche, venute da sì lontane scaturigini
e assurte a così varie, molteplici, alte manifestazioni d'arte, di
pensiero, di moralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo
valore altissimo. Che se poi, uscendo fuori dai limiti del
nostro tema, pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al
loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis- situdini
del pensiero, ai loro successivo e alterno rina- scere con sempre
rinnovato vigore nei momenti di più intensa attività spirituale — nella
Magna Grecia con Pitagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi
teosofi neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in
Costantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ultimo rinascimento
con Giordano Bruno — e se riflettiamo che oggi ancora esse vivono nell'
Oriente asiatico, ope- ranti con la forza della fede in milioni di
coscienze, e che accennano per diversi segni, in questa nuova
prima- vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occidentale, noi
possiamo con sicurezza affermare che esse non furono apparizione fugace
ed effimera d'un pensiero individuale, ma parole di quel linguaggio
eterno che sgorga perenne dalle più profonde radici dell'anima
umana. (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un
magnifico libro di scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita
(Genova, Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale
del Mattino di Bologna. p: U P H O R B o s.
Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^ a. XXXIX, fase. 2
(marzo-aprile 1912) Genova. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. Pitagora
rincaraazione di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.
1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per Eùphorbos
figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver- so dell'antico
commediografo, che il Leopardi tradusse « muor giovane colui ch'ai cielo
è caro » ? Poiché ve- ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli
anni sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me- nelao,
dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo Patroclo, Eùphorbos
ebbe la ventura non solo di una spiritual vita immortale ne la
immortalità dell'Iliade, ma di lasciare altresì il suo nome, come ora
vedremo, legato per sempre al ricordo di un grande pensiero e di
una più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.
Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0- mero, la
figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto dell' antica gesta, nel
momento più acuto dell' azione guer- resca. Quando, per l' ostinato
disdegno di Achille , più grave è per i Greci il pericolo nella memoranda
giornata del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le
armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia, verso
l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad Ettore, che Apollo
protegge : in tre assalti egli ha uccisi « tre volte nove » nemici, ma al
quarto assalto un colpo del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia,
fatto cadere lo scudo, slacciata la corazza: II. XVI, 805
Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi e titubò. Di dietro
allor con la punta de l'asta infra le spalle, al dosso, Io colse da
presso un trojano, il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli
eguali con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi,
810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati venti nemici
avea, di guerra già prode campione. Primo ei vibrò con 1' asta un colpo
su Patroclo auriga ; ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la
mischia, tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro
815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1).
Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta, anco a 1' amiche
schiere traeva, fuggendo la morte. Ma com' Ettore vide dal ferro piagato
ritrarsi Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia, 820
presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse sotto a r
addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta. Quei con fragor giù cadde,
e grave fu il lutto de' Danai. (1) I versi 814-815 trovo
segnati come spurii nella quinta edi- zione del DiNDORF, curata dallo Hentze"
(Lipsia, 1890), sulla quale è stata condotta la presente traduzione. Ma
non mi pare ohe sia proprio necessario inquadrare fra parentesi i due
versi, così ome- rici pur nell'apparente disordine dei particolari
accennati : prima la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il
trarre dalle carni di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il
poeta (cantore in- nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1'
ardito colpo del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta
di Pa- troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere
an- cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla
fe- rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a
Patroclo, Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma il
caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto- ria non è stata
merito suo, sì degli dei: che lo hanno ucciso la Moira e il figlio di
Latona « e, degli uomini, Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente
per mano d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di
battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca di portare in
salvo il cocchio d'Achille. A guardia del cadavere di Patroclo si
fa innanzi l'A- tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo
davanti al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-
mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora Eùphorbos, il cui
intervento dà luogo ad uno dei piìi begli episodi della battaglia :
II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1),
s'avvide ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi
che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un
troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che non fosse
Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen- tare questa fuga
come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio di Panto, come
dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene- lao. Sicché non mi pare
corrispondente né allo spirito né alle pa- role del testo omerico la
traduzione che dà il Monti di questo passo: Anzi dal corpo
ricovrando il ferro Si fuggi pauroso, e nella turba Si
confuse il fellon, che di Patroclo Benché piagato e già dell'armi
ignudo Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150) (1)
L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta ha detto
che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia » (XVI, 809), e
che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806 e XVII, lo), come
con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo di Menelao (XVIi,
43-45). disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao : «
Menelao, divino germoglio, signor di gran genti, vanne, abbandona il
morto, qui lascia le spoglie cruento (1). Prima di me nessuno, fra'
Teucri o gì' illustri alleati, 15 giunse con 1' asta Patroclo, in
mezzo al furor de la mischia: lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito
onor fra' Trojani, che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro
». Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo : « Bello
davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi ! 20 Certo mai fu
sì grande '1 furor di pantera o leone di cignal feroce, a cui nel
fiorissimo petto gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande
possanza, qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !
Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse 25 di giovinezza
il fiore, allor che sprezzante affrontommi e disse me fra' Danai il più
dispregevol guerriero ! Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi
portato, ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti ! Così la
tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci, 30 rintuzzerò. Ma io
ancor ti consiglio a ritrarti dov'è folta la turba. Chi è saggio
prevede l'evento ». Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose
: « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta pel fratel
eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando - 35 e nel segreto
talamo tu n'hai vedovata la sposa, e i genitor nel lutto e in muto
cordoglio gittasti ! Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una
tregua, se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja, fra
le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide! 40 Ma non più a
lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi s' io m' abbia saldo il
core o pieno di vile paura ». Detto così, die un colpo nel tondo perfetto
suo scudo, ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta
nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta (1) Le
armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo, giacevano in
terra poco lungi dal cadavere. l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove
padre, e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del
collo; dentro spinge con forza calcando la mano pesante, e
dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta. Cadde, die un tonfo e V
armi su lui con fragor risonare ; 50 s' insanguinar le chiome, che
simili aveva a le Grazie, (1) i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro
e d' argento. Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre in
solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di
rigoglio, e poi, come l' agita il soffio 55 di tutti i venti, un
velo di candidi fior lo ricopre, (2; ma piombando improvviso un vento con
turbine grande dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;
tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo l'Atride Menelao
uccise e spogliava de l'armi, 60 Come — allor eh' un robusto leone
cresciuto fra' monti * da pascolante gregge rapì la giovenca più
bella, Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^
co- me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando
Pin- daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con
lun- ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella
let- teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e
Stesicoro, fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si
veda in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa
dire a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: «
e « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si- «
mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in- «
trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi- «
dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII). (2)
Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta- gione di
primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante s' incurvano
bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro fioritura annuale ;
anzi parmi che accenni qui proprio alla prima fioritura* del
bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian- ta, cosi come
l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet- to forte ed
ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che già s' intesseva
intorno al suo capo. ] cui la cervice infranse tenendola forte co'
denti, poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —
intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono 65 cani, villan,
pastori, ma farglisi presso ad alcuno non regge il cor, che tutti li fa
scolorir la paura; così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì
ardita, eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,
E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi di Eùphorbos,
se non glielo impedisse Febo Apollo, il quale, presentatosi ad Ettore
sotto 1' aspetto di Mente, lo consiglia a desistere dall' inutile
inseguimento dei cavalli d'Achille e ad accorrere invece là dove
or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo, 89 corso a
difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani, il Pantoìde Euforbo e
spento n' ha il valido ardire. Ettore infatti, pronto, si fa largo
tra le schiere, vede r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro
disteso in terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe
fulmi- neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,
non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il corpo di
Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare qualcuno in soccorso.
Così egli non ha potuto neppure portar via con sé sul suo cocchio la
preziosa armatura; della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più
tardi, quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi
entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso trofeo di guerra
che avrà riportato con se a Micene. Ma Eùphorbos, morto di così
bella morte e glo- rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque
per avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere non
meno belle e gloriose? Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno
traman- dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola
italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi- cosi, «
nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di « bronzo, disse che quello
portava e gli era stat^ tolto « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli
Argivi, « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome «
d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero (//. XVII, 28) e così
altri, fra gli antichi scrittori, ricor- dano accennano la cosa. Chi non
rammenta infatti, tanto per citare i piìi noti, quella famosa ode
d'Archita, dove Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia,
che « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso «
all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece « staccare, data
testimonianza dei tempi della guerra troja- « na, non avesse concesso
alla nera morte niente più che « i nervi e la pelle? » (1) Il buon
Orazio, tra scettico ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella
me- tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2) Anche
Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi fa esporre da Pitagora
stesso le sue dottrine, lasciò espli- cito ricordo della tradizione,
facendo dire al filosofo : Ben io — sì lo rammento — nei dì della
guerra di Troja ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel
petto (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :
habentque Tartara Panthoiden iterum Orco Demissum,
quamvis clipeo Trojana refixo Tempora testatus, nihil ultra
Nervos atque cutem morti concesserat atrae. (2J Id. Epod. VI, 21: «
nec te Pythagorae fallant arcana renati » ] la grave lancia
infissa, per man .del più giovine Atride, Riconobbi lo scudo, che
già la sinistra mia tenne, or non è molto in Argo nel tempio
sacrato di Giuno ». (1) E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico
Por- firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie
intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava « a molti di
quelli che si recavano da lui la precedente « vita che 1' anima loro
aveva vissuto già un tempo pri- « ma di essere legata nel corpo d'
allora. E di sé stesso « rivelò con prove indubitabili d'essere stato
Euphorbos « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa-
« gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza: 50 s'
insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie, i caj)elli ricciuti,
eh' avvinti eran d'oro e d'argento. Come talora iTn florido arbusto
d'ulivo si nutre in solitario loco, allor che molt' acqua vi
sgorghi, bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio
55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, ma
piombando improvviso un vento con turbine grand® dalla fossa lo schianta
e a terra disteso lo abbatte ; tale di Panto il figlio, esperto ne 1'
asta, Eiiforbo r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.
< Poiché quel che si racconta dello scudo di questo « Euphorbos
frigio, che si trovava in Micene, nel bottino (1) Ovidio,
Metamorph. XV, vv. 160-164: Ipse ego — nam memini — Trojani tempore
belli Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam Haesit in
adverso gravis basta minoris Atridae. Cognovi clipeum, laevae gestamina
nostrae, Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis, « trojano dedicato
a Giunone Argiva, lo passo sotto si- « lenzio come cosa ben nota »
(1). La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi.
Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e semplice ?
Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem- mo evidentemente pensare a
qualche discepolo o seguace del Maestro, il quale, per confermarne meglio
la dottrina della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la
storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne autore lo
stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da quel che abbiamo udito or
ora narrare da Porfirio, che il filosofo, appassionato lettore d' Omero,
recitava e can- tava spesso i delicati e soavi versi della morte d'
Eùphor- bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più
semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan- tasticando in
ipotesi — credere senz'altro alla concorde testimonianza degli antichi.
Vi è forse nella cosa alcun- ché che trascenda i limiti della credibilità
e della vero- simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla
metempsi- cosi, e non era anzi questo il pernio della sua
psicologia e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-
culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi seguaci ? Dunque
e ben possibile che egli, il quale aveva virtù taumaturgiche (tanto che
nella sua vita il meravi- glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^
egli, che tante profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi
viaggi in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche
magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-
(1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei
Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo, questi
si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».
ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal corpo ed
estasi vere e proprie — , credesse di leggere nel suo passato la storia
della propria anima e ne desse notizia ~ se non proprio alle turbe — agi'
iniziati della sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno
dei quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me r
attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven- tivo di qualche
zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite anteriori non ha nulla di
inammissibile e di men che credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse
potuto aggiunge- re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o
ma- gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine prima di
siffatti racconti si può proprio far risalire allo stesso Maestro. Il
quale dunque potè realmente dire e naturalmente anche credere — poiché
non é ammissibile la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita
fu tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato
Eùphorbos. Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi accettiamo
per vero quello che 1' antichità concorde ci ha tramandato, che cioè
Pitagora credette e diede a credere di essere stato il giovinetto figlio
di Panto, ne verrebbe di conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella
realtà storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia d'
Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que- sto ? Chi mai dei
Greci del sesto secolo avanti Cristo — per non dire di quelli dei secoli
posteriori - - non credette nella realtà della guerra trojana, e dubitò
della esistenza di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse,
di Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e
dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui- stione
omerica erano nate ancora, e Federico Augusto Wolf doveva tardare ancora
ventiquattro secoli a nascere e a lanciare pel mondo la stupefacente
teutonica mostruo- sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! Di Pitagora gli
''antichi conobbero anche altre incarnazioni, anteriori e posteriori.
Soggiunge infatti Por- firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere
già vis- « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù-
« phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro « e allora
Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è « immortale e riesce, in chi
sia purificato, a ricordarsi « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene
Laerzio ci ha conservato in proposito una testimonianza — che
risali- rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-
sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di Porfirio non solo
perchè fa di Eùphorbos la seconda in- carnazione, essendo stata la prima
quella di Etalide, ma anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza
incarnazione), anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che
sarebbe (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo
~ anche in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di
nega- zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come
possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti
del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si mosse
sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup {Ornerò^
Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in Agamennone,
Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e in altre figure dell'
epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli rimangono però gravi dubbi
sulla realtà storica della spedizione contro Troja (p. 231 e seg.).
(2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,
come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit. dio.
36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24). inoltre stato appeso nel
tempio di Apollo a Branchidas, e non a Micene. Ma ecco senz' altro le
parole di Laerzio : « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava
di « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her- « raes
(1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che « volesse, tranne F
immortalità : onde egli chiese il dono « di conservare da vìvo e da morto
il ricordo di tutti « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di
tutto, « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria. « Che
in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me- te nelao ; ed Euphorbos
diceva d' essere stato un tempo « Etalide e di aver avuto da Hermes quel
dono e ricor- « dava le trasformazioni dell'anima com'erano
avvenute, « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e «
che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte « attenda le
altre anime. E che quando Euphorbos morì « la sua anima passò in Ermòtimo,
che alla sua volta, « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a
Bran- « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo «
che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re- « stando solo la
parte esterna d'avorio (2). E che quan- ti) Dobbiamo forse
in questa ipotetica discendenza da Hermes, il dio dei misteri, vedere
significata la iniziazione di Pitagora alle dottrine ermetiche? Mi par
probabile; se pure non dobbiamo vedere in ciò, come noli' altra comune
tradizione che faceva di Pitagora un « figlio d'Apollo », delle
espressioni del linguaggio mistico fraintese. (2) Pausania,
nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion di Micene, dice ben
chiaro che nel pronao del tempio, a destra, dov' era la statua della dea,
vi era « anche appeso in voto uno scudo, quello che Menelao già tolse ad
Euphorbos in Ilio ». (De- scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché
sappiamo che Pausania descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto
coi suoi occhi « do
Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ; « e di nuovo si
ricordava tutto : come fosse stato prima « Etalide, poi Eùpborbos, poi
Ermótimo, poi Pirro. E « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si
ricorda- « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a
sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis- suti fra il
quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb- bero lasciato scritto che
Pitagora rivisse ancora altre tre volte, come Pirandro, come Calliclea e
finalmente come una bella etera chiamata Alce (2). E così r
anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte- e avendo sperimentato,
chiusa nel carcere corporeo, le più varie condizioni d' esistenza, sarà
essa — dopo aver compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino
-— tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer- sale ?
(3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma- na carne,
indefinitamente, secondo la favola di Luciano? (tanto che
una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta delle famose tombe
dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto quell'antichissimo logoro
avanzo, o una copia in bronzo fattane fare di poi, o addirittura un
qualunque scudo che i sacerdoti del tempio vi abbiano appeso in tempi
tardivi a ricordo e testimonianza dell'antica notissima tradizione?
Pausania in ogni modo visse nella 2^ metà del secondo secolo dopo
Cristo. (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5. (2) Gellio,
Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero « ipsum, sicut celebre
est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita « haec remotiora sunt bis,
quae Glearchus et Dicaearchus memo- « riae tradiderunt, fuisse eum postea
Pyrandrum, deinde Callicleam, « deinde feminam pulchra facie meretricem,
cui nomen fuerat « Alce ». (3) Se, come è probabile, Platone
ha desunto dal Pitagorismo i principii a cui informa la teoria delle pene
d' oltretomba nel De republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva
commesso ingiu- « Lungo
sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo- « sofo (Pitagora redivivo
anche questo!) — in qual forma « r anima mia venisse via da Apollo
volando, ed entrasse « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal
guisa... « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi «
ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare « in Pitagora ; ma
fra 1' un tempo e V altro non ebbi « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi
apparecchiasse « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di
Pitagora « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di
« Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo « Aspasia qual uomo
o qual nuova donna diventasti? — « Grate, cinico. — figliuolo di Giove,
qual differenza! « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un
po- « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc- «
chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte. « Ma sopra
tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le stizia verso un
altro doveva subire dieci volte quella medesima ingiustizia e occorreva
quindi lo spazio di dieci vite per scontare le colpe della prima —
bisognerebbe veramente ammettere (s' in tende bene, dal punto di vista di
Pitagora e della sua dottrina) almeno altre due vite. — - Per il luogo
platonico e le relazioni che esso può avere avuto con il dogma cristiano
della resurrezione si veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna
Contemporanea del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^
II, pa- gina 199). (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui
Luciano sorvola sul- le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove
{Vera Historia^ II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne
(nella città di « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che
allora aveva « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite,
compiuti i sette « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato
destro. Fu de- « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva
se chia- « marlo Pitagora od Euforbo ». « altre amatissima)
servendo ad altri molti, a re, a pove- « relli, a ricchi uomini; e
finalmente vivo in tua compa- « gnia, facendomi beffe cotidianamente di
te, che ti que- « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi
perchè « non sai i mali che comportano... » (1). E con
l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu- dere questa singolare
istoria d' Eùphorbos figlio di Panto, il quale fu veramente molto caro ai
celesti. (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la
traduzione di Ga- sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo
dialogo. Il no- stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su
Eùphor- bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque
indice delle opere di Luciano. IL SODALIZIO PITAGORICO DI
CROTONE. Edito dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna.
Tradotto e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi.
XXXVII, n. 219-20 (nov.-dic. 1905). Oggetto del
presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So- dalizio pitagorico.
— 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du- rata. — 5. Suo ordinamento.
— 6, Natura degl'insegnamenti che vi si impartivano. — 7.
Conclusione. L — Una tradizione che fu diffusa e concorde
nel- r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-
smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato nelle regioni d'
Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in Caldea, nella Persia, nell'
India e in particolare nell' E- gitto — e ^ver presa quivi conoscenza
delle dottrine se- grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano,
proprio nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse
(604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1) venne a Crotone,
una delle più fiorenti fra le città della Magna Grecia, dove, acquistato
subito largo seguito di ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di
questo ap- punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la
costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose e
particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta.
(1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G. De
Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904, 22 ediz.
1919). che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio
(1), Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4),
nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori, delle quali poi
si servirono, in misura piii o meno larga, con criteri più o meno
discutibili, gli storici moderni del- la filosofia greca in generale e
del movimento pitagorico in particolare, come il Krische (5), lo
Chaignet, il Cen- tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré
(6) ed altri. 2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la
tradizione con- corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.)
o poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom- pagnato da
numerosi discepoli che ve lo seguirono da Samo (8), cominciò a tenere in
pubblico discorsi tali da conquistare subito la simpatia degli uditori,
accorrenti in gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9),
che (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e.
I. (2) De vita Pythagorae. (3) De pythagorica
vita. (4) Stromat. libri, passim. (5) De soeietatis a
Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae scopo politico commentano^
Gotting, 1831. (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed.
ital. (Bari, Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e
192. (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all'
anno della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall'
Ueberweg, Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.
I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto all'
arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi si trovasse
già. (8) GlAMBL. 29. (9) V. Porfirio /. e. 20, che
riferisce la notizia da Nicomaco e Cfr. GlAMBL. l. e. 30. predicava
verità non mai udite prima d'allora in quella regione e da quegli uomini.
Accolto con molta deferenza tanto dal popolo quanto dalla parte
aristocratica, che al- lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo
su- scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira- tori
un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion od uditorio comune (1) —
nel quale egli potesse inse- gnare comodamente le sue dottrine ed essi
ridursi a vi- vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la
troviamo presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-
colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai giovani che vi
si trovavano suscitandone l' ammirazione (2), del che venuti a conoscenza
i magistrati e i senatori avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo
anch' essi ; ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi
ottenne tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico il
suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron- tamente, mossi
dalla fama, subito dilBFusa per tutto il paese, della grande austerità d'
aspetto, della dolce soavità d'eloquio, della profonda novità di
ragionamenti del fo- restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo
che egli potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi
(1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con
quella che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa
cristiana. (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di
questo di- scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento
esso- terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito
dallo Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi
pare sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso
ri- ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato
dal secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo
co- nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ». si
allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre- cia e nella
Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca- tania, ad Imera, a
Girgenti; dalle colonie greche, dalle tribù italiche dei Lucani, dei
Peucezi, dei Messapii ed anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di
ambo' i sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,
Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2), sì che per
merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque r ordine, la libertà, i
costumi e le leggi (3). In questo modo, dice il Lenormaiit (4), « egli
potò giungere a rea- lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in
unione nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la
diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro ò
inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi- tagora nella sua
azione e nella sua predicazione non fu politico nazionale, ma
essenzialmente umano. Forse, ag- giunge un altro scrittore (5), non fu
estranea all'acco- glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui
riportato, una persona con la quale egli doveva essersi trovato in
rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero- tonese Democede.
Ma senza dubbio, più che a conoscenze personali, l'approvazione ottenuta
da Pitagora in Crotone e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna
Grecia (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc. (2) V.
Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf. 21 ; GiAMBL. 33,
104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod. XII, 20.
(3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132, 214;
Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4; Dione Crisost.
or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776. (4) Op.
ciL, V. I, p. 75, (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^
(Torino, 1889Ì p. 465. furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù
intrinse- che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall'
al- tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-
tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni moto idealistico
trovò sempre fra loro un generale e pron- to assenso e un gran numero di
seguaci, sia nei tempi più antichi, sia durante il medio evo e nell' età
moder- na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno sta
la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita- goriche, che
furono accettate quasi universalmente : tanto che molti (2), i migliori
per intelligenza e per elevatezza morale, presi d'ammirazione per la
profonda scienza del Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di
penetrare più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,
di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren- sione, si
ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti- rati nella sua orbita
d'azione e di pensiero da quella spontanea simpatia che hanno sempre
esercitato sugli al- tri tutti i grandi apostoli dell' umanità.
Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto
(1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-
valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-
chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II). Del resto
il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me- ridionale, (di
dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuovo splendore nei sec. XYI e
XVII con la Scuola di Bernardino Telesio, dalla quale uscirono, fra gli
altri, il Campanella e il Bru- no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^
Torino, 1888 pp. 124 sgg. (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta
che più di duemila cit- tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell'
Homakoeion e vis- sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti
dati loro dal filosofo, che veneravano come un Dio. l'accesso
a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla sua filosofica famiglia
il Maestro diede quel medesimo or- dinamento che aveva forse visto
attuato nelle scuole del- l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s'
è accennato, egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.
L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione, un'accademia
scientifica e una piccola città modello, sot- to la direzione d' un
grande iniziato ; e per mezzo della teoria accompagnata dalla pratica,
delle sciq^ze unite alle arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza
delle scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel-
letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come l'arcano della
filosofia e della religione. La scuola pita- gorica ha perciò
un'importanza assai grande, perchè fu il piti notevole tentativo d'
iniziazione laica : sintesi an- ticipata dell' ellenismo e del
cristianesimo, essa innestò il frutto della scienza sull'albero della
vita, e conobbe quin- di quell'attuazione interna e viva della verità che
sola può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im-
portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2). 3. —
Secondo che fu data maggiore importanza all'uno all'altro degli elementi
costitutivi della dottrina pita- gorica alle forme e agli effetti
esteriori di essa, diverso (1) Sulle donne pitagoriche
sarebbe opportuno e desiderabile uno studio, che darebbe certo gran luce
su molti fatti. Ad esse era impartito un insegnamento particolare ed
avevano iniziazioni pa- rallele, adattate ai doveri del loro sesso.
Giamblioo, op. eit. 267, dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid.
30, 54, 132; Dioo. Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op.
cit. pa- gine 379 sgg. (2) ScHURÈ op. cit. p. 314. e il
criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per quali intendimenti
il filosofo avesse voluto creare questo Sodalizio. Alcuni non
ne videro che l'intento politico; così, se- condo il Krische, « la
società ebbe meramente lo scopo di restaurare, consolidare e. accrescere
il potere decaduto degli ottimati e, subordinati a questo, due altri
scopi, uno morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-
bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg- gimento della
cosa pubblica, non abusassero del loro po- tere con l'opprimere la plebe,
e questa comprendendo che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta
al suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si
accingessero al governo dello Stato, perchè non si può aspettare un
governo buono e sapiente se non da chi sia colto ed erudito » (1). Ora
quanto sia incompiuta ed im- perfetta questa opinione del Krische
apparirà dal seguito del nostro studio. Gli intenti del riformatore non
furono politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;
né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o alla Magna Grecia,
sibbene ^Wuomo in generale ; il con- tenuto politico che esso poteva
avere era quindi appena una parte, e neppure la principale, di un
larghissimo sistema scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo
scibile. Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-
(1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d.
scienc. etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di
Roma antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte
tendenze « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici »
(?), « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare
la « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei «
della classe servile ecc. » ! rebbe l' indirizzo fisico e matematico
della scienza pitago- rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche
intorno a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato, il
teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1). In realtà
egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu- mi i suoi discepoli,
sia impartendo loro una cultura e una scienza univ ersale, sia facendo ad
essi praticare la più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni.
Con questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile e
umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente e largamente i
cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni discepolo portava poi
necessariamente fuori della scuola, nella sua vita domestica € pubblica,
la moralità e la dot- trina in quella acquistata, diffondendola con la
parola e con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in
conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un mutamento anche nel
governo della città, per il fatto che i primi ad approfittare e a .far
tesoro delle nuove dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati,
questi direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente, se
erano privati cittadini, dovettero portare nel governo un nuovo indirizzo
razionale e una più rigorosa moralità. L' alleanza quindi fra il
Pitagorismo e l'aristocrazia, come osserva ancora lo Zeller, fu non la
ragione, ma l'effetto dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a
sé i migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-
me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non vogliamo anche
affermare che il suo indirizzo religioso, etico e scientifico sia stato
una conseguenza della posi- ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili,
6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D. PhiL d, Oriech. P p. 328. zione che
i pitagorici presero nel campo politico ; perchè invece fu proprio il
contrario. Assai diversamente giudicò la natura della società
pi- tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso ed
esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante, poiché i suoi membri
attivi avevano appunto 1' ufficio di influire nel governo e sul governo,
mentre i contempla- tivi attendevano agli studi; proprio come nella
organizza- zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici
presentano una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci
del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo d'uomini, di
fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli- giose del Maestro, il suo
canone etico, i suoi germi (? !) d' una idea scientifica e manifestarono
la loro adesione con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi
è appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la mano
all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio in Pitagora, esso
costituiva anzi il pernio di tutto l' in- segnamento esoterico, e il
punto di partenza della mera- vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava;
ma non si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-
nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì bene di
quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in Oriente e in Grecia si
insegnava nei Misteri e nelle scuole filosofiche, unica nella sua
sostanza — benché diversa nelle forme e nei simboli esteriori — perché
dovunque derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,
fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla- bile
esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla (] )
Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi- los, I, p.
365 sgg. 192 setta gesuitica, è un
errore, che dimostra in chi ha po- tuto fare simile raffronto ben poca
penetrazione nello spi- rito che informava quell' antichissimo istituto ;
è un giu- dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne
gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi- sare infine
l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo- stoli che r umanità abbia
avuto. Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in
quan- to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in-
tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto e compiuto,
perchè rispondente a tutti i dati di fatto la- sciatici dalla tradizione,
è quello che del Sodalizio diede uno storico italiano, il Centofanti, col
definirlo una So- « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare
le « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare « una
parte nobilissima e meritata nel governo della cosa « pubblica, coltivava
ancora le scienze, aveva uno scopo « morale e religioso e promoveva ogni
buona arte a per- « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto
larga « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con lui si
accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel- ler (4), per il quale
la scuola si distingueva da tutte le associazioni analoghe « per il suo
indirizzo morale » pog- giato su motivi religiosi or guidato da sani
metodi d'edu- cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi
scris- se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro «
d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una (1)
Op. Git. l, p. 83. (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La
Letteratura greca (Fi- renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.
(3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98. (4) Die Philos.
der Orieehen V" p. 328.
« nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi- «
tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va intesa come
relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come ho detto sopra, il fondo
esoterico della dottrina aveva ori- gini assai remote. Se
tale era dunque l' intento della Società pita- gorica, se al di sopra di
ogni altra considerazione il grande di Samo pose quella di riformare
interiormente gli uomini e con ciò di modificare anche — necessariamente
— le condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli
mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in- teriore e non
sulle pratiche esterne del culto, alle quali ben raramente ed in pochi
corrisponde un'adeguata cono- scenza e persuasione, e che perciò
acquistano un valore di mera superstizione e di vuoto formalismo
dogmatico, era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-
scitare i timori degli elementi conservatori della società crotouese ed
italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari- stocratici ignoranti che ne
erano stati esclusi per deficien- za intellettuale e morale, e dei
sacerdoti che vedevano allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi
sfuggire al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della
gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge- re, dovevano
purtroppo trovare, come sempre, facile cre- dulità nel volgo e pronto
aiuto in tutti coloro che dalle nuove idee vedevano lesi o minacciati i
loro interessi per- sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo
mo- vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi- co e
sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de- (5)
Qeseh. d, Alter. VI, p. 636. 13. bolezze, della
violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti e fautori della Società
avranno ben tosto cercato di trarre partito, mettendole in rilievo, gli
avversari delle nuove dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da
nessun au- tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene,
aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua inettitudine
non potè essere ammesso a far parte del So- dalizio interno, e che « pien
d' ira e di corruccio » co- minciò a brigare fra i malcontenti, a
spargere voci calun- niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1'
azione segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-
sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra- vemente offeso
e dalla certezza di essere spalleggiato da molti. Egli in questo modo,
favorito com' era anche dalla sua elevata condizione sociale e dalle idee
democratiche, allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe
abil- mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano dei
Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon- dendosi fra il
popolo, facilmente ingannato dalle apparen- ze esteriori sotto alle quali
non vedeva altro che mistero, dette poi luogo ad una vera e propria
sommossa contro il filosofo ed i suoi seguaci. Così che, se il moto
fu effettivamente moto di popolo contro il reggi- mento arivStocratico,
l'ispirazione tuttavia venne dalla parte meno buona dell' aristocrazia e
dal sacerdozio ufficiale (1). Un decreto di proscrizione bandì senz'
altro Pitagora, die, dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a
Locri, fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do- po ;
ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- V. in proposito ciò
che dice con molta verità il Centofanti, op. cit. p. 4l6 sgg.
rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e profughi
nelle terre vicine. La durata del Sodalizio fu dunque assai breve,
di non pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell'
insegna- mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-
coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata religiosamente e
religiosamente trasmessa di generazione in generazione dagli eletti a cui
fu affidato via via il sa- cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle
dottrine esoteri- che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in
pic- cola parte poterono conoscerle. Nel sodalizio si distinguevano
due classi di adepti; quella degli ammessi ad un grado di iniziazione
(disce- poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici
uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro volta in
varie classi, forse in corrispondenza coi diversi gradi, (pitagorici,
pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e discepoli diretti del Maestro,
era fatto l'insegnamento eso- terico segreto; gli altri potevano
assistere solo alle le- ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente
morale (3), e (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che
\q sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel
suo secolo; certo per la congiunzione loro coi posteriori istituti
pitagorici. V. Cen- TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis,
op. cit. p. 466. (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e
noli' Italia me- dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento
filosofico. La repubblica utopistica di Platone come quella del
Campanella ripro- ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu
realmente praticato neir istituto Crotonese. !3; V. Clem.
Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ; PoRF. 37 ; GiAMBL. 72,
80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil- LOisoN, Anecd. II, 216. -
Secondo uno scrittore dal quale attinse 19t)
non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come dice la
tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die- tro un velario che lo
nascondeva ai loro occhi. Prima di ottenere l'ammissione non solo
ai gradi d'i- niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire
prove ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non ogni
legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut- to, come ci narra Aulo
Gelilo (1), un esame fisionomico che attestasse della buona disposizione
morale e delle attitudini intellettuali del candidato (2); se questo
esame era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla
moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era ammesso
senz'altro e gli era prescritto un determinato periodo di silenzio
(echemythia), che variava, secondo gli individui, dai due ai cinque anni,
durante i quali non gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da
altri, senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In
questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e severa disciplina
delle passioni e dei desideri praticata per mezzo di prove assai
difficili, prese dall'iniziazione egiziana, consisteva il noviziato
(parashevé). a cui erano Fozio (Cod. 349), gh adepti erano
distinti in Sebastici, politici, matematici, Pitagorici, Pitagorei e
pitagoristi ;. e lo stesso scrittore aggiunge che i discepoli diretti di
Pitagora erano chiamati pitago- rici, i discepoli di questi pitagorei e i
discepoh essoterici o novizi pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455
sg., 756 sg., 823 sg., 966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola
pitagorica erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed
a ra- gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi
o discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di
pri- mo grado. (1) Noci. Att. I, 9. (2) OmaiNE fa
Pitagora inventore della « fisionomica ». sottoposti gli acustici.
Costoro appena avevano imparato, col lungo tirocinio, le due cose piti
difficili, cioè l'ascol- tare e il tacer e, erano ammessi fra i
matematici (1) e allora soltanto potevano parlare e domandare, ed
anche scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen- te
la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad accrescere la
potenza delle loro facoltà psichiche, la loro sapienza si faceva a grado
a grado più elevata e più va- sta, sino a giungere all'intelligenza deìV
Essere assoluto, immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava
a questa che era la più alta cima della speculazione filo- sofica,
e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso- terico, otteneva il
titolo corrispondente a questa inizia- zione epoptica, cioè il titolo di
perfetto (teleìos) e di ve nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per
eccellenza nomo. L' obbligo essenziale che si imponeva agli
adepti era quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli
altri, senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per- sino
i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche cosa agli
estranei, erano espulsi come indegni di appar- tenere alla Società e
considerati come morti dagli altri confratelli, che innalzavano ad essi
nell' interno dell' isti- (Ij Così chiamati dalle discipline
che professavano, cioè la geo- tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la
musica ed altre d' ordine superiore, per mezzo delle quali si elevavano
alle più sublimi ed eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla
medicina v. E- LiANO, Var. Hist. IX, 22. (2) V. Tauro pr.
Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II, 15; Clem. Strom. V, 580 A;
Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel. 71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De
an. D 5 b; Luciano, Vii. auct. 3; Plut, De curios. p.
309. tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale
quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu- stodire il
segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2). Allo stesso modo era
considerato come morto chi, pur avendo dato buone speranze di sé e della
sua elevatezza spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto
che aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò bene
notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun- ghezza del tempo di
prova che precedeva il passaggio da un grado a un altro aveva appunto lo
scopo di rendere impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le
de- lusioni. L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la
ricevuta iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.
Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non sapessero
rinunziare interamente al mondo o per altre (1) A questo
proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D), che riferisce una
tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap- punto dell' avere fatto
conoscere la dottrina segreta del Maestro con un suo famoso scritto in
tre libri, del quale ci parlano anche Diogene Laerzio (VITI, lo) e
Giamblico (199), fu cacciato dalla Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn
III, p. 142 e II, p. 67 Can- tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet.
I, 2. (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1;
PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg., 246
sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr. Menagio in
DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma- zione di Neante
su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso scrittore e di
Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl- lia e Timycha
sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si tagliò la lingua,
piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra- gione dell'astinenza
dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af- ferma che Empedocle e
Platone furono esclusi dall' insegnamento pitagorico, perchè accusati di
« logoklopia ». ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che
natural- mente informavano ai principii morali e alle conoscenze
acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola il bene a cui
l'insegnamento appunto mirava. Erano questi i membri attivi^ di cui ci
parlano alcune testimo- nianze; gli altri invece, gli speculativi^
vivevano sempre nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre
pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so- pratutto a
far scomparire ogni forma di egoismo e di orgoglio individuale, era
praticata un'assoluta comunione di beni. E non è poi così strano da
doversene negare la verità (1), che uomini dati a speculazioni
filosofiche e re- ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme'
per uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per il
vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle loro idee. Che cosa
poteva trattenere i discepoli interni^ non legati più dai vincoli del
mondo, da questa comu- nione di beni ? E quanto agli esterni, non è
naturale pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore
acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse spontaneamente
tutte le sue sostanze, anzi tutto se me- (1) Secondo lo
Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr. Diog. X, Il e di TiMKO
di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche, secondo Fozio (Lex. y. v.
Koinà) introdurre da Pitagora la comu- nità dei beni fra gli abitanti
della Magna Grecia sono troppo re- centi. Ma cfr. anche gli Schol. in
Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e le testimonianze che troviamo in Dioo.
VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol. Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72,
168, 257 ecc. — Il Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa
tradizione sia stata una falsa (?) interpretazione della nota massima «
le cose degli amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si
pensi che non è neppur corto che questa massima appartenesse in
modo particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b
0). desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed
infatti noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni di
riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno- mone (4), incisi
sulle loro tessere, e la forma caratteri- stica del saluto (5) — dei
quali dovevano servirsi sia per conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda
nei loro bisogni sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti
di altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia come
nella Grecia e nell'Oriente (6). La vita che si conduceva nell'
istituto da quei disce- poli che vi rimanevano in permanenza ci e
sufficiente- mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per
le notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.
Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra- sgrediva mai (7);
il che si intende facilmente, se si pen- si che ognuna di esse aveva la
sua giustificazione razionale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte,
erano (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog.
Vili, 21. (2) GiAMBL. 238. ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole
di Aristofane 611, I, 249 Dind. (4) Krische l. e. p. 44. (5)
Luciano, De Salut.^ e. 5. (6) Per questo, e forse per altre
analogie (come quella delle a- dunanze notturne di cui ci parla Diog.
VIII, 15) si è paragonato da alcuno l' Istituto pitagorico con altre
società segrete dei nostri tempi. V. su questo proposito un cenno
fuggevole nel Dici, de biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41,
col. 243-244: « Les souvenirs de collège formaient sans doute pour les
pythagoriciens ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais
quelle société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ». (7) PoBF.
20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un libro sui prodigi);
Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256. date più in forma di redola o di
consiglio, che di vero e proprio comando (1). Di buon mattino,
dopo Ja levata del sole, i cenobiti si alzavano e passeggiavano per
luoghi tranquilli e silen- ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare
ad alcuno pri- ma di avere ben disposto il loro animo con la
medita- zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi in
luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi- ché ciascuno era e
maestro e discepolo (2) — e pratica- vano continuamente particolari
esercizi per acquistare la padronanza delle passioni e il dominio dei
sensi, svilup- pando in modo speciale la volontà e la memoria e le
fa- coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat- tava
peraltro né di mortificazione della carne e rinun- zia forzata ed
obbligatoria ai piaceri normali delia vita, ne di altre simili
aberrazioni fratesche e conventuali: Pi- tagora voleva soltanto che
ognuno si mettesse in grado di assoggettare il corpo allo spirito, per
modo che que- sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo
svolgi- mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto sano
e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru- mento perfetto quant'
er : possibile : onde gli esercizi gin- nastici d' ogni genere fatti ali'
aria aperta, e le prescri- zioni minuziose intorno all' igiene e
specialmente ai cibi e alle bevande. In generale i pasti erano assai
parchi, Il rispetto alia libertà individuale era una delle
caratteristi- che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo.
V. su tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque
insti- siuerit (1833). Anche questa era una sapiente e
razionale disposizione, abi- tuando i discepoli alla virtù
attiva. ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-
se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare inutiluiente
lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe cotte e crude, poca carne e
solo di determinate qualità ed animali, raramente il pesce e pochissimo
vino la sera durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere
ter- minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg- giate,
non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre,
e dal bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti
intorno alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a
discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia- no prescriveva,
di poesia e di prosa, e ad ascoltare della buona musica che disponeva gli
animi alla gioia e ad una dolce armonia interiore. Poiché « la musica,
onde tutte le parti del corpo sono composte a costante unità di
vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo- rale, e però
compieva i suoi effetti nell'anima perfetta- I
(1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle
carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria- no,
come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV a. C.) pr.
Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer- mare che tale dieta
fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al- trimenti non potremmo
spiegarci come mai alcune testimonianze parlino di certe qualità di carne
rigorosamente proibite. Probabil- mente P astinenza dalle carni e dal
vino ( quella delle fave pare fosse prescritta nel modo più formale e
categorico) fu un semplice uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di
manteaer sempre sve- glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur
conservandolo sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina
della trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto
; poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da
quel- lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della
sua derivazione dall' Egitto. mente disciplinata di ciascun
pitagorico » (1). Non man- cavano iiifìno, durante la giornata, alcune
semplici ceri- monie religiose, piii precisamente simboliche, che
servi- vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il culto
ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a cui doveva tornare —
secondo la dottrina mistica del Maestro — il principio animico e
sostanziale di ciascun individuo umano. Altre testimonianze
ci parlano di astensione dalla cac- cia, dell'uso di vesti bianche !2) e
di capelli lunghi (3). Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo
Zeller, non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è
contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano, moglie di Pitagora,
dalla quale questi avrebbe avuto piìi figli (5) ed alle altre ove sono
determinate le norme ri- (1) Cento FANTI, op. cit. p.
390. i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da
Nicomaco cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui
è forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non
parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;
Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32. (3)
FlLOSTR. l. C. (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e
Diog. Vili, 19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da
alcuni si affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore
carna- le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro
proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra- tica
liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci- tato è
detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si abbandonasse a
pratiche sessuali » . (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a;
Diog. Vili, 42; Porf. 19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0,
p. 204; Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ;
Stob. Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270
(Stob. Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12. guardo al
tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1); e contrario poi — ciò
che è piìi importante — allo spirito della dottrina del filosofo, per il
quale la famiglia era sa- cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati
con molta precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento
fatto alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere che
una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti interamente alle
speculazioni filosofiche ed agli studi, cre- dettero forse di trovare nei
vincoli di famiglia un osta- colo alla libertà dei loro studi e delle
loro meditazioni. 6. — Queste, in breve le notizie che ci restano
della storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.
Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab- biamo dunque
veduto che esso era duplice e che per essere ammessi a quello chiuso o
segreto era necessario aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di
esserne de- gni e di avere tutte le attitudini necessarie a
riceverlo. Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto
del- l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim- bolismo
e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente morale. Abbiamo
anche accennato che i discepoli esote- rici erano iniziati gradatamente a
forme sempre piìi ele- vate di conoscenze — teoriche e pratiche — ,
nascoste sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da
ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio che, conosciute dai
profani, non rivelavano per nulla il loro senso riposto e metaforico (2).
Con ciò si voleva evi- I (1) DioG. vili,
9. (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo, uno dei
precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cortare il pericolo
che conoscenze d'ordine superiore fossero date in balia a menti inette a
comprenderle, le quali, appunto per questo, le divulgassero poi con
restrizioni, limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro
intelligenza inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo
sulle dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-
terio usato neir impartirle era dunque che « non si do- vesse dir tutto a
tutti » e tale criterio — aristocratico nel senso più ampio e più bello
della parola — del pro- porzionare le conoscenze alla capacità
individuale, non può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia
e di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni tempo
che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via perduto, col troppo diffondersi,
gran parte della loro per- fezione primitiva ed abbiano finito o con V
andare sog- gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti
od anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale, pur
conservando le manifestazioni esterne e i segni for- mali di esso ; in
secondo luogo non essendo mai chiesto all'individuo più di quello che le
sue facoltà naturali e le sue conoscenze effettive potessero comportare,
e lo svol- gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella
progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo i gradi della
superiorità loro nell' ordinata ed armonica conformazione della persona
umana, non veniva ad esse- re turbato in nessun momento quell'
equilibrio, nel quale sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini
di ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace
indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava
NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.
simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci. mai luogo allo
scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la vita era quindi sottoposta alla
legge d'un' educazione si- stematica e c(mtiuua, e delle attitudini
individuali face- vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante
quelli che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione.
Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi- ni era
legge suprema l' amore, e questo infatti regnava sovrano tra quelle
anime, avide soltanto di ben© e desi- derose di attuare quant' ò
possibile in questa vita quel- l'ideale di giustizia che è, attraverso i
secoli, la perenne aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell'
insegna- mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;
principio razionale e giusto quando corrisponda a una vera gradazione di
merito e di valore individuale, e per nulla insopportabile, quando
l'insegnamento sia animato vivificato dall' amore reciproco fra discepoli
e maestri, e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata.
Chi si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-
quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre nozione imperfetta
e inadeguata delle verità che impara, finche non sia giunto a
comprenderne per intero l'ordine necessario ; e le verità stesse,
imparate che siano, non sono mai sufficienti a costituire il sapere, se
non vi si unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché
non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es- sere intese da
tutti pienamente e ciò non di meno era necessaria la loro conoscenza,
anteriore a quella delle lo- ro ragioni intrinseche ed ideali, non era
possibile l'inse- gnamento di esse senza il principio d'autorità. E
d'altro lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-
rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse accompagnata
anche la persuasione, nata dal riconoscimento sperimentale di altre verità
prima soltanto apprese, era giustissimo il priocipio di coordinare
l'insegnamento teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano
volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati superiori
insegnavano in forma di precetti brevi, sempli- ci, facili, simbolici,
sìa perchè erano rafforzate dall'auto- rità suprema del Maestro da cui
derivavano, sia perchè gradatamente era anche insegnato a ciascuno il
metodo per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit era
pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la parola
dell'autorità razionale verso la classe non ancora condizionata alla
visione delle verità più alte e non par- tecipante al sacramento della
Società », mentre poi il vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto
la meritata ini- ziazione all'arcano della Società e della scienza
». Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva l'insegnamento
impartito con un metodo così rigoroso e prudente, quale era la nuova
parola che Pitagora portò fra quelle popolazioni, così piena di fascino
da persuadere tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e
a quale spirito era informato un. sistema educativo, che non solo
sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po- tere da trasformarne
la natura morale e tutta la costitu- zione psichica. Ma poiché questa
esposizione della dottri- na pitagorica è già stata fatta da molti),
basti qui il dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero
reli- [Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori di Centofanti
e ScHURÈ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte il necessario
corredo di prove e di testimonianze. gioso che la tradizione
leggendaria personificò in Orfeo, coordinava le ispirazioni orfiche in un
sistema vasto e compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimentale
e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta la vita, mirava a
perfezionare gli individui, non solo con l'approfondirne e l'estenderne
le conoscenze teoriche, ma anche essenzialmente con l'accrescerne a grado
a grado la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ottenuto
con lunghe e pazienti pratiche delle facoltà latenti del riposto ego
divino, principio sostanziale di ogni attività dell* uomo. Erano pratiche
magiche che si usavano del resto in tutte le scuole mistiche e che non
eccedevano, se non apparentemente e solo per i profani, i limiti della
natura; e chi abbia una conoscenza anche superficiale di questi studi sa bene
che la magia non era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni
ed esercizi particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di
queste pra- tiche V. Plut. Numa, Apul. De Magia; Porf.; GiAMBL., dove sì
parla di « antichi scrittori degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut.,
Euseb. pr. ev.; Aristot. p. Eliano, ecc. Inizii leggendarii e
storici. Quinto Ennio e i suoi tempi. Sette e scuole pitagoriciie in Roma. Pitagora
e le sue dottrine nei filosofi latini. Lucrezio e il poema « Della Natura ». Frammenti
della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Varrone. Appio Claudio Pulcro.
CICERONE e il Somnium Scipionis. Mimi. Orazio.Virgilio. Pitagora e le sue
dottrine nella poesia di Ovidio. Eitphorhos. Il Sodalizio pitagorico di
Crotone rigs pytagoreum pythagoreum Turis Turio fatto fatta persino e
persino permaneant permanont stituiti istituti Queste righe sono
rimaste inter nel testo, mentre andavano in i pie di pagina ist
isti per fra intellegibili intelligibili
»ultima Geory. Georg. ferun ferunt
prae vista praevisa aequo aeque
ilUis illis maior maiore Mullach Mullach ultima
Leipzg Leipzig (Centra Centra a
poco a poco a poco senza altro senz'altro Gianola. La fortuna de Pitagora presso i Romani
dalle origini fino al tempo di Augusto. Enrico Caporali. Keywords:
l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla
lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di
pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi
– filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone –
Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The
Swimming-Pool Library. Caporali.
Grice e Cappelletti: l’implicatura
conversazionale dell’entellechia – izzing and hazzing -- all’origine della
filosofia antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he
calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing –
I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle
on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to
us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero
dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself
in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it
all, and it shows!” -- Vincenzo
Cappelletti (Roma ), filosofo. Dopo gli
studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Consegue
la libera docenza in storia della scienza che insegna, per incarico,
all'Perugia, quindi, all'Roma La Sapienza dove consegue l'ordinariato; ha
successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino a quando
è andato in quiescenza. Collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di
Roma, fino a diventarne vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo,
direttore generale. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in
campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella
produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti
editoriali. Vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana,
carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De
Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui C. sarà appunto collaboratore. Già
condirettore della rivista di storia della scienza Physis e degli Archives
Internationales d'Histoire des Sciences, dirige Il Veltro. Rivista della
civiltà italiana (da lui fondata assieme a Ferrabino), nonché presiede la casa
editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari". Presidente
della Domus Galilaeana di Pisa e dell'Académie Internationale d'Histoire des
Sciences. Presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente
onorario dal ) e dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, commissario
straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente, promuovendone
il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre la
Società Europea di Cultura,il Centro Italiano di Sessuologia, la Fondazione
Nazionale "C. Collodi", il Consorzio BAICR-Sistema Cultura
(Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma), la Fondazione FUCI. Dottore
honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero
dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Riceve il Premio internazionale
Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è
insignito della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des
Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura
italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione
degli studi di storia della scienza. La
sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia
delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie
psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia
analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui
l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su
aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e
dell'Ottocento, fra cui Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Virchow, Helmholtz.
Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e
metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si
sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia
dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti
storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze
umane. Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo, Firenze, Tip. L'impronta,;
Atomi e vita, Bologna, Cappelli; Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche; Firenze,
G.C. Sansoni; Opere di Helmholtz, Torino, POMBA; Virchow Vecchio e nuovo
vitalismo, Roma-Bari, Editori Laterza; L'interpretazione dei fenomeni della
vita, Bologna, Società editrice il Mulino; Emil Du Bois-ReymondI confini della
conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo Feltrinelli; Freud. Struttura
della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza; Epistemologia, metodologia
clinica e storia della scienza medica, curati da C. e Antiseri; Roma, Arti
grafiche E. Cossidente; La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium;
Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini, Roma, Casa
Editrice Jouvence; Antropologia dei valori e critica del marxismo, Roma,
PWPA-Edizioni dell'Accademia; Alle origini della "philosophia
anthropologica", Napoli, Guida; De sedibus, et causis. Morgagni nel
centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana; L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove
opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro; Le scienze umane nella cultura e
nella società odierne, Edizioni Studium; Etnia e Stato, localismo e
universalismo, Roma, Edizioni Studium; Introduzione a Freud, Roma, Laterza; Filosofia
come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con
Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, L'Università e la sua
riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e
pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze
Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme
ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte, Roma; Notizie
bio-bibliografiche sull'autore si trovano in C., Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino; Appendice;
Cfr. C. "Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna. La maggior parte delle notizie biografiche qui
riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da Cimino per
l'Enciclopedia Italiana; Istituto Italiano di Studi germaniciHome page Società europea di Cultura; Cimino, C.,
Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
C., Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. italiana di Vincenzo Cappelletti, su
Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su
RadioRadicale, Radio Radicale. C. La nascita della Psicoanalisi. Aforismi,
storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola. Filosofia Filosofo Storici
della scienza italiani Roma Roma. Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια)
è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione
filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui
tende ad evolversi. La crescita di una pianta, con cui essa tende a
realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos,
che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di
«finalità interiore». Aristotele parla di entelechia in contrapposizione
alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a
partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne
come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è
quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi
proprie, passando dalla potenza all'atto. È noto infatti come, secondo
Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne
individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa
Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò
appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa
che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla
concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche
immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono
riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per
costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso.
Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in
Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna
animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e
armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del
mondo. Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione
neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni
"centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la
propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma
tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia
prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di
tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di
loro. Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta,
cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera
tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta
alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il
termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per
designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e
responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li
consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di
qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima); Così Plotino in Enneadi; Goethe,
La metamorfosi delle piante; Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il
saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki; Dizionario di
filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Entelechia, Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Entelechia, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton Company.Filosofia Portale Filosofia: filosofia Categorie:
AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a potenza
(δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo
sviluppo. Il termine fu ripreso da Leibniz per indicare la monade, in quanto ha
in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo. Nel campo delle scienze
biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello
sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da Driesch,
che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio
organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè
dell’organismo completamente sviluppato. Energeia and Entelecheia. Entelecheia possible
to transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be
“completely ruined” or destroyed: “even death is by a transference of
meaning called an end, because both are extremes, and the end for the sake
of which something is is an extreme” (Met.). Thus, telos
is not determined by its being opposed to something. It is not logically or
ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is borrows its
meaning from the telos. It is not defined as the end-point of a sequence. Rather,
the sequence is derived from it by positing an opposite. Aristotle argues for
the primacy of an ongoing condition of telos over telos as
endpoint in his discussion of happiness in a complete life (Eth. Nich.). The
primacy of the completion-related use of “telos” (fine, end) over its sequence-related
usage is reinforced by Aristotle’s use of telos to
mean source (archē). The completion-related use is evident in
the phrase, “hoi en telei,” which refers to a governor or magistrate. Telos thus
suggests “origin (archē)”, a source of action, events, or being that
directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the
identification of telos with archē in Met. To be
a telos is primarily to be that for the sake of which, which is
different from (though not exclusive of) being an end-point of change
(Met.). When we speak of teleology, we may not necessarily mean
Aristotle’s concept of telos. We seem to mean the Scholastic idea of
teleology, that is, an assimilation of the Aristotelian idea to the historical
concept of divine providence (il fatum). It thus takes on the usage, for us, of
a kind of goal set for a creature in advance, external to it, and toward which
it is confined to strive. By contrast, at minimum, telos in Aristotle
means the inherent completeness or wholeness of a thing, a
completeness that may coincide with, and be the thing itself. “
Telos ,” for Aristotle, does not primarily
mean “ended,” or “ finished .” It means
“complete,” “fully there ,”whole,” “entire ;” and here it
means “having its complete sense.” Its finality is akin to what makes us
say “at last ,” as in “at last we find water.” Echein. The
word echein means “to have” or “to hold on” to something. The
“grip” of having, as it were, is “being in charge of, keeping,” or even
“holding in guard, keeping safe,” and in a related sense, “holding fast,
supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can mean “to be able.” When
a location is specified, it can mean “to dwell” there. The relationship
of telos to being is the reason the word echei ,
“have,” is im portant to entelecheia. Aristotle uses
echein to say: “Those things are said to be complete [ teleia ]
for which a good telos initiates activity from within [
huparchei ], since it is by having the telos that they are complete
” (Met.). A thing is complete (teleia) by having or holding onto telos
. “Having,” then, stands in for the term “initiate from within” (huparchei ), a
word often translated as “belong to” or “be present.” Echein, then,
is another way to express the inherence of the telos . The most
revelatory sense of echein for our current context, perhaps, is
that in ordinary Greek the verb can substitute for “be”: in response to a
greeting, kalōs echei means “it is well.” 29
Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and Entelecheia in the Proof of Change
10 “having,” “holding on,” and “sustaining” are ongoing conditions or
activities. Using echein as a synonym for being, then suggests that
being is not static or passive, but a continual accomplishment. Based on
these considerations, it seems clear that the standard practice, which
translates both energeia and entelecheia with the
word “actuality,” should be abandoned. Energeia should be
rendered “being-at-work” or “activity,” but could also be translated “being insofar
as it works.” Entelecheia can only be rendered by a range of
nearly-equivalent renderings. “en-“ literally makes the word mean
‘being in the telos,’ ‘telos’ is not conceived horizontally as
“at the end of a sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment,
completion, or accomplishment, while echein means ongoing activity,
but also is a word for being. In general, entelecheia should be
rendered by “being-complete,” with the word “being” a translation
of “having” (echein), and understood as an ongoing accomplishment. Less
versatile translations are “staying-fulfilled,” “holding o nto
completion,” “holding itself in completion,” “holding its completion in
itself,” “in active completion,” and other such formulae.
Energeia and Entelecheia in the Proof of
Change Now that we have examined the words energeia and
entelecheia themselves in general, we need to see how they are used
in Aristotle’s account of change, and to resolve an apparent self
-contradiction in the use of being-complete (entelecheia) to define
incomplete motion. I shall argue that energeia applies to
individuals, while entelecheia applies to composites, a broader class
of things that includes individuals. In the proof for the existence of
change, energeia and entelecheia are used differently:
being- built (oikodomeitai) is the being-at-work (energeia) of what is
built (oikodomēton ), while building (oikodomēsis) is change (kinēsis) and the
being-in-completion (entelecheia) of what is built as built: being-complete
(entelecheia) change building being-at-work ( energeia ) of agent
being-at-work ( energeia ) of what is worked-on builder / agent (
oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires buildable requires
builder Energeia as being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo
Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia –
vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on
entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il
concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The
Swimming-Pool Library. Cappelletti.
Grice e Capra: l’implicatura
conversazionale del del corpo animato – delo l’isola di delo, apollo delio – il
chiaro – principio di perspicuita [sic] -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia).
Filosofo italiano. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the
brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was
aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart –
‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle –
And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial
concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ –
And the good thing is that he philosophised with his companion while they did
peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that
philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the
Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools:
mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other!
Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we
had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto
Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola,
societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a
Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della
flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in
Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia
di peste e descrisse i risultati dei suoi studi in un
volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione,
pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della
scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di
dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i
quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo
e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità
dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele,
Pitagora, ed Epicuro. Di C. non si conoscono esattamente il luogo e la data
precisa della morte. Uomini illustri
della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità
dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio;
che noi non vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con
tanto pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura?
rispondiamo, esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima
universale diffusa in tutta la mole corporea Onde opponendo quegli Antichi
l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa
immortalità intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità,
dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre
pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io
trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente irretita la mitica. L'uomo
adunque, come egli è creato in mezzo fra l’Angelo, e la bestia, cosi alcuna
cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune
cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la
carne. Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad
Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede
Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui
exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit
corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus
de instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti
Bufalini, C., de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot.
adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. Panormi, apud J. F. De
Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum,
Lucretium et Pithagoricos quaesitum C., nicosioto, il quale inandava
fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta,
adversus Galenum, l'altro De Immortalitate A nimae rationalis, justa principia
Aristotelis, adversus Epicurum, LUCREZIO et Pythagoricos; C., nicosiensis, De
sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum.
Panormi in 4. De immortalitate animae rationalis, iuxta principia Aristotelis,
adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche
relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal C. in
quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta,
adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); De immortalitate. C., filosofo siciliano
originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario
della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a
Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato
l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e
psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di C., si vedano
PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis
principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán,
conte d’Alvadeliste. Infatti, C. dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche
in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per C. la
quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso,
infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e
soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro,
invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de
sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede.
quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis.
Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam
primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc
est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet
superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila
di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo
polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione
reale dei principi psichici nel corpo. C. distingue anzitutto tra “principato”
(principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda
l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in
determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale
presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno
due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo,
oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono
però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In
generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato
aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima
deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum
consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus
extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset
per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari
membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset
extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu.
Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper
colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et
obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est
sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum
inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse
temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc
non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per
universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si
una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus
sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto
all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di
un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad
alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale
dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle
forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle
sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla
legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato
dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et
authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus
quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae
privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus,
in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset
tota in quavis parte. Ma essi, secondo C., evidenziano anche come l’anima abbia
la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta
o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la
sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità
in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in
questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la
totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto
essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma
che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo
tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle
forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché
tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le
veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come
l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è
estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo
tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le
parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a
motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e
le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque,
l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono
origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa
est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis
materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non
tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a
quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate.
Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit
formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur
in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo
sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et
divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis,
pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et
subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob
varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam
misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a
corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea
compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi
di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre
substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte
parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è
l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque
l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il
cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare
l’origine del principio fisiologico e la sua sede, C. fa affidamento alla
dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et
principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed
huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates
ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore
naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de
potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono
attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti
siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore
come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un
certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui
origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine
precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti
alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa
esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più
sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che
viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che
possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo
vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos
calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor
naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non
cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli
pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam
caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni
debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes.
Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo
dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue C., si riuscirà facilmente a
giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei
nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la
tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti
relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal
movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole,
affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da C.. Et cum cor primo
movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per
sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime
diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici,
quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id
conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel
ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur,
scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche,
esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso
insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già
visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo
Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di
calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle
proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle
dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gl’anatomisti inoltre
legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi
legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane,
che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in
primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente
incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono
anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti
spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il
cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia
formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa,
invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem
ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et
cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae
nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse
magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri
detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia.
Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum,
sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque,
in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui
hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso
di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni
vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo C.,
infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta
la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria
attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in
pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul
finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e
soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi
successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non
necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in
effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte
recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la
concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è
rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile
--, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle
funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che
gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato
sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo
caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale,
immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a
favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo C. e possono
essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero
richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o
fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel
cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando
inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo
della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la
soluzione fornita da C. è quella di postulare una duplice unione tra anima e
corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa
il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la
natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un
organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le
operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma
avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei
Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte,
come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede
dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie
premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la
mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici
coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene
nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che
all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che,
in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per
operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo
in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>,
ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono
portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente
membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro
divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è
eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede
della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo
sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod
quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse
afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae
sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui
vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici
coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis
coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est
sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc
duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram
per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera
perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Menti
non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore,
vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio.
Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione
operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est
ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis
intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua
animae sedes. Sedes inquam virtutis. Cererbum est sede. Operantis animae, et
operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum
facultatum, eiusque commune instrumentum. Tota humana species est sedes mentis.
Proprie tamen homo sapiens. Imaginativa est sedes mentis. Cor essentialiter, et
intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Cerebrum accidentaliter, et
extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno
coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo
conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum.
Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi
ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra
tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una
sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede animae et mentis” C. si
assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad
un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma
l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo –
sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex
coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico
tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile,
quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre
tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”.
Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista
dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la
legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a
sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il
principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere
un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a
meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del
proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti
che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del
De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si
muove anche la critica antigalenica mossa da Telesio nel Quod animal universum.
Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se gno alcuni
fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza. Il primo di questi
riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele
compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio nali
che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con getturale in genere. Il
vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli
che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo termini quali smefon,
tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra fia,
nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi genze di una
definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e
separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un
successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico
che Aristotele riesce a rendere rigoro se e rigide le distinzioni, proposte in
due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa
prosa del la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argomento
scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del
lessico semiotico gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie
gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia,
il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia
stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella
trattati stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di
distinzione teorica non si limiteranno a intervenire con un'operazione
normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni profonde
coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del
tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in
quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del
passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo
modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende,
concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale
aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,”
Aristotele individua in primo luogo due categorie di destinatari dei discorsi:
colui che osserva (“theoros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce
nella dimensione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al discorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agire nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passato. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro. Come osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente
estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di
congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni
del tempo che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am biti di
manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato
dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la
conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria
del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per
scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "segni". Anzi,
secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per
eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arrivati ali'eccesso di
pensare che essi potessero fornire il modello anche per gl’altri tipi di
segno. In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del
linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una
teoria del segno vengono denominati semeia o tekmiria. La teoria del segno
propriamente detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un interesse
sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema
delle modalità di acquisizione della conoscenza. Il “simbolo” linguistico è
connesso principalmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione
linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione”
che Aristotele espone la sua teo ria del *simbolo* linguistico, articolandola
secondo uno schema a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo"
di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’immagine di una cosa esterna.
Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle
affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le
lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso
modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni
sono i medesimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi
tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma), già identici per
tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare
il termine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non significa
affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele
usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma
appunto la tendenza a un “uso sfumato” di una espressione del lessico
semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni
teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o
di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela
di una affezione dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando
il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione
dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8) -- rapporto o
rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico
rapporto o rappresentazione ( sn ti
phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare,
diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un
suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente
immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico,
secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera
diversa a seconda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham),
esattamente come avviene per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la
cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di
motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del
secondo. Bisogna precisare che e scorretto identificare in maniera diretta la
tesi dell’arbietrarieta o convenzionalità degli elementi del linguaggio,
cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico
sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto
arbitrario tra due entità strettamente interne al linguaggio: il significante –
segnante -- e il significato – segnato -- sono le due facce del segno, in
quanto unità linguistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto convenzionale
tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che
propriamente non appartengono al linguaggio, in quanto sono entità *psichiche*
(l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre rilevare che
la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di
prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche
nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione
poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte
attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presenta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressione tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte diverse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione
(“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussure dà al termine
"significante" quando spiega la natura del segno linguistico.
Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti,
ma all’espressione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no ma
(nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione
– Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ragioni di
questa scelta si basano sul fatto che questi elementi, facenti parte del
programma di analisi di Aristotele, vengono definiti "simboli" delle
affezioni dell'anima nell’Analytica Priora. Ora è indubbio che Aristotele
intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea
molto chiaramente la veste fonica e il carattere di "significante".
Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristotele, almeno
nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sembra diversa da quella
saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la
garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra
esserci quando si dia una reciprocabilità tra i due ambiti del linguaggio e
del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei
confronti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per
un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del
triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De
interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore.
Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Aristotele riprende da
una tradizione risalente fino a Democrito (D-K). Le ragioni che permettono la
specializzazione del termine “simbolo” per indicare una espressione linguistica
convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle
due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta -- in maniera intenzionale, affinché possano servire, in
un momento successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa
cosa (Belardi, Eco). Il fatto che le due metà riescano a combaciare
perfettamente viene a indicare la presenza di un rapporto precedentemente
istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la
cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola.
Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti
può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di
prova. Così dal momento che ciascuna parte presuppone – o implica, come per
consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corrispondenza,
“simbolo” viene ad acquisire il significato di "ciò che sta per
qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria
linguistica aristotelica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure
indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile specificità
del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno, i due
termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre
reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che
necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i
due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon sia
attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia.
Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico
è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon
nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un simbolo di uno stato d'animo (percezione
di una cosa come ‘shaggy’) in tanto che si realizza, previo un accordo
(synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercambiabilità,
che garantisce la correttezza del nome stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Belardi
In quanto sjmbolon, il nome non è più deoma ("rivela zione"), come
lo era per Platone. In Aristotele il nome è "suono della voce
significativo per convenzione" (phone semantika katà suntheke) (De int.).
Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere
semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni
e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni
linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile
(l'essenza del l'oggetto o la dunamis), per Aristotele esse sono simboli che
stabiliscono finalmente di modo convenzionale o arbitrario una pura relazione
di equivalenza tr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio ne che l'un
termine "riveli" l'altro. Del resto, l'opposizione convenzionalel/naturale
permette di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli
animali -- questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e
interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma di "voce" (phone)
presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono
e definito una "voce" quando e emesso dalla bocca (con lingua) di un essere
animato (II.); ed e dotato di significato (smantikos) (Il.). Ora, i suoni
emessi dagli animali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno
tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce
emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una voce convenzionale (e di
conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e involuntario, meramente
causato "per na tura" (De int.). E la voce e agrammata, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (Pot.). La nozione di
"combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue è al
centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano. Una voce o suono
semplice (adiafretos, "invisibile") puo articolarsi per il primo
grado in una unità più grande dotata di significato. Gli animali, invece,
emettono solo suoni indivisibili (‘miao’ ‘read chimp lit.’) , ma non combinabile
(Pot.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin guaggio
umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente
schema: linguaggio umano - per convenzione - elemento indivisibile combinabile
e elemento divisibile - lettera - elemento dotato di significato - simbolo –
nome – nome aggettivo (shaggy) – suono e voce degli animali - per natura –
causato fisicamente – involuntario – istinto – risponsa allo stimolo ---
elemento indivisibile non combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d-
loflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che
la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi
(''rivelano", De int.), -- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma
l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o finalmente
l’aribitrario, come nel caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale
non umano, torna di nuovo in primo piano il carattere semiotico d'una
espressione. Il suono o la voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che
rivela la loro causa fisica. We must know the character, age, sect, nation, and
other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a cer possessed
their minds that they became mere automata in his hands, and pour out words and
thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of a cistern, betrays
profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was entertained in former
times, and is probably not extinct. It doubtless originates in a vague notion, that
the more entirely human agency is excluded from the doctrine of inspiration, the
higher honour was bestowed on the divine spirit. And the etymology of the word
“inspiration” has also its effect. It originally and properly signifies, a
breathing in, and suggests the dark and mysterious conception of an effect
produced on the thinking substance of a man , not unlike the inflation of a
bladder. But inspiration has nothing in common with its etymology. Inspiration simply
expresses the idea of super-natural assistance and guidance in the
communication to mankind of a truth previousl unknown. He who is honoured
“magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates” with it, is enabled to speak, act, and write,
as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him;
so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no
puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a
living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the
faculties with which he has been endowed by his creator: with perception,
memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater
violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his
ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our
business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between
agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined
for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not
explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from
each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence,
that their own spirits performed an important office in composition. In the author
of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified
monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom,
made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but
somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing
with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but
expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative,
tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah -
the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with
proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that revelation
consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus in verbis
scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We insult the Holy Ghost by supposing him unable
to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he
honoured with his influence — that when he " When we read the Epistle
to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a
finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of
Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions,
bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear -
fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends
making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with
him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious
catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think
of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity
seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld
“the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view
the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and
yet speaks in milder tones, though with made the prophet he was forced to
unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his
writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person
of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart
from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him
to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the
Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen
through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds
constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly
reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to
these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of
the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads
Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no
difference between them except in the length of the lines. It is important also
to note the different kinds of composition they employed. Some were poets,
and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must
not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the
Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or
the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican,
David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp.
Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The
accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the
letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors intended
to give simple and perspicuous narratives of events as they actually occurred.
The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them away, by
doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws which are applied
to other historical compositions. Yet it has been sanctioned by great names, especially
in Germany. Grave divines are found, who insist that there is not one miracle
in the gospels. The events which SEEM miraculous are entirely natural, but
exaggerated and embellished by the warm fancies of the people among whom they occurred.
Only strip, they say, the Evangelists of this semi-poetic drapery, and the
business of exposition will go on delightfully. Moses fares, if possible, still
worse. They turn him into an allegorist or reciter of mythological fables. The
first ten chapters of “Genesis” contain about as large a body of real truth, as
can pass with out inconvenience through the eye of a needle being made up of old
stories and scraps a — of song, which mean nothing, or anything, that a
lively fancy may suggest. i authors are conceited sciolists, who, pranking Let
not the Christian student take great pains to refute this wretched infidelity,
which does not openly avow itself infidel, merely because its advocates earn
their bread by a profession of Christianity; the most of them being either professors
of Christian theology or pastors of Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum
est. Such interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery
and legerdemain; and their In expounding Scripture, let there be a
constant appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of
metaphysicians, or convocations of the wise and learned. It is the common
blessing of mankind, framed for their mutual advantage in their intercourse
with each other. Its laws therefore are popular, not philosophical- being founded
on the general laws of thought which govern the whole mass of mind in the community.
Now, however men may differ from each other, themselves as the
high-priests of philosophy, prove by their irreverence for things sacred, that
they have not reached the portico of her temple. The true philosopher always trembles
when he stands, or even suspects that he stands, in the presence of God! He can
not trifle with such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the
falsehood of which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him
of his last stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello
Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo,
l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello
spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism,
manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour –
body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una
materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di
aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo
dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave
naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse. life, soul – Aristotle on soul and life –
zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The
Swimming-Pool Library. Capra.
Grice e Capua: l’implicatura
conversazionale -- filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoli
Irpino). Filosofo italiano. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere –
Lago Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To
philosophise!” Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the
trace of the hare!” -- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in
antitesi ai vecchi capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a
capo di un'accademia dal nome gli "Investiganti". Pubblica il
"Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e
scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via
Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa,
non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi
grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo,
all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i
genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione.
Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri
della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al
tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono
profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo
"Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle
mofete". Si laurea e fa ritorno a
Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed
anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il
supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo
pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni
di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore
di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria,
collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza.
I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli. Si
trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu
favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una
lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca
scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della
rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura
legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla
scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli
Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.
La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali
napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal
Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome
di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità
scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo
ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua
opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che
fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per
contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico.
Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un
illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della
seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute
galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano
al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel
periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta,
ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il
suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali
scienziati e filosofi italiani ed europei come Bacone, Cartesio, Harvey, Hobbes,
Gassendi, Samert, Hooke, Willis, Boyle. Tra Cornelio e C. sorse una solida
amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo
aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso
pensiero era Borelli, medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del
metodo di GALILEI. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare
nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con
l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani. L'ambiente
culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio
dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle
novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. C., ancora prima della
fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a
contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente
alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del
Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto
contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta
anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle
attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli:
si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine
e romane a quella napoletana. Si forma quindi in questa “nuova” Napoli,
sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali,
durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di
Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il
Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati,
intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il
metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a C. una
lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete",
in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad
effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia. L’ammirazione che
provava nei confronti del C. era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito
nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito
napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò
vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con
maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza
della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei
Medicamenti”. Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto
alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva
soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità
intellettuali di VICO, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo.
Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di C., che affiorano
in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in
tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità
scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano
e frequenta la casa C., che considerava il suo ideale maestro. C.,
Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre
illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano.
Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo,
dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle
teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie
rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di LUCREZIO:
"vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le
tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti
nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali. L'Accademia fu
chiusa per la peste. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da
una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per
mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano
ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma
anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di
Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni
furono tenute dal C. su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero
come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche
esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove
certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli,
nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono
una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella
fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei
Discordanti", guidata dai famosi medici Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu
primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla
morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da
allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il
viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In
seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla
fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli
alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero
culturale a capo di C., tanto che, il viceré spagnolo Faiardo indisse un
congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò
che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu
così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in
otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il
conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo
del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Marino, ritenuto dai
suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara
nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica,
analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra
marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il
trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che
Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La
notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua
italiana ebbe una notevole presa su C. grazie anche alla sua predilezione
per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari”
dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto
purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di
fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati
da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del
Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza
arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su VICO. Questo sottolinea il
suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato,
tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo
atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in
ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione
filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione
tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua
da lui scelta. La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il
martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune
commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari. Di questa produzione non abbiamo
testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I
sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione
petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo
dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire
che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime,
considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al
razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere
drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato
in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a
Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte
dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina
fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un
bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune
posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel
testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis,
che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di
Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di
coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo.
La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e
di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico
anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza
che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve
piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti
dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto
ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo",
il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore
della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al
"Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua
finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come
proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto
soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva.
Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel
"Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella
descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati
dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di
origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla
dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di
un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera
pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale
milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita
l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25
colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua
concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla
dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità
unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Rogatis,
Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco
Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova
libraria, Padova); Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA,
Torino). “Parere di C. divisato in VIII ragionamenti, ne' quali partitamente
narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della
medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Amenta, Vita di C.,
Venezia). Niccolò Amenta, Vita di C. detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo”
(Venezia). Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La
sorte di Vico e le polemiche scientifiche e letter.; R. Ospizio V. E.,
Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli,
D'Anna editore, Messina-Firenze); Maturi, Nicolini, La giovinezza di Vico; saggio
biografico, Napoli); Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite
nella città di Napoli, Bologna); Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo
agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam,
"Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle
"risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista
storica italiana, Napoli); Reppucci, Saggio monografico su C.,
scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di
Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico,
Autobiografia, a cura di Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano).Capua's “parere”
is just that: an opinion -- in response to a specific request by the Viceroy
and the Consiglio Collaterale put to a
group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. C.'s
attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary
Aristotle-bashing. C. maintains a theoretical investment in the anima. This is
not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Capua's part.
Capua wishes to protect philosophy from a mechanical application of a logical
technique, and also from a premature, reductionist applications of the beast or
the machine metaphor. Aristotle offers a biological concept of the soul as the
first actuality of life, the principle of life. C., Il suo parere, divisato in otto
ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progretto della
filosofia, chiaramente l'incertezza della medesima si sta manifefta. Napoli, Bulison
Columa de Superiori. 1” All'illustrissimo, ed eccellentissimo signore LCTEA CARRAFA,
principe di Belvedere, marchese d'Anzi, &c. On avendo io cosa, eccellentissimo
signor mio, che m'abbia in più pregio di quel che so la padronanza vostra,
cerco per quanto posso di farla palese a ciascuno, sicome altri fa il possedimento
delle cose più care, e preziose, ch'egli s’abbia, o per sua industria, o per
fortuna acquistate. Ho pensato dunque, che a ciò fare io non potrei avere
migliore opportunità di questa che mi porge il presente saggio filosofico, che
per mia gran vençura essendomi capitato alle mani, ho preso a far istampa re,
s'io il mettesli fuori sotto il nome vostro, La scrittura veramente a giudicio
di voi medesimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale, che agevolmente posso da
lei promettertii il fine, che m'ho proposto; im perciocchè ben tosto n'andrà
ella per le mani delle persone di miglior giudicio nelle buone letiere, sì per
per ta cognizione, che s'ha dell'autore di lei, doa vunque ha di quelli, che se
ne dilectano, sì perch' ella il vale, per l'eloquenza, e doctrina, di che si ve
de ripiena: oltre all'autorità, e fama, che le si accrescerà dall'istesso nome
vostro ch'ella porta seco. Poichè possiam dire, che poche sono quelle parti
d'Europa, ove non s'abbia conrezza di voi, e delle vostre egregie qualità, o
per la fama, o per la presenza di voi; ma che quasi tuttele havete cerche colle
lunghe, e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guisa, che da voi sono state
fatte, sidebbono riporre fra quegli studj, con che vi siete sempre ingegnato, e
v'è venuto fatto d'aprirvi la strada all’intera cognizione delle umane cose, e
d'accrescere con le doti dell'animo, e dell'ingegno lo splendore ch'avete
ereditato da'vostri maggiori. Oltre a ciò non doveva questa scrittura venirne
fuori sotto altro nome che'l vostro: mentre, e la stima, che voi fate
dell'autore di essa, e l'affezione, che gli portate, sicome fare ancora a
ogn'altro huomo letterato e l'antica dimestichezza, ch'egli ha con esso voi il
richiedeano. Ricevete dunque il presente dono, ch'io viso di questo saggio, o
per più vero dire, della picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me
polta in farlo stampare, con l'usata vostra umanità in segno dell'osservanza ch'io
viporto. E pre go Iddio, ch'avanzi in bene ogni vostro desiderio; e alla buona vostra
mercè umilmente mi raccomando. Di V. E, Umilissimo Servidore. Giacomo Raillar
D. Carlo Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni mesi pasati, che d'ordine
del Signor Vicerè fu tenuto consiglio da alcuni filosofi di metter qualche
compenso agl’abusi ed errori, che tutta via si commettono nella filosofia. E dopo
qualche ragionamenti intorno a cotal bisogna avuti, divisarono eglino, che per
potere con piis loro acconcio esaminar le ragioni, e i pareri proposti, e da
proporsi, ciascuno doveſſe mettere in iscritto il suo. Perchè convenne a C. che
e uno de’chiamati a questa adunanza scrivere il parer suo intorno a cotal
materia; e parendo a lui, che ciò non si potesse fare acconciamente, senza considerare
innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della cosa, che s'aveva a
trattare, cioè della filosofia. Sì il fa egli con tanta dottrina, eloquenza ed
erudizione, che, ejfendo il suo scritto venuto al le mani d'alcuni huomini
letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più tosto per l'universalità
di coloro, che fi dilettano delle bettere piie esquisite, che per haversi egli
awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata compagnia. Comechè
l'autore di quello non s'avesse nello scrivere proposto altro fine, che di soddisfare
al carico da quella impostogli. Stimarono dunque coſtoro, che fosse una tale scrittura
dameia ter in luce per mezzo delle stampe: e tanto fecero, che alla per fine
persuaſero C. a farne loro copia, e a contentarſi, che si stampase almen queſta
delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non
pure ebbero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i
curioſi della lettura di queſto scritto, ma all'utile an che ne può riſultare a
ogni forte di perſone, e spezialmente agl’avveduti, e giudiciofi ragguardatori
delle cofe. Poichè, vedendo eglino la varietà delle opinioni, e delle Seite, e
le diverſe, eSpelle volte contrarie guise del filosofare, che fra i filosofi di
tempo in tempo fonvenute sì, anche ſenza entrar coʻfilosofanti in più sottili speculazioni,
potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D
1 grand 4 derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè
dubbiosa e incerta ha in se dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre
alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di
coloro, che così fi danno ad intendere, espezialmente dove ne va la filosofia.
Oltre a questo, chi non vede di quanto frutto può rium scire queſto scritto a’
filosofi, che danno opera alla filosofia? mentre dalla fola lettura di lui
potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura
di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più
riputati, e solenni maestri di quella: e accorger fi a un'ora qual via
nell'impreſa del filosofare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele
giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal mestiere
comporta, faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne
meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere
apertamente quanti, e nella filosofia, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e
fono di quelli, che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o
norciès o pure non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Alighieri, Trattando
l'ombre, come cosa falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler
dimoſtrares chente, e quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta
ſcrittura, a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche
non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare, non per queſto
rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione,
che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO
SIGNORE Antonio Bulifon espone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un saggio
da C. intitolato “Il mio parere intorno alle cose della filosofia”, per ciò
ſupplica V. Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus,
& c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo
Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod
R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, & in ſcriptis referat eidem
Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs.
EMINENTISSIMO SIGNORE. O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si
gnor Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho
ritrovato coſa alcuna contraria alla dottrina della Fede, overo a' buoni
coſtumi. Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per
ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuosa filosofia. HE
Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi. N
Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum,
quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN.
1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio
Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato
Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò
ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, &
c. Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG.
CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680.
Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto
il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della
inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie
giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita.
In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa
ſupraſcripta relatione, iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia
Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA: 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo
ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroso principe,
quanto l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i popoli alla ſua cura
commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente
oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render
loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più
gravemente nuocer ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella
carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e
compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli,
che rade volte,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero,
che monterebbe eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della
guerra ad huom, che poi nella tranquillità della pace,in tanto più
acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti
di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e
lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella
nave, che ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto
miſerabilmente virompe. Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo,
e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale
auendo con maraviglioſa, e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto;
e reſi vani gl'in tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e
crudeli infeſtando i mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne
minacciavano; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de
gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno
malmenavano; ora con ogni ſtudio, e diligenza và riparando, che non ſia mo aman
ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della
filosofia. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia
infra’li miti mantenuta della ſperienza, e della noſtra comeche debil ragione,
eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune: così allo incontro
s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede
fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia
di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le
Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per
noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar
riparo: e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure,
e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo
quan te, e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo
confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre
biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol
patiſca, du ro molto, e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la
appartenenti. Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene
briga, ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti
di colui, icui senni,non che le richicke debbo di preſente, ſenza replica
alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal
giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di
grado mi vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito,
ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca,
tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in
prima le malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o
Maeſtrati; ma FILOSOFI ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili,
e certe leggi alla Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura
incerta, e dubbitoſa, ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto
avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura
della coſa comporti, un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne
altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a
propoſito ſia per riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della filosofia.
E per cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare quanto
poco duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di dover
allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura
ti da’ viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj
nacquero in prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi
Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra'
Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima
dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e
Tofortro Rè della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto
tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan
to il numero de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar
Medico ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà
teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè
intpoxaj A κατα: 1 2 I Strab. lib. 3.8. 16.
κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ '
ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε
όδόντων, οι δε τών και νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo
loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico:
Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri
il capo, altri i denti, altri le parti del ventre, e altri i mali interni, e na
Scofi. Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di
leggieri, quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli
per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco
talento, che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran
Rè della Perſia, allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l
ſepper guarire, ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè
ſicome ſenza fallo è da credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto
per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali
ſe alcun contrave gnendo interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era
perciò acerbamente punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις
αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός
εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν
υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente
d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi;
perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta
della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου
γαρΙπποκράτης μόνον, αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς
αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα, και ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές
εςιν, ή fèuda ö yayçá Daci, Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti
d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri
foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto;maprima il
vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe
pure egli, che valente maeſtro di loica era, per iſchermirfi non aveſſe tali
chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor ſentimenti
ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era
a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i
Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano, ed
anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da
prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge
anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio: fatta la
legge, penſata lamalizia. E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata
arditezza, che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni, e per lo più con in
felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne
publicarono, ſecondochè ne narri ARISTOTELE con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα
την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε"
κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno, che
fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo.La qual mellonaggines
non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda, ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di
leggier poſſano avvenir que’mali, a? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti
anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la
ſtato ſarebbe quel Medico, che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della
propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i
quali come nell'arti, c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra
nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate
leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che
ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in
condegna pena la ſola infa mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν
τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme
l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e
nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2
Ippocrate, Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε
μη. Cioè a dire, al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man
ſalva le genti. Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino PLATONE,
laſciando egli così nella ſua Republica ordinato: Aniuna pena fia,che
foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che
ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's
tsw na odvopov. Dal cui divilo non punto ſi di lungo LUCIANO, ove dice: L'arte
della Medicina quanto di maggior pregio è degna, e più dell'altre alla vita
giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà'; e convene
volcoſa è, che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta, o foggiogata
da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù
ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa, e al timore, e
alle pene acTribunali. π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι
μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα
πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν,
μήδε ποσάττεσθαι, πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών
επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar
dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà Greci gli Atenieli ſolamente vietaſſero
alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la medicina; non è però gran fatto da
lodare, per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto; perciocchè,co
me più avanti diraſli, lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo
s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a '
ſervi ancora conce dette la natura più volte animo, e ingegno alla libertà fi
loſofica acconcio: perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato: rapportando
Igino: Obſtetricibus neceffitatis, honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab
Atheniensibus con ceffus fuit. E molto meno dovrem noi credere, che rima neſſe
in piè la beſſagine di Seleuco, che tal potremoſenza fallo quella ſua legge
chiamare, colla quale non altrimen te, che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber
vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne
aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών
έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή
ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. LA ROMANA REPUBLICA, che non pur
nel governo militare, ma nel politico ancora avanza di gran lunga le greche
tutte, e le barbare nazioni, giudica convenevol com fa il non commetter senza
freno alla balia de Medici la cu sa della vita de gl’uomini; e perciò prese per
partito, che AQUILIO, tribuno della plebe, non so se GALLO, o altro e' ſi
fofíe,con un plebiscito, il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma, qualche
pena a'loro fallimenti iinponesse, per la qual’accorti divenuti foſſero, e
cauti nell'operare. Non per tanto dimeno è da credere che legge tale, o plebiscito,
che si fosse, non mai ſi metteſſe in uso, ch'altrimen te avrebbe avuto il torto
PLINIO di sclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. Nulla præterea lex punit
inscitiam capitalem, nullum exemplum vindiétæ: indi soggiugnere: difcunt
periculis nostris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere:
Medicoque tantum hominem occidiſe summa impunitas est. Ma vi ha di vantaggio secondo
il me delimo Autore tranfit convitium, et intemperantia culpa tur, ultroque qui
periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando i Digesti per
commandamento di Giusti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri
Legiſtila sentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo sopra la legge
Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quod ad salutem homini, vel ad
remedium datum erat homo perierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam
deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di quella
grand'animadella civil ragione Giacomo Cujacio, alla già detta legge Cornelia
non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il medico sanandi, non nocendi
animo dedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di gefti vi
rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo di LA LEGGE AQUILIA, ma ancora le
ſeguenti parole d'V Ipiano, Sicuti Medico imputari eventus mortalitatis non
debet, itad quod * Elannt. lib 2.9. cap.z. lib.recept. lent. 6 Cuias. in Ang
Corn de Sioar. tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu
fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non
debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali
ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le
que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero;
infra’quali il dottiſſimo Agnolo POLIZIANO in una ſua piſtola al Leoniceno così
ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in fegraſari tamdiu impune
tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat,
unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida: Errata illius (del
Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battista da
Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros,
homineſqueimpune necandi. E un satirico italiano scherzando col titolo del dottor
dice a queſto propoſito medeſimo del medico: Mapoichè un tal ci può donar la
morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l
noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri, dice
parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem: immo
vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam
cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore: Si
quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula
pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos
demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades
inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque parare. Ed avvegnachè
Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici, perche non gli aveſſero
o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore, nondimeno l'eſfemplo d'un
tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna; e fu queſta non men, che
tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo, ſicome
anche Alessandro meritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto
ingiuſtamente ammazzar Glaucia medico, per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco
faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro
grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella
Perſia, il quale i medici già alla morte dannati, perchèlui aveſſer malamente
cnrato, volentier permiſe, che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da
Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver I medici per traſcutaggine de’reggi
menti una tal libertà guadagnata; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e
quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta, e com’Io
avviſo annullata fin la memoria del meſtier della filosofia, ſe contro aʼme
dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non
ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente
logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe pur arte poſſiamo chiamar
la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla regola nelle ſue operazioni
) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire, e ne gli avvenimenti
dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento,
che quel di colui, che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre,
& udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli?
Ed è anche malagevole ad imprendere, e incerta ſempre negli avve. nimenti:
imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il
caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar
detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato. Ed o quanto
aſſai ſoyente avviene, che contro ad ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celso,
etiam Spes fruſtratur: & moritur aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit.
Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico, & avvedutiſſimo B giu 7
Plutarcom: 11 / a? !. 10 giudicato,
purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode
aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin
Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l
ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto
avvengano, o da natura delmale, o da altra interna cagione, in cuiſenno alcuno,
ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri
gli uſcimenti delle malattie ſi ſono,maſſimamente delle acute, ſecondo il
ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in
acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis,& mortis. Senza che
ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente,
iveleni per ſubitana, o precipitazione, o coagulazione; e può anche huomo, che
non altri, ma Apollo, ed Esculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro
enfiature, o altri nafcofi malori, che quando egli men ſi crede ſian, valevoli
ad irreparabil morte condurlo; e ciò anche nel tempo ſteſſo, che li
s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il
malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che
buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano, tal curbamento
dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti, che noi col noſtro corto
intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt (comene
fà teſtimonianza Celso ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur, neque id
evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft. Perchè non
ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo
infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare. Ma su
concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto: come
mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero? o co me mai potrebbe
porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi
procedefle? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di
ſet te, s lib.z.cap.6. IT ) te, e
diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti? Perche oda paleſe nimiſtà, o dacoperta
invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla
benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano
al Giudice tutt'altro, che di giuſtizia dovrebbero,e dannoli a divedere, come
ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio; ſenza che il timor della
pena, in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e
inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere
dipiù efficacemente operare; ed egli timido, econ fuſo per non porre a riſchio
la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe
ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo, comechè
falſo, e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe. Coſa,
chepiù ch'altrui a'Medici de Principi, come avvisò il Cardano, avvenir ſuole; i
quali per tema non pur dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar
grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare
un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità
per l'incertezza de'ſucceſſi lontano. Compativano anzi che nò I ROMANI Maestrati
gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne
montafſe perciò L’IMPERIO DI ROMA, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe
rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario. E
più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro
gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando
ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi
ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne
perdette la giornata di Vicenza, e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò
tagliato, e ſconfitto. E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle
principali cagioni, onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi
miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione
andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12 1 ! DE’ ROMANI da noi teſtè rapportate, nõ
già per li valétiMea dici oMetodici, o Empirici, o Razionali ſtare foſſer
fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo
appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare, ma
quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può
ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E
certamente in coſtoro ſolamente da credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza
dell'arte; per cagion della quale furono IN ROMA contro a' Medici ordinate le
leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente
punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione,
quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de
gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa,
venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto; avvegnacchè poi cotali
divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E ben d'eſſo loro a gran ragione dice
Anneo de Roberti ciocchè degli Strolaghi diſſe in pri ma TACITO: Genus hominum potentibus
infidum, Sperantibus fallax: quod in civitate noſtra vetabitur femper; &
retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti; che i cattivelli
degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate
de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari
co'lor vani ſegre ti, e con lor ciarle, o rattengono gli ammalati, che non
prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor
nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per
avventura furon prima digradati, c poi nella perſona condenvati que' viliſimi
paltonieri nel reame di Francia, ch’in vece diguarireil Rè Carlo VI, preſſo a
morte coʻlor medicamenti, e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma egli fu
per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano
di giuntatori, e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li
s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori, così do 1 veali toſto e ſenza
niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro meſſe:del temerario, e folle ardimento
punire. Se pure non fu malavoglienza, edaſtio de’maligni Medici di que’tem
pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e
durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli, o i Maeſtrati, i quali po co, o
nulla per la più parte di quella s'intendevano; le a tanto non poteronmaii più
ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio
molto adden tro in quella ſentivano? Inventore per quel che fi creda, o almeno
antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſculapio, e come ne da teſtimonianza
Ippocrate, o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte
re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe: ma ben to fto non buone
conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs, dice e' parlando
d’Eſculapio, è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può
dirſi col toſcano lirico, che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento
colui, che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a
cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con
ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto, e tanto oggimai creſciuta,
e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri, e più nobili ſtu dj
gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed
vltimiconfinidella natura s'innoltra: pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime
piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico
chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca:
Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum; anzi in quel dolce, e
ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo,
e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean
que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir,
3. Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora,
o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca: Firmis
adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem, voluptatemq;
corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato, eziandio alle più
grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine;
que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo, o da bruti
animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10 Perchè ragionevolmente
credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i
Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ
Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και
βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace
Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο
φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11
Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole PLINIO, nel piede
ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την
δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale inſegnò
come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον
Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che
medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il
nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e APOLLO, e Arabo, e Cadmo, e BACCO
per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in
pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo
la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che
provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον
οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το
τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και
τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα
ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10
Trif.appo Plur. u lib.i'lliad . Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe
dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio, col
quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και
πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν
αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e
che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi
anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της
θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo, il quale come ſi
legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè
de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained,
cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non
d'altro, che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca, e prima della guerra
Trojana Medea, come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone, di
Laerte, d’Atalanta, e di Tefpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και
τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν
ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in
nalza, e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß.
Quindi provati più volte, e riprovati poi i lor medicamenti, dieder la prima
bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio: Per varios caſus artem
experientia fecit Exemplo monftrante viam. Macome pochi, e ſemplici erano in
prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole
della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la
ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler
faccia,cam biandoſi tuttavia, è migliorandofi i primi medicamenti. Così
cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma
non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette, che tratto tratto
non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da
ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi
cifoſſero; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero
poi a tale,che bia ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità
del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche
Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche
ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi
debba attribuire: onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω
πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το
θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών
προς πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και
αίρον έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το '
ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει
δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη
δημιουργός: δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και
έραν αλήλων, έξι δε έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό
πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto
non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e
come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne
divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con
iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che
da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celso avviſa, parte di
quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella
fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio
traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginnasio dell’ACCADEMIA, di
cui egli era Maestro, cpriino ministro, cagionevole divenuto della perſona, per
lo biſogno, che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e
conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnastica congiugnendo, e prescrivendole
alquante regole da lui per via della ragione, e della sperienza daprima
ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe.
E allora venne ella pian piano a perderdella FILOSOFIA l'an tica uſata
dimeſtichezza: comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera
d'Ippocrate primieramente avvenuto. E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da
noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare, ed Eurifonte, e altri il coſtume di
trattar ſeparatamente dalla FILOSOFIA le coſe alla medicina appartenenti
apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran
giovamen to alla medicina; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà
comprendere per colui, ch'alla verità delle core voglia ben profondamente
guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè
quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina, e
quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando, per poco di
razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol
coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava
no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti.
E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente gran ſenno fatto in non
inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone, inveſtigar la
natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi,
ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo cſſer compoſta, e
ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente, e non già a'Medici
appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente, compiuto,toſto che a
ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o dalla meſcolanza del
caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre
curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa
più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici, che
razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando,
più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina
rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per
vaghezza ſolaméte della verità con C trila traſtar ſolevano, allora affondati
tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire,
e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i
primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio
della medicina, era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de
Medici tenu to, rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore;
e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli
dall'altrui urmanità, e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise
gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria
ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio,e gloria formontar ne
doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da
Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la
ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio
anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe, è di poca fermezza in
mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua
ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro, ficome
narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo
rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermo Principe
vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente
eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo da Giove;e laſcionne a'pe fteri un
così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli in far
l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo
digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria
per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille
modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre, che
anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il
titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe. Ma per recarvi le
molte parole in una, e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la
Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di medicina s'intendeſſe: e molto meno
ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio; perciocchè sfidandoſi colui di poter
nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di
Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio, e
tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo, che per guarire un menomo dolor
di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine
con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva
forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito? E'l ſuo
gran Maestro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu far non valſe, allor che
a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita, e
dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio.
13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere foſſero quelle tanto
maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor falfamente la
menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli aftioſi con
tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne dire al
preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer
que’ primi ritrovatori della medicina appo' Greci poco in quella cercamente pro
firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia lcuno ſtudio,
carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì
d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome, e pregio per
tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza
rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente
mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della
medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici;
perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando, eſſendo, come
diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e allo incontro
appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro
riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro. agevolmente
acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive
perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome aſute, e malizioſe ſi van
procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e dalla vera
fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde preſſo la
minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da
giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta
tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran
dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne memorie; ſolamente non
laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone di GIRGENTI avesse una volta
damortifera peſtilenza liberata la Città d'Atene colle grandi luminarie, e
fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa, non che
da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto
ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate. E Toſſare
ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini;
perciocchè, come narra LUCIANO, in tempo che Atene era più che mai dalla
fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi eſſer
apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle
ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di
preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito,
conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά
τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ
λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ
ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io
amereil'uſato ſuo avvedimento in LUCIANO, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e
va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali
trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi,
che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo
lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè
dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e
poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del
malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti
giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per
procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto
conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla
natura del male attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici
ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có
quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar
déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che
diceÆfculapius: primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per
lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe
guiſe nar rate, ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da
dire del tutto favoloſe, wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή
ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω
ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio
alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti
alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli
Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti
per iſdegno di Giunone impazzati. E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto
ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil
ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito
ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo
buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto
dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra '
Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν
Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο
Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα
χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο- δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα ·
τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO
EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις
παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη
εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή
Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα
επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente,
e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero? Egli volle (liçome
narra Cclio Rodigino, c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar
fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le
cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente
oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no
ftro Azzio Sincero. Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto
giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i
ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre
fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava; ficcando carote alla ſciocca gentane, c
tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi
coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E
per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e
fanfaluche, oltre alla fama grande, che gliene ſeguì, di povero conta dino,
ch'egli era, inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi, e
ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto, e mariti delle figliuole di
lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li
ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo
del vino, o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo
brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea, e d'altri
paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc, la qual prima di eſser medicata ſe ne
morì: delle quali narra VIRGILIO nella Bucolica. “Pretides impleruntfalfis
mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus;
quamvis collo timuiffe: aratrum, Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte.” E che
per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a
ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioscoride; avvegnachè Galien giudichi, e
con più falda ragione,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il
qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più
toſto dalle capre, ch'e'guardava,come scrive PLINIO; le qualicon paſcer l'el
leboro ſi purgavano. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo
l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro, ma con latte di capre
paſciute in prima di quello; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo
caprajo, che loro il ſenno ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto
l'indovino: E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto
Empirico, ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò,
non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e
ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella
famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio; perciocchè in memoria di ciò vi ſi
leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo
Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν
εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις
Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και
αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου
μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov
súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa
infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura: e altri dicono
eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma
certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare, ch'amena due i
medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo
Ovidio:. Clitorio quicumquefitim de fontelevarit; Vina fugit:
gaudetquemerisabſtemius undis, Seavis eft in aqua calido contraria vine: Sive,
quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen,
&herbas Eripuit furijs;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri
permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero
Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato
Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà
lavare Aſtolfo ſette volte, E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo,
e da le membra folte Lava la brutta ruggine, e la muffa. Ma non ſi contentava
già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le
ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in
terpetrare i ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a
tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare, e che avendoſi
egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto
filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p
paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti
degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης
πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των
θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων
νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ
εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor. o de avasara moi gerópfu were
δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna
arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne,
e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual
cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che
non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di vantaggio mi v'affacichi. Non
però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie,
ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma
raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor
medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè dubitavano non
v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in
colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse
dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre
cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te:
e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno
faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive, come
racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις
τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ -
χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ
κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida PLINIO nel ſuo
volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli,
effofuri contrariun ventum, & tribus circulis ante gladio
circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori
cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che
altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le
gittavan ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole
intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi
chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne
moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου
περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην
αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα
τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει
και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da
parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza
d'ingegno ar gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche
Galieno? ecco le ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati,
che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da'
ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove
il medeſimo autore: è dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe
quella di coloro, che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan
pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non altro, va
dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto, ove dice, che
tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede, degni giuſtamente ſieno delle
fiamme. E ſappiano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di
ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia, debba pure con quel gran lume della
Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire: non debemus
profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes,
nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis
videre, alienis auribus audire, alienis naribus odorare, aliena ſapere
intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia
alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis diſcutiendum
putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galieno oltremodo
tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico
lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri d’ARISTOTELE, abbatté.
doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo manifeſtamente la vena
cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel fegato la ſua originç
trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi mai avf4 incredibil
vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena
cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò egli credédo a' fenfi
contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale tutte le vene nell'huomo
aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più
agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande, e
fourano ARISTOTELE in errore alcuno giammai eſſere caduto. E più avanti cbbe di
male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni
letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna, la qua le a ficvol lumicino
di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo ARISTOTELE,
negante law medeſima coſa, osù pur dire, che quel dalui veduto non era miga
graſcio. Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche
narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30, Santoro. mac ro in iſcriteura peripatetica, perchè non
veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle, ed altre nuove core dal
gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc chiale; e ch’un altro
più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle
picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano, per non
eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante
dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare
i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico PROSPERO
MARZIANO IN ROMA s'accrebbero? il quale di non volgare dot trina, e di faggio
avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente
in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re,
che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto
il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche Pier Castelli narrando
dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no
Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel. kexit, vel intelligere
noluit Hippocratem, & Platonem, ut ſua extarent. Quindida'rimproveri, e
da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio, ſpezialmente intorno alle c.2
gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non ſola mente Ippocrate non
avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro, ſe non ſe ove caſo di
grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che già prima di lui
pienamente CARDANO avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl, che la
febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono. E queſte,
ed altre buone dottrine il valent:huomo di MARZIANO faggiamente manifcftando,
ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma
non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na, la qual comechè tale, pur
merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata. Io dico la
Signoras D. Oliva Sabuco: Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo
fin da l'etade acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò
la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile
abbondevolmente fornita, animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad
inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior
utile, e prò la mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche
concio ne traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè
maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo II d'e
terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta.
Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la
medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no
aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza
propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente
losſabios y Chriſtianos Medicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto
juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di
poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re, dexela para los
orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a ella, pues mi
pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina
de Hippocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado tan poco effecto y
fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido enelgran
catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas enfermedades
donde no tiene effetto alguno, pues de mil no viven tres todo el curso de la
vida basta la muerte natural: y todos los demas mueren muerte violenta de
enfermedad, fin aprovechar nada su medicina antigua. E nel dialogo della vera
medicina: No me podreys negar, señor Doctor, que la medicina escrita que ufays
eſta incierta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto, falfu y
dudoſo, como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines y
efetosciertos, y verdaderos fin variacion, ni engažo, comola Aritmetica,
Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas, que a quel fin, y bien que
prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers
que falta en la medicina,pues eſta tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro
eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes, y fundamentos,pues no
echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas
māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en
duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos
tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento
ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes
fuemudada la medicina, y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma, y que muchos
ſabios mo le han dado credito, ni ſe han querido curar con medico por las
cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno
de la China, no admiten inedicos, j' ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos
autores antiguos, graves le ponen gran dificultad, diziendo, que la vida
esbreve, y el arte es largo, el juyzio difficultoſo, la eſperiencia engañoſa,
& c. I dixo Hippocrates: que perfecta yacabada certinidad de la medicina no
ſe alcanca, y no me podeys negar, Señor Do Etor que fueron hombres, cimo
noſotros: y que ſus dichos, no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella
fueffe lo quc ellos dezian, que ella ſe quedo en lo queera, y ſu dicho no la
mudo, y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada, como
lo podeys veren Plinio, donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante,y
mudable, que la medicina: y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora
D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre, ed
annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E baſterammi accennar ſo lamente
molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite, inillantando
falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle, come intorno all'ordimento,
che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento,
che H cla 58 ellämolto avanti ravvitate appieno, e glorioſamente già paleſate
ne'luoi libri l'avea. Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema
di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante, e maeſtro
in divinità CAMPANELLA. Non miſe egli già le mani all' opere della medicina: ma
pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani; e comeage vol fu al ſuo
pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare, che nelle
ſcuole comunemente inſe gnavafi, così potè ancheordinar con belle dottrine
un'al tro trovato dirazional medicina, e quindi ancor ne ſegui rono molti, e
varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete, o
quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania,
Elmonte, che con più alti apparecchi, e colla mente di più nobili arredi
fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più s'accrebboro i contraſti, e le
miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non
volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica, intorno allo
ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai
perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal
Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo,
e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare.
E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero
dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema
di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di leggieripuò crederſi, qua
to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò
dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con
quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non
vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per
fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi
ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri
illuſtri l'ette rati rati dell'età noftra, a molti de'quali, che che ſtata ne
forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti.
Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera, e
colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e della moderna filoſofia
naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna
menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro,
che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica
medicina, ma dall'an tica gran fatto varia, ediſcordante, Ma o quantoperciò più
le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra, ed avviluppar la
medicina tutta, non fa meſtierial preſente narrare, ſe tutto dì co’propj occhj
apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo PLINIO vi vo
fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur
ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur, non già di
que’della Grecia ora Icioperata, e incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma
di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi
ſuoi barbare giudicate, Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de
medici,in tante ſchiere, e tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la
medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon
coſtoro que'cutti,che nondi Greco, o DI LATINO, o di Barbaro, o d'altro ſtrano
ſcrittone, modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui
ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi
valtiſſimi Regni della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd
oftinati malori con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe,
o tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe
impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo
ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato,
tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio
curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza
H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi. Ed eſſendo a
tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in
queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate, e di
Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo giudico, che aſſai
monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà, debba loro eſa fere
permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella
vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA EBBO per ſoddisfare all'obbligazion
del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti,
che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente
ſdegnando, voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati
campi della Natura. Ma conciosſiecofachè el le fien molte, e molte, e tutte di
gran lieva,io non ſo qual prima mi debba dire, quafdopo; ſenzachè a me non fu
conceſſa in ſorte larga vena diben parfare, perchè con purgato ſtile
ſpianandole (e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe) la for
ſaldezza, e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno
elle an cora ciòdi vantaggio, che rôzzamente accennatc poffano, e pregio, e
commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere. E per venirne
omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro
parlamen, tando potrebbe imprenderne il filo. Egli non alzò certamente natura
con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la
fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi, e ſublimi, e liberi
ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè egli poi qual paluſtre mergo, raden
do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le
penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì
ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè
largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il
tutto e' pienamente comprenda, non già nelle copie incerte, e ragionevolmente
d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro originale. Così quell' Aquila de Greci
filosofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo
Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente,animoque.
E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e
de gli altri Segnò le mete, e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de
l'ingegno umano, facendo sì, che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro
non badaffero, ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti
gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto
non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro
della greca filoſofia Antiltene: quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile,
ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui
voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe, che le coſe,che per lui, da regiſtrar
foſfero, eſfer quelle non doveano, che già da altrui ſcritte in prima, diviſate
ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo
Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a '
luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella, popolare ſtradaconfuſamente co'l
volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più
ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe: c da più illufri
medici, e per valor d'ingegno, e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia
futta oltre modo abbracciata. La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle
il famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio Galieno, ficome in più luoghi ne da
pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella, e
berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i quali a' detti di lui, come
agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità,
ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno
rintuzzato affatto, ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle
ſenten ze, cd a'giudicj altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a
lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i
parteggianti tutti a por giù la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle
ſette: 0 quin do adiratamente grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur
coloro alla ſtradadella verità, i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche
ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne,
che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi,
ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano
ciò, che altri di neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un
male da non potere in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di
cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a
trarre: e che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi
ne men d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto,
coloro, cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o
piaceſſe pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate
dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto
manifeſtamente uccidere i miſeri infermi, che ſpiccarſi punto
daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri. Ma perchè dobbiam mai ſempre noi
con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi?
for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed
affatto nojofes Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed
infante Stimò dolce bevanda, e dolce cibo L'acqua, e le ghiande, ed orl'acqua,
ele ghiande Sono cibo, e bevanda d'animali, Or che s'è poſto in ufoilgrano, e
l'uva, O forſe alcuna coſa, ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora
falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta? Così
ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei
ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo,e del ſaccolat to, e
de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici
nuovitrovati,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono, cd atterrano
ogni razional ſi Atema d'antica medicina. O forſe farà egli colpa degli in
nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è
fallo, e colpa, certamente commiſerla in prima coloro, i quali da' ſentimenti
de' loro più antichi maeſtri tralignando, e nuove ſchiere di filoſofia, c di
me, dicina anmutinando, ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro
antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo, e temerario ardiinento.
Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno; perchè figgiamente il Princi
pe CLAUDIO Ceſare apppreſſo TACITO ha a dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur
nova fuere: inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur,
inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo
derno Poeta contro que', che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo,
in ſomigliante guiſa conchiude, Qui nova damnatis, veteres damnetis oportet;
Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar
Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non
cale le vecchic ſcuole, che allora nella Grecia fioriva. no, a quella di
Socrate, che nuova era, per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono?
anzi ne furon perciò foin (1 ) Etienne Paſquier. 05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi
furono le ſcuole di Platone:e pure ARISTOTELE, e Senocrate,e Speuſippo,ed al
tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno
di biaſimargli. E dalla novella ſcuola nel ginnasio del lizio d'ARISTOTELE in
tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo, che uguale, e forſe al
inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone,
funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la scuola di Zenga ne, e nuova
quella d'Ariſtippo, e quella di Fedone, equel. la di Euclide da Mogara. Così
anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide, d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al
tri molti maeſtri di filoſofia, e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle
vecchie, e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte,
riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri
ſcrittori di que tempi. E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le
vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove
già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe
ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli
antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio
Filocle, nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla:
e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa
ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo
ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto,
o di Zeuſi, o d'Aglaufone, o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i
colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e
perfettiſlime riſaltando,n'aveffero,e gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei
maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare? così anche i noſtri avan
zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi d’ALIGHIERI, Credette Cimabue ne
la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui
ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna
Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino PETRARCA, ed altri
famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to, ed al preſente
s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di SANZIO, e di Tiziano,
e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la
Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave
coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi
d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri illuſtri, c nobili Poeti; o ROMA de'
ſuoi Lucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli, de' Properzj, de' Tibulli, degli Orazj.
Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del
Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo, e
del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma,
vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo,di Giovani
della Caſa, o la maraviglioſa evidenza dell'ARIOSTO, e dell'ALIGHIERI, o la
dolciſſima muſa del PETRARCA, del Bébo,dell’Ala māni, del TRISSINO, del Molza, del
Guidiccione, del TASSO Pa dre, del Guarini, di Galeazzo di Tarſia, edi altri,ed
altri nobili ſpiriti, che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano,o pur la
vincono, ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato
d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi
l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate, e creſciute non già per coloro,
che le comunali, e uſitate ritennero, ma per coloro, che d'ammendarle, e torne
via glierrori, e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν
γινομένας, και των τεχνών, και των άλλων απάντων, και δια της εμμένονάς τοϊς
καθεξώσιν, αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς
εχόντων. Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali
pare, che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha altra
ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe
inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina
permettere? malli mamente, che il campo di eſſe è queſto si vafto, e grandif
ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore, ed a moinenti apparir tutto
dinuove, e nuove coſe fi veggiono, da te nervi i più ſublimi, e pellegrini
ingegni mai ſempre img piegati. Multa dies, variufque labor mutabilis ævi
Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è, che'l mondo più ſempre mai col
tempo invecchiando,dinuovi, ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano
in mano i ſecoli arricchiſce. Così noi veramente ſiam da dirci vecchi, e gli
antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati, e non que’tali, che nelmo do
infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro. Anzi coloro, che per
innanzi naſceranno, più di noi ſaran vecchj, ed antichi, e conſeguentemente
d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati, e diquant'altri per l'addietro mai
furono, auran cagione. Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime
parole del gran Baccone da Verolánio: de antiquitate autě(dice egliopinio,quam
homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua: Níundi
enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus
noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa
enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major; reſpectu mundi ipfius,nova,
minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam, á
maturius judicium, ab homine fene expectamus, quam à juvene-propter
experientiam, & rerü, quas vidit, & audivit, & cogitavit,
varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet, &
expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem puribus
expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, &
obſervationibus aucta, & cumulata. E in verità, chi ha mai tante, e si
diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli augelli, e
ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove turto di
attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filoſofanti viſi
aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne
va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto, che ora
d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo
Auderet, folvenda dies en attulit ultro. Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i
confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare, così altii ani
mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne
conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari, c d'altre
perſone idiote, e volgari, dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante
incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò, che Erodo
to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in
prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti
(tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori: τον μέν γε λιβανωτον
συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του
λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01,
Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E del Laudano, affer: mò eſſer quello
odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na ſcere in luoghi puzzolenti, e
ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce
da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών
των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins.
Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che
le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων
λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG-
επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί
λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E
ſimilniente fi pare, che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del
Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e
ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tenace graffezza, onde poi
pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia
del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che tirando, e
sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza, chevi
s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού
νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως •
και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει,
και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις,
και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc
Plinio, ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura
intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui herbam in
Cypro, ex qua id fiat,ledam appellent: etenim illi ledanum vocant: hu jus
pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas
fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno, quando dice gevers auto del
laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e
Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ
αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι, και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και
οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και
τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano
Diofcoride, e PLINIO, pur troppo groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri.
Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l
ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur
ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma
ſalvatico, emon tano. Io non farò menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili
bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi
inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove
diffe, che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co
me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di
credere, cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in
diſtillando da tali alberi fi rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar
fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che
per gli occhj fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo
caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe,
onde poi Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua
lucidus amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli
a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della
caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za
gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra
eſſe lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari
profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate
fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza,
e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola
ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre
pelligec colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα,
και το πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν
λίμνη φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι,
της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα
δη απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi
pare ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer
nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali
ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che
nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia
no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε
κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι
τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και
κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον
καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από
μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και
δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò PLINIO con l'uláta
eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt
recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus
vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine. Ma che
direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili
delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il
Cinnamomo, dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe
non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu
nutricato, e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci
traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi
inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in
pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli
appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto
calan giù, e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non
valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race
colta:όκα με γας γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην
όπλόγω άκόπ χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο
Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς,
απο Φοινίκων μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας
πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι:
πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο.
μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα
τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας
δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας
νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους
συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di
Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo
fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo PLINIO
chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue
fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gl’arabi con faette di
piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον
όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν
τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε
εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς
πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του φουτου το
κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας
τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα & φί. ραν, και τους νεοφίας εκ
τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε εγχωρίες
μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας. E non
molto diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri antichi appo
Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν
φάραγξιν, εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος ούς
φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν
εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in
animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer
eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te
dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo
ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo
poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni
d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe
navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano
ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj
leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e
meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli
animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες
θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν
διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ
φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe
favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral
arbuſcello, che produce un frutto lungo, ſicome baccello, il qual chiam ali
pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau
quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè
aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella, ficome gli
veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco,
e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero,e
dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale perciocchè a debita maturezza
non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ, δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν
ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί
μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και
τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε
κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το
λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου,
φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας
αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma
troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad
uno tutt'altri lor fallimenti annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor
negli genza, ſenulla ſeppero, over nulla curarono del muſchio, dell'ambra
grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri
aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna, il non aver eſſi avuto
contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè, del
Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa, della China, e
d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così
manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno. Mache più:
laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole,
che peravventura cader potrebbono in penſamento umano: 0 pure avendole da
altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute, sì le abbinn per
vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo ARISTOTELE, che i
Corvi uſin per bocca colle lor semmine, e dea cagione dicantare a colui:.
CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che
infinſero agli antichi della Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e
Sor gona appellafi appo Ateneo, la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo
diffonda, che immantinente l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e
poco ftante fi muo ja; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne
l'eſtremo occidente V na fera è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E
doglia, e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che
favoleggiarono Megaſtene, Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed
altri appo Erodoto, Strabone, Diodoro, PLINIO, e GELLIO degl’uomini, che in
Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo
mini, che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i
Troglodici ſon ſenza capo, e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che
han faccia di cane, e latrano, e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la
ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana
torma, Più moſtruoſi volti, e peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini
ban forma, Col viſo altri diſcimie, altri di gatti. Stampa no alcun co’piè
caprigni l'orma: E traſandiam Platone, che verace credette quella bugiar da
fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello,
e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal
fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano
pe'l gran contento, che prendono del preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far
hanno. E con queſto di Platone,laſciamo impunito anche il fallo d'ARISTOTELE,
qualor prende licenza di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari,
che buſamente, e doloroſamente cantavano; eſſendo in verità il lor căto
un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura
diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri, perchè po co, o
nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così
d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei
Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome OVIDIO, Id quoquequod
ventis Animal nutritur, & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua
vefcitur auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it
Camelconto della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di
Plinio;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di
peſo a Democrito, che un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος
ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel
qual Democrito favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo
gli Atenieſi, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di
tal linguaggio. Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che
deffer credenza VARRONE, PLINIO, Solino, COLUMELLA, Marziano CAPELLA, e SERVIO
follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento,
e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica
del Pegaſeo di Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne
freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro
ardicainente attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille,
Εάνθαν και Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη.
E ſimilmente VIRGILIO Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante;
leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E SILIO
Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nullus erat pater ad Zephyri nova
flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il
noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove talora L'avida madre del
guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora, Nel cor le inftiga il
naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora, Raccoglie i ſemidel
fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe, e
figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei, della
Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone, del Coccodrillo, della
Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo marino, del Baſiliſco,del
l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi, delle Si rene; e tant'altri
errori, ne' quali non pur degli animali, ma de’minerali altresì in trattando
incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga
ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e ben dovuta rin chieſta, il poter
da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne
loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in
no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto, e mercè la
diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi, i
portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali qualche ſi ſia paeſe
venga fornito, quali piante germogli, quai minerali produca. E non v'ha ge te
nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per avventu ra, o da neceſſità
coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato, il
quale ad al tre più umane, e ben coſtumare nazioninon è occorſo. E ben ciò a
pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi gilie, ne per iſparti ſudori
di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar
la ferocia delle febbri, quanto è quella maravigliofa corteccia,inſe gnatane
da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quanto egli ora ammirerebbe per
Dio queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza
di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe, IL SUBLIME POETA FILOSOFANTE
LUCREZIO, ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente
preſe a cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc
addita navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique
natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper, & hanc primus cumprimis ipſe
repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p
Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte
l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di
tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si
paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi
bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol
filoſofo, l'ingegnoſiſſimo GALILEI, per tacer di Renato, del Gaſſendo,
dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la
gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar
tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur
ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor,
qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio.
Neque enim quafilaxa, & effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma
ſu concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a
dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli
ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come
ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter
le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj,
e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il
filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa marrà a ſuper della
Terra al Geografo, ſenza le novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi,
cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova
aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti
ricevuto? Non s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo
minuto, e de più ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo
innumerabili ſtelle della via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in
faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri
anella, ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar
della faccia di Venere, o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece, o
le montuoſità della Luna; o l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di
Marte intorno al So le? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender
l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del
fuoco, e tanti, e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i
medici ſenza i novelli trovati della notomia morta, e della notomia vitale ad
impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e
quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li
porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita
più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè
manchevole, tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la
falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che
ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile
poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe,
cavarc. Ma laſciando ciò al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer
ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di
ciaſcuno, o antico, o moderno autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti
d'alcuno tenacemente ligarli, ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte,
fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più
ſavj filoſofancije da ſacriTeo. 1 logi comunemente leguito, e fommamente da
ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e
de'Satirici POETI LATINI, checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti
dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne canta Quod verü,atque
decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo, &compono,quod mox
deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter: Nullius
addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas, deferor hofpes;
Nunc agilis fio, & verfor civilibusundis; Virtutis vere cuſtos, rigiduſque
ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res, non me rebus
ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando...,
Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc effet vetus?
aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus? Odafi QUINTILIANO:
neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni autoresdixerunt, utique
efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam, & labun
tur aliquando, & oneri cedunt, & indulgent ingeniorum, fuorum voluptati:
nec intendunt animum: Odali il Romano Oratore: non tam autores in diſputando,
quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt,
plerumque eorum autoritas, quife docere profitentur: definunt enim fuum
judicium adhibere, atque id habent ra tum quod ab eo, quem probant judicatum
vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pittagorici,
a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo
lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum opinio præjudicata poterat, ut etiam
fine ratione va leret authoritas. Odali oltre a' già rapportati autori più
fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone
ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì fatta natura, che a
niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione,
che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata, e
diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima: as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy
de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér
w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale, avendo a trattar
certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni
de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando,
cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ
όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma auea egli detro a pro della
verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo, diſtrugger le ſue proprie
credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina ſentenza ch'egli medeſimodal
Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro, che Ariſtotelici, o
Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno, vien comunemente
traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica
la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del
nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono: eſſi amar meglio di
ſcioccheggiar con ARISTOTELE, Ippocrate, e Galieno che con altri laggia mente
diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor ARISTOTELE,
ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete, PITTAGORA DI CROTONE, PARMENIDE
DI VELIA, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo, Democrito, Anaffagora, cd altri
molti, che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia; e ne
meno per riverenza talor ſi ritena ne, chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate, e
Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima,
e riprende; e forſe ſe ſua malavoglienza, ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi
ancor credere, che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e
carminaſſe, chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri, e farnetici, e
ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti, e non farebbe per avven tura gran ſenno, che
ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia, e danon così gravemente mordere. Ma
queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e
ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia,
in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno, in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro
mai ſempre antiporre la verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta,
almedeſimolor maeſtro, e duce ARISTOTELE, non che ad altri filoſofanti; e'l
ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e
queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii
moderni riformatori della filoſofia, a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad
ogn'orapreporre la veri tà ad ARISTOTELE, che allora con ſignoria da tiranno in
tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun
riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile, e veramente filoſofica
coſtanza, nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati,
e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli.
Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo
maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν,
αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica,
o non dica il vero,doverſi conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il
celebre latino Stoico; il quale al ſuo LUCILIO in una piſtola, così favella:
Epicurus, inquis, dixit: quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi
egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum
tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à
quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro
propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti:
qui alium fequitur, nihil inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora:
Non ergo fequor priores? faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare,
nec fervio illis fed, aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta:
Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar
ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον
δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. cavato nel ſuo volgare dal beato
Girolaino con queſte vo ci. Poft Deum,veritatem colendam, quæ fola bomines Deo
proximos facit. E ſe tanto può far la verità, dove più riporrem noi l'a nimo, a
qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche,
ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla
verità? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità, e della
glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed
ultimamente i moderni noſtri filoſófanti, che in tanto pregio,e tanta fama
glorioſamente falirono; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe, e
Talete, e Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e PITTAGORA DI CROTONE, ed EMPEDOCLE
DI GIRGENTI, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate, e
Platone, ed ARISTOTELE, ed Epicuro, e Zenone, e tanti, e tant'altri filoſofi
d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri ſex coli
d'aver recati almondo il Cardinal Cusano, e' Copernico, el Patrici, e'l TELESIO,
el Ramo, e'l Donio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l BRUNI, e'l Gilberti, e'l
Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l GALILEI, e lo Sti gliola, e'lCAMPANELLA,
e'l Verulamio, e Renato, e'l Gassendi, e'l lungio, e'lConte Digbi, e'l
Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio, e'l Mal
pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e ' Bellini,
e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria
Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto
s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi,
che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni
della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va
ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno,
ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E viuran ſeipremai
pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri
delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1 commendevole, e
neceflaria libertà; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca
oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio,
e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar
lungamente potrei, e di sì fatti errori quaſi infinito numero
rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia; c fie baſtante il ri
duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e duriſſimo Peripatetico LIZIO narra
il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora
più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico
molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p loro ſtudio,e altri per » curioſità
convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno, non men
dotto, che diligen te, e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi
andava ritrovando l'origine, e naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa
controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici LIZIO; c moſtrando il
notomiſta, co » me partendoſi dal cervello, e paſſando per la nuca il gra »
diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc,
diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil ſottiliflimo, come di refe
n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo, ch'egli conoſceva per
filoſofo Perripatetico LIZIO, e per la preſenza del quale egli avea cons
iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò, s'egli
reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello, e non dal
cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc, riſpoſe:
voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta, e ſenſata, the quando il
teſto d'ARISTOTELE non foſſe in chiaro, ch'apertamente dice i nervi naſcere dal
cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque
potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos,
Errare, & labi contingit, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt
nominis alti Autores, uticonnivent, deducere eajdım, 1. Tantum exemplavalent,
adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive
dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma
vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la
libertà, che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi
baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro
che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra
gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni
manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui
detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e
così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà,
che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me
illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar
s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, &
abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to
Ito, e rigetti;indi le parole medeſime di AGOSTINO recate avendo così
fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla
libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia
ſcrittore, e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel
tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il
varco a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei,
che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente,
non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della
Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo
al Gran GIROLAMO, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto,
ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura,
ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios
autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant,
non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is fenferint,fed quia mibi, vel per
illos authenticos autores,vel probabili ratione, quod à vero non devient
perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. AGOSTINO quel criſtiano Tullio, Lattanzio
Firiniano, avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non
ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via
coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati degliantichiapprovano, e a guiſa
di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre; per ciocchè:
ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa jorum nomine pofito non putant
fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia minores vocantur, aut illi
deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de:
Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum, at quomodo illi, quifalſa
inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum invenimus poſteris meliora
tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi, che talor
dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri, ed a’Dottori medelimidi
Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in
veſtigar la natura delle coſe; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici.
Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun
paragone; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno,
altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro
dietro ſenza nocimé to alcuno, che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici
per lo contrario, con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare, non di naſconder
ſolamente altrui le verità naturali,non di ficcar carote al baſſo vulgo
ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles
c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima
mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati dietro al lor Galieno le
veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e come ſaggiamente notò
l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui
vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am,. 1
maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda
a tal propoſito, che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa
il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene
acquoſe in un cane da lui aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio
Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer
eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno )
e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al
naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli
per rifi pare, ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di
carità, e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non
valere ſtar su le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le
man pro pie le facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia
de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi,
ei malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi
de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità,
e'lnatural conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo,
Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno
Timidetteatt errandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma
chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe
ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga
d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta
verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio,
quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo;
e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi
d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per loro ſi poſſa alla
gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi
argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio, forte lagnádoſi
Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur
Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores
Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i
veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Plistonico,
e Praſlagora, ed Erofilo, e Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed
Aſclepiade, per tacer d'altri, es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così
anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l
Valentino, c'l Paracelſo, e'l Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e
tant'altri avvedutiffimi medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti,
non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe
non altrui, credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra
rapportato, egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe
medeſimo narra, che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i
qualidaIppocrate, e da Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il
nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα
των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους
εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ
λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in
aivoso: ma che? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a
manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che
fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua
fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc
una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ
ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε
κακώς κρίναντα, τα δε αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o
pure impoſſibile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non
s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando,
e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì
Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun
traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più, che a
tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon
prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli
veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano,
il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino
Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in
queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque
contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della
vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior
lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote
te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle
divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo TELESIO ſotto l'effigie della
Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e
con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non
fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa,
che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e
pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani,
cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di
Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi
miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare
foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni
liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto
con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono. E
percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche
ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo
inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del
ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle
differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire: Eſſer egli da credere,
che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami
nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri;
ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo, perchè
dalla verità non venghiamo a dilungarne; e quindi a poco paſſando a di ſaminar
le ſue dottrine, il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente
egli pregiandoſi, alla fine con chiude: quæ animadverſiones liberum animum
oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi rapporterò lo altre ſue parole
intorno al mede fimno ſentimento, che troppo lungo ne verrebbe il mio di.
ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte per lui ſi ripigli, l'haver
Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì
folle opinione, unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta
cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi
eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male, contro luiprorompa
in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis
faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio
séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare? cgli avvedutiffimo
ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo divino Ippocrate
nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona, fi come nelpurgare,
e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue
forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in un particolar luo
libbri M cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe
contrarj, e diſcordi, ch’in niun modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar
baſtantemente fi poſſono; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare
quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo
degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per
altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato, il Mena, il Segarra,
il Peramati, il Pereira, e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri
Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo
profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli
faggiamente proteſtā do, dice, che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co
ſe, ch'e' rapporta, alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe
inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun
modo: quàm(ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed
rationum momenta conſtet preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed
magis amica veritas, oy tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera,
ancor de Medici di Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar
ſogliono ſtrettamente confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che
no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda
fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di
pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli
antichi maeſtri, così dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ
falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum
auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe
ſue chioſc, ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta
ſtra da, non ne torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo,
che sì; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero
in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio,
fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1 na, ut
multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth. vo. lunt. Or ecco, come da
Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e lotto le bandiere del barbaro, e
miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta, e cerca, di mandare a
terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu
quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce, cotanto replicata
da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα
τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί
σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli
è coſa falutevoliſſima, ficome io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle
finoche, ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate,
fol, che l'età, o be forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la
fellonia, con dir, che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella
terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però
è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della
Crusca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non
l'avria Demoſtene difeſo; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il
maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno, il che affai monta in
faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il
Pereda, colà ove dice: Mul ti fequuti Galenum lib.VI.derat. vict. in morb.
acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia
plethoricaaffectione orto,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum
nobis videtur,immo falfum, quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do
funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer
filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il
Pereda, favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno
ſpiegato; quem locūzignofcant mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit.
Stefano Roderigo da Caſtello, Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma
ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia
d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile,
che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro,
che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così
favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa
phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü
ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi
qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una
fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo
filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel
menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina.
Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante
all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc
fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al
tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate
có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi
Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non
intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle
malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, & forfan clariori
caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento
repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne
tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc,
affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del
medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della
doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut
fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, &
reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à
natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina in infantis anatomes non
potuit circulationem fanguinis, cu motum percipere. E in priina, di Galieno
medeſimo avea già detto:fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in
pueris, non ftandum ejus doctrine. Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli
trovati dà piena credenza, fi come all'aggirarli del ſangue, ed alle vene
latree, e ad al tri molci diviſi moderni; perchè ragionando d'Arveo, così
manifeſtanente dice: quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat, quod nova, ab
illo noviter dicta, quia in naturali busnon tam quis dixit, quam quid dixit
examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero
filoſofo, degna d'un vero medico, degna d'uns vero, ed avveduto diſcepolo
d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte
delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola, eco ſtantemente di
non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto?
Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia per ſolo titolo i
medeſimi Greci maeſtri; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare
dilunghinſi, non ſi può egli bastantemente narrare. Eben'avviſollo una volta il
teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce, il qual dopo aver due luoghi
delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di, o nc'troppo caldi
tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue, avvegnachè grave, e di riſchio
ſia la malattia,e l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante della perſonas
foggiugne inanifeſtamente poi: certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo,
&in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit
fanguinem? quid mira quod multi interierint, ut dicitGalenus? fed quid mirum fi
tantum aberrent multi, ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia?
Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia,
nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col
Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal
dase coſtante, che non abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento
Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no;
imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del
ſegnare, e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si
fattamen te fi dipartono, e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i
medeſimi liberi, o vaghi mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun
comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è
da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo
purtroppo manifeſta la libertà, con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar
l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge
gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto
il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della
verità,le cuilo di di celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca
la ſua eloquentiffima penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè
ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando
macſtro Ippocrate; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere
diluiabbia rivolte. E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun
ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate, ARISTOTELE, e Galieno faccia
contraſto; palesí do ſenza riſpetto, quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno
l'altro annulli, ſpezialmente colà, ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà
dell'orzo, o dove ragiona filoſofan, do dell'amaro ſapore, e tutt'altri
fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa
libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo
Fernelio, il quale, comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro
Maſſaria con quelle pungenti parole: fummus cum ratione hic vir ſuo libro
titulum inferipfit, Ferneliime dicina; namque fi totam illius inftitutionem,
omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus
propria, epeculiaria, ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran
lume della riſtorata cloqueaza Ro mila, 1 mana, ma ſovrano pregio dell'arte
della medicina eſtimar fi; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes
anzi a commendare, che nò; imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe,
e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l
penſier rivolto, per certo, che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno
imitatore, anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non
riguardò punto a quelle parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue
novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo
volume laſciò ſcritte; la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni,
econ sì maraviglioſa facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per
avventura, o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per
eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo
quell'ultime ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati
dell'età fua, così al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi
dere. Dicendi ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ
genus omne excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc
artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris,
magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore
celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit
temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã,
velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle
bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi
ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a
vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio
com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più
maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli
ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne
magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì
maraviglioſeforti d'oriuo J ligo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in
opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o
le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite
telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi
gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, & ultimo ſtento
de’vincitori: e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti
fortezze, traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a
diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come
egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed
altre fille non mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a
quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe
egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli
ſtrumenti del vuoto, in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche
de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue
e di cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età
noftra. Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta
pur degli inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-,
fent, ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores
jecerant, nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum
mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis
vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio,
e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente
poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore
nell’Academia di Mompelieri; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de
gravioltraggj, che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi
ſavi patiti, haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra
yolri, che s'eglino pur ci ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur
certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. sì loggiugne. Hinc res eò
miferia tandem reducta fuit, ut quum maximophilofophurum damno aliorum
commentaria periiſſent,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee
Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens, quæ fine contro verſia
proponerentur. Quindi egli con animo libero, e fin loſofico, dinon dover ſenza
minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente
proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice.
Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere, de
pleriſque dubitare: ut diligentiore facta inquifitione veritastandem (abfit
invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà, dice egli, da cia ſcun
doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità, che ol tremodo ſe ne ritragge, e
per l'autorità de'letterati più prodi, ed in iſcienze più valoroſi, che ſempre
glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca
talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj, e
ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin
loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża, anzi non pago di
ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi
de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un diloro ebbe già quell'e
legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia
guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente
la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della verità, dice, quella ſola
la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano
alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione
introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a
Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato ARISTOTELE; e
nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato CICERONE. E fu opera anche
della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro, e opporſi
Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un
l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, e
ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida, che più le viete anticaglie
degli ſtolidi maeſtri, chela nuova, e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano
così ſoggiugne. Et paganorum quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno )
memoriam ſuperſtitiosè coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à
falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere
judicetis? Ma non comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per
tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a
cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur
le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine
del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri,
da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben
filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra
ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della
Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui
ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto
non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli
ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà
in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo
Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano,
o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a
difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o
Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire:
Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa
prioribus ſeculisincognita, & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in
apertam lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con
Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più
oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99
quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor
Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri
acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de
France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più
liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in
trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi
maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo
ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così
apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, &
illuftris., vene randus: veritas tamen, & antiquior, & illuftrior, dve.
neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di
Corrado Geſncro, di Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di
Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre
una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno
follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi
falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila
falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per
dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain
inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel
che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per
fecutori del Paracelſo, eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta
dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri,
Tomaſo Era fto, Giovan Cratone, Gaſparre Ofmanno, nimico il più im placabile,
che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera,
intinto biaſimò, e ſquarciò, che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno
anche funne ripreſo: l'un de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando
il motteggia: ad Hoffmanni modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim
fcurrilitertraducit; e l'al tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo,
di lui N 2 ſcri Tôo ferive: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat
omnes Medicos, utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora
Rinieri Solenandri filoſofo, e medico digran pregio, il quale coll' armi, dal
medeſimo Galieno un tempo adoperate, coraggioſaméte diféde la ſua ragione; e
dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici
medicaméti,così con tro di lui, e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio
na. Si in his medicina partibus, in quibus plus externi ſon Jus, experientia
valet, quam judicium, & ratio, tantū deliquerunt majores noftri, quid
credere debemusfactum ef feincæteris omnibus, quæ fola ratio, & ingenii ac
umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe
di già fatto palele al mondo, quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità
andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della
medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor
maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto, ſecon do, ch'io mi creda, quel
tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto;del quale perciocchè e' fa
moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza
alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe
ad Antonio Guntero ragiona. Semper novum (dice egli) Suſpectum fuit, antiquum
vero lauda tum; fed an jure ſemper, dubito; nam, quod nobis antiqui, olim novum
fuit: ideoque non tempore, fed rationibus opi niones affirmandæ funt, eæque
veriſimehabende, quæ cum natura, qua antiquiſſima eft', confentiunt. E poco avă
ti: multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura
ſunt, ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint. Ma non hà egliper
mio avviſo animo me no nobile, e generoſo del Sennerti, il famoſo Galienilta
Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente, e fecondo
ragione,la verità delle coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra
gli altri ſuoi li beri, e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno,
e avviſando in quante beſtemmie, cd empiezze foſſe coluinelle ſue dottrine
ſtrabocchevolmente caduto così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft?
fi enim iſta non poteſt, ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di
lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe
grandenefas eft? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così
del ſuo mae ftro Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, & fuit,
&erit; non tantus tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis,
qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del
Lindeni maa gnanimo, e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe
Zaccaria Silvio; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre
a reverendi ſentimenti del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli
ricalcitra;e tra viando dagli antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie
s'argomenta talvolta, comechè poco felicemente, d'ag giugnere alla verità.
Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū
eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis
inventa, fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur.
Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona, non è la medicina, o la filoſofia
così ſtretta, così anguſta, e di sì poca ſpazioſità, che di preſente dagli an
tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna
altrui; ne così manifeſta, e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe
chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla
liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri
alla gloria vincerla ſolamente della mano; veri tas, fù ſentenza di lui, in
multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis.
Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico, fi loſofante di
Ollanda; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze, ſe non che io
temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non
poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico
de'ſuoitempi Giacomo Bacchio; il qual veggens е doſi da' ſentimenti, e dalla
ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue,
niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli
antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette, e intanto l'abbracciò, che
conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti
ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol
gerſi, e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe
fi riformerebbe la medicina, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe. Sic
contingit, oſſer vò egli, concefo, ftatutoque ſanguinis circulatorio motu,in
numera veteris doctrina fiatuta inverti; unde totus docendi ordo turbatus
præpoſtere, & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur,
addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus, &certo ordine
inſtructis ſia biliri decer. Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il
quale, da queldella Francia poco certamente s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi
aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no; e intanto l'abborriſcono, e ne
ſon ritrofi, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne
voli, e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti,
raccorciarne miſerabilmente la vita. No lo mi prenderò quì punto briga in
provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi, emedicidabbene, e amatori della
verità, no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna; ed egli ſiè ben
manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere
ſtato dimentito, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno. Ma non men
libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente
appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno, o d'altri antichi medici,
ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle
ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque
prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi
dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di quelGiovanni, che ſopra tutti
manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora
da lui, ſotto nome di Roſa Anglicana; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a'
quali, comeduchi,e maeſtri del filoſofare, e dell'opere di medicina, piacque
anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più
allor crebbe, e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando
pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera
de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche, elatine
lettere; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè
per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to
poi nella famoſa penna del Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti
Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio
ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo
ſe ſcuole,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento
del ſangue, la qual sì forte, e valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio
orgoglio al gonfio, e folle Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo
divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto. Ma chi mai
pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte
paffioni di Sette, e di nimiſtà, intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole
liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe, che nelle ſue glorioſe. opere così
par, che ſaggiamente ragioni: Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato
di coloro, anzi tal volta hogli preſo a gabbo, i quali follemente s'avviſano
aver l'operc d'ARISTOTELE, o di Galieno, o d'altro più cele bre maeſtro cotanta
perfezione, e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di
vantaggio. Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che
compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente
ſpiarla. Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente
aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò,
che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna, altrove poi
reſa. ne fedeliſſima interpetre, più diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone.
Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno
all'uſo, o alme ftier delle parti del corpo umano, chiunque in prima non
n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito
diligentemente, e la fabbrica, eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e
delle lor parti conoſciu to, e l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus,
dirolla pure colle ſue propie parole, nihil prorſus commodi ab his
auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum omnem plane fa pientiam à primis
ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa
eſt. Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio
a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio
di Londra, o nel proemio del libro della generazion deglianimali? Pudeat, udite,
come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il
magnanimo amator della verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo,
tam.admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere;
incerta indè problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas
nectere. Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum.
Ma dalle nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima
Italia, pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual
certamente, intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili,
e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i
Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado,
e gli Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento,
c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche
Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio, e Gio van Manardi, e Giovan Battiſta
Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri
molti, a’quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine
d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam talvolta effer
coſtoro manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri,
e in mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono, avvegna chè di non poca
conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco Io già al preſente per
teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer
curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli
Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi
commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le glorie del
famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci, e
imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi
maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina, ſenza appiccarſi
molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo cratici, e Galieniſti
eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin chiarezza di fama
avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente ſcrittore Girolamo
Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella
gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno, ſolamente
s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue
opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno,
prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela, e manifeſtamente
biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo ſcrivere, e del
porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi par da dover
tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo eſſere ſtato
colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio logorato
v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re. E
delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere
ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli
arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza far
prìo O va delle ſue mal credute dottrine: Caufa errorum in medi cina eft, quod
quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus, & c Princeps, & hodie
omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento ben degno da dover far faldiffima
im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum, &dogmatum fcribuntfomnia.
Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti, e'nó mipare di dover
tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità
egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro; per
ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e la caſtro naggine de' teſtereccj,
émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra l'altre, cosi una volta
ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice egli, credulitatem, de
mentiam, & impietatem medicorum noftræ ætatis, quorum aliqui eo deveniunt,
ut cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines, utferviant pertinaciæ,
quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner
l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle
dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero,
anzi l'anime loro medeſimc non curando, foventi fiate il diritto delle divi ne
leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis, grida egli pictoſamente
piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis aninorum,nec præceptorum
philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat. Machirccherammi amcinoria tutti
gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla
pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi
parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando:
Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da
tanto, che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci
volte si, e tanto operano colle loro trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici
più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro
opere il digniffimo nome di Criſtiano, e laſciata affatto la pietà, cla ! e la
carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto, tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi
veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e
miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o
affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili
giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale
graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui
eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari.
Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus,
qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet,
ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a
ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar
la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile
giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti
misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone
nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della
natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo,
ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole
dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni
coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina
appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza
delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor
di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e
ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto
grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri,
e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità.
E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita
penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem
premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i perſona: diuturno
cruciatu protractorum per longumtempus morborum: per rapportarvi omai alcune
altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum,
debilitatum,quæ poft fanationem illis relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi
vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur
eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici. Ma troppo piacevol coſa è a
ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra, i quali
baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto, e
abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla fine i cattivelli
infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a pagare a ingordiſino
prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino ancora forſe la lor
mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di
Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi. Egli comechè
fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada tratta
dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro oſtinatiſſima
nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam nunc poſt cineres,
dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ
chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia, e
di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere, allorcertamente
poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di
parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata majorum, diſſe
generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda non funt, ne eo
ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo, quádo
cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris nefandum
illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam
nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe
egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé 1 te
bia. te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato IL REVERENDO ARISTOTELE; come
ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice
egli, carpendi longe de meliorem; in quella guiſa appunto, che quel nobile Ga
lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva, che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato
il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori; della qual coſa,
non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri, così
rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque
aliis omnibus, qui funt ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea
reprehendere, quæ ma lè funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li
centiam adimis. Ma prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per
ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e
nelfiloſofare, e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e
nella filoſofia, e nella medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè
meritonne d'eſſer'altamente pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore,
e intendente delle buone lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu
coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato
ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito, no curante l'altrui autorità in non
poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica:
coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo
diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente
proteſarlo, portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran
lie va. Quoniam noſtri antiqui progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores,
rationibus, experimentis, comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos
imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta
venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo FRACASTORO,
avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il
fuo maeſtro Galieno, e molto a capitale il teneſſe; non però dimeno, reſo
talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio,
d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli
ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo
ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e
nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder
ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins
altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom
certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che
tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion
del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio,
così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft,
&originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato:
Principio quæque in terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura
educit in auras, Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed
enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur:
Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus
violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant
tenebris, &opaco carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula
poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza
della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non
omnibus una Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus
babet, &primordia praſto. Rarius emergunt alii, poft tempore longo
Difficiles cauſas, & inextricabile fatum, Et feropotuere altas ſuperare
tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque
ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galieno, e iſeguaci di lui,
prendendola oſtinatamente a favor d'ARISTOTELE, e de'Peripateticiin LIZIO ciò,
che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a
ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo
l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla ciò, che moltoprima di lui
aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά
συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή τάξεως. αι διεσπάρησαν
εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και μήτε δια θερμότη ως
υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις
axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E maf. fimamente quando
(la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre,le quali
ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per
chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo,ficome ogni li quida cofa fcurre
perun corporaro, neſia troppo groſo, e difficile a ſcorrere, sì, che appena
poipoteſſe andare, eritor nare per le vene. Ma non poco certamente e' ſiparc,
che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi
in liberamente ſcrivere, non avendo ri guardo a ſetta niuna, per aver eglicol
Sarpi, e col Gali Jei un tempo ufato; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo
ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in
quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina, comcchè il
più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di
que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole, fe ne
faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando,
non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du
ramente foſſero i parteggianti tutti medici, e filoſofi; e quantunque volte gli
vien fatto loro l'accocca, rapportão do in ſuo pro varie, E MOLTE AUTORITA
D’ARISTOTELE, e di Ga lieno; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma
re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco
lontani: e molti, e molti errori ne'moder ni, e negli antichi ſcrittori
dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così
eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj
ſcuole dell'Europa, dice, che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar
ſogliaſi a L’ORREVOLE AUTORITA D’ARISTOTELE, d'Ippocrate, o di Galieno, che a'
ſentimenti noſtri medefimi; E PUR DICE EGLI ARISTOTELE MEDESIMO, Galieno di
comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a'
ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo
ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta, così alla per fine con
chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus, aut majorum
meorum avunculus, quod ſciã, neque in Sanctorum catalogo fit collocatus,
quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non video cur omnes non poffint
honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al
preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli, il qual comeche
parzialiſſimo del ſuo Galieno, purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto,
dice manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato,e ſovente
non averne parola inteſo; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non
iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis
fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra tione ipfa, acveritatelongè fane
abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno,ein molti
luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo
di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente, che
ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti
del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della
metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro
certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno,
e d'altri R.2 zionali medici; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente
carica di bialimi, e di maladicenze ATTALO famoſif troppo affezio fimo Timo medico
metodico, dicendo, che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo
cinico. Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici
il narrato Attalo, ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui
data a Galieno;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse, volle nell'opere
ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate. E forſe fuella più ancor pugnereccia, e
di piggior talento, che egli ne racconta. Eche direm noi del valoroſo Girolamo
dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo? Quante fiate ) egli,
comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte?
Quante,e quante fiate grave mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza,
ed'igno ranza? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità
tralaſcio, recheronne al preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte
del tempo, ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne
abbia ſola mente laſciate quelle d'ARISTOTELE, e diGalieno, como ſchiuma de
libri, e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in
molte, e molte coſe ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella
folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò,
che noi raccontiamo, eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza
della verità al lor maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come
Aleſſandro Maſſaria, cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno,
pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella
diſſenteria, comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con
fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno;
e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo, pure
l'aveſſe fronteggiato, e ripigliato, 12, ove egli ragiona delle cagioni del
color glauco degli occhj; ed ove dice, che l'acque de'pozzi non fiano,me
appajano fredde l'eſtate più, che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle
mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde, perocchè ſi toccano
colle mani food P dc.. 1 1 1 de. Ma quel,
ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in un'in? tero libro riprova l'antico, e
praticato uſo di medicar le ferite, appigliandoſi ad un nuovo modo da
Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto, non che adoperato. Ma troppa gran
briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad
uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino.
Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli,
il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente
ſdegnato, così proruppe: An omnia novit folus Galenus? an nihilreliquit
pofteris inveſtigandum? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli)
totam, perfectam, &integram medici nafcientiam,nihil nobis reliquens? e
dopò molte graviſſime parole, che egli apporta a queſto propoſito, così alla
fine conclude: Patet boc, quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio,
ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare
in medi cina,ben da molte, e molte fcritture publicate in iftampa, apertamente
ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie, ond'è sì abbondevole, ctanto
fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte, e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma
io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti, ragio nerò ſolamente della
nobili: lima noftra Città, delle Sirene, e delle Muſe amenillima ſtanza, che
non pur nella gloria delle lettere, ma in ogni altra a niuna delle più celebri,
cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda. E laſciā do di favellar del
Belli, del Bozzayotra, del Tucca, e d' altri, e d'altri lettori diminor grido
oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna: come potrò mai lo pienamente nar
rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi
mentovato Argenterio; al cui ſottile in gegno, ed avveduto giudicio,non miga,
come altri per av vétura coftumano,baltādo il copiare, e l'appropiarſi l'al
trui viete dottrine; ma volendo egli diſaminare, e far pro va delle coſe della
medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e avveduto, e giuſto
Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti pienamente dà
fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente rifiuta, ficome
appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su mus omnes in arte
noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in
aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes Senatores viderequid
conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod rationi confonum ar
bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente giudicio
dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole
di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut omnia
veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab jecto,
ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam effe
arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo
dus: eadem denique, & facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi,
inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con
filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti
d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della
ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo
ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che
inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi
do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe
ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da
alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc
d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle
malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti
Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo
de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle,
che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non
folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra
recentiores medicos, & Philofophos, ſed etiam contra Gao lenum ipfum,
&Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit.
Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon
giovanni, e Latino Tancredi, huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte
lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio.
S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual
co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè
intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e
come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani,
intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai
le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur
veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il
qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì
fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo
domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente
ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar
l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia,
e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí
l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali,
ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò
fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio
del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo,
tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io
Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e
di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi,
e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla
patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli
ſpeziali 1 1 * corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio
ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che aveſſer mai le noſtre ſcuole, il
dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non ſolo, ſe miglior Chimico, o
medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia, e ' li foſſe. Egli
animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro: anzi oltre
affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon filoſofica libertà
ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre ſcuole tante fiare, e
tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di
tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei Latini lor ſeguaci nel
notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo
aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom, che non ſappia, che
tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre, e valerſi d'una sóma
libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema
di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav. volgendo,
ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora, che ſaldi,
& interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure,
così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi
Popinion di Galieno, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro
comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate,
cdiGalieno s'allontani, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi,
agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè di più non mipermette il
tempo, daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio. E percominciar con
qualche ordinato diviſamento, manifeſta coſa è, che gli argome ti maggiori,
de'quali fornir ſi vuole la medicina, s'ella mai di giugner intende al ſuo
laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più
ſaggiIp pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti, principalmen te fi
riſtringano, nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf;
Φαρμακευσης. Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento
Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti, dicalo ir mia vece quel
famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 ) fuerunt, dice egli,quiprimis
tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant,
pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant,quos
Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi
rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta
mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi
poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti
d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un
de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così nel la ſua
pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat modus
dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna, ab eo quem
obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio
craſſiusfore reficien dum: in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine
dietandum. Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in
principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di
leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi
ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima
difeſa, che ancora va per le mani de’letterati, fatta a pro di Giacomo
Bonaventura medico di Clemente VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro
ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel
tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi
nel modo ancora, e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di
tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi
maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora
l'acque melate, e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci
commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle
galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment. in problemat. Ariftot. ye Città ſi
coſtumano.L'orzata, dice una volta Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle
vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro, i quali l'antipongono.
Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι
νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas. Ed altra volta dice, eſſer l'orzata
oltremodo valevole ad umettare, e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo
giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è
sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco
maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte
rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le
carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al
nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas, che que' d'Ippocrate
(3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian
da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate,
e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere, dove
l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa, e mezzanamente
umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a ' febbricitanti ra
gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che da’Napoletanimedici,
non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi victa? e di Galieno
fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne narra, di cal do, e
ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e ne conforta, che
inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche talvolta nel
comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente di dar
giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap porti; ma
ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel cibar
Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar
fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il
2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della
facoltà de'med.Jemplo in prima a'neghittoti Cittadiniportato, traſandandoſi co
sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole
affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava.
Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci maeſtri dice, (1 ) e l'altro il
conferma (2 ) eragione il richiede, dee il ſaggio,ed avve duto medico in prima
ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del
ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a
certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato,
ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà
ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi
malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato, e nelle men
brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico, onde poi nel maggior
avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato, e ſenza poterſi con ar gomenti
ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della
malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco, o nulla concedergliene. Intorno poi
alla Cirugia cgli è duro molto a credere, quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e
di Galieno, il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come
quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi
cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del
ſuo tempo, o più antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon
folebant mit tere fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il
ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio
a'bambini di latte, e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto
il contrario di ce Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί
γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma
negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo
giovane fia,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e
molti luoghi Ga (1 ) ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2
) Gal.nel Com. * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra
glialtri dicendo: si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη
θεoρoίημεν, ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του
λόγε μόνατα παιδια.. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia,
oſe pre Jente quella già,o pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le
forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto
divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive.,
ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no
aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E
altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per
putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a
farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello
ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti
aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma
nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora
all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da
tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro
propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi
dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν
οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα
νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue
fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec
chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro
dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo,
e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor
tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo
calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti,
a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1
) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4)
nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi
fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate.
E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e
maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi.
co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e
ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa
egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer
fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che
nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa,
che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima
va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto
manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε
ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος
ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ
αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma
acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri
averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia
sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed
sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè
graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i
Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia
fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno,
avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco
fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli
è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper
Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai
i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo
ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente,
come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel
com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo manifeſtato, quanto i Napoletani
medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate, cda Galieno allontanarſi. Eglino
in priina molti, e molti medicamenti coſtumano, che da Ippocrate, e da Galieno
ne inen per nome conoſciuti già mai furono; ficome ſenza dubbio veruno son la
Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena, la Scialappa,ilMec ciocano la
Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai, che per eſſer ben conoſciuti, e
per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le compoſizioni poi deʼmedicamenti
nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o dagli Arabi tratte, o da gli
Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de
medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte, ed
abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do,
ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo, in
ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di
malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice, e
credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che così co mandi Galieno;
imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con
gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare. La qual nuova coſtuma,
quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò,
che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων
τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare
alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di
leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo, cosi
parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και
ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και
των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και
επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται
και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu,
weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due iSolſtizi; eſpezialmente
quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel
maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle
ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle
Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi
giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato
facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo
caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione,
o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è,
purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne
l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il
detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole,
e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2
) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione
accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio,
il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole
altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che
moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di
coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon
gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione,
nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe
fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της
αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ '
έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns
ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli
infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella
ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma
però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole.
Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel
met, al lib.12. 1 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel
corpo continuo ne s'ingenerano, non è di giovamento alcuno alla gente; anzi le
alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi
avvezza. re a purgarſi una, o due volte il meſe, oltre al manifeſto nocimento,
che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole, e peſſima uſanza. Ma
ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle malattie, i quali abbian dicocimi
to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono
i noſtri medici; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a
divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa
briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi
ſolamente le parole d'Ippo crate, edi Galicno rapportare, acciocchè da quelle
per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa, quanto nella crudità degli
umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar
fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e nel principio di quellemalattie, che
có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di Galieno, e de' Ga lienifti, per quel
ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente,
quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita
egli mai aveſſe riſtringa, una cotal co? a con una general pro
poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi,
anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì chiara, e manifefta, che
di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me
deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto, oftinatiſſimo
diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così dice; ab hoc aphoriſmo
cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria deducti ſunt: ed oltre a
ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe
expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù
chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte purgare, e muover fi debbono;
mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib. 1. -non
già le crude; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù
volte turgide non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν,
ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi
cô. fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che
diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men
dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più
acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il
qual forſe da ARISTOTELE (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che
tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio
In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma
no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in
parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi,
avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o
pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o
ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel
latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce
turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio
latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita:
gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento
ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano,
ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer
mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado
lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv
Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο
πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato,
che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel
lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi.materia, onde il
mal s'ingenera, ben cotta, e digerita ſia, fe pur quella non turge, è che rade
volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai
ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in
ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto
ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi
mo, e riſtretto, oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa
avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave
precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e
di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria
chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e ne accomanda: e sempre, che
egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme
nor me, che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano. Ed avendo
in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto; ne'mali oltremodo acutifon da
purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento; concioſiecofachè
allora l'indugiare è dannoſo affai(1) Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα,
αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed
eſpreſſamente n'impone, che an che in queſto caſo dell'enfiamento, il che molto
di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare,
cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare, che nulla più: ne meno ove fia
enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento;
perchè aj tal propofito Galieno dife (1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν
νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή
τους λυπούνας,μήτε, ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την
κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la
qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado, nel prin
cipio impiegheremo noi purgative medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi
umori, nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di
que'che convien purgare.fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino
fienosi fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la
purgagione adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto:
τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και
ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν,
ούτε φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν.
Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e
diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo
giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina
damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura
dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome
ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima
comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e
aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o
troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o
accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia
ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il
cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le
noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto,
che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o
nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma
ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a
Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni,
anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono
ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo:
Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica
menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7)
L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e
nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la
coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in
fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè
fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle
parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς,
αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν
αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε
και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν
αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη
διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento
d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da
inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di
meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom
paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e
più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ
ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove
favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che
Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali,
chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo
certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora
è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe,
che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo,
agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più
mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως
επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν
αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και
υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι ·
οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per
buona ventura dell' ammalato pur non R gliene liegue, non per tanto certiſſimi
danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro, certamente
gliene andrà alla lunga il male, e ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra
quello da dar era; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate,e Galieno (1)
pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non iſcorge allai chiaro, che minorar
ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li puote la cruda mate ria, come
beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle
ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in ciò grandiſſima arte,
emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario ſentimento, p coprire,
e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri; pur non fanno sì
fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi ſcopra la ragia, onde ne reſtin
poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti; così ſciocche ſon le chioſe,
eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare, e travolgere
gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far calandrini, non ſolo la volgare,
e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è detto: ma col volgo ancora
que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè digrandiſſima
conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non maravigliarmi forte
della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di
sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano. Perciocchè
volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e nella ſorti gliezza
degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo
della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male, o della grandezza
delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per altre ragioni ſia das purgar
l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non pur nel principio, ma
nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e diflennati; e pure
ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo,
perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel lib.4. della dies.
p.44. di malvagità, di traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia
di tanta conſiderazione, ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto
menzione alcuna, comes certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o
fingono dinon avvederſi, che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per
lor dette, ne'mali acuti ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro
fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon
elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di
rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio
degli acuti ma li ſi debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi
ciò anche ſi debba eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo
s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro
maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli
intendono. Ne dovea in buona veri tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto
egli del tut to non era, in que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe
menzione, non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe
parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe
non è da dire, lui quivi averle per balordaggine dimenticate, masſimamente
negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli
logorò, perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di
neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a
dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar
s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche
in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam
dire, che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe
affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli
così traſcurato ſi foſſe, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria,
fe ftato foſſe meſtieri, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in
que'caſi'la pur R 2 gage ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan
dandola,per ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo
ſentimento, ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a
divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa
to, come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino, avvegnachè
del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo:
Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis,
cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E
di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa
vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così
delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet
Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id
face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro
Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe.
Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra
non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare,
illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in
diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian
piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera,
che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia
grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie
niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano
gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le
impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro
alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono
maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio
degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual ficome
di ſopra è detto, tante, e tante fiate manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente,
il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν
έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως, αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω
σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών
αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον •
πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή
γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura
ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le
diſpoſizioni diquella; imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle
cagioni delle malattie, ma fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che
alcuna eva cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in
prima il cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia,
perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la
qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità,
ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα
ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός
έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge
quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate
altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate,
ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano
affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni,
che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti
ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente
ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente
Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della
Mercorella (la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della
Fumaria, dello Goico, del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno
malamente venne ſti mato radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre,
e 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice
a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo,
medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del
cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera
di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al
cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva
ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità
grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice
chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E
quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero
dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere
appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer
ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran
padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella
Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito
in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l
ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par
manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura
dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico
introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del
commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave
neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare,
cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono
guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di
ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c
certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i
termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e
deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. minato ſpazio ncmena egli i ſuoi
giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di neceſſità avvengono; imperocchè
i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol
yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo, oltre al
quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima
diſpoſizione adunque è data alle malattie, e ſe altri colle purgagioni contro
al fatal tempo ſconccralla, al lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti
diverranno; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da
correggere, e rintuzzare, per quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol
male con medicamenti irritar fi dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ
αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της
φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει
κινδύνες, ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη
των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον
γίγνει χρόνος, του ο γένες ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον
έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς
καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών,
ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα
νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις,
άμα εκ μικρών μεγάλα, και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο
παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου
φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche
particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle
febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato,
quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la ſoccorrenza uſcita, non foſſe
ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe da dover cacciar fuora
nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone, eſſervi
ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a
gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di
Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann maeſtramenti
di lui affatto traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti
caſi, nulla guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof
ſono. Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della
diffenteria)vieta in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente
contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così anche nel
la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole,
vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole
qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma cote iti
diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime
fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta
ſolamente loro in tali avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che
come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate
crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole,
direbbe Proſpero Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le
dó ne levate appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati
apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe
malattie, nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne
fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i
manifefti divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli
ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle
ſtagioni dell'anno, e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione,
ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da
valicare aurei, s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a
capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente
nel purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri
Galieniſti partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor
medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi
abbia no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli
ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di
rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi
veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più toſto la lor morte
dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore, e
accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente languiſca, per non
moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno, fi va gliono
di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi
coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè altrimenti a color non
ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno de’moderni intro duttori di
nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare:
non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli conſigli, da riſtorare
ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa, ed incallita
la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da
medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò, che detto è compré
der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare, da Ippocrate, e daGalieno
i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano; emolto più aſſai di quel,
che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni ſpargirici, o altri,
ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad altri la briga di ciò
conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da ciaſcun Galieniſta
Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con parole da alcuni di loro
manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed
il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti igualmente abbandonando
l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri, alla ragion
ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo
a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar tutto dìla loro lode vole
libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa mente > S cuore ſi ſtudjno
di contradiarla, e di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto
per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è
ab bracciata, e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri
Accademic, e Scuole dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra,
della Svezia, della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio
famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò
pure a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque
fin'ora per me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi infinite a
raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a
baſtanza, e già il ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla ſeguente
aſſemblea. RA 139 j: Milli Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento
quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno
vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età; quaſi di
forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non ancor
tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente
produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a ſveller pru ni c
ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne perchè allora, e
nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano, ficome or fanno, i
lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor
ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro,
e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che diquella s'annoverano,
de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore acerbamente ne pun ga a
noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S 2 piati, econtefe, ed
armi,eguerre non allignarono. No arruotava le zanne a mordere il cinghiale; non
digrigna va i denti il maſtino;non rabbuffava il doſlo il Lionefra; l'erbe, e
fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue. Ma che è ciò? l'huomo, l'huomo di
tutt'altri animali duca, e ſigno re non fabbricò nave, ch'apportaſſe guerra
agli altrui li di, non forbì, non arruotòferro periſvenar l'altrui petto: non
aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe, di corni, o di bellicofi tamburi;
vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città. Ed a'dinoftri, che più fi
tenta, che più fi machina, ove più fi bada, fe non ſe a' nuovi ordigni da
guerra, perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica, l'altra
eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città, l'altra ſtermini; l'un
nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne, ſi combatte nelle Città,
s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un,
l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il
mondotutto in conteſe, e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore
dell'armi. M2 egliè pur vero, chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto
fine, ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate. Ma quel, che pür
troppo è da maravigliare, è ciò, che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto, e
debbo nel preſente ſeguire; egli cono le tante, e tanto invilup patecontefe
de’medici. Queſte non han mai ſofta, quefte non han inai line; e comeche
moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur altre aflai a narrar ne rimangono;
le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente, e darvia diveder, che tutte
quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più
chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle
ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica
naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al
cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti
ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non per
ſaper, ma per contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e ſtravolte
opinioni da. to brigando romoreggiano, che poco men fanno per av ventura l'onde
torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte
giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor,
dper surbor (dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a
fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant.
Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia
tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in preſto dalla brigante
filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare ſtancar inutilmente per
un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo. Perchè riſtucco,
ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando proruppe. Ex
fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă difputandi
materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione,
& remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus
proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient
ventilantes fua fomnia; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus,
atque occidentibus. Ea res fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam
diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft
cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus
inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio
Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra, così de’diſcordanti
pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i medici, fe vagamente
parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq;
partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra etiam hac ætate
tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena inciſiunem omnino
prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente
un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente
ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e confuſisſime opinioni
ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi veramente, e formalmente
gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente in virtù, ed
in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro, effer le
qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme
eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le
qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più
alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova
quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie
accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve,
e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai
ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano
alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente
avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario
parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le
moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che
vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come
cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo
ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente
egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro
teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle
quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma
troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì
fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen,
ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra
nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi
nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando
altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi;
an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte, e molte
ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj
ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet
videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis
penficum latis,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum,
veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli
toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima nel vero
non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per filoſofante
ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele, c
dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola,
e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc
gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo
tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga delle
autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re
Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali ſecondo
il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte degli
ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca, non
qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de
letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere,
qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di
ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze:
Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada, Che
tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla
memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo, Argumentum peſſimi turba
eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam
in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes,
interrogati incola non patiuntur errare: at hæc tritiſima quaquevia,
&celeberri ma maxime decipis: certamente infomiglianti falli ſcimu. niti,
14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non fi laſcerebbono traſcinare. Ma
egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion
parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun rimordimento, e fenza ſcrupolo
averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente di LE DOTTRINE D’ARISTOTELE e di Galieno famoſtra
di non curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali
inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono,
ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo
natio, all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero
degli ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che
innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione
delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l
ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte
rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il
moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto
celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le,
la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come
dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno,
o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi
dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza,
e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi
poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e
ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar
della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e
de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni
maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar
dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e
indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina
di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate quiſtioni
intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza,alla malinconia,
a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre
dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle
quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare.
E comechè per queſto capo incerta, e confuſa, e inviluppata la medicina de'
Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non
peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta
maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta: i fini, e le
condi zioni del trar fangue: la natura, la facoltà, gli effettia e'l modo
dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in qua’rempi del male ſien da dar le
purgagioni: ed altre, ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho
quì bric vemente raccolte, una menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo
m'avviſo, ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi;
anzi forte ſoſpirerano, s ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti
ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la
vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo
ſterminio, che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di
quella, cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora,
chenti, e quali elle fiano, e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male;
quindi intorno a quel. le d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe
tali, naſcoſc più toſto, o manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione
avvengano, o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò
in quali luoghi elle fi covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un
l'altro, e piatcndo, niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati;
volendo altri i falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta
permettendogli, chi ſcar ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi
dalle venc delle braccia, e chi da quello de piedi, e chi anches da quelle
parti, delle quali è bello il cacere, con appic T carvi le mignatte; altri a
tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi
tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de
boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove
turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo
ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer
vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e
parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi
purga una ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma.
V'ha alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono;
ma dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di
sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male
a' rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in
prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô
-sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le
forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di
gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e
d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici
alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd
Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen
zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e
danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente
a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet
tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la
veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente
morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian
sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora
diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo
infra qualche ſpazio di + tein tempo le lor conteie? e le loro incertezze
appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile, e veriſimile
fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a
giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e ſempre più confuſo, e incerto,
e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle?
non le autorità, non le ragioni, non l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni,
come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra, e pompa; morendo
vera mcnte, e guarendo così degli uni, come degli altri, i malati. Per amendue
le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa
ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha cagionealcuna, per la qual mag giormente
attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj,
che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze
Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti
egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina, ed egualmente di
maggioranza gareg giar îi veggino. Perchènon ebbero certamente il torto, per
quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non. polje comprehendi patere
ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia; ciim de ifta re, neque inter
ſapientia profeſſores, neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par
te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina
tutta ſoggiaccia, diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura,
e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi
perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor
deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e
ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno,
ove a lui venga in concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto
atterrare. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e
tenzonare, non altrimenti, che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi
facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και
τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra
riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno:
arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di
rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione:
e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento
dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai,
ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità
di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi
parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla
filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la
medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo
inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che
d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano,
Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde
quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna FILOSOFIA;
o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de
parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam to li
premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum fudium,
dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant. Ed a
cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche
ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la lor riottoſa
oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani, nó iſve
gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed infra i
Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi
co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per noi 3
dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante,
e tante diſcordie cagione, ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la
verità delle coſe naturali. E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le
parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο
λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός
εσιν όγε αληθής, ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων
•ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον
αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11
giudicio, dice egli, fi è la ragion medeſima: poichèper quella le coſe, che da
far fono, fon giudicate. E certamente egli è difficil molto, e malagevole, a
rinvenire, Io dico il giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla
diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin
venir la verità, non ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per
imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui
l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la
verità effer certamente molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di
quel', che s'immagini, e dica Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien
ridurci amemoria, che noi non men, che gli altri animali, poveri, e mudi
affatto di qualunque, comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo; verità così
chiara, e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e
molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a
confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia
opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia, ſe non,
che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune, che già noi prima di naſcere
ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene, che da noi
ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad
inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a parte più nobile, e più
principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe;
ondefolea ſaggiamente Epicarmo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe
tutte fon forde, e cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma,
ed inviſibile ella fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata,
per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di
fuora toc co, emoflo ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è
valevole a ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le
fibre de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in
ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi
avvalorate da un diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima
loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il
comprende, o per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da
quelle parti del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col
piegarſi in varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori,
enel ſito delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili
oggetti di fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna
procede. Quinci ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non
altrimenti, che per le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze
delle coſe, e da queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo
tracndo, tratto tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino
l'acquiſtato notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer
ſe ne vuole, e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è
malagevoliſſimo ad inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene
forſe a noi il fa perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera
mente, e confeſſo, che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono
gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai
ſempre tali all' anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za
curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come DE’PERIPATETICI
LE SCUOLE COL MAESTRO ARISTOTELE LIZIO abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe
nella maniera, la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe
la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe,
come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in
fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et
libella aliqua fi exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa
neceſ umft: Prava: cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut
quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i
ſenſi mai poteſſero una ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via
certamente dal mondo ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro
in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i
filoſofanti d'una sì erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium,
dice Tertulliano, quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod
perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta
-tio fi oculorum, aurium, & manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai
ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo?
ad altro forſe? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà
ſoſpetto difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti:
manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le
perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa,
ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori
de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti
dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi
dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi
parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura
Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del
l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben
fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo
dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi
ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al
ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto
vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo
della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi
per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza
dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare,
che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del
medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti,
SECONDO CHE PORTA OPINIONE IL MEDESIMO ARISTOTELE, ne'colori dell'Iride, e
delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore
ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più
agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere.
Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe ARISTOTELE, che ſoventemente
l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui
l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole
nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien
ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla
fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la
ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe
tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà
giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer
perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di
teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe ARISTOTELE CON LA SUA USATA POCA
FERMEZZA IN ALCUN LUOGO DICE, i sensi non potere in modo alcuno errare, cche
ſia debolezza d'intelletto i sensi per la ragione lasciare. Ma quantunque non
poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene
allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagione
d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig avventura l'inganno, o l'errore
ſchivare col non precipi tar coſto,e inconſiderataméte il giudicio, ma
ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti,
tanto, e tanto celebrata per Epicuro: tutta fia ta,perciocchè ne in tutticorpi,ne
in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza, e per altro
impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e
quando ben loro ciò venga permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender
ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no
già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer
manifefta; ma la ragion poiè quella chedal le varie, e varie operazioni
de'corpi, varie, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad
inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti
s'avviſano, varie, e diverſe eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento
vezzoſa talora, e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e
larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale
cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene; e come già cantò
l'Ennio noftro Ita liano: Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar
falſa matera Per le vere cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che
l'oriuolo collo ſtelo, e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi
l'ore del giore no, vero per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be
certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare.
Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile
ſolamente ef ſer può, non già dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo
alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e
certa cagione poſſono avveni re; ſicome per avventura farebbe il dire, dover
eſſer ne V ceſke ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove;
concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi;
e'l toccamento, ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè SAGGIAMENTE
LUCREZIO: “Tangere, vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res.” Così ancora,
che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate
eſſer diviſo. Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di
divario,ſalvo, che nella grandezza, nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer
diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario
il ſito, e l'ordine tra di eflo loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non
poffa, ne al corpo, ne al le parti, nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E
però è da dire, la diverſità, che così grande eſſer noi veggia mone'corpi
dell'univerſo, altronde certamente non pro cedere, che dalle coſe già dette,
che'l calore, la freddez za, la ſaldezza, il diſcorrimento, icolori, ei ſapori
tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le quali a noi parc, che nc corpi
dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno, ſe non ſe,o l'accennate coſe:
ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in noi, cffetti di quelle, o per
me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e ſomiglianti argomenti ſon
così pochi, e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle
particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il
pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci
filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap
portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni
s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo
ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de GALILEI, che
tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che
al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam:
pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che qualche particella di filo fofia ſi
ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta, eche quanto più in perfezione
monterà la filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da
quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica
ſcuola, avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la
verità, che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente
confer fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura,
qual'occhio di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe,
che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato
penſar dob biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come
eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che ſecondo
il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e facciagli
a ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E innanzi
parimente avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo
non differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure il
naſcoſero, E ALIGHIERI ED ARISTOTELE le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non
perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e che
noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente
comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero
appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè
a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod
habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque
videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud
fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a
che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta,
la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re
Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m !ne:
Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum,
ut occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo
invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, & quanto plus laboraverit ad
quærendum tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit
reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe
a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa
maggiormente LA FILOSOFIA? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente,
re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion
ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e
berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di
pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al
medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per
huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi
pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla medicina
ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde
del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente
manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco, degli
inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone, del
cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men che
innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del
micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti; e
quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la
notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam
mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno
all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle
operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir
noi parimen te veggiamo, in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina
dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tanti ſparti ſudori per cotanti
valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente
in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano, e davano a noia divedere
gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati
poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto
Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali,
per l'addietro inſuperabili; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle
menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non vengono ben ſottilmente
avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate, Io non ſo in qual modo
ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che
ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli avvien ſovente,dover
noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone ſola mente a troppo deboli,
e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate andando. La inalagevolezza
inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni
dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il
vital notomiſta, fia pur detto con pacedel Valentino, del Paracelſo, c
dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere egli ſi paja, e che torno
d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente ſuole, per la malagevolezza
eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire, e talvolta anche in tutto
inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non ſe dalla troppo fquiſita,
e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali. Ma della fabbrica del
cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio buono, che han potuto
giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre? non è ſta ta
egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma la pruova la loro
induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre, che'lcervello compongono, così
minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for teſſitura, e reticulazione è dilicata,
e la lor ſoſtanza molle, che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle, o
di perderle, inalagevole anzi impoſſibile: ogni impreſa rieſce. E sì, e tanto
egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche
egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe
per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato. Ma ſe
tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute, che farà cgli da
dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe la natura a
nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe parti cotanto
menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che poſſa ſperar
di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili
aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino,
eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono altreminori, e
quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte, vano ogni
ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena
mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia
vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor pancreatico,
dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal
Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle
qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom
ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia. E chi
finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili
conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli
inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle
liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è
naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e
l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali
s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra
s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine
il ſangue ad ogni ora in tante, e tante maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe
ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale, e come ſi faccia il
ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne
men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le
malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti
da riſanarle? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli
antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne può ſaperſi giammai coſa, che certa,
e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi può indovinarmai, per Dio, non che
ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni, per le quali eglino, malimamente
ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno?
che direm poi de gli altri ſegnali della medicina, onde argomentar parimé. te
ſogliono imedici le malattie, e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e
dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora incerti, e fallaci? Certamente non
mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore, e la cagione argomé
tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i
greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere, per tacer d'altre
ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe;
che lo per me credo, che quelle, che a forec loro ne riuſcirono, certamēte
colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare. De'cibi, e de’medicainenti, e
delle loro facoltà, e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per
defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re. E comechè i Chimici
più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento
giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che
rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di vantag gio tutte le pruove non
altro, che probabili, e poco ſalde conghietture; perciocchè, non ſolamente
imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an
cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che vi s'a doperano,
ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più
diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi,
che ſi dividono qualche lor particella, che magagni, emuti la lor compleſſione
i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono; i
quali dalla terra, e anche altronde melli fuora, e infra quelle monome
particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi, agevolmente le potranno
in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle
particelle, licvi, e ſottili, che rubate ad altri corpi ſuol con leco
ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle
delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più nobili, ele più
operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come
dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel digeſtire, e nel
formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo, del qual li
fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente meſcolandole, e dando
lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della figura loro per eſſo
diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni poſſono alla fotomia
delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi
argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli ne ſaprà meno,
quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora,
e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci
rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente, e ſottil notomia delle coſe a
ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la noſtra Medicina: Io per mè non
ſaprei qual conſiglio prender mi dovessi a dichiarirla dalle sue nubi. Ne è da
tralasciare a questo proposito quanto agio s’a veſler presso i filosofi dall’incertezze
sull’uomo a ragionar sovente, e piatir nelle scuole or d’una or d’altra parte,
più per vaghezza d’ingegno che per amor della verità, difendendo tutte
opinioni, ed ove lor concio viene, giudicando non altrimenti che quel sottilissimo
filosofante Pittagora face a veder della filosofia de omni re pervalermi delle
parole di Seneca “sin utramque partem disputari pole ex aquo”. Perchè non è da
maravigliare, se DICANILIO EGEO, prendendo a difender cento contrarie opinioni
in altrettanti capi partite, da a diveder manifestamente l'incertezza di cotal
arte. 1. Egualmente dal padre e dalla madre si inandi fuora il seme a ingenerar
gl’animali. 2. Non d’ambedue si mandi. 3. Il seme si mandi da TUTTO’L CORPO. 4.
I testicoli solamente v’hanno parte. 5. Il cibo nello stomaco per opera del
calor si smaltisca. 6 no. 7 iò sia per lo suo sfacimento e stritolamento. 8 no.
Il capo V che sia dal nativo spirital calore. Il capo VB, che no. Il capo VI che
per lo corrompimento del cibo sia. Il capo VIB, che no. Il capo VII che avvegna
per propietà de' ſughi. Il capo VIIB, che no. Il capo VIII che il calor natio a
qualità s'appartegna. Il capo VIIIB che no. Il capo IX che per lo calore
avvegna la digestione de'cibi. Il capo IXB, che no. Il capo X che la diſtribuzion
de'cibi lia per attraimento di calore. Il XB che no. Il capo XI: dagli spiriti
la digestion si fa. Il XIB che no. Il XII: per opera dell'arterie si digestisca
XIIB: no. XIII: ciò sia per mancamento a vuoto accompagnato. XIIIB: non per
ogni mancamento eglilia. XIV: il glauco degl’occhi per mancanza d'alimento al
condotto visivo s’ingeneri. XIVB: no. XV: quel nasca per discorrimento di sangue
nelcondotto visivo. XVB: no. XVI: dalla graſſezza degl’umori e dalla esalazione
si faccian gli’occhi glauchi. XVIB: no. XVII: La frenesia dal distendimento
delle membrane del cerebro e dal corrompimento del sangue si cagioni. XVIIB: no.
XVIII: Per soverchianza di calore ella non avvegna. XVIIIB: no. XIX: Per infiammagione
ella sia. XIXB: no. XX: da infiammagione si cagioni il lecargo. XXB: no. XXI: Per
distendimento e per corruzione egli sia. XXIB: Non già per soverchianza, ma per
la qualità dell'esalazione avvegna. XXII: La fames e la feresia di tutto il
corpo. XXIIB: Dallo stomaco solamente provenga. XXIIC: sia sol nel pensiero e
nell'immaginazione. XXIII: La sete per disseccamento s’accenda. XXIIB: no. XIII:
Nello stomaco due diverse operazioni si facciano. XXIIIB: no. XXIV: dalla
pellicella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. XXIVB: Lo
traggan da quella di fuora.e parganti medicine operino XXV: per lo corpo spargendosi.
XXVB: Colloro scorrimento solamente, senza spargerſi vuotino. XXVI: usarsieno
purganti medica nienti. XXVIB: no. XXVIC: Da ſegnar sia. XXVIC: no. XXVD: sia
da dare a febbricoli il vino. XXVE: no. XXVI: Ad operar debbano il bagno. XXVIB:
no. XXVII: Nell' accrescimento de’nrali sia da far il cristeo agl'infermi. XXVIIB:
no. XXVII: In su’l principio delle malattie fan da usar le unzioni. XXVIIB: no.
XXVIII: Nella testa possano ad operarsi i cataplasmi. XXVIIIB: no; ma solamente
vi li debbano porre cose odorifere. XXIX: Esser giovevoli quelle cose che
muovono a vomito. XXIXB: no. XXX: Dal cuor si dirami al corpo il sangue. XXXB: no.
XXXI: Gli spiriti dal cuor si mandiitos ne dall'arterie sien tratti. XXXIB: no.
XXXII: Da per se il cuor si muova. XXXIII: no. XXXIVA: L’arterie per lor natura
sieno stanza del sangue. XXXVB: no. XXXVI: tutti i vali che soprastano, e
gonfiano, sono semplici. XXXVIB: i ricettacoli sieno in voglie in tessure. XXXVII:
Per mezzo de’ nervi facciali il sentimiento, el moto. XXXVIIB: no. XXXVIII: Il cuor
e principio delle vene. XXXVIIIB: no. XXXVIIIC: E il fegato. XXXVIIID: no. E: il
ventricolo. F: no. XXXIX Tutti i ricetacoli si diramino dalle pellicelle che vestono
il cerebro. XXXIXB: no. 90: Il pulmore e principio dell'arterie. 91: no. 92: L’arteria,
la quale sta presso alla spina, sia di tutt'altre arterie capo. 93: no. 94: dal
cuor nasceno tutte l’arterie. 95: no. 96: dalla membrana del cerebro traggano i
nervi origine, non già dal cuore. 97: no. 98: non nel cuore, ma nella testa la
potenza ittellettuale dimori. 99: nel cuore. 100: nel ventricino del cerebro
ella sia. Ma di cotante rivolture e mutamenti d'opinioni e di sentimenti
certamente Dicanilio Egeo non è da maravigliare, se tanto forse ancor fa Galieno
medesimo, ove in concio gli fosse venuto. E di ciò Galieno stesso ne’ suoi
libri si va millantando sommamente di poter improvviso ci alcuna serta de’ medici
de' suoi tempi a buona ragion difendere. Perchè se dir non vogliamo, esser egli
stato Galieno un riottoso giuntatore, o berlingatore sofista, che co’ suoi fisicoſi
aggiramenti per diritto, e a torto il tutto a difender togliendo, uccellar
n'avesse voluto, convien di necessità affermare, ciascuna setta de’ suoi tempi
anche secondo il sentimento di lui essere stata igualmente ragionevole; e conseguentemente
a niuna certezza esser la filosofia appoggiata. Eccme chè Galieno ciò
dimenticando vanti sovente di poter far pruova de’ suoi detti, avendo sé pre in
lor concio nuove dimostrazioni. Non però di meno X 2 (il ci ta, 7 il dirò pur
con buonapace di lui) le sue millanterie row vente fogliono in vanissimo vento
riuscire. Anzi Galieno medesimo dimentendosi talvolta, e in più luoghi contastan
dosi, ne fà della sua bessaggine, e della sua poca fermezza avvedere. Quid enim,
dice di lui stizzosamente gridando il Giuberti, quid enim in Galeni scriptis
frequentiusoc currit, quam ipsum plerumque videre, quod alibi multis rationibus
fuerai demolitus, id constantssime afferere? ERi nieri de' Solenandriz non men
del Giuberti della dottrina di Galieno intendentissimo, così parimente avvisollo.
Galenus, quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali ferè prodigus,
innumeros propem conscripsit libros: in quibus rerum et dogmatum multitudine
plurima sunt discrepantia, nec fo bi ipsis consentientia; quasi quis attentem
cum judicio legit, fi quis diligenter in unum colligit, ingens chaos agnoscit.
Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi sarebbe per avventura peralcun creduto, se
con l'autorità del medeſimo Galieno io non gliene facelli certa, e ben falda
pruova) che se ancor la filosofia fosse dattanto, che a saper dicer to molte, e
molte di quelle cose aggiugnesse, le quali per addietro dicemmo esser di quelle,
che in quistion cadono tutto'l giorno, e più altre assai: ne meno alla sicura
nell’operar sarebbe; abbisognado a tale effetto, secondo Galieno, che molto
bene in prima la propria natura, e complexione di colui si conoscesse, il quale
sarebbe da filosofare. il che ſecondo, che egli medesimo apertamente confessa,
non si può per partito alcuno bastevolmente giammairav viſare, Ma se sì poco da
noi in filosofia per la sua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non
però dimeno e'non creda alcuno, che sicura ne fia la sperienza. Anzi per
maggiormente incerta, e dubbiosa più avanti per noi sarà mo Itrata. Perchè seguiranne
poi sicuramente, che non purla sagione dalla sperienza accompagnata, valevol sia
a render certa, elicura la medicina; concioffieco fachè verisimile a verisimile
accozzando; e no certo a non certo, e per lunghi argomentise pruove che vi si
aggiugono, non potrà mai, che I certa, e incontratabil fia, ſicuramente
riſorgerne. Magià ſi è per queſte, e per altre coſe addietro diviſa te veduto a
baſtanza, e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette
della medicina, e le diverſe; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare,
e la varieră dell'opinioni, che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in
sù, non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli
forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della
medicina come già proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare;
quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la
medicina breveme te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più
diſtintamente diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe
giammai un'arte così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe
dottrina, o principi tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to,
e ſicuro. Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta,
è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre
ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare;
infanto, che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba
tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai
tante ſtelle alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe
ebbe maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui, ſe più
coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti
interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota
profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone: Medicos
ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi Balneatores, triobolares
Phleboto matores,fpurcidici Lenones, indo&tiparochiaram Sacrificuli,
favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghileſe, de'quali
fa parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes,
audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj
bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa,
ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum
pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides. Che più, fe toccar
quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da
Ferrara il motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre
allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era
così celebre, e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti,
e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne.
Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli,
ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana
alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne ARISTOTELE
mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena
del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal
naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente
abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi
medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad
interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di
grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me
il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e
ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è
molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller
cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per
fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dietro a feminine diinondo, o nelle
follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri
courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi
ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato, il quale avédo perduti có la grazia
del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli
ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina, e ſpacciarles a
prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja.
Ma non fa meſtier, che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in
manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri; che purtroppo chiaramente per
ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio,
ed a ventura; non ſappiendo talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali
delle inalacrie, non che la natura di quelle; perchè convien poi loro nel
diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne,
timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio
della perfetta Einpirica; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare,
nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi
in certo inodło covenevolmente Razionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè
la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue
fondamenta, che è la fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per
gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente
talora, e in ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla
fogliono; eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini
chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici
nemica (tra’quali fur ERACLIDE DA TARANTO medico e filosofo di sì gran sapere,
e così nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére
medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto
le ragioni alla fola sperienza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi
rifuggirono;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de’ razionali, pur ma
niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la sperienza alla
ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza il
contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la ragione,
e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filosofi di grido ARISTOTELE
apertamente confeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la sperienza
recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far
pruova continuo degl’ammalati, che con beccarſi tutto giorno il cervello
ne’libri. E quel scrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così
addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisa, la medicina non eller
altro, che sperienza fatta dagl’antichi medici, fopra la quale fosi dano i
medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano, medicina
ex observatione salubrium, atq; his contrariorum reperta est, & ut
quibufdam placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica medicina, non
che abbia giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in graviffimi errori
traſcorrer ſuole, laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente
guidare; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa, ſovente è
fallace,e vana. E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali
più d'una volta ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente affermare, che
ciò che più volte av venne, debba poi altre, cd altre volte ſomigliantemente
avvenire? Certamente niuno, ſe non colui ſolamente, che inveſtigatane la
cagione, onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti
riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe le
medeſime ſaranno, certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe
peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne
potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze,
che l'accompagnano, non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi,
ſecondo la diverſità delle perſone, de'luoghi, c d'altre coſe, che vi
concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare, così non
è da traſcurar punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate, noul ſempre
i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire: non ſempre congiurar le
medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie: e finalmente non ſempre
que, mali, che i medefimi eſſer ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi
pajano; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi
poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer
manifeſtamented un male, il qual poi tutt'altro ſarà di quel, che noi alla
prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe
ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo;
imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato, o del male ſuole ava
venire; ed altri pur follemente immaginerà, eſſere dal ſuo medicamento
ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando
all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè allora non può age. volmente
imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno
approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di leggier forſe po trebbeſi
ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la qual ſenza manifeſto
riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare:
coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno. Ne meno
faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da parte a parte far
fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male in male; che ben
ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e
inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena. Manon
fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza
un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in quella eſercitato ne
manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico, non altrimenti, che il
cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di
tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato. Verità anchemolto
ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo, e faviſſimo
ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive
trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien
quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo
brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la
ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare,
che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri,
e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra
parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e
delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe
veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor
medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono:
uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente
allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori
aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti
glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette
infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di
ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò,
che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e
queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag
gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore,
e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime
comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono
allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte
ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato;
chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e
Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli
avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza
oſtinata medite i senza troppa mente ſi ſtudia; ma non puote però per fatica,
che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a'
curioſi l'apprenderne intera la dottrina; concioſie coſachè alcune coſe, poco
forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur
tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me, voglio al preſente più di Galie no
medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici, e conce der loro di vantaggio
molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare, agevolmente negar loro po trei.
Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità cut te manifeſte, e piane, e a
quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per
prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz
ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza;
adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando
alla ventura, e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti,
manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma ciò traſandando,ſia pur da
curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o d'altro ſomigliante malore,
che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa è,che la materia ingozzata, e
rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni; ed acciocchè
poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora, conviene in primas, che la
durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare
valevoli, & opportuni. Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in
prima, di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il
ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato tar viſi poſſa: O forſe ciò,
che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote?
anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit,
bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a
terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur convien loro entro i confini de? 1
1 Y 2 Razionali medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina
impiegherovvial preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci
così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di
diviſarne, non che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men
ſaper certamente por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui
foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove
andato ſe n'è per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che
foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe,
ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai
più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua
origine; e forſe forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai
prima della volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della
Razionale, anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta
guiſa leggier mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono
talora da' corpi le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien
dineceſſità, che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri
ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla
medicina non fanno, le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può
tali medicamenti l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col
diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo
ritrovar ſi poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici,
onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì
medicavan ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più
parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi
huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen
ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui
voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamente ſpiando come
tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie. I brutistutto
che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di
tutto ciò, che a lor fa meſtiere a comprendere le; coſe neceſſarie al proprio
mantenimento, baſtantemente provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi
ga mano della natura arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal
caſo di moſtre, comedel Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir
ſuole, eſca oltremnodo gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi
fiate ſavoroſamente la paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano
da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario
per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne
fugge il dolore: ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe
ſe ne corrono; e per queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del
ſognato, e favoloſo iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna
la virtù celata Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta
alata; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon
languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra
il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo,
allora, che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi
gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide,
e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non
indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra,ſe per qualche
male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale
aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono
di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni
medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti; comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per
tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora, che ſenten doſi eſſi
aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto, e corrotto cibo, ed avviſando,
che alcune erbe, le quali talora forſe loro punſero il muſo, poſſano,
ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op
portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza, e
ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore
della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno
lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato, e perſpicace, valevole
più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da
ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente
regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole, diritta
mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne
fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè
veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli, ed altri ani mali
infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e
velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a
divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo, ed
inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro,
che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima ſola corteccia
delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan talora con
qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare, o
pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà potuto l'huomo,
ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico non
avrà potuto ſino a’ primi tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i
medicamenti ricercare, e ritrovare? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo,
ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta, o d'ani
male, o di vegetabile alcuno, prender in duce, e in iſcor ta la ragione;
imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe, che grande
a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o
liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo
rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in
confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente
l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente, che a'primi maeſtri della
medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica
menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli ſenza fallo di tutt'altri più
antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo,il quale
ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che
quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina vien comune mentetenuto,
ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte, emolte radici, e
piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne
compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti, e fi
vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare.
Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo
pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil
molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne
ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è
furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e rinvenne ben ſeſſanta ve
lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere
illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli
vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più
aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c penetranti. E più chiaro molto rio ciò
che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che ſi diè cura, e
impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il
medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più certo ſi rende, che
que'primi Cineſi medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad
inveſtigare i medicamenti,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della
Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi
dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono, i quali altresì della
chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri: non
riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche
coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione,
conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo;
tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca;della Scitia lo
dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della
ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il ſuo
primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide
la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come
mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle
barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla
ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti
diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o lia Filalete, appo Euſebio
ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi
foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural
filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia, nõ meno in
filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel,che
dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo
mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo
fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura
dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia,
da qualche ragione moſli furono Chirone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed Achille
a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Eraclio,
dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per
effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai
eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì
factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici,
malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a
viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe
più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque
l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando
il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet,
& febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id
valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il
quale parve, che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe
a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali
furono avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento.
ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche
di loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e
quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il
grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici
della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom
giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle
voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine
dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe
mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando
faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed
imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure
Z de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi
intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono, è tanto,
comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati fi foſſero. Ma da qualche veſtigio,
che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge apertamente, che i Ci neſi nella geometria,
nella filoſofia, e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero
della Chimica, e conobbero,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e
fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua,
fuoco, e terra; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi
chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi
par certamente, che Cinnungo non molto nella filoſofia, e nella medicina
avanzaffeli; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta
lievas in un tratto naſcere, e ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente
alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal
lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza
pervenga. Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien
favoloſe, ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli
faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e
che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro
vaffc; il che fa chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole
eſtimazione, in tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in
opera le men zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici
Cineſi nella Chi mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s'
ingegnarono di trovar medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche
valevoli negli huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da
Villanova millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che
vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! sì fingono,e danno ora ad
intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti di quegli
antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino nelle cia
me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più ſia a
grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che
tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici
Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas
da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di
cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte
miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui
vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella
quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove
macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle
quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea
l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi
veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon
deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati
più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini
immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno
di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri,
chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge
quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle
maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente
potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto
dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali
appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi
ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre atrociffime
malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi. E quanto al non
trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e de’noftri medicanti, che ſeguono il
medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli, ne?
quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le
malattie, non gli rende degni, non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda? eda ciò
vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a'
medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti, che gli antichi
già fi faceſſero, de’ſemi, delle frondi, delle corteccie d'alcune piante ſi
vagliono, e d'alcune pictre al tresì, e ſerban libri, ove ſon figurate
l'immagini di tali piante, e pietre, e le loro virtù narrate ne’precetti, e
nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani. Preſcrivono
a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà
fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere, tre, o quattro fiate il
giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a
buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal dieta non potrebbe
fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere
l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e l'eſſere i Cineſi di noi
più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi
compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non
avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la
ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici ſono séza alcun
paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi
colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed eſſendo eglino
intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai,
s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni
in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza eſſi
aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e
diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio
avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter
talora porre utile cos penſo alle più gravi malattie. Vlano frequentemente la
prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla quale ſové te ſi veggon guarir
gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra di eſa, non val meno di tre
libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te, percioccliè ella ſi adopera tutto
dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici
effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion
così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola
tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che tutta la ſui virtù, o qualunque
altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno
ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione, che di tal erba portavano,dicendo,
ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi; non però dimeno
noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato, che
alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia, certamente non vi ha avu
to ella parte niuna. Egli è vero però, che talerba ſoglia apportar qualche
moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia, e
di ſoverchio acetofo: il che adoperar ſuole altresì il Cafè, ela Cicolata; alla,
qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire
con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre
a'malati qualch'er ba noftrale, cos lor giovamento non ordinario:e che gli
Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e
per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le
ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi. Ma
avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati,
comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio,c ſtima. E
quinci avvien poi, che tutti coloro, i quali ſien d'alto in gegno, e di ſaggio
avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila, moral filoſofia
ſtudioſamente ſi volga no, onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé
gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 1 1 ! doti,
gioni, per la quale de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural
filoſofia pochi rottami ſi trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural
filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia
ri,erinominati al inondo, ſe'n viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti,
e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente, e
ſtabilirono il Egitto: altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza
ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e
della fragiltà della gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali
ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il
vero nome pervenir potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di
quei Principi, e Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e
l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e
invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di
ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o
nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi
valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla
inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to
pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che
caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta
divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i
ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne
penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui,
e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il
leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci
niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ'
Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a
Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto
indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di gloria, a quanto
ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio
de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur
potrebbeſi ragionevolmente argomentare, eſſere ſtata quella a grandiflima
altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta, da ciò, che ne ragiona
Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to
celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ'
άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον
απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και
δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν
αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων, όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης
έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la
bella, e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove, allbor nuovopenſiero Venne ne
l'alma, che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto
ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e
graziojo oblio Di tutti i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella
tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per
le guance l'onde Del pianto; o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i
cari madre, e padre; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro
l'infelici membra, Del frate amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori
erano, e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e
buoni, a lei dati Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento,
qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne
comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra
sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono,
non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino;
altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi
di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della
ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera
foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo
medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra
chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E
fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di
Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il
fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte,
che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni
poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας
tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano
altresì, ſecondo ARISTOTELE, e Sozione appresso Diogene Laerzio, inveſtigò da
prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na
ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir
ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il
fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci
nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano
a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a
divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte
eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea
Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tutto ciò, che dietro a tal fatto
potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico, che non ha dubbio veruno
avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran, pro dalla Chimica;
imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne puotè favellare il
dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo
dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella, che ſi
valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi colla
medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar ſuole
poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo:
Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα
τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας
τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos.
Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve
ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε
έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli:
Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio.
Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per
Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in
uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi:
τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και
ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην
ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di
quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della
più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già
caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta;
ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il
mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne
foſſe lecito porger a’malati al; A a cun medicamentoprima del quarto giorno, ſe
non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico. Al che forſe po nendo mente
il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la
medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal
Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato, egli fareb be certamente
aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima
de Greci avefler contezza de'medicamenti, pure osò dire eſſere ſtato il lo ro
conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che con l'agio di aprire i cadaveri p
imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti.
Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe
da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra, che i ſuoimedicipiù celebri, e
più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo que", che medicavano il
Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi,
enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca
medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi
da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino ALLA CADURA DEL ROMANO IMPERIO in
Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato,
edorrevole durarono; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina,
che a Galieno, come egli me delimo ne da teſtimonianza,non increbbe d'andarvi
per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien
medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta
grandezza, e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano
Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in
Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per
Damaſcio nella vita d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino,
per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e
ſpezial mente in Atene. Coſtui quarant'anni continui logorò facendo eſperienze,
e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina, ed
inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro
vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do, non con la
ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a ritroſo, anzi (conciamente
mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il
figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E
quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean molto di rado porre in opera il
ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro
amendue farebbero da ri putar degni di molta loda, ſe non foſſero ſtati
ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio, comechè un an rico autore
appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano; maavviſa il dottiflimo
Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo, moſſo ſolamente da
coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei facea. Dice di più
Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual di muſico, ch'egli
era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli,
che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro. Fu coſtui
gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi,
comeche di coranto intendimento non foſſe, che poteſse i miſteri d'Orfco, e
de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in
pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate, Sorano, Cilice, e Mal
leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici; e
quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini, che in niun pregio
avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco,
già lungo tempo traſandato, e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella
famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca
la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente, che
racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria, onde egli agevolmente
reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo
artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò, che di vantaggio di lui narra
Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio. Tanto vo dire,che de'
medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama
riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo
buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli,
finche tolto al ROMANO IMPERIO per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e
venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in
ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi,
e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire, di Metodica mcdicina
aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata, e ſtabilita,
le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni, cvidenti principi, fondamenta di
quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto. Egli ha ora in
Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri, i quali per pochi bajocchi
ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato,
ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o
non ſappia di me dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in
concio viene; c giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil
caldo, e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto,
immaginano qui vi follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o
fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un
contrario ſi ſpegna per Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo
la loro opinione, e valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue
in tutte le empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a
tutti infermi, e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni
ragione la fascia, non ha cercamente huomo di sì mezzano intendimento, che di
leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le ſcarificazioni, che
crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo
gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome; intanto, che affatto
contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean piacevoli argomenti
folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi,
certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo, nel quale
que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della
medicina; il că po della quale è così vaſto, e così malagevole, cheappe na, che
più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col le ragioui una menoma parte
oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per
aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia, corrotta,
e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio
Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de
bonus, per ipfos Decanos omnia vitia, valetudineſques collegit, oftendens quam
valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur, quia Deum frequenter
alius Deus vincit, ex contrariis ideonaturis, contrariiſque pote
ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit.
Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum, ac per duodecim
fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft decanurum dividitur. Se poi dagli
antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza, che nel tempo
d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer
bavali, clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per
conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης
τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι
θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας
νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non credo,come si poſſa generalmere
favellando, comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto
lodare; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e
gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e
alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi
umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed
altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all'
operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non
rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno
allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia,
di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia
cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè
egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian
Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde
ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua
opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri,
co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli
ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me
[ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir
tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti
per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di
ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To
pelice régason, & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν,
και δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις
ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor
ragionevolmente dottar ſi potrebbe, nó egli aveffe dato alla ſua medicina
principio con iſcioglie re i corpi più duri, quali ſono i mecalli, per opera
dei fuo co: mentre è coſtante fama appo l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da
varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere,
Χαλκόν, σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E
conciofoffe coſa, che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar
ſottilmente ancora al fuoco, e in diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli
peravventura, del calor del Sole ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco
imbofaco aveſle. Ma tafciam di ciò, a' Chimici il penſie ro, come anche di
fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento
diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to,
ed è nel noſtro tale il ſenſo, Gia fiam giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E
nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti
adempir delGenitore; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil
didiamante Legar fra i duri faffi. Eito fplendore Del foco onnipotente, onde tu
altero N'andavigià, furotti, damortali Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo
Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e
l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il
por: taile, o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del
ſole, e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata. Mache che fia di
ciò, li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli
au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo
cominciamento la f media medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio:
ſe, e vane. Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io
non ne ſaprei dir altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e
della dieta nel cu rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την
δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και
αφθόνως, και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella
ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro
aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di
ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando
ad ogni ora nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a
lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa,
perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il
mare: onde diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros.
Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender
colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella
Fenicii, fe condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della
perfezioneaggiugneſſe. E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed
illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo
diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema
dc'fatti dfBacco, edificò cento Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας
πολέων εκατονταδα, δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e
ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva. Quindi egli
ſpogliando dell'antica rozzezza, c pe coraggine la grecia, le diedeinſieme con
tante, e tante doctrine molti vocaboli, e le lettere ancora, e l'umanità. Il
chei medeſimi Greci apertainente confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di
Filoſtrato, d'Ateneo, e di Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo,
con molte altre dottrine, le lettere, che prima non vi erano, in Grecia
introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι, εσήγαγαν
διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη, και γράμματα ουκ toy a aliv eranos.
Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che nella Fenicia la vera natural
filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e Poſſidonio appo Seſto
Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima apparò. Ma più che
altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere,
l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle
malattic; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro
abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e volgare; eſſendo loro
neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono, qual veramen te
ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi,
e le figure, e la grandezza delle parti celle, che la compongono; e come la
lingua, che forma il canto per via di miſure, e di convenenza, or fortemen te,
or pianamente, or velocemente, or tardamente la muova; e coine sì fatto
movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or manchi, or fi rifletta,
or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me
all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o penetri i poridel
timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto, e della chiocciola
aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o pure le ſue
particelle dieno il lor movinento al timpano, e'l timpano le com munichialle
particelle dell'aria, qual falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte poi alla
membrana, che veſte la chioc ciola il compartano. Ma ſopratutto inveſtigar loro
cer tamente ancora conveniva, come le fibre de nervi dell'u dito,
rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali
elleno tocche, e percofie furo no, facciano sì, ch'ella la sì varia, e táta
diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e come l'anima poi da una ſorte di
ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e come da ciò s'ingenerino in eſſa
amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, ed altre paſſioni; e come queſte
finalinente, o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre
diſcorrenti ſoſtanze del corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i
pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di
menomare, c di eſtin guere parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar,
ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del
căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo
ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente
comprendano, s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi
ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e
vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio
ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che
d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo
colla muſica, ecol ſuono eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la
virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che
ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde
non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non
ſolo inutile, ma nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν,
ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio
dice: la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ '
atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere
affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar
le menti offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro,
e d'A rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di
graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò,
che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto
infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad
un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio
arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a
prender l'ar: me; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di
bel nuovo; e di Aſclepiade, che le impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe
con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di
tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che
preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite
le piaghe perla muſi ca; ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto
guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e
le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla
ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto
lontana dalla verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte
quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie
framettere; come quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi
de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora
incoraggiargli a più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le
Siringhe: i Creteſi ', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali
pria di comin ciare la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che
Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime
impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza
dell'aria,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer
ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin
dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i
quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei
della Patria; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente
diviſando; e ne fa anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i
Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove,
che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione,
ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giammai penetrar potendola, li fecero a
credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe di van
taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli animali,
maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i Cieli, e
nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell abiſso
calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i
latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori:
raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te,
aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli
Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a Siſifo dal grayoſo
ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute
poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col
ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì
poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara
Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen. te deſcriſse l'ingegnoſo
latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba moventem, Exangues flebant
animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere
jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum
primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas: nec regia
conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E per tal cagione altresì,ad
imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo
poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in
pratis cantando rumpitur anguis: Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro
Poeta puo tè far dire alla Ninfa, dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal
Giella Luna al mio cantar difcende, S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura,
Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma
cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori
de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta
virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi:
onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite
d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν
δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν
Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e
prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia
Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti,
per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra'
quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle
parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito,
cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già
ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni
ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in
tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab
occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno:
Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle
Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata
fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a
cotali fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che
tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa
mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi
ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di
dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag
gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non
ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade,
e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri
Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto:
Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato,
Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del
ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato,
furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni
ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi
diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie
armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e
l'Arioſto, la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed
Aquilante ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di
vita: imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente
ciurmato, che dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da
per ſe acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde
cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il
tritaſi, che'l panico, 6 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti
torna vivo. Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la medicina de Traci il
valencillimo medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che per teltimonianza di
Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai; e fu
il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia, dell'erbé ſcriſfe: primus,
dice Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit.
Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito
delle fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli
antidoti, e molti, e molte altri libri di coſe naturali; ſenzachè non ſi può
egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la
dolciſſimaarmo nia del ſuo canto, e per altre ſue rare dottrine, maſlima mente
della politica, di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania, fù egli un gran
maeſtro, molte, e molte di di quelle coſe inſegnando, le quali alla vita, e al
regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto, e tenuto a
capitale per le molte, e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo,
che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo
affatto, e vano fia ciò, che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol
canto riſuſcitata: non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori, che Orfeo
la riſa naſſe, preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella
ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel
poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò,
dottar non ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato della Chimica molto, e molto
avviſato, mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi
richiede per lo gran magiſte ro, che deſcritto era, come ſi finge nel libro,
che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi
pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo
racconto del Vello dell'o ro:, il quale, come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e
Suida, e Varino Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella
quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro
demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la
poeſia; nelle quali dilettavali aſſai Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me
Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco, e no per altro, che per
iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti,
che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano, mi dan per avventura giuſta
cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da
mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar dovel ſe, quanta in prima
guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici, enon eſperti antichi,
iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe, nonnes venivano
troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi
foſſe delle doctrine di lui apparare, e diſcerner ſuoi librilegittimi da non
veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no, il quale
di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora, e di Platone concordevoli
argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina, e valoria; percioc
chè non è egli vero ciò, che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva, efſer
le ſue azioni, ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità
di vita ſempremai ſtati accompagnati; conciofoſſe coſa, che egli dimoltes
malvage uſanze, c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe:
Sacra Liberi Patris, dice Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit in Greciam,
primufque celebravit in monte Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E di
vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In
teneros vertiſe mares: Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi
crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe, da
alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma
della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco che appo
Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta
ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser
la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci,
a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la
medicina, cioè al tutto, il qua le non iſtando bene, è imposſibile, che
qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ',
ciaſcun noftro bene, o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello
conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e
però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi
ne ſteſſc la teſta, e tutto il corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che
da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti,
i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante
l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto
il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº
itu'sa's Guo ας, τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις
ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την
υγίειαν, και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri
certamente di molto ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja
sì fatti di viſamenti, che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più
idiote perlone. Nevero egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo,
dall'anima dependano, o ſem - prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente
patir il tutto, o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte
principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del
corpo, ſano, & una, o altra parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto
dì live de,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte
offeſa ſola, ſenza badar ad altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò
conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non
potendo il troppo acerbo dolore, che per la podagra pativa in un de Сс diti del
ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più
mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne
abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di
medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri
medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora
per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al
male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto
non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle
opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno;
e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente
ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le
ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza,
mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada,
fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben
ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ',
cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e
ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai
più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di
lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co
me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale
convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne
alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con
eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine
goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli
infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi
ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione
poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi ciò, in vita ritornato; e queſto, ed
altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in grandiſſima gloria ſalito, tra per
la medi cina, e tra per eller qnci popoli groſſi, e materiali ſoprá modo;
intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya: ma ancora dopo
mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che venne da loro per Dio adora to; ed
a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno
ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto, che giunti
ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am
baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo a cader giù loura
tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe ne moriva, eran
ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande; ma ſe per
avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno dell'ambaſceria, e
reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera
fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna
medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che
poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli, che valevoli foſ
ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi
conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de'
popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare, avendo in
pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto,
e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin
l'ultime regioni della terra penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi
trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in
tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina, che non già
monarca, e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato. E
nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe, che per tacer de
Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al
nipote, huom di loro nazione propiamente Сс 2 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero
con loro novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede.
re ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa
manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci
foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella
Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse:
Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed
Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco
nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima
de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani,
eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro
contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra
ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando
cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo
avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e
diciò avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse,
finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano
l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar
gamente il concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della
Chimica ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in
quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col
digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i
quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe
eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe
medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino
acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, & acuti cor
picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajutati da cotali
atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco,e che
in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima
foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da' Chimici, che colla diſtillazione
ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè
del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre
Noè; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri
trovato,per travalicamento di tempo, ſmarrito: cche Bacco poi da capo il
rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a
divedere,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per
non effer egli in modo alcuno da credere; per ciocchè per quel, che comprender
ſi poſſa dalle ſagre car te, non guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece,
che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al
Voſſio padre, il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri
eſſere ſtato Bacco, che'l ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a
guerreggiare, non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al
noſtro propoſito dico, che ciò, che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali
altrimedi camienti egli adoperaſle, e come co'l vino guariſse i mala ti, e
coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe, non; ne abbiamo al
preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna. E avvegnachè
valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita
chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e vanaglorioſo aflai,
pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale,
vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che
qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e
de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli
dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui
ſoggiogati, in primaj introduſſe. 1 Ante
tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber, & in gelidis berba reperta
focis. Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi.
Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta
bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe
rozza veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe
talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di
Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe
degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia
per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro
piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di
quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie.
Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi,
e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής
δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ
την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican
ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba.
Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio
da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più
acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani,
che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio
giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina;
perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di
ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole
ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie
l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi
quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di
que'tcmpi; o alti vode,che dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò
della tram { curaggine di Strabonc, e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i
quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e
pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi,
e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina, Io quanto a me
confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di
quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi eſſere ſtata quella ritrovata: e ben
priina aſſai, che Cadmo le priine lettere vi recaffe; perciocchè per le gravi,
e crudeli malattie, che continuo quella infeltava no, ſommaméte allora faceva
la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che fu anche cagione, perchè con tanto
ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e
non fu egli al mondo,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna,
che cotanto vis'inviluppal ſe, quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente
imposſibile, che nelle tenebre di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e
non ordinate memorie, che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in
alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories
tutte ſofperte di falſità, e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle
ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto
i Greci ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe.
memorie delle coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado
narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e
convinto di bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez
zi al piacere, che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con
eleganza di ſtile; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi
deſsero, chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica
nell'inveſtigar la verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco.
lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro
ſtrabocchevoli impreſe maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e
inviluppar le coſe per coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò, che di
ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun der Greci le glorioſe
geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue impreſe, che non fanno
al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at
tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre co' fat ri di Bacco
Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in medicina operaſle
Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente
attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il pren. derſi cura gli
ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente quegli antichi medici
Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche
contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene.
Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una breve, comechè
confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà, ter rò
ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone
tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte
del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui meritato d'eſſer medico
diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale, che più dicia
fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero.
Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea
detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di
Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che Peone foſſe
Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè dicemmo
agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone,
che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e
commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime
de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie
parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina;
perchè cantò il Poeta Et fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis,
cioè a dire, come avviſa Servio, à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando
le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le
mani d'Er cole grayemente ferito: Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων,
Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone
appreſso gli antichi in maggior pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè
alcuni vanamente giudichi no, la modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma
ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel
ſuo maggior poema, di Peone, e d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai
farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che
vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo, ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde
poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces:
imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era ancora deificato; trattando
Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice, in favellando di Macaone, che
egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον
αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro
poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine moria, ch'Iomiſappia,
niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra Plinio, inventio paoniæ
eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato
cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo
rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui
una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion da crede re, che Peone per
dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne, condurſi, tutti i buoni, c
malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca, e fem, D d
plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il
primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia:
dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje
veduto,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando, e volan do accorron
coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr colui
manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie. Novella
ſecondochè giudica Plinio, a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar
maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non che ciò ſia vero, anzi le virtù
tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima
a quella attribuite, ora in verità tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne
ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi
dubitare, non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto
tenuta in pregio dagli antichi, e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri
giudicano effer veramente quella; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono,
che ſia in certi tem pi ſolamente, e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre.
Ne è da tacere in queſto propoſito, quanto arditamente uccellar ne voglia
Galieno, il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato, che la radice della
Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se
glidifenda dal mal caduco, ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di
preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d'
Apollo, creduto comunemente Dio della medicina: egli è da ſapere, che molti
Apelli già furono in Grecia, e cctante, e sì diverſe, e dal vero lótane ſono
quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi narrano, che ſarebbe certa mente un
logorar fuor di propoſito il tempo, il venirle qui ad una ad una a raccontare.
Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche, e confuſe memorie alla ſua
me dicina pertinenti, che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono.
E in prima, quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale
è quella percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo
hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio
dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da
eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome
dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo,
ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual
certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo
tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne
la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra
Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli
occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo,
Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i
pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany,
ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della
gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi
voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e
colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o
pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo
ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe
ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire,
nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo
manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di
que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal
foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli
poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo,
quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli
antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 poco in quella ancor profittando,peraltre
ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi,
apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita, cingannevo le del vaticinare.
Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la
ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu
dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in un tratto
maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole:
Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς
χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν
παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον παραλαμβάνει. E queſto
vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo,
che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato
nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli Arcadi, ſe n'an daffela
dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di
quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile huomo,che per la ſua
grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’
vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli. Coſtuma poi
ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri, i
quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro, vezzatamente davanj le riſpoſte
inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto, chequalunque caſo poi
n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente ſecondo il lor divino
predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo
Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli
malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con duplicità, delle lor
malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe.
E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò
Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio
della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 perare, che di
più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier
della medicina confa pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te
potevano giudicarlo, riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua
ſorell.2 (la qual medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia)
morirſi a centina. ja i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li
furono i figli della ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che
mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza
alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi
favo leggiare, ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi,
ch'eziandio dopo che furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi
comuneméte, che tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie,
ſe femmine follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro;
perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ
κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel
campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle
mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi
ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie,
e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar,
chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli
avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad
Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè
ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille
med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos,
Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque
popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L:Ipfe ratas dignam
medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus. Quècunque herba
potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe,mea ef. Ma
trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il pregio, che
guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto, egli guarà
an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle, colla
ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici, maſſimamente di
que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli veduta,do po
aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua
parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che la ſpada, colla
quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio,
l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano
intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato aveſſe a
medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi argomentare ',
l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che per loro poca
uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente
diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe.
Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la
ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare, egli
non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde
provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere
talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale ammendare fa
certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine; la quale
oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che la
limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del
nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo
più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e
profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man de'Chimici maeſtri li
lavoraziinperciocchè è più accô. ia a meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute
particelle, che travagliano le viſcere. E di ciò fenne più volte pruova quel
celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú
potrebbe,che o nell'Egit to, o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni
una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle; percioc chè, focondamente
chenarra Erodoto, egli dell'Egitto alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco,
molte, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes
oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά
απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e
tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non
ſolo all'indebolite parti del corpo, come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci
ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi
ancora utiliſime medicine appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi
Stafilo ) eccellente in filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella
mu fica, e in modo, che ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano,
parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di
ſpiare i ſegreti del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan
doffene aid abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le
complellioni dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che
inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri
inventor di tutta quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido
crebbe, che non iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela
medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli
ſtanziava, Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c
Teleo, ed altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto
Maffino Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce,
e nel corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per burrari, e per aſpre
vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di
fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e doppia utiliti da
tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per. ciocchè non pure il modo
di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano. Neè da tacere,
che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze, media car ſoleva
anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a ciò fare; e imperò venne
Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia,
comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli, coine
narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu poi un de ' compagni
d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης
φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας
υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora
par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli
tornaiſe in vita, acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone,
perciocchè egli pativa del mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di
Pindaro, o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν
του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io
vorrei ch'il Filliride. Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea
reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ
Χείρων, και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν
μιν πίθον, και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or ſe ne l'antro fuo
foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia inteſa A
dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo caldo, bai
didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia, che'l antiche
ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic, o
perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio, e Paulo da
Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate,
com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di
leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo parmi,
chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta ſto, e
le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè ragionevolmente
immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire, perchè
Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente, che vano riuſcì
tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il
dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto che a morte poi ne
divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille. Ma
vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa, enegli antichiſecoli
celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più
orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe; intanto che meritonne
quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe, e di gran
lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune diquelle, che alla medicina
s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam di lui, eſſer fama, che
primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole
poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di
sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte,
cancellate in tutto, ed annullate Еe avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse avanzato
tempo. Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente
inteſo alla Cirugia, ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso.Ma
ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il
libro detto in troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna
parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè quivi leggeſi,
ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti
compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i
non ſolasiente i feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro d'altre
malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες, και
πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas,
και Xepewo, aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς
αμφίπων, τους δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και
τους δε τοματς έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le ſchierea volo
De’languenti infeliciegri mortali, O traejjero in fen fiftola,o piaga, O
dapietre, odaferro aſpra ferita, O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi fra lor
femivitali, Ogni dolor, ogni tormento appaga: Porge con molli incanti a queſti
aita, Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna,
Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1 1 Del
Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra, e fero duol travia, E prima l'aveva
chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων.
Ffculapio s'appella, Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson
caccia, e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12 tone,
ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina, la quale ſuole il
cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il
ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare; perciocchè
nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri
ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli
inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi.
chevoli, e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e
raccheti le contele, e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte
diſcordá ti coſe vuol egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce:
il fecco, e l'umido, e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in
medicina Eſculapio, certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi
immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon
concio eſſercontento di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento
aveſſe giammai dato alla medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri
mabozza, per que, che fi ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il
medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o
che queſte nel cor po umano ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta
mente, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo,
onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura
conſiſta, con quali argomenti poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra
lien di foverchio rigoglioſe, e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora
piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora infievoliſcano; che per altro
quel, che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di
contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque,
e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e
rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre
all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e
molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto,
oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla
bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad
un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis,
quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe
dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is fulmin percujus dicitur humatus
effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui primus purgationem alui,
dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra punto vero quel,che
Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse;
onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i
morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza fallo, che gli
ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono
d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le cure
tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe
dire, ſe non fe, cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte
della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua
groſſezza forbita: quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando
d’Eſculapio, banc fcientiam paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece
ptuseſt. Convenne adunque certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la
ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro
dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San
Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con
giunterie, ed altri rei artifici andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo (il
che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo
liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che
giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per tutto, ſe non
huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya temerariainente il
ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali arti, e giunterie,
acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli, che
l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga
ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole
trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili, che
ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a Luciano
di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma
favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare
per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e
lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα
δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ
ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa
appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per
riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue
ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali
coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori,
chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte
crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità:
perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia
ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento,
e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta
era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi
vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di notte, edi giorno
quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di
ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del ruffiano dice Fedromo a Pa
linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano; e così
ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi, fcaltriti, facendo veduta
dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro avevano; quindi appreffati
all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento
all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno
additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato
ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi ragionamenti, che
dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti, i quali
avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver
inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur v'aveva fra' Gentili
huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za preſtavano, come
Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio,che
s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred
do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo, c
che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le medicar avelli voluto un
bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio, o ch'altro ca gioné ne
foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari offeriva, toſto alle mura
un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a
gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj
rimedj; c delle dette già tavolette, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni;
delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra, in cui fu
regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo
ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che veniffe, e da tro altari piglialle
pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo
liberato colui, lefe le grazie alla prefenza di tutto il popolo, αίμα
αναφέροντα Ιαλιανώ, απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών,
καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας,
και εσώθη, και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla
medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne
l'ardue impreſe del ſanguigno Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo
delle ſue mara viglioſe prodezze, ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le
penne per celebrarle. Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire, o a poco
intendimento, ch'egli avuto avef ſe; perciocchè logorò egli gran tempo, egran
fatica ad imprender la medicina; e fu sì profondo, ed acuto il ſuo
intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a comprendere, che per ta fimilitudine,
la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra, ravviſar ſi poteſſe la complesſion
delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal
l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea, la quale coll? Idra ha alquanta
ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo, o per più
ragguardevol renderli appreſso la gente, o per altra cagion, che ſi fofse,
infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato: il qua le l'aveſse
impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole; perciocchè
quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla
quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto
medicare, eguarire. Io non ſo, ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto
avanti portato, che foſse giunto a penetrar, che la Dragontea col ſuo fab
volatile acuciſſiino, del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di
ammendare l'acetoſità, in che co filte il guarir delle piaghe; ma la medicina
non era allora tanto oltre paſsata, che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze
ſcoprire. E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole
non potè nella medicina sì eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli
le piaghe al fuo maeſtro Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir la
moglied'Achille preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte,
averla lui da morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere
della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti,
iquali così di lui confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone,
eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre,
altri due, e Ci cerone ſei;ed evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai
ſtato sì fatto huomo al mondo. Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o
pur di Giove, come altri giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia,
ſe non certe poche, e confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo
Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il
miele, e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ.
φίον εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino
col miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in
eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte
provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in
Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis,
&coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum
inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non
fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e
la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento
al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi
poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto
avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle
diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio,
da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo
furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli
huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo
domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri parare, n'aveſſe rilpoita,che
proccuraffè egli prima di pure garcon vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era
così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e
quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto,
ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli
doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi
venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente
compenſo; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti,
e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola
cagionati; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e
frale ſtelle in Cie: { o collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat
folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di
certo, che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd
accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del
greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne
altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto
Eroe; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le
ſanguinoſe battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper
mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la
contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior
ragione, quanto più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l
torre altrui la vita. E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés
deſſe, che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la
medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia
morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid
hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff
Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente
ferito, volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè eglifoſse compagno
d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ,
επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma
ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella
peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e per aver anco
ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri
molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta; e
ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la
ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft,
rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles,
five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo
Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex
cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano
averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine
del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me
dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura
alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine
del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di
lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non
coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille
modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno
ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica
nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir
colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in
prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto
triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e però dice
che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per
l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di
Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia; ne per eſſa, ne per l'altre
di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che Achille gran medi co ſtato e’ſi
foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa
invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti, e tanti
valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper
ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente
negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione; ma, ne queſti, ne
quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più gravicpericoloſe ſenza
rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor
guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non ſaprei ridire ſe Palamede
inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco
ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto
veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a
filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo PG, cioè a dire il ſavio di
tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda; quantunque Omero non
faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia, che gli aveſſe, perchèegli
era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone,
ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà; impertanto li ſcorge
manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero, eſſere
veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza
non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non
ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il quale l'introduce una
volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte, faccia
meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli avvezzati aveſſe a
viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città
dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci noja mai diede;
comechè eglino fi foſſero in Ef 2 peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto
cotali avver. timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia
non ha guari pienamente ſperimentato; e però di più dirne al preſente mirimarrò.
La medicina di Patroclo compagno d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone
figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi eterna, ed immortale nella memoria degli
huomini mercè del ſovrano poeta greco, che ſi diè cura di cele brarla: ſembra
ad alcuno, che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe; e veramente a riparar i
dannidellapeſtilenza, che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi
leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai
s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga voccioli, e d'altre enfiature, che
ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual
coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor che facendo men zione di Podalirio, e
di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia, neque in variis generibusmorborum
aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus tantummodo ferro, & medi camentis
mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto
Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e
fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro
buon nome in medicar quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità
credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna
divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe;
ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità:
ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina.
Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per
Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente
comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle
labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao
la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ'
εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per Sembrare egli potrebbe per
avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed inutile, anzi per l'umidità della
ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e
pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron
dell'oſte greca, e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi
poteſse ad una sì vile, e vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi
coſtoroa'feriti mollidi fudore, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla
battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra, ed al frelco ventilar de’zefiri per
riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli
fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og
ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino
molli di ſudore fiano,non che a’feritija? quali feoza fallo per lo minor danno
inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia. Ponevano altresi medica do
alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude, e ſem plici fenza eller punto
confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι
διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti
intorno al regolainento del vitto degl'infermi; eglino cibavangli di groſse
cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά
ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il
qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle
Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le
care, e falucevoli vivande, e beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina
dell'antico Nem ftore dava loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo
Macaone,ſenza conſiderare, ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che
agevolméte ſeguir ne poteva Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed
in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino
ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo
talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse,
lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero
l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben
conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter
excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris
documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a
ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e
corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio
a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca
flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che
per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che
difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e
lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure
coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era,
perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe,
quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto
confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla
fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta
virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi
punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma
raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento
alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a'
tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti,
poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser
gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in
brigata; ſenzachè Platon dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel
mangia re, e pel bere, non avevan poi gl'infermi biſogno, che regola alcuna
intorno a ciò la preſcrivelſe; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere
fuor di ragione; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua
ftamento del ſangue, traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale
dall'acetofità, per cui elleno marci ſcono; perchè cotal medicamento a'di
noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser
giovevole a'feriti, e utile aſsai; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani:
da’quali per avventura Podalirio, e Macaone, oi loro più antichimacſtri
ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda
a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me non cre do, che si facce
difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse,
deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o
dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna
d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago, c più inır.zviglioſo il ſuo
poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che,
ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e
valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in
quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì ſconcia, e mal fatta, che
ſenza fallo non può ella altro inai, che nocuinentu agli huomini ſani, non che
agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco, ed Ateneo, i qualinon
avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l cacio, il vino, e la
farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere. Vltimamente, le radici, e
l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e l’Ariſtologia, colle quali
molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio, Macaone, e Patroclo
medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben digeſto, il quale
oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in cui law virtù
conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole.... In
quanto poi al lavar, come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite, non è
vero'ciò, che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente
il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero, appo il quale ſi
ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che
l'acqua, colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai
ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no
poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi
lavaſſe le piaghe. Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat
lymphis, corpuſque levabat. Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore
Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio
vera eft,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente
troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di
favellare: ma un tal modo di mcdicar le ferite, con l'acqua lavandole, tut to
che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci,
onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti
Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente
ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde con più lag gio avviſo
da’moderni medicanti leferite col vino, o col l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò
lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio,
e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti,
che furonodi ſtatuc, di té pj, e facrificionorati. Quelle coſe poi, che di
Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino, elle fon
tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi; ciò Zono,degli avendo
rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al pericolo da un'avvenente
paftore,e lu’l lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe
avendone coutezza avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis
gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar
ſangue da amendue le braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità
rimeſſa; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del
Cherſoneſo dotatala, data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel
Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie
Cirene, e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata
ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo,
avellimo molto addietro fatto parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di
Telamone, e del ſuo figliuolo Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè
ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e
perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo
figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro
Avolo materno, e come nar ra Paufania, lolevano gl'infermi corteſemente curare,
e maſſimamente le dislogate oſla, o membra in buon concio rimettere; onde per
grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo
ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di Cleomitide, di Teo doro, di Criſime,
dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a'
più baſſi, e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci
alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole
nel libro della vecchia medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione,
da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e
ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne
il fred do, ne l'umido, nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe
d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che
vogliam dire, il qual per Gg ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla natura
ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto
proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan'
eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo,
acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo,
l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte
virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano
frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai
avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne
ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi
con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli,
eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom
niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente
temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già
dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo,
e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici
inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi
leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro
contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico
affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur
non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre
gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo
caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la
febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal
materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che
dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al
ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo,
e forſe di poco momen to, lo to, lo tralaſcio diriferire. Ma quanto al fatto
del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo
Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio, i quali è fama d'aver
primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad
Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone, e a guiſa d'huom, che
di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in tal modo fi loſofaſſe,
ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o dialcun'altro egli
appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico: eche
poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d '
Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine condotto, ſicome
egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai manchevole, e
ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il rapporta; si che
ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi
capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti, e
medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e
confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge, che non mai
dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che di quattro
corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com pongali, i
quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con altre, che
ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2
che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le ora
accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più
ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi
faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento
v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il
medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi.
Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora,
certamente da quello non è guari di verſo. G g La maniera del medicare di
quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema, viene apertamente
accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a tor via dall'huomo
tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e no'l potendoella
vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo, e altre
ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino,
che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer elleno
al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il
furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le
purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice
ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente
creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e
ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da
leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino
cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli
materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto
raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam
noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri
vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al
Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante
cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo
fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel
libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que'
valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in
opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento
giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri
corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni
certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino
non le vennero in quelli a dimoſtrare; ed in verità lo per me crcdo, che ne me
no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi
vogliono, in minutisſime particel le diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e
confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere, ne effetti poſſono
produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo,
ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle
dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe
vi erano in primanaſcoſe, o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono
ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e
ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò
fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la
natura dell' acerbo, delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro
effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù
deʼmedicamenti, e del modo d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti
tutti que' fapien tìſliini filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il
medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato, e intefo
minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo
mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al buon huono, che il conoſcimento di ciò
antaa più alla pittura, che alla medicina s'apparteneſſe; e ba it are al medico
ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare, e al bere, che gli
convicne. Ma quefto medelimo chi non vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la
natura dell'huomo in prima, e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e
d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi
pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le
malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ
maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo
Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire
eglino, o eſſer mol altra opera, greca, molto, e molto agevolea ritrovare il
rimedio, ſe le malac tie dalcaldo, o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi
pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne
poſſono; o pure, che il loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che
fanno il moto, les quali sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia
a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir
potevano delfreddo fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte
ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più
antico ſiſtema della medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver
detto; onde come d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi
d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur
la grecia tuttav, ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E
primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa
Ippocrate mézione; il quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel
filoſofare ſi valſe; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di
coloro, i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo
d'inveſtigare li ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a
que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e
varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò
fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di
ſpiarei ſegretidella natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches
all'opera della medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra
che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai
molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro
della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta
menzione, formati da que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o
dalla flemma elfer formato l'huomo, Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro;
más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo: ed lo
tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che già omai è
l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad un'altra
ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP)
RA: 240 All E quelle gravi, ed acerbe quercle, che veggiam tutto di metterſi
fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate,
perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi
libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi
dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco
ragionevoli, cmenche giuſte doglianze; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri
della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti,
fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran
fatto, anzi da non mettere in conto; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano,
e più vera, e fotril doctrina contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra
to, oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā
misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a
depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco
fu rore ſurſe ſtruggédola, ed ingiuſtaméte uſurpádola, cd occupandola inleme
colla Città, ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii
libri, che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani
huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte
Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a'
di noſtri ſi godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non
purdella medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non
già alla furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo
di tutte l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda,
quanto men furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier
tracollo dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca
mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e
riſtoro, quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che,
ficome talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli,
ed erbe ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella
Grecia fra quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente
paghe, alqua ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza
tratti divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi
tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe
vane ombre di dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a
conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di
riſerbare, e di tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di
belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era
di pregio; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la
troppo credula, anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e
ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai
ſcorgerci da miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la
incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora
per la più Hh parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti
ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di
Erodico,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe
trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte
nobilitata,ere ſa immortale, per fatica, che vi ſi duri, Io non ſo vede re,
come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì
poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere
alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare; impertanto a volerne dir
ciò che per noi fi può, rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato
miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e
ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente prendere il ci bo, chedi giovevoli,
ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo
Platone affai Íconciamente vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non
diſtruggeva altrimenti le malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle
lungamente foſtenere ajutava; ond' egli paſsò ad affermare la medicina
d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini,
così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe
meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua inutil medicina, penofa, e
cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e ftentata morte ſempre
diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo, egli per
trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della medicina
s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza intendendo,
altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente, e
regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare,
e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo
inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que favita
rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone
motteggiandolo conchiude, che una eccellente, e ragguardevol palma e'
riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente gliſi conveniva, come a colui,
il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non
aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta: ma ſi bene
perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o.
pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual fornire doven do intendere, mal
potevagli ozio lungo avanzare, du potere a ſtéto da una tal medicina attender
prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la
mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale
ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia, egli
toſto inan dando per lo medico, da lui richiede, che diviſandoglial cuna
purgativa, o pur vomichevole medicina, o col fer ro proccuri toſto di torgli
ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe allora il medico
ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi, certamente, che
colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per
l'aja, e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta; e così datogli
dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai avveniſſe
per forte, ch'egli guariffe, ſi viverebbe per innanzi felice; ma ſe il corpo no
potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da
tante noje ſviluppato. E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal
medicina caccia via dalla ſua repubblica, come dannoſa, e tale, che i ſuoi
cittadini non meno alle lor private biſogne, ch'a quelle del comune verrebbe a
fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni,
con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole
uzi che no; infra l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria non poterſi appellar
ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente, che coll’inferinità, ch'è il ſuo
contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita ſobria non può
effer inferinità, non può eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non più fi mangia,
quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 batteremo, ne cămineremo,ne falteremo
giámai, ne potre mo ciò fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente
per vivere, il che ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che
come la mano ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo
bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo
operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa
di morte, che poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della
qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce
infinitamente: ed elegge più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne
peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con
te Vgolino,benchè foſſe traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che
chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il
vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri
vere, il leggere', e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i
palli, e le parole, che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il
dì, e tante la notte. Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in
dirizzata la lettera; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto
ciò vano, e fuor di ragion fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c
vigorofo, e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e
viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne
tutte della ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in
prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto,
che comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi,
diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli,
e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi
co,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli
di ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo,
potendo ciaſcũ 1da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo. Macome non
ſi può in modo niuno negare, che quel me dico, il quale aveſse per le mani
ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza indugio poteſse un grave male di
prefence guarire, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi;
nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da Platone commendato, aveſse pronta
ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia, ma ſola mente alle
ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti, e radiſsimi coloro,
che alcun certamente ne ſappiano; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico
per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa
almeno tantoſto indugiar la fua morte, tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo
potere. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co,
il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse
l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe, che ſe non
ſono ditroppo vaglia, s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte
dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno
da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a porle in opera. MadalPaverle
Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne
meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip
pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo
che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone, e recatone
nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò
ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor
gli Atleti ad eſser valo roſi, ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe
quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le
ſciocchezze di Galieno crederebbefi. E come voleva Platone biaſimar la
ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi, s'egli nella ſua Città ordina, che
s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i
per quello, e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per
derivarla in uſo de' caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago,
eadorno il luogo; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope
re di celebrare il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare:
come ſommamente utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una
volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la
quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè
della muſica, che all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma
laſciando ciò da par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla
tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il
regolaricibi a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè
non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i
qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo
diregola alcuna di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di
malattie, che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e
fedele teſtimonia za del contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone
immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini, pure altri cibi
a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo
come fano, e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro
nocerebbe. Egli poi non ha dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima
coſa certamente, che s'ado peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo
primieramé ce la medicina; e prima, che foſsero i medici, i medelimi infermi da
per ſe il ritrovarono; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il
quale ci giova quì tutto rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente:
Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant, alios propter aviditatem
primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile,
levatumque magis eorum morbum effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre
aliquid ediſ Te, alios paulò ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime
deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios
inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque
eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent,
diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein
deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum
interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati,
certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima
d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere
nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo,
onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò
far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile
allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno
riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e
vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li
febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro
imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il
pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne
Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla
ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l
male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an
zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli
più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma
certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in
rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale
non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual
togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava,
avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di
tempo; ma poi ſenza fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne; ſenza chè ben
potrebbono di vantaggio aggiugnere, il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate, e
da Galieno: i quali con fregamenti, e con dare a {piluzzico, e a riguardo il
cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti. Ne qui deb befi tacere,
ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare
in altri, come manche voli, e malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in
ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia
riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende
il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare, che ello ancora alcune febbri
linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia; perchè egli vien forte
ripigliato dal Tralliano, il quale rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior
ragione per avventura, con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero
dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro
ſe'l veggano, i quali comeche con parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il
ſogliono ado. perare: ſolamente lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte
afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura.
Quinci ſcorger ſi puote, chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono
di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle
coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið
Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando
gl'infermi, e d'altre opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva
avuto la cu ra; così veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono
medici, non preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle,
eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto
del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati
alle lutte, al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma
il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina
autorità di quello p li vile li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe,
che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in sì grá
pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o ben’agiati
huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i medeſimi
Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche
Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli onori
degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del
Ginnaſio. Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion
l’arte ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne
de ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa
menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino
contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi,
chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli
temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto
ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone,
non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina,
ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui
parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in
facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus
igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam
vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis
aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa
herba,atq; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va
purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari
jubet, e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte
celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce
Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche
memorie, che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera egli medicaffe,
ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie,
dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua
le fi diè cura di eſaminarle, ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien
rapportato da Ippocrate, che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed
a ſpiluzzico avel ſer raccolto, e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo
gliono agl'infermi in ogni lor malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran
fatto ſtiina della coſtoro induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed
agevole impreſa è a chiunque neprenda cura, quantúque niente informato di
medicina egli ſia: baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della
propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono
in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno
ſom mamente da commendare, qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non
di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le
ſcritture de’me dici. Ma che è ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli
fia queſto un peſo da tutte braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina?
E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a
ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne
ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di
ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion
narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi !
e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il
cervello, che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli
l'infermo? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico,
lo giudico, che ſe altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro
riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli
ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici
mercè dell'ufire loro aliuzie, tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento
de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 alera cagione,cofa,che
ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai.
Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi
co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca
dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie,
che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do,
col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che
color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi
foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit
to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate
parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della
ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi
car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del
latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne
ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode
l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro
veramente a que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la
biſogna. Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni
medici, i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro
poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad
ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario
operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda
aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il
che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene,
o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il
medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il
vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di
que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che
celeres, ! I i 2 & acu 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur,
&nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila;
e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno
contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non abbia laſciata coſa p
riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e
l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede, perciocchè, ficome avviſa il
medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna folvuntur, ſi portò pelli maméte,
per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo
fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici, che
furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure
alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente,
come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in
prima vi li legge vano, come chioſa Galieno, affatto togliendo, e parte in
altro cambiando; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato,che provenir
ſogliono dall'incertezza della medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto
Ippocra te della medicina d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano
dice, di qualche medicamento d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno,
di notonia,e di quel le inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal
ſero porre in opera. Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer
tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei
ſentimenti; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure
a teinpo dell'an tico ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro
giudicio ſe ne poteva. Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi
dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli
in parte, tronche li riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da
ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno
che, coll'efler perdute l l'opere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e
d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate
ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di
medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel
gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri anchenon medici
ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo ſo permevedere,
come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto
quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo gliono ad
ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine di
Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai letti
i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a Dio
ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius.
Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare
Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte ve
riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la
parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros
réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole:
imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi
tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l
biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli
antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber
più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero
Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade
chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non
badando a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente,
che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla
medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi
anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non
ben intelo scorgeli ſovente delle coſe, ſembra pure, ch'egli ciò che ſi
conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto, &
veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere
affai più manifeſte le fondamenta delle varie, e diverſe ſette della medicina,
di quel, che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe, d'avere i principj
tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti; perchè
fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme
dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e deter minare ciò chepiù vero
gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente
ſtacciata, ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non
eſſer più da appiccarſi ad uno, che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la
loro egual dubbietà;e quinci egli poi di varj, e tra effo loro contrarj
ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic; e per
tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura
umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina, ed'un altro nel
libro della vecchia medicina, e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e
d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta, comechè qucftie'confonda con gli
altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi, e ſpezialmente con quello della vecchia
medicina; il quale ultimo ad alcuno ſembra, che intorno a tal materia.e '
compoſto aveſſe; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate, ma
di Democrito; ma certamente fuor d'ogni ragione; perciocchè in altra più nobile,
e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe. Ma che che
di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze, e tcmpellante:
Ippocrate, par che talvolta alla ſperienza, ed alla ragione il tutto raſſegni;
ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga; e da ciò
moſſi negli antichitempi alcuni, come narra Ga ļieno, ed alcuni altri della
noſtra età, infra'quali è il Mon tano, preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate
in medicina da parte empirica, o da parte razionalc veramente tenuto haveſſe;
ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento
fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e
della molta dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di
quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli
comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue
opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo
egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che
cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al
vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che
la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma
ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire;
egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed
altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni,
ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando,
ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului
me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i
ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito;
over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che
diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo
del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e
toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi
convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra
loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio
giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e
le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano
intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor
conoſcendo, e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli
riſtr fermame te fi volle, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E
conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente
detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che nel libro della dieta con
lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in
quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli altrove rifiutato avea
dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a
ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli con venga in primain
prima aver piena,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di
qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò ſpiar minutamente, e
com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino.
Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova alcunabiſogno,
altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che Ippocrate non
abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare;
non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto,ne
vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo, mal ſi po trebbe cibo,che
profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi
foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi, e vivande,
che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā
pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto
biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe
della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali
di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor
facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e acconci; ciò ſono l'acqua, e'l
fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe, che l'uno all'altro
ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo, ne ad altra coſa
del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo
fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia, c in qualunque luogo dimori: e
per l'acqua convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e
battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì
fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente
più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo
all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito nutrimento
gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e l'acqua d'altra
parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento, e
nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata. E
imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo
verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa
ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa
rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di
cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli
ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio,
dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi
replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di
diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e
ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano;
ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua,
perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il
fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti
ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente
diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe
ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre
vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri
nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna
briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne
favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i
1 niuno coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre
giammai; econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l
fuoco tra cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno:
licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi,
fuor ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL
non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le
particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e
cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò
può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può,
che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre
partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie
più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi
riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e
faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente
ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre
il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le
venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua
nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi
terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate,
che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva
dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che
così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e
generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra
loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di
ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato
medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che
da lor 1: fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti oltremodo rie? fciano. E
certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore, nc ſi fa quel che
in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe: come chè
giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi
crii: e altro incontrario,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi
diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che fia più toſto da preſtar fede
agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la
pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli, e non eſſer miga poſſibile,
ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti: conciolliecoſachè chi po tri mai
diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel che non è, non avendovicofa
alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li
meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci
s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo, che lo
ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia, che'l meſcolamento, e lo
ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo ingenerarſi, e'lcorromperli
la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento, e lo
ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia: el
corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo fceveramento: e che ciaſcınıa
coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien uno; e in queſte sì fatte
coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura; ma ſpartamente ciaſcuna
cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte,
più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno
avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e breviſſimo; di nuovo queſti, e noi
qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto: la lu ce a Pluto, e le tenebre a
Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano
quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi lanno quel che el leno medeſime
fi facciano, comeche faccian veduta di fa. perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono,
ma in tutto ciò Kk 2 ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel
le coſe, che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè
accozzandoſi, e partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e
confuſe, ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione
accięcato, e imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato
nº abbiamo, effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata
colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti
aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende?
e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e
ignoranza; ma anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in
parole, il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma
nifeſto, darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura
oltremodo conoſciuto ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali
letterati ſtimanſi,há creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli,
cd enimmi d'Ippocrate, e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i
libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento,
ch'egli tutti i più naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo
fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico
ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un
valentiſſimo chimi co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che
Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi
filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli
incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella
guiſa,che fileggono; e tanto più, chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e
meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj; da che
egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe,
che non baſtavano, parla poi non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che
ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia, nella maniera appunto, che ſi accennò nella
cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci
s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le
coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà ſparpagliandoſi, e
dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò,
ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l fuoco i principj ſono
dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne
potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co medeſimo,prendendo
ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già le parti dell'huomo,
ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima,
comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento dell'acqua, e del fuoco ci ſi
laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā
doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne,ne l'ol fo così menoma, e
tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne, e tutto l'oſſo diverrà acqua, e
fuoco: e queſti che in prima non apparivano, manifeitamente nelloro.ſcioglimento
poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le
particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan
per huom ravviſare: le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e
guaſtino le coſe. Ma ſe pur queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco
le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è
dilatativo, come dicono, e ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che
Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare.
Ma concedaſi ciò pure a lui: non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle
ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che
poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in
favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice
quella ancora, come tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E
tante, e tali sono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta, che
lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre ſueopere,
contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non eſſer
d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o
vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e
altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe
tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue
l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco
ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma
Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri
conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in
concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per
avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto
l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra
fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a
divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino;
comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai
ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del
cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il
corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po
aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le
coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli
lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere,
Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è
moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of
fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela
terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno,
e la ſtate: e che'l corso della Luna, e delle Stelle per lo īpirito facciali: e
che lo ſpirito alimenti ilfuoco, intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco
più vivere: c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo
del Sole. E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico;
perciocchè ſe quelnon vi foſſe, dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun
modo vivere; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua
traen dolo. Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta
veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella: e quella
ſolamente eſſer cagione a noi della vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene;
intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore;
perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo, o beveraggio alcuno viver qualche
giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre
operazioni, comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E
quinci egli vuol trar conſe guenza, eſſer molto ragionevole, che ficome la
morte, così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano, e che quello
calor compreſo, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo
n'offenda. Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando, ficome ciaſcun
ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto
liſteina, perchè ingegnoſo fia, e conte gna in se qualche coſa di ragionevole,
non però di meno, generalmente ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer
fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria
abbiamo, non è perciò quel a ſo la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua
ancora al noſtro vivere è neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come
fuora del corpo; le quali, o mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men
dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è
da tacere, come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non
cheda Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta mente appajon
lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero;
non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue a bello ſtu dio
inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica
a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar
talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani, com poſtida lui
per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così
liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia, e governa ciaſcuna coſa del
mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per chènon iſpiega egli poi, ficome
certamente fargli con veniva, come, e con quali artificj tante maraviglie quel
lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di quello, e diquell'altre
ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a
noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per avventura gran ſenno egli fe a
non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire, che ciò egli non ſappiendo, non
potrà certamente mai la natura, e la generazion delle malattie per sì fatta
ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti ancora, come a quel le da
proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne men di que’mali, cheper
compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo
rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui
compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona, la quale,
com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza dubbio non giugnerà egli
giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle diverſame te provengono,
e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura
d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo
ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica,o altri ſomiglianti
mali, come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare: o donde trarrà egli gli
argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito
-meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić
dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da
dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco,
e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le
noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella
diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi,
e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti
liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi
talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e
molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime
altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle
quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato
ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali
ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al
merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo
le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò
egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le
quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati
oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio
impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc
che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe
dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo
libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò
da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo
nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della
febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di
cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: noi grandi ventolit, le quali non
potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo, ruggiando per ic bu
della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi
il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come domine potrà mai
dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere? ma
egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle. vene, il qual
per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò, davcva ben
egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle
vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi, comeche continuo
ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in
dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi
rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per
maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc
divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il
corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio nando, molto
ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo tutto al
corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte
del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio,
come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il
riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando
il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre parti del corpo,
nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto però faran vive, e
affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in
quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre. Ma troppo
nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori
d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi al preſente di più
ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1
eenuto in pregio, e commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di
cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti,
e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il
mu* farvi contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il
diviſamento, ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può
recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come
faggiamente avviſa, e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi
più volte Platonc; e ben può per quello chiun que n’abbia talento
agevolmentecomprendere,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco,
ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala
tre coſe alla medicina pertinenti; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere
ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore, e inventore d'un sì fatto
ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento
ciò eſſer fa ſo s'avviſa; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della
vecchia medicina manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima
di lui ricrova ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112
agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo
propio diviſamento ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar
noi al pre ſente, darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e
inagnifico, che nulla più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia
nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne
imprender con ingordigia tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si
valentemedico, e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente
trattata l'aveſic, licomealla propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià
Marco Tullio del divino Democrito, il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro
ſcritto aveir, b.ec loquarde univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non
profiteatur, così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato
aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI
2 folier [ chernixo, e beffato
rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra
tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria; e ciò, che è affatto impor
tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli, egli è il libro più ricco
aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che tutto parole egli non ſia:
e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto,
opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi
ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo
aggira mento di ciarlc, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una
coſa; ma, che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello, di cui
favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè
quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono
eſſer una, e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi
oltremodo inſieme in dando a quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria,
altri fuoco, altri acqua, e altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di
coſtoro recava teſtimonianze, e ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo
ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione, e contradiandoſi nel le
parole, davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la
coſa; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor
continuo piacire, che tratto tratto facevano, non mai per tre fiare continové
riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore,
ſecondamente che ben parlante egliera, edat popolo tenuto in pregio. Conchiude
alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa
role, ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che
coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè
tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma
Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi
maraviglia, una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di
que'filoſofanti, i qua live Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la
contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma
ftiaſene pur con pace Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto
cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della
materias ch'egli imprender a ragionare, e quale appunto quella richiede?
mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente
uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate ria, ne inſegnandone coſa
alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate: qual ſi foſſe
veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz
niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino tutti una medeſima coſa
dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua, o la terra, o l'arir,
o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di ciò mai fu conteſa
infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno; ma ſolainente
eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da
prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o d'aria, o di terra.
Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate
recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel
piatir de? letterati huomini, maſſimamente appreſſo il vulgo, non mai vincer
foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che dice vero: ma colui, che meglio con
vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare: eche il più delle volte nelle
conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante, e'l ſofiſta,come ilme deſimo
Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer
d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon diterminò mai il principio
delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate racconta, il ditermina vino Ma
che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la
ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe ciò era, a torto certamente
da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il
principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o arias, o acqua,o fuoco, o
terra; ſe pure non vogliam dire, che Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che
que’valent huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare,
che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin
qui e' fi pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n
viene egli a’ medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che
ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente
flemına; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima
raccon tati, tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col
nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che
quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di
venga, e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne
indiappreſſo Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri
dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia
ramente chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le
conteſe; perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia,
ch'un fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca.
Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu
ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi
foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde
venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure
l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio,
coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè
nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della
vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani
prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli
conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di
sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o'l
fangue, o la collera, o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde
iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da
quell'altro pri mo principio, del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte
ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente
dalle parole, chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi
volevano, che o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro,
e'l dolce, e tutte altre coſe, che nell'huomo li ravviſano; or comenon può
agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe, ayer
cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo, dall'acetoſo je da altre, e altre
coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate?ora a que. fte tante
cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari: e
ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è, ſalvo che o ſolo
ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente rondime no nelle
vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla collera., ed oltre
a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura,contrarie;
e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza fallo elfer cagioni di
dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con
altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli doveva adunque provar
Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla ſola flemma, o dalla
collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o collera inge: nerar fi
poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare veramente il potea:
concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon
potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici,
ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole, che ſiano i primi
principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie forme cambiarſi; ed in
vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica, come dovetter fenza
fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di ſangue formate, e d'eſſe
nondimeno s'ingenera il sangue, convien neceffariamente dire, che varie, e
varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue
parimente ingenerare; e cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma
aurebbon potuto co loro filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di
que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare,
chel'aria ſola col riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri
movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e
carne, e oſſa, e nervi, c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti
dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar
poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba
l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali
faccian, meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso,
e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno
ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il
principio.di tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe,
non ci ſarebbe ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare
diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer
quell'uno corpo di verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime
particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif
feriſcano. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che
impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar
vcra mente più maraviglia, ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno
vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto
medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte
dice,checo lui ilquale porta opinione, che l'buomo ſia ſolo ſangue, debba
mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie, e varie
maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o qualche età dell' huomo,
nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli
degli altri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato
diviſamento nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando
in prima, perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la
malinconia nel comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no
cambiar natura: e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e
s'egli riſpondeſſe, che non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento
quelle parti formarono, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo
meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà
dicoſe; e addurrei per eſemplo, che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo
meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro
eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe
mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar
vedere, che quelle coſe, delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre
nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co me ſarà egli ciò mai per moſtrare?
Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi
pio; recando perragione, che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi. Ma
chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga
comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio,
il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura, per grandezza, e per
movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole
egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per far pruova poi maggiormente
della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno il caldo, il freddo,e l'umi
do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non baſtano a far la generazione,
come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io per me non ſo, che ſorte
d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva certamente egli, il che mai no
adempie, provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il
tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio,
che a lui avreb M m bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate
ſi fingano, non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene
valevol' eſsere: ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre
coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti
iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è
quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non
altrimenti il corpo, il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi
poſsa, le quali ricever poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure,
eordine, può ogni coſa produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che
egli va filoſofando, potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape
giammai ingcnerare. Ma non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria,
faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e
dando a lor la ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione
con dire, che eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale
egli ha diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo
ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure
Ippocrate della ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non
per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per
acquiſtar fede alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri
autori tener ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a
ſuo pro fi vale commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue
opinioni contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che
lornon dica. Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente
per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore,
la fredezza, la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante
altre, che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall'
accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi,
come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver
voluto mai volger 1. ſiad fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro
qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal.
Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e dall'aver ciò
traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il
leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual ſoſtanza ſola
mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante
biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance, che in
diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti corpi ſce
verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ anch'egli,chenel
disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli ficomea caſo, in
fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a
poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto opinione, che in
cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere;
perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri, che quelle
ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non, miga
ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo
ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la Collera
gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi convenga,
l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali. S'affatica egli
con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori tutte le
malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente ne'dubbj
maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo alla
canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li, di
natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli di
ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e
dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli
mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi
diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han
colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe,
le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo
ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare,
che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando
grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell'
Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate
ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e
fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con
trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo
che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la
qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente
ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva
rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa
avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle
vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più
par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun
divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo
l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no
aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle
prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando
Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha
ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe
l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi
agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia
Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo
umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo
tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo,
tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circonſtante
aria raffreddati vengono, o riſcaldati. Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo
umano ſognati da Ippocrate, ſicome e vuole veramente ſi foſſero, e alcun di
elli, o calorc,o freddo eccitaffe, impertanto no potrebbe dirſi effer cotale
umore,o freddo, o caldo: imperocchè ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o
doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella
ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina,
il chiodonon per tanto, o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi
sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte
dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da
raſli giammai, certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire
dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni
ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o
d'inver no, o digiorno, o di notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad
Ippocrate, come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri
fra gli antichi medici,non avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato
umore, che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il
vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia
aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe
alquan to inteſo, forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e
novelluzze; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui
credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza
buglio di sì diverfi umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di
que'valent’huomini ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo
diviſamento ſi fior ge. Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo;
perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un
ſolo umore; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed
altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non esser altro
l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il
ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e immagina di
gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai alcuno
eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere
inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo
medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap
preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza
ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre
purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe
altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza
prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle
purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche
aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il
medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora
quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la
materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor
nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po
tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma
coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la
flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il
ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la
flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non
che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia,
e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa
pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter
dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno
ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo
groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e
volantes sostanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali, la
quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella
sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici; or
tra per lo movimento d'eſſa, e per quello, checontinuo dal Sol ri ceve la terra,
e damolt'altri minuti corpi, che perla lor focofa, e attiva natura, a guiſa di
tanti ſpiritelli l'agitano,e la commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon
fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli
pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così
farti buchi vengonoa cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime
piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad
accreſcere, in lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a
comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle
me lagrane, che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a'
granelli un amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella
carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente
avviſeremo altresì in quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte
ſoglion venire a inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi
dolci, e ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime.
Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino;
il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna
pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile
abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro
noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il
tale,o'l tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò
offer vato: ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano,
formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò
che ſi vuota appaja di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri
sper, eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boccuzze
de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto, e
corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali, chein
eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano
mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci avvien, che le
fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e diſcorrenti. Finalmente lo
immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno,e che ſe pur
cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari, aveſse avuti gli occhi di
glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel
lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé
glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get
tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non
giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello
ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc,
ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò, che altrove
più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli oſſervato recere, c per ſotto
altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali eglinondimeno vuol, che nelle
vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui, non è fano diſcorſo, ne
concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene, perchè ſi vuotano
colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo
indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e porger cagione a' poſteri di
ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che
con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare? Ecco come una ri cevuta
opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri
della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e a tutti quanti i ſeguaci di lui,
traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi, chee' non ritroveralli ne af ſai
ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo, oveè la
malinconia? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì
fatti umori fraſtorni tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di
ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli,
e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel
ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima,
novi do vevan eſſere. Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che
nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori
d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale
vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo
giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero
foffe, abbiſognerebbe, che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che
no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà
una materias rappreſa, la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma
non miga egli è vero, ficome per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del
vaſo ſia la malinconia, 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor
medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata,
la roffa parte in nera, e la nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien
dall'aria, la qual movendo le particello; della fuperficie del ſangue, le fa
così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette
coſe, due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una
dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne fa chiaro veder, ch'ella fia chilo,
in fan gue non ancor traſınutato: l'altra gaglioſa,e tenace, di cui ne fa
purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del
corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va
col ſieroſo migliantemente miſchiato; e agevolmente la coinprenderà chiunque
ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo
unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare, che in
quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non,
mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va
a nuoto; ne in quell'altre, che per Nn avviſo di lui dalla malinconia
provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello che,
nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate,
ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi
aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe
d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a
coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più
di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di
cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì
quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano,
effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza
ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato
l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di
quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad
Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più
nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu
ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua
natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome
è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par,
che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da
Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze
dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli
uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na
tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne
meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono
Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto
avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a
narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più
d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la
qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal toccamento; ed afferma
coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della collera ſempre ha'l tocco più
freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli, che
l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia
ne veg giam per le bocche, per le narici degli animali uſcir fuori; e per
l'enfiature, e altri mali dalla flemma cagionati, che ſovente in quella
ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına
Ippocrate più che mai le viſcere, ele interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come
poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma,
poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò,
che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali,
che freddi s'appellano. Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua
cſperienza contraſto, e ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche
catarro, qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la
bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro
inca po, ne in corpo, ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente
diſcorrere, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori
della' noſtra pelle: il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah
bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile alito,altro tempo ſvaporar ne
ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade
ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe le flemme; ma collo
ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil
ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la primavera le
vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da luo go? Ma la
ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe
dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 : la Primavera dic'egliè calda, ed
umida,e caldo, ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma
pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche
no, ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli
Idropici, in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir
degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal
ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono
avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue per le narici, ed è il ſangue più
caldo, e roſſo, che mai? Certamente come altre fiate abbiam detto; im perocchè
la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti
d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi che no; e più toſto la malinconia, e
la collera dovreb bon eſserne accagionate, le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe
avrebbon a rodere le inteſtina, e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono
altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal
materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi
trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a
chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho
curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato,
perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare
dietro le biſogne della medicina; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero,
ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter
con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia:
imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e
per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica
in contrarioGalieno; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole,
e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito;
ma che chc ſia di ciò, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne
l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il
ſiſtema deila ſun ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier
foffio, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi
ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e
particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto
lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non
già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti,
che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno
cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c
anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe
raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio
d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea
antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre
libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli
Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche,
ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend'
egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì
malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie,
e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia
indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi
ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco
Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt
conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon
ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer
degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun
fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro
Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel
di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del
poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra i Greci ebbero inaggiore
ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte altre opere d'Ippocrate, tenner
pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe
manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar rite tutte loro ſcritture;
ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc, dalle reliquie, chene'
libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a ' dinoſtriſe ne riſerba no; e per
quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo, e medico,
quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè
que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero
almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er ſi fe Lico, il quale ſi diede cura
d'andargli un per uno mi nutamente, e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente,
e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro, comechè io non mi dalli briga di
favellarne; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano
così generali, che per la medicina poco, o niun pro trar ſe ne poſla; e di
leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha
porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con
pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia, e ad altre arti, e
diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie, che ad
ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute; altri, come avviſa il
Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno, e ſenza
l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo ad
autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte,
emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da
lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta
qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi
fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper
tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri
finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati,
ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri
trarrà coſa, che monti un frullo. Ma l'oſcurità è vizio si ordinario
d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì,
che non ne faceſſe motto, a non ne lo proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma
fe è vizio, ed error grave l'oſcurità in qualunque materia, egli è ſenza fallo
graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e
in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni, e nocumenti cagione; if
perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion
farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le
ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe
ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo
primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella
medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco
vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a
interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di
divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano.
Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi
riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil modo ben farlo, cioè rimanendoſene
in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por tanticervelli a partito per intender
la ſua mé te, con si grave riſchio de' poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio
quanto egli foffe dabbene, equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali
dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe
gnare; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e
particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì
confuſa maniera, que' catti velli l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero
logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer
tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi, e
regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe guire, è tanto biafimevole, e ſconcia,
che nulla più; e ſe Principe mai, o Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi
valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai
garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella
malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate
col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant
animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco
avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro
Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per
tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe
arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando:
ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum
illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E
quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo:
Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis:
cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, & immenfam artem
contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh
unoquoque plura præcepta recondere, quàm quæ verbis deſignarentur:
&fingulos Aphoriſmos prêter id, quod exprefsè docent, proponere, ut figna,
du notas, quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però
dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad accagionarli
Ippocrate; imperoc chè qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut
to, e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì diſgiunti
ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual lode è mai
d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa, e
laſciarnu cento, e mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to del
diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe
medeſimo, a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo
diſtento. Ma ſe pur po telle teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì
fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità,
che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta, degli umori, degli
alimenti, in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo
chioſatore, Hippocrates anigmaticè, dw obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum
magis quandoque, quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le
ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo.
Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare,
che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo, e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe
di quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure, c affai
brevi parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan coloro, che di future, e loro
ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde
biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode, e commendazione dalla
voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono, comes cofa
maggior de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è avvenuto, che sì folta
turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima
dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno: imperocchè
a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente
iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto, che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli
intenda,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa
parole di qualche parte di notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e
confuſo ſtile;ma cõchiaro,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per
entro a tai ragionamenti qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola:
impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la
ſua mente non fi com- ' prenda. Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten
de, imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c
diſcender omaia qualche particolarità: lo dico, che il primo, ove procura di
ſcorgerne la medicina, come poſta lu la vet Oo t21 1 ta d'un erta, e lunga, e
ſtraripevol roccia,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita,ei molti, e
gravi peri coli, che vi s’incontrano per huom pervenire; e tale,e tan to, che
vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante
malagevolezze ha la medicina per fe medelima, ei, che dovea far altro, fe non
ſe a tutto sforzo. agevolarne il ſentiero? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì
fattamente impruna, che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento
fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate, chela
brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica, al
lettore altrettanto ne aggiugne. E nel vero chi potrebbe confide rar quanto
ftento dovettero durar tutti coloro, che prima di Galieno ſi dieder briga
d'interpetrar l'opere d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron dal
laberinto, come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il
filo da poterlo ſpiar tutto, e ritornare in ſalvamé to; quantunque v'há chi non
gliele vuol credere, e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo
avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci reca la ragion dicendo, che ſe vera
mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate, cotante
quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti, per indovinar, che diavol
d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po,
che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro
nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina, opportunamente
impiegato? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è
a cuore la brevità, a che perder parole per dire,che, acciocchè il medico
adempier poffa felicemente il ſuo uficio, abbiſogni che vi concorrano l'opere
dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian
preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del
diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna Nonna ſomigliantemente non
l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam
venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più coſto con aringo
d'ornate ciance, che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a
petto degli argo menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro
certamente, ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro
Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente
ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le
vacuazioni, che per vomito, o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali,
quali eſſer denno, giovano, e age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento
de’vaſi tal lia,qual çiler dee, giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte ftare,
che con chiarezza, e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per
avventura dicendo, cheſe l'arte, o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo,
fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro, ove ſia
l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe, e
dell'inventore, come Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate;
adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che
dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina, sì lungamente, eintan ti
libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli
uinori, e dell'altre cagioni delle malattie, e delle altre coſe confacenti alla
medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a
ſuomal grado,alla fallace empirica abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe
meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli
Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non
ſappia, che al lor, chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap
profitta, che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente,
&aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate, che quantunque non ne tragga
alcun diſagio l'infer mo, e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca,
avvenir può talora, che l'umor vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè
ben potrebbe egli di leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche
materia, la quale niente aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2
per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel
medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e
pericolofi malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la
cagioni, che l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera
di quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e
nel mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona:
a pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti
quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora
o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la
vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò
che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo
preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel
tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare
col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una
piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il
ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e
nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non
pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii
medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro
infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della
natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia
diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi
tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di
Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel
vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime
volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e
riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca
norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quelle materie ſi vuotano,
quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo;
concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la
delicatezza della parte, per la quale ſi vuotano, e per altre cagioni ancora
recar ſogliono noja grande agl'infer mi; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo
dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia, e
ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come
vera una propoſizione non miga per lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè,
che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli
umori in altra qualità di quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici,
corrottela, chiama ta; ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor
rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale
foggiugne Giuliano, in modo veruno in tender noir fi puote, ne è vera:
imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha dubbio, che tutte in fermità agevolmente
gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola
la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe
agevolmente qualo ra a grado gli foſse, effendo ciò in ſua mano, comeilmal
l'affale, così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro, falvo che fa
ſola vacuazione, la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col
ſegnare, ſe'l male ſarà cagio. nato dal ſangue, e fe dalla flemma, e dalla
collera,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di
Giuliano con dire, che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde
del corpo qualche vizio; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel
inale,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno
tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli; il che certamente non avviene;
anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze, coſtantemeure altrove
il niega. Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali,quando
le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono
nocevoli, non che infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te
afferma Galieno, elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo,
quando non può eſſere, che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate
le partiſalde, le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e
ſconce ne vennero? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con
quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo
la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente
per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente, che
Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina; imperocchè avviſa
egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al
paeſe, alla ſtagione, e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione.
Ma per tacer della ſtagione, dell'età, e del paeſe, onde niuna certezza trar ſi
puote, con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai
rin venire il inedico fe fia, e qualſia quella parte diſcorrente, che cagioni
l'infermità? Credeſi la collera cagionar la ter zana: la malinconia, la
quartana: e pure queſte alla va cuazione, che penſan fare i medici di tali
umori, non ce dono:'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù, e
con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al
Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione, che egli lo tra sformò
sì, che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare,
e interpetrare i detti degli auto ri, egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato
degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo;
imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien, che vada al
peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli. Primicramente la ragion
d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto, e d'aggirarſi fra
vani argomenti al Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza
nel vero., e materiale, e più li ſten de aſſai di ciò, che Ippocrate s'avviſa;
imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo, sìfatte perſone
dovrebbono andaralpeggio; il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe
apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli
come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi
chioſatori, dicendo, che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente,
nepofare: perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in
loro il chilo, e'l fangue, c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del
corpo, ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos
debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente
coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e
ſalde del. le loro foſtanze, checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e
p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p. la continua formentazione
di quello, che in aliti lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto
più abbonde vole, e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo,
e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi
ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e
comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già
per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al
dovere per qualche cagione di fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi
ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello
diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo, cdivi fermatofi, or
una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta con impedir affar to la circolazione
del ſangue repétina morte alcresì cagio na; e ciò è quanto dovea il noſtro buon
Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli gravemente, ſenza dubbio, in tacendo
come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle
vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi
fa colla die. ta, comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur
certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta, e quando
altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta
i per avventura i ſu: i avvertimenti. Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino
al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in
lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato
del favellare, confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea
illuſtrare; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe
più neceſſarie a ſapere in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole,
alle quali fa meſtieri d ' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era
aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui
inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che
agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non
ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali
lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar
non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che
non conoſca, che nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare
il malato? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata
anche ciò far colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te
nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in
materia di sì gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto
regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral
Lito favella, e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine;
tralaſciando non per ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto
de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un
ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo
nel cominciamento di quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato
parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial
mente all'orina; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal
ſangue;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada
tragittaſi alle reni; e ro, comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate,
dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot titi, di
preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe, che ſenza
toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo aforiſmo
dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi paſſa a far
paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè dal continuo
ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e perchè poco
nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi. E
verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè fuftinet media
etates, minus juvenes, minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien
poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici,
cioè, che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e
che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi
conſumi. Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non
che eglino caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora
agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la
nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor
vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro.
Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera
ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a
quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non
badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di
primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e
perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato
calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa
nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì
breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp
biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio, che
quantunquevero in tutti huomini, per tacer d'altri animali, ciò che
diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di primavera affai meglio
fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e' ne reca è falſa;
concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle menzionatcſta gioni
caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle, nemen nulla
montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome
ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè
in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni
fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il
caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe, alle
più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal ſciocca filoſofia, che i
luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di ſtate, per lo Termofcopio
falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a noi, che di ſtate caldi, e
di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir
potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener
quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da al ſan gue col movimento
il calore: non però di meno, come fiè accennato, manifcſtamente in noi ſtesſi
ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte, non altrimenti, che quelle
di fuora, effer più affai calde di ſtato, che diverno; ne per altro nella detta
ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo; ne
Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare; il quale dice altrove, che di verno s'
ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e
cagionate da tardi, lenti, e freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le
parti del ſuo maeſtro difendere, immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con
dire, che di ftate ſian calde, maggiormentc che diverno le viſcere, di quel
caldo, ch'egli avveniticcio, e foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo
innato. Chiama egli caldo innato una i 1 1 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza
d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo
incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce
nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che
abbondevoli fiano maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto
ciò poco, anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre
Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal
ſangue; perclié folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l
ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor
ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium,
præfertim pulli in ovo luculenter conftat: utentia, multiplicare fit
fupervacuum. Argomento manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere,
ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor
viene ella a perdere: e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben
toſto dal cuore, dalle vene, dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor
fi diparte. Vano, e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi
ſuo le, il cuore effer fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta
opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte;
imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che
l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il
noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il
calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie,
e nelle vene quello mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue
ſi riſcaldi, e caldo continuamente ſi mantenga, perlo movimento, che dal cuore,
o dall'arterie egli conti nuo riceve; ma non baſta certamente un si debile
movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l cuore, e
che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il ſangue;
ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro; ma
chiunque P p 2 pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age?
volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio
il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che
altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte
vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la
divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la
forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel
mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora
ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera
certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in
parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze
minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae,
ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi
formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel
ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a
conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella,
la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali
non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco,
v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo
al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi
rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in
sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che
mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia
agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per
manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà
dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli.
Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo,
intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio,
certamente convien dire ch'appena ne'fanciullinon inolto guari dopo i loro
naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno,
ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa
della doctrina d'Ippocrate, portati per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro
propoſito: di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante, la qual continuamente
dagli huomi niper la reſpirazione li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc,
che'n quella, più, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente
la formentazione del ſangue, e in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più
grande,e pa riinente ilcalore; allo incontro poi il verno, mancando all' aria
que'ſali, e tra per queſto, e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla
formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne
per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue, e le viſcere,
maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di
eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente, che
per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono; ne pare dalla verità lontano ciò che
de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero: Dicono che agli kuominidi Lucu morie:
coſa mirabile, e incredibile, e che ha più della favo la, che del verifimile:
fuole intervenire, chequelli per ciaſ cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi
Novembre, nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio,
muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la
fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che faſi di quelli:
lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare,
avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di verno, e di
primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi
quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco, e fa
la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per
lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi dilegua; cf fendo
ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito delvino volante, e
ſottile; e per mancamento d'u pa co na
cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men
gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a
Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò
pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio
che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza
fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel
precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a'
fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma
ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più
largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per
creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di
ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto
bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che
parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi,
che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di
caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in
cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che
dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non
ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il
calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per
gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc;
imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo;
perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo
ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color,
che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua
per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere
ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li me non sò, comegli
umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più
de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative; foggiugnendo
nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o figiu dicano, o giudicate
interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne con medicine, ne con altro
irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la quale con altre de' libri degli
aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel libro degli umori, ed in altre
ſue opere, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento;mapotea
certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga, cotanto ella è
chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar mai potrebbe, avvegnachè non
inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom perfettamente guarito della
malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi
namento del corpo, ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere? Ma
forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che
li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco, o nalla vi badavano; e ciò per
mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far
coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con ſalafli, e con purgative
medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli
no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in
un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo
ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente ſcorge, che non
ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano
i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate; e queſta
certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in
qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate
minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male
interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe
brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer
puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane
do po le malattic; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna, chenon
ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che
ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e
per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo. Qui il gran macſtro delle più
aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume, imprende
ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di
niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente
regiſtrare; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella
convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti, e per le
mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare
di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi
recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto, e molto ne ceffario a ſaperſi
dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie; ma da’ſeguaci
d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto. Mów la
colpa, s'Io pur non vado errato, in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire,
ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior
forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito, e
poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono
Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze;
anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel cominciamento de’mali, ſe pu re ti
pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente
dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli
inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli
altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne, egli è certamente
un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da più avveduri medicanti,
comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè che vuotar fi deb ba
fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo
l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Ippocrate dato c'non abbia il cervello
a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro corali
vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo
riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma
più v'è di male, che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo
glia; ſe di quel, che per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure diquel, che
per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in prima egli
ha detto; o diquel che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol Galieno, il
quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata, dottrina dell'Aforiſmo,
Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate, e vero
foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va
cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in
opera sì, che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di
molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente
ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero
päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita;séza chè p cercana (periéza
abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti, e groſſo
calice d'ama riſſimo, e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè
'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto;perchè trop po pericoloſo nel vero
riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate, ponendoci a troppo ſtretto
riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo. Ma poſto, che ciò che
inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio
a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili
foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar
la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo
ardimento d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento,
l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente
immagi nando,nel far grandemente vuotare, tutto il ſapere, e'l va lore del
medico, e l'eccellenza dellamedicina confiftere; e RI pure il medeſimo
lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano
a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma
trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello, giàvenne detto in
prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede, che Ippocrate
follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore, le conſuma poi, ove
non fa meſtieri; ma non una, o due fiate egli in ciò ſi vede fallare; e
ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel
ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano, e ſoverchio da
Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori:onde non è da farne
più motto. Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi, che lo
immagino, che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in
queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej
recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli ſovente, che colla materia, la
qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la
cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal
ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui bene le coſe; perchè fi verifica
in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele, che coloro, che a poche coſe
riguardano agevolmea te diterminano; e quindi avviene, ch'egli tratto tratto
diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna, a guiſa de’noſtri
Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra,
rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano, e d'alcro imprendono a
ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir, che così reſti in
quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La farò ufcire, c
Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca, Così mipar, che la
mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi l'udirà nojoſafia.
Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo
libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo: il ſonno ove in alcuna malattia
fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera; ma ſe ſarà egli giovevole,ne
fa avviſati non eſſer mortale. Egli l'ha indovinato certamente alla prima; e
non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol
ſonno agiatamente ſopiva: e allo incontro rimaner in vita altri, che nelle loro
malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis
Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli
infermi più moleſtia in ſonno, ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno
eſli per la più parte riſanano; oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri
intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati
sformatamente annojare: e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo
Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque,per parere diGalieno,
Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi
meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla
diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma
Ippocrate, che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta, vada ben la biſogna. Ma
che è ciò per Dio, ch'egli dice; Io vo conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi
il nieghi, ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante
farnetichezza ad attutare: eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona,
maottima; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine
ſe ſarebbe male? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir
nell' Aforiſmo: buona coſa è, che i farnetici dal lor farneticare riſanino; e
five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli
Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti,
la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che
non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate, e quanto Q92 con
avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì
fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a dimoſtrarne di quanto
riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante
utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare: fomnus Jant um
arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit difto error,
an, & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, &
repentinumfit auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co
sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati
dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente
gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in
no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies
rerum,placidifſime fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris,
Feſa minifteriis mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à
domitor Somne malorum, requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno,
o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto,
oblio dolce de'mali Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre
Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio,
Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne
altro rimedio ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi dolori,che'l
ſonno Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha
fete; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet
thing Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e l'ali
Diffefe fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a noi
certame te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano irimedj
daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli
argomenti, onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo:
e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado
errato; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre,
e fe, che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o
per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che
chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova
ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate
intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe
venendo egli poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim
revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis
fomnus concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo
d'avvi ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera
quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt;
fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum
pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè
applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum
defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis,
fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba,
qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico
degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola
levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo
tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro,
e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica
logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia
diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche malamē: te allogata abbian l'opera
in affibbiarvi tante chioſe, eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il
narrato Signor della Sciambre, il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e
a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire,
e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una
sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il
Signor della Sciábre diviſa, e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto,
gran coſa pur cgli non fa rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma
incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente,
perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver
Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie
chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo, ficome quando p
ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate,
vuol farne a credere colui aver avu to in animo, che ancora fuori del
gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano; error,che in verità non mai gli
porè cadere a niun modo in penſiero. Or ſe la potente faſcinazione
dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori, eglino ſiſarebbono,
fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0 niun valore del volume degli
Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente
falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno,
e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere. Ma comechè cotanto
imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento,
c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual
dice, che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a
infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro, ove inten de
Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte, dicendo; ſe
conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia, innanzich'ella vada a
coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre,
di certo, che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe
l'aforiſmo è falſo, abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello
Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal
operazione; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte
s'avvide, che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal
beveraggio; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai
l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide, che ſiano elleno, foglia talora la
mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene ancora dalla mulla com, poſta
coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato.
Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia a donna gravida ogni acuta
malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il Santoro: ne, mofana mentis
defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro, de'quali l'orina è fabbionoſa
abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica,
egli è così apertamente falfo, che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta, e
ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che ciò dicevano · Galieno ancora
avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che
l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o nelle reni; ma con cutta que fta
aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo
Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto
l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai menoma pietra, o nelle reni, o nella
ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di dieci perſone appena che una additar ſe
ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo noſe: e pure rari fon coloro, che han
pietre nelle reni, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica. E oltre a ciò
egli racconta, che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e
nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra. Ma
non menofalſo è quello altro aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer
veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella
de giumenti, o hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E
quell'altro, che a coloro, a ’ quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore,
ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare della
Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit
Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi
trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad
locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E
quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non
mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche
volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella
parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che
ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà
conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà
gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera
ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle
nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini
intorno alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che
fare certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che
ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban
regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete
coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto
poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina;
ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto
ria delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col
quale adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa
meſtieri, ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell'
altre coſe, ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle
parti, che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il
capo, e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen
re, 1 1 1. te tras 1 i ; te traggono, e ſon pieni degli attratti umori; ene
reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae, e che
fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi una fiſtola,ſi
trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali ſogliono
appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo
la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη
εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του στρεά της και
τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία, δύναιτ' αν μάλιστα,
οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και ευρίG-' καζ μανθάνειν
δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς, υγρόν δεν
αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον
ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι
εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται, προς το έλκαν από της
σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης,
χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο
μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non occorre, che Io mi dia
briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi
fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori, che parole.
Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che tanto è, quanto s’un
diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote
del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli ignorimolte di quelle
ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del
corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli
pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento, ficome fin ' a' dìno
ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma qual maraviglia, che ciò
Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del
fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo, e ſe ne nutrichi:
Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι, ποιέει οι οδον
αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον
πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea
diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quanto gli faceva luogo per la
medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di
notomia, che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto
gli foſſero; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a
quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade
del chilo, l'aggira mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole,
e altre, e altre molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai;
nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina
ignoraffe Ippocrate, non ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra
tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da
altro certamente non nacque, che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto
aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in
coltivan do oltremodo quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è
ſenza fallo l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore;
perchè ebbe a dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che
colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le
trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad
altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria
intorno agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti
felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro,
che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe
agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra,
ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in
quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel
vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne
meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente
conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più
propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta
l'eccellenza, anzi l'cf fere tutto del medico; cioè nella concezza
de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali veramente ſono, e che
da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar ne vacuazione, ne
movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e riſtorar l'infermo;
ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto
intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade volte
adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare
gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore.
Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente
da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi veggon le
malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere oftinatamente
terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si ſcorge ancora
ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che pericoloſe ſono, e
poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea tutti conoſciute,
le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia,e in
altri ma li dando cinque di effe, e togliendone ſcioccamente il ca po, i piedi,
e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno; e racconta Galicno,
ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo;
ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate, che con peffimo
conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla
de’malvagi umori; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la
Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una ſpezie d'orpimen to velenoſo
corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine; il che volendo
ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata
iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca
méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin
allo sfinimento; c quel che ſi è il peg gio, e Galieno malagevolmente il
comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori
ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma
chi voleſſe annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c
ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali,
chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al
tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta,
per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto
con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε
χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap
preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera
gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto,acciocchèil ſettimo giorno
menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη
ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια
jnásoe spegno dydyn. Ma da queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre
coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non
avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe
co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba
coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne ſcemerà, e ne di verri piti graveil
citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη
ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε
μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila. Dalle quali parole, e da quel che indi
appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere, che il
medico,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative
medicine; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di
-Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò
certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che
il medico no conoſcêdo ilma Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere
all'infermo una rigoroſa dieta, e intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter
quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare. Ma della fuadebolezza ben
avvedutofi Ippocrate, per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume
degli alori medici, cheabbiamonarraci, coll'arti, e colle giun, 1 terie Del
Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla, perchè diede opera grande
agli arr tivedimenti, e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole
ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual
ſembraverainente fatta per huon, che lo gnando færnetichi; perchè mi maraviglio
forte della follia di Giulio Ceſare della Scala, che ſi diè briga d ' appiccar
gli sù un comento. Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel
celebre ſuo ridevole giuramento, in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua
ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben
può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio, e
divoro, non altrimenti, che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma
nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe
dalſuo buon nome, e che, come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che
gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av
viſo, dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine,
per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe,
qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal
coprendere aſſai bene Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni,
i viluppi, e l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l
giovamento, che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi
che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi
da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne
coſtumava egli, come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando
ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar
coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti;
perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica
vano, comechè grave foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato
l'infermo, ſolamente per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non
ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fatto
riparo; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i
quali in ſomiglianti malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli narra,
adoperavano, non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga
lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con
biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre
Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve
duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro
agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti,
erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle
febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer
proverbiato Diego Raguſi, perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative
medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo
riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e
traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato
morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo,
grave crrore, e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no
li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi
ſuole, 1 1 RA 319 1, des S É ſtanco, c anſante pellegrino, cui lunga, e
faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando,
al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di
piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or
lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in
un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno, e di vaghi
fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede,
in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante, e tante Iſole, acciocchè quando
a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi
voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè
sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più
famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora
interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più, che vie
più ſghembo, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato,
orci ſi fa innanzi; imperocchè ab } biano, ficome avere potutofin'ora
comprendere, piena mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo non m'inganna, a quanto mal
riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional
medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa
trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di
loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate
memorie, che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla
n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine; imperciocchè quel buon huomo,
tra perchè non l'intendeva, e anche, perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare,
e porre a fondo ogni lor fama, e gride, cosìſconce,o travolte le ci narra
talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia
la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i
loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im
preſo diviſamento. E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di
Diſippo, e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi
ſentieri avviandoſi, a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder
principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire, ſe non che alcuni di
loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento
dal famoſo Diocle. Dico adunque, ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua
grandiflima corteſia, o umanità veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo
nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo
molto rare quelle notizie, che a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno
ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità, dove permio av
viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e
particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto
chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è
fcrit ta; vi ſi ſcorge tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e
che ben poco egli gradiva le compoſte medicine, e che non moito gli erano a
cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno, egli ha Dio
cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo, e'l fecco, e l'umido;
de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol, che fieno. Dottrine,
che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo
fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle
d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe, non però di
meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida, ch'al diritto fentiero l'avel
fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente laſciandoſi trarre
a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo, e ſcempiato ne
divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non eſſer
altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer
molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna
talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte
bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli
s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando
favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il
quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui,
degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa
vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della
medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con
ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male.
Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro,
che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono
l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue
in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le
menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi
dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel ventricolo,
indigeſto ri Sf inane;mane; quando davanti per li meati ſi ricevea,e per la mag
gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre, come dal vomito poi
manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece, per non
eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l calore in sì fatti infermi fiz
più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi ravviſi, così dall'in focamento,
che a loro avviene, come da quelle coſe,che anche lor li danno; imperocchè
giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente
rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ.
βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος
την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι
έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη
γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων, τα δε
πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων
ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν
της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς, και της ποσ φοράς •
φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων,
και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che affermino al cuni
eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco, la qual s'uniſce
con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar,
che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno, e ſtabilito; perchè
dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti,
e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate per lui in prismafi fono: Λέγεσι
δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί
ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι, και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το
έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο του δέον-
έντή γατε μένονά, τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα
πποειρημένα, Egli vien Diocle ripigliato da Galieno, perchè infra le tante coſe,
ch'egli in mezzo produce, del timore, c della triſtezza, che propie ſono
delmale ipocondriico, e'punto non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo
ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto, impertanto
Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la
maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi
glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata
la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta
quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere;
imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di
produrre in mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che
avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon
ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e
deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare
Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato
Diocle; cõciof ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi
ſmoderato calore nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde
ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè
convicn certamente giudica re, che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro
non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa
apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro
iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile
della bocca del Pi loro. Gli argomenti poi, che reca Diocle per far pruova
della ſua opinione quanto deboli fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica;
concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli
appella,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino
lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol
reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla
fabbrica, call'ufi cio delle vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van
tratto tratto allargando, perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più
agevolmenteil ſangue, s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la
ſentenza di Diocle,co tanto cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici,
SI 2 che le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto
certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli
ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor
non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria
buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar
potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi
fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò
chè di loro va filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più
ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima
al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna
chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì por
mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli
ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé
te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne
avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur
egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità,
la quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la
bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto
calari cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi
ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice:
appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala,
noi Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă
vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle
infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol
cavare Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le
menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre
parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di
Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le
quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo
diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG.
και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη
του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv
porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui,
contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia,
d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi
aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa
quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft
feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus
tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam
pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate
la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente
la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero;
non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore
attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con
un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia
degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe
deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da
Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina
eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle
coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo
da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle,
portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità
appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza
camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto
inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli
ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai
ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur
di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne
ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza
di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in
fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri
ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel
fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e
particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare
di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional
medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima
detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi
nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera
del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell'
arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe
altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che
allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che
infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità
altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero
quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui
riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma
errò certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie
cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni
lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole
al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco
biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e
crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli
infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli
li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e
gliinteſtini, cal nes e alla per fine poi col ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire
ra gionevolmente Celio Aureliano: quo probatur magnificam mortem Praxagoram
magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal
medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi
d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet,
ut Hippocrates. Item libris de caufis, atquepaſſio nibus,& curationibus
vinum dulce dari jubet, d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia
peccata. Macon qual eccellenza di dottrina, e con qual artificio pervenir
aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo
diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì
ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo
quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi
afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato
avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi
jarra egli, ne fa apertamente vedere, quíto troppo grofa ſolanaméte foffe
căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra, che qualche
ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor,
chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi; il
che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui, che non avea contezza
niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta
natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c velociffima filoſofica
putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti, macom'egliin ciò
li portafle al cri.per meve'ldica. Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei
dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra
tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E
certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder
ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il
Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii cia
tutta fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e
tanto minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni,
delle diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume
ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma
il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon
picciol damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender
pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e
inutili arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la
ſua dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi
narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola
della dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che
gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da
Ro. manzo quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt
contradicere Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo
niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli
ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne
meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia
demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici
valere; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della
ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non
merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del
mondo abbian potu to recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene
fartee;ma egli traſcurato, sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non
dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è
fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti,
chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu
quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal
pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion fcionne il penſiero al
Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma
ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe
grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta; avvegnachè
tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli
huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna
d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio, e a far conoſcere al
niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del
le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law crudeltà d'ogni più
fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre
Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius, quifeptingentos exſecuit, ut
naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet. Man prima di lui Cornelio
Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi
gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta:
crudele vivorum hominum alvum, atque præcordia incidi, & falutishumanæ
præfidem artem, nonfolumpeftem alicui, fed hanc etiam atrociffimam inferre.
Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli
della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che
nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a
ſofiſtica re, che meritevolmente forſe perGalieno,e per altri ne venne più
d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra parte per altriſommamente
commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü pulfus in cacumine maxime
merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates, fta bilis,
aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte. E
queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che nulla più; promettendoſi
cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli, com' ab biamo con
Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere;
come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc,
colle quali fa Tt cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e
de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove
ne rimane. Mache / a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche
medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e
laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal
guila d'effer ſemprcmai uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande
ſtima, chevien fatta della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu
perſtizioſe; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila
gloria d'Erofilo, che di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua
dottrina incapaci venis van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua
ſcuola; perchè diſſe Plinio di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem
defertus: e della ſua ſetta facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam
neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien
riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra
ve, e pericoloſa malattia,che non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di
meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran
virtù avere ', le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono
parole. di Plinio, ita video exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe,
fed plurimarum vires effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras
medicina, à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea
far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove
vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo
Capitano; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il
primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim
intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o
niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza
recar moleftia, e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma
lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera
la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elleboro la velenofa; ſenzachè
non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma, che l'Elleboro fia il primo ad
uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco, e dall altre viſcere
allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima
quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in
medicina il valor d'Erofilo così grande, quale il ci narra millantan do la fama,
Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il
quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico
uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio
venne da me tralaſciato, per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia
affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui,
ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri Galieno, un libro de'medicamenti, de
quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo,
e vano, che non volle egli giammai denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal
caduco, che guarivano per le ſue mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi
fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come
Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti,
chi da Ercole, chi da Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a
guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo
ſcettro in mano farſi in pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza
imitar volle Ottaviano Ceſare, quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti
d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in
un ſono tuofo convito; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus
vidit Mallia, exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum
cænat adultera: Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos
luppiter ipfe thronos, Tt 2 1 Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea
Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè
di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς
εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli
riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα
στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta
anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da
parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in
altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel
principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma
poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli
altri, fi parcì dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè.
Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè
ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir
nondimeno, che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto
poco altresì valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato
dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette
più chiare, e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della
razional medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger
d'anni, oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s
ove la greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira
all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna
certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non
che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di
Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato
ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente
conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento,
law ſperienza, e l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di
Medio nulla v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da
quelle pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo
afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de
ſuoi einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e
quanto oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze
dell'arte; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta
della medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni
valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro
nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano
Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e
riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate;
chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure
alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione,
o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui,
ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in
tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro,
ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella
più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una
volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali
il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia
Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui,
e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela
doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco,
ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore
della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in
piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per
infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma
1 opere, colla ! Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le
cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi
ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili, malagevole molto egli è
ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente, ch’Eraſiſtraço era affai
libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico di far pompa appo il
vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla
franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle facoltà, e d'altre
fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in verità, che Nomije
fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate tenzoni della
filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe Era fiftrato con
ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre, malignamente troppo
in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da Galieno; il quale
oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a biafi marlo, perchè
ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e implacabile avverſario
dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo avolo ſtato e' fi foſse;
col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar
coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto, e poſto in
opera.. Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed Erafi Atrato convengono
bene inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna;
ma della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na
tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal
opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la milza foſse anánt, ni
avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’, che diſsero, che la
milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue, tör το σπλάγχνον
περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar, Ma
benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e che tanto dalla
natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi arricchito, c per
ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natura, e che
colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la
dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e
ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua
razional medicina ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata
dal diritto ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di
lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato
talora e' ne vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni
riprovato; il che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i
medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien
da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che
nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito
vitale, ſecondo lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa',
della qua le, così evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio,
comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi
briga di compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una
preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi
inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo,
neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario,
abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non
altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno
ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato
ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che
dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi
Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue,
che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome
al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il
marfenz'onda giace; ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia, ed
eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda, ed allaga le
piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe non v'ha coſa, che l'agiti,
o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza
gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e agita to mai venga, sboccando ſubito
dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso
dimora ſia altrove riſpinto, vada a fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade,
dove terminano l'arterie; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà
l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco le ſue parole rapportate da
Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο
απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης, αν μηδέν αυτήν κινη ήρες
μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω
σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων,
πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato nel vero, ma che
appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda ſe ſteſso non
crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina. alcuno,
ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato, e
chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più, che come
Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole
obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli abbia?
intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi forman
l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto, certamente
ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così
inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma
contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso:
imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le
ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca gione a
Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui
riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, comechè la ſua gran virtù molto
bene il valeſſe, merce che non già alla Grecia, ina alla noſtra Italia era la
glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che
ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e
induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi
nando, che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne
narra Galieno. Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir
non ne ſeppe l'uſo; s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto,
che'l reſpirare non diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate,
Diocle, e Ariſtotele, Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar
egli nientedimenoil vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni
animali fieno ſtati formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes
Erafiltraco, che la reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier
d'aere Parterie; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente
colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato
aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer
cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto
agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione
neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più
ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente
ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e
d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza
è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo
ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia
valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno
s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van
via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai
menomo, non fao V u ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol
mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi
formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare
il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são
gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti, tra le quali
viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti, come quelle non
incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe vi ſi aggiugnerà
qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento, e di
formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora cgli
grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non baſtando.
dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che
inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria
mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe
Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione,
maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante
non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor
l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla
ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione
ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè
nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono
impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde
gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci,
adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o
nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la
formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a
ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito,
rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero
eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti
il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise li; e pieghevoli, e poroſi
i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe
mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria,
ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore
l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto
formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e rimeſso eſteriore
caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli vié comum nicato; e
come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o
del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri, e fi accreſca
nc'liquori la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render volante quel la
nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale
dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi
quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando queſto
ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e altra
peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero vien
portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe
inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare
quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne
muojan gli ani mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri
Galieno, che ſe ne muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe,
einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì
fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva
dall'arterie, ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima
facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja
neceſſariamente l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice,
che do vea dire più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in
altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora
una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra
maligna, es nimica. Vu 2 M2 1 !. Ma
nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde
vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi
può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno,
lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non
guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua
opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im
magina, o la fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo
in ciòse materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui
medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del
fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto
fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre,
come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe
egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos,
della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol
eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo
foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve
derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini
chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la
dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi
ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate;
imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal
veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo
ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles
art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili
ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime
penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in
dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip
offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incontro malagevolmente vi
potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe, e
groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato
infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato, ro con diligenza degna d'un sì
grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete; perchè
agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione, per liza quale in
quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza
più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non
guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me
deſima appunto,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf
nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme, e congiunti, che que'
dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non altrimenti che l'acqua incontrando
declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta. Errò pari mente Eraſı trato
la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue
rappigliatose raſſodato, da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c
mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime
glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no; c quantunque la carne del
fegato, e della milza paja, nella prima viſta una mafſa di ſangue, pur
nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia,
che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che allora manifeſtamente
delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro, che in
Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi foſſe in qualche ſembian
za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in quella guiſa, che s'è da
noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre, ſe non
ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non naturale del ſangue; ma non
prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura, per quelche fappiamo per
bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a razionalmedico fa meſtieri, le
cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe potuto fareegli age
volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne
gli mancò, al mio credere, ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma
gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta
ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza
del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal
calore; ma inveſtigar nondimeno, e rinvenis non ſeppe egli mai que'
ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide, e li rompe in minutiſſime
parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer
da ſecaldo, non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde, e come il ſangue
caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli animali. Maper far qualche parola
dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così
magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne pri ma, ne poi, per quello, che
noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio
niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua diligenza, e induſtria gli
s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo
nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina morte ſottratto, e
penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal
giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa, vella
appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil,
che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio, che
apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna. E non
potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece dell'oro, delle
dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale, ch'e'guadagnonne,
obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo volle anzi
emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco
verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino; c
comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur
tale appunto andò law biſogna, qual egli la narra, non però di meno per eſſere
fata colei viliſſimadonnicciuola, non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria,
ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce, in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma
per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da
Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi
valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri; e dar
ſolamente le ſolea in altre malattie, che'lrichiedeario; ſi portava egli sì
fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno
recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con iſtrettamente cibargli,
felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli
attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe
già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità
innocentee, inerme la greca me dicina; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali
s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti; per chè ſi
vede chente, e quale e' fi foſſe il valore, e quanto grande l'animo di Criſippo,
e d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte
all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta
uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò
perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato:
la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè
per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di
tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro, il qual
dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente, ma all'imminente male anco
ra; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia
l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo
a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo
dee portar la famc gran tempo, non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che
per sì fatta maniera adoperan doni doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe
lode, e gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io
no'l ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a
Galieno; cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci,
a diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la
famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia
(trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da
Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno
me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non
poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire,
introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era
comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili
ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e
non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri
avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro
particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice
chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi,
e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato
foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di
velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a'
preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la
vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a
diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar
ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci
in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più
menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza,
e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna
del ſegnare nella cura del le ferite di Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di
Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di Patroclo, ne Podalirio ne Macaone,
eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio
Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo,
ne Peone medico di Giove conobbero, e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi
fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli
l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap
parare, i quali per teſtimonianza di Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi
valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro,
come avviſa Dio doro, altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo
Jamente, che criſtei, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che
dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i
fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza
all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide
mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han
ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti
in quell' eſtremo tratto della terra, che bagnata viene dall'Oceano orientale;
e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali, che ne i Saraceni, allora
quando i Tartari occupa rono quell' imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro
durre.? Ma che che ſia di queſto, chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io
immagino, che fi movcffe, e ſpinto vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito
in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume;
non eſſendo miga vero ciò, che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico
avvisò; ma dallo ſcor gere forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o
dalle narici, o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì
crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate, c.prima gli
altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando per It' ! d
ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro
propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle quali po
trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La vita degli
animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al corpo,
comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi,
o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente non confifta,
che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente, che in
alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto dottarſi
da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche
manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità quello
non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali il
ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi, che'l
contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo certamente
è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam li
affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene
ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo
s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue
mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il
che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare,
non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa
il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente
coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo
fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime
foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar
vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano
affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto
più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamente è il erar
fangue, e men fi eonviene. Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi
Galieno intorno al dovere fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci
di continuo aggirarli infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue
può eſſer nocevo le agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za,
per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è
sì, e talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e
non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e
ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è,
che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue,
chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli
non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che
meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi,
che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be
atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa
quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di
gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna
chè buona, e laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra
il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel
foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne
debba temere il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar
col fa Jaffo: potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente
fornire. E ſe'l male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue
punto più s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la
girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la
ſpada, perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a
tener mano al male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene
il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so
laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga da' cibi: o più,
o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da riguardare a ciò che in
contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi v’abbia, i quali non così
agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in
compleſſione,e come e' dice, collerici; '. concioſliecofachè, per tacere, che
ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e
buo no, qual G ſuppone: e che la collcra non s'inframetta pun. to nelle vene,
nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo
effo Galieno dalla col lera avvengono, nelle vene ſi trova: e che in sì fatti
corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento, che
continuo di quello falli: può bene il medico co medicine, che attutino la
collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue,
acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do
abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate, e Avicenna,ſon
pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene,
impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco: nel
qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi, per
qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è per ſe
ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien
comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente nocevole;
imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne
monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne, ufcé do
inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali poſſono,
e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne
l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per cieche, o per
ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue. Echi
voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come colui che con
trarre acqua da un lago, in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora
della terra,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per
ſe ſteſſo è cattivo, con trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto,
o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al
quáti maſtelli; ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı
ſoſtanze, le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo
ſangue, cheper quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E
quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando
il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci
più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del
ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti,
ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte
inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in
guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne
vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora
col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno
certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe
per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia
tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi
in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti
ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda
quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne
per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per
uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente,
ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non
che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli
devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la
vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il
ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue,e per quel della formentazio
ne, convien, che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con
quello, che è buono, che ſe di tutti, e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi,
certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me
in tutt'altri vuotamenti avviene, anche in quelli, chej per più larga bocca ſi
fanno, certana coſa è, che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più
agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2
gio; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la
cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi
ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue, e per lo
cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova: certamente il caſo ſolo
operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena, trattadalla foga
del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente
il co trario tutto di avvenir veggiamo, maſſimamente nel velen della vipera: il
qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre
giammai, ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè
allora non penetrato ancor molto addentro il veleno, inſieme col fan gue fe
n'elce fuora. Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co'
ſuoi argomenti in ogni coſa la natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere
comc, quando, e perchè quella opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto
ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo
medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea
coſa che fare col sāgue, come altrove è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion
del malce nel ſangue: ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o
poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello
mandata; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è
partita: e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le
ſtimola,leapre, e inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai
per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il
ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle,
impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo
vin cer le malattie. Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo,
ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento
molto incerto, che ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me
fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar
ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per
opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte
ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to
il movimento in giro, o quel della formentazione, allora ccrcamente, non che
rieſca giovevole, ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè
per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti,
diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè
fembri, che per ſegnare debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la
perſona, onde effi' movimenti procedono: non però di meno rimanendo in piede la
cagione non naturale, per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione
nelſangue accreſciuto ſi era, nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì
ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le
ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non
naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi
erano; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima
perdita di Sangue: e poco, o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a
quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo
pericolo della vita. Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come
veggiamonelle infiammagioni avvenire, allora non è da ſcemare il ſangue
co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender guar dia, che ſi toglian via le cagioni, onde
quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente, perchè il ſangue
allor dalla febbre, che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e
perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe
ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto
ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali
della gola, e della pleureli avvenire; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che
ſpina, o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne, che con quantun que
ſangue trarre, non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione: evi ſi
ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal
corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa, ne viene
av montaremaggiormente il male. Neha luogo niuno certa mente quì, o la
derivazione, o la rivulſione, che chia mano i medici, percui eglino tutto dì
ſono a zuffc, eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate, e di
Galieno: i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il
ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga, ſempre ne liegue il
medeſiino: c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè
vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo
ſangue dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per
varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano: E
mentr’ei vien,se, che ritorna, affronta, E comechè i moderni per no li
dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier
pruove; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per
maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare
alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze
tutte recate dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè
ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che
da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e
andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una
delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el
principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il
Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo:
ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti
affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte
dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea
conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo
paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus,
&artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena
cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos
cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem
æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam
) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde
manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus
conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad
alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per
avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate
fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto,
furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle
febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede
nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri,
ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in
alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna,
che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo
uſci Y y nicht mento di ſangue dalla matrice d'una donna, le ſopraven ne la
febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire. Ne è punto vero
ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti opinione, che in tutte acute, egrandi
malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato,
in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi, egli nel vero non di
tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di que'ſolamente, de'quali egli quivi
ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che
i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi diciamo ma: della qual particella
Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna, e artaramente la tace per
poter quello recare a ſuo concio; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l
tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere
quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da
Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto, che ne'mali
grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi
viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco:
che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue, non fola mente in quelle,
ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon
cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve
renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e ritroſi di cavar ſangue in
tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana, e nella terzana
ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero
affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più
aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro; concioliecolachè nelle febbri
maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che chiama Galieno, per la
ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato
egli liſce ma, e s'affraliſce, e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo
alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo
ancora, e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli,
e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma avvegnapure, che con ſegnare
rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe
non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo
vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai
ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar
graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte;
perciocchèſovepti volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la
febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor
ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al
pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde
nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto,
laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali
aju tare? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno,
perchè eglino diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello
infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro,
maſſimamente.ne' mali della gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me
il inedeſimo Galieno inſegna, ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello
infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire,
eziandio nel di.chino del male, non avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da
poter il puzzo già cotto, e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi
tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque
graviſſimo male elli abbiano, non per altro certamente, ſe non ſe per la
grandiſſima inſenſibil vacuazione, che continuo coloro fanno: perchè farà
eglida trar ſangue nelle febbri, malli anamente sipoche, e in quelle
dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione, che fasſi negli
infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli? Ma per
avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i
ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto, ch'egli aveva nella nimica
ſerta di Y y a d'Eraliftrato, cotanto egli commendò i ſalali, che per ra. gion,
che veramente ve'l traeſſe; perchè con tante leggi, ' e convegne, e riguardi
egli ne riſtrigne l'uſo, che certa mente delle diecivolte, che i noſtri
Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il
vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate; e rariſſiine volte
certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno; ma
eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie, con porre ayanti un sì gran
rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo
riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza
riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro. E
comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta inſegnato, che ottimo
ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol
divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le
febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della
ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori; e nella
cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella, tempellando
nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non offender con sì fatto
medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto,
forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti
l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo, ficome e'
dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo al
particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi
conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già
diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una
all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo
di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo
dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo,
anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe
prima manifeſtamente non fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del
lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo, e la
ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e quali fegniabbia egli
patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali
convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare, che molti ſenza
graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le ſue parole: Εγω επιδείξω
κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες
πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-, οποίον πτην φύσιν εα
διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai megy, noi xwegen wij,
satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ
τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν. Ωltre acio avendo
Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato, che del ſoverchio
ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel quarto libro poi
del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo
verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in
ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi dee con purgagioni, e
con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì
anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che nella febbre ſinoca no
debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre: acciocchè il debito
alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le
ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare; non però di meno egli
medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato.
Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte
Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia;
conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di
febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l decimo giorno, o altro
giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno.
Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe peravventura da altri
medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato, allor
tu: debbj imporgli beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò
ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure
ſicuramente adoperarnon ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri
ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto
manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la
febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda:
la qual ſe.condo lui ſmaga la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi
gli umori, e ſveglia tremori, e dibattimenti nel corpo, e cagiona
nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro
primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici; i qualicosì
ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in. fermi vino,o acqua, o altro
rinfreſcamento della loro ſete; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani
a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta
mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno, ſc avelle
creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico
conligliato,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo
medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a capital ſenza fallo auuto
l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato
ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura
dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma
lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi
quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi?
maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato, e
riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole, neceſſario a'malari il ſegnare;allora
nel maggior caldo del la pugna, quali ſchivando la propoſta, che cotanto in pri
ma avea preſa per la punta, li rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal
pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e
sì cutta la colpa riverſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento
del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo
gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto,
che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa,e più
toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to aftuto, e malizioſo
ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito,
n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e mal praticime dici:
come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto del medeſimo
medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai
eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono, che, di
coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli
conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che
giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che
ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente
ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle
malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai
ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono
ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar
poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle fuora dalla perſona
per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella quartana avviſar
puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del
Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio
loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono,che
giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne
lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal
Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola
difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai, ne
rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven bris diſſectum
fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui
89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis
cordes bepate, cu pulmone, adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear
cruoris in cavuum thoracis confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor
verò inſtar crumena flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi
conceffum fuiffet, Fuit enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità
exhauftus, ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove
punto ciò, che ſi porta per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre
ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè
veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza
verſargoccia di ſangue; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro,come
teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li fino allo sfinimento ſegnati G
morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero:
e coloro, i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno,co loro
grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo sfinimento, affieboliti, e
raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze,
comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare;
con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino,
e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona, che
per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la
cagione della lor malattia: e sì rimangono liberi, e lani di preſente co non
poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira, o per timore, o
per altra grave, e ſubitana paffione le gotte, e le quartane, e altre dure, e
pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi
comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti eſſer coloro, i quali per picciol
ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè Galieno con largamen te trar ſangue
fino allo sfinimento aggiugner fi crede va; perciocchè coſtoro per non porſi a
riſchio d'ammazzare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli
torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si
mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento
le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come
chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè
da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e
nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran
ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati,
o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i
più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi
ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor
vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e
con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici,
comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non
metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche
in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento
ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre,
coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in
nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non
ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che
nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben
conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando
egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco,
ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte
erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno
infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne
potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo
del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010
re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione, e Menodoto,
dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non avendolomiglianza niuna
tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza, la qual
egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea deſima ſcorta,ad
emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento, che'l
fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te
voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato
attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto
mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai', che nel ſugo
del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di
quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi
già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle
acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi ſcorge
apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual ſi
crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in
fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere
ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer
agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina,
Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l
Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in
verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il
paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento
di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo
miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere;
e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza
de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o
da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via
di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'errori, e d'inganno.; perchè in
un punto cosi principale manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella
razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non
ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante
Petronas, il quale dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un
iſtrano, e non più veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir
egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo
il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare,
ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone;
il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava
ch'eglino vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco
arroſta, econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva, facea
bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in
queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non
dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e
comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante
della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in
tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza
non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con
altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion
dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del
medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di
quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al
vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte
lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto
fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa
egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente
anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po potrebbel'ammalato guarire: fæpe
igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam foc adječium, corpus ejus
pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut horror oriatur, ds. fiat
initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis corpus incaluit,fequatur etiam
remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui
deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun pro avvenire; pur non dimeno ſenza
manifeſto riſchio non va la biſogna; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà,
n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta
ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver
fi gloriava la febbre finoca Galieno, confar uſcire il ſangue dalle vene per
via del falaſſo, fino allo sfi nimento dello infermo; da chefacendoſi gran
movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l
vomito anche talora, come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e
per le quali o ſperano, che debba mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in
vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che
non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere
il numero, che la quantità de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue,
che tutto inſie metrarlo fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il
grand'Atenco, fra quante traverſe, fra quanti viluppi, fra quante incertezze
vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie, e tra effo loro
diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina
nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di
medici na; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe
in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti
valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute, e approvate; e per
tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella Grecia, e nel Romano impe. rio,
celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon nome, las qua le ſpirituale venne
chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la
qual per tutti i 1 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non
meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella non foſſe
primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male alcuno
ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir
gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque liquentes,
Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque infufa
per artus Mens agitat molem, & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo
Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda queſta mondana,
ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a lor parve, e'l
Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo de la Luna, e
l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e miſto al gran
corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta fpirituale
oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino, ad Erodoto,
altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute
a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e fra gli altri
Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece, e per li
tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa, ne grande,
ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina, non ha
che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e medicato
infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica, onde a gran
ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per valerſieglino
della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien
conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio
nale. Oltre re, Oltre a queſto e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il
loro ſiſtema; imperocchè in medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto
Spirito badar fogliono; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro
ſpirito, ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la
lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi
eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia
la ſua nas tura, cioè qual figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le
particelle, che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo
umano, e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa
dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi
maraviglia Plinio, in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e
maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al
naſcimento, di condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in
prima, perciocchè aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì,
e tanto egli adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo
alla medicina, a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e
poco men, che affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e
trionfante de gli altri medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città
donna,e capo del mondo, ne ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi:
ſupremo, e aſſoluto arbitro, della vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui
mani ſtava la morte, cla vita d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee
credere, che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno
immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e
col valor no punto ordinario viſi portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi
concorreſſe con qualche gran fatto; quale appunto di fu quello, che vien
narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in
un miſerello, che per morto era portato alla ſepoltura, facendolo egli a caſa
rie tornare, con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 túrós,
E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua
prudenza: allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate,
generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori
offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo
intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue
opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa
te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima
buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più
ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per
caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna
nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino,
o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i
qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli,
veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con
vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano
a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con
diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e
congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza,
collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili
producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità
i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua;
l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua
polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o
per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l
fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che
concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con
dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel
ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Dice oltre a ciò
Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o ſchegge
ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti ſpazj
vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di figura;
i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano,
callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a far li vê gono
ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie; ma
non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per la dimora
de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il lecargo, le
puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento: e
s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la quale
ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e nella
fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non, convenevoli
luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò Aſclepiade,
che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte; ma nel
vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti. Si ride egli
di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni critici;
portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano creſcere,
e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche coſa intorno
all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer
mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men, ch'c'potea; avendo
ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per Cornelio Cello
rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti,
che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici
adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche giovamento
agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto il danno,
ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita zion
della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huomo, e di sì fatte coſe
aſſai intendente, quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della
medicina, e dalla fiebo lezza de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que'
tempi erano in uſo, nel ſapere ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le
mébra,e altresì fatte piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben
medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità
alcuno ſtretto,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi
fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto,
che ſicoine Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti
medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne
compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai
tacciati, anzida’ine deſimi ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e
fovente adoperatifurono; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre
impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre
giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto
ſecolo in trodotto di medicar le ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le
purgagioni; ma fivalſe de criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco,
ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri
ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo:
quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe
affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito;
del quale, com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di
Samotracia. Ne ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe
ad aver contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti
parole di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa
de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και
τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι
λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε.
ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370
Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω
θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves
βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και
προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων
πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. ·
Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo
Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e
talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il
che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur
lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente
parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando
egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna
operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove
poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno;
comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia
della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta
a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno
sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro
l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede,
che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi
vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto
huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò
eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne
facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro
corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco,
e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o
fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma non poſſo lo laſciar di
forte non ridire, quantunque volte rammento quella ragione, colla quale Galieno
con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato, e altri buoni filoſofantiſen za vederne
altro,fermanente credette, ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata;
dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta
pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte
dipeſo;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non
aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per
tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in
ciò punto l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo
anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile,
prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga
licno:profeito ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent
demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac
poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros
tantopere expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa
vellare, certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per
Aſclepiade, che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole
oltremodo il ſuo ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio
ne, che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che
co'nunemente per ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo
vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse
perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in
quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle
l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie
miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele,
ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento
per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle
quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è
ben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla
ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere, chenti, equali, e dove
veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la
figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o
affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole dilatandogli, o altri
nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i
mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli,
onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò non
ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc, alcun
ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la
freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj
inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi
s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano
compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli
accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz
de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente
raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e
ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più
agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando
ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo
intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento, la figura, el ſito di
quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi dicevamo; e ſe
impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per
intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni
argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di ſtabilir ſetta
veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade, come detto
abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che,
comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta
dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta,de' ſughi, de'
liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero pienamente informati: nientedimeno,
ſe le pruover che intorno alla loro natura, e al loro operare egli nellas ſua
opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato,
ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e meſtier certamente farebbe
ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che altro più vile Em. pirico
ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò punto, e confeſsò
apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal ſemplice conghiettura;
onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas reuocando conjectur.i
fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem fecit. Nel curar le febbri
terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l contrario dica
Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo
medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare
aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in inolte altre
coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi
tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof queſti da’
grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo il ſuo
ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del
ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo
ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come
anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina;
il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i
corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti
ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne
ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar
fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò,
egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 }
che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale
tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e
ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo
", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai
meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla
medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir
altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi
Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus
Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine,
ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi
unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, & victor fuprema in ſenecta lapſu
ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to,
e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il
ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno
immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè
farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge
baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri
eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto
di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente
alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta
poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui
tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè
Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari
coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare
alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da
qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva
gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri,
ch'aveſſe altro in animo, con inſegnare una fiata il contrario, la ove
diſſe,che chiunque ope ra con ragione, avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen
te fi faccia, dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da:
návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv * xara'dégor,designer swßaives, i
inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di
pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente, che a mal fine
rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo
volgono i loro intendimenti, con graviffimo dan no de' cattivelli. E mi ricorda
in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un
ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in
alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano,
conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto
giovamento di quelli: egli replicogli una gran vit lania, chiainandolo ſciocco
empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo, non altrimenti, che ſe colui
aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor
naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che gl'intermi per ciò fare
certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina
d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate,
nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la
ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi ſa poi tra le tante
incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione? ma come
ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera d'huom di
poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per quel che
s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te; ne
per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ'
εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν. Maqual fi foſſe
veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può
da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio. Cuivenus ante alios Divi,
Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa dedere bona. Caneta quibus
gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se
in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè candida non loquitur. Sivalſe
Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco
giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali
maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne guariyano.
Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci
mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui narra
Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa dall of
Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di
pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών απόφασιν
λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη, και
βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi
ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo fratel do
Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il
quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata
un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea
ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir
loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare;
quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica
se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e
in Velia foſſe così fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare
a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele
richies deva per dover prendervi i bagni freddi. Aua Quæ fit hyems Velie,quodCalum
Vala Salerni, Quorum hominum regio, &qualis via.(nam mihiBajas Mufa
fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum: gelida cumperluur unda
Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere
morbum Sulfura contemni, vicus gemit, invidus ægris: Quicaput, & ftomachum
fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma
certamente ebbegran ventura il Muſa, che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta
guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima inalattia; comechè dica Plinio, che
ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro
il parere di Cimolio; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora;
indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe, che per
averle anche fuor di teinpo, riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura
Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne, e in cotanto credito, cheoltre alle
ricchezze, agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per tutti altresì
i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno
d'Eſculapio, come ne da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio Mufa, cujus
opera ex ancipiti morbo convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta fignum
Eſculapii ftatuerunt. E fe'l mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele avrebbe
certa mente rizzata, ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene
allora ſtabilita ancora la tirannide, n'avreb be per avventura la libertà egli
ricupcrata; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani,
non ſa. rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto, ne Caffio, ne
Seſto Pompeo, ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e per terra non avean
potuto adoperare. E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare
del Muſa, quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio, ſe
ne morì Marcello; perchè di preſente e'per denne !, gloria, che guadagnata
s’avea; non ſi dee imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo 378 Ragionamento Quinto
poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo
faceſſe a bello ſtudio morire; anzi morilli Mar. cello in Baja, come teſtimonia
Properzio, il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in
undas Errat, in veftro fpiritusille lacu. Neſembramiveriſimile ciò, che ne va
conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra
no maeſtro Giuſeppe della Scala, facendoſi egli a credere, che Properzio
cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia, e fargliene
ſervigio; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe
tenuto mano;vo luit, ſono ſue parole, gratificari ei, que de ejus morte ſu
Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per
machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello,che in quelle di
Stabia, la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede
Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte, che a
tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più
d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me,
nelle fredde il poneſſe, e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la
vita; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote: Marcellum in aquis
Bajanis fulz merſum interije: coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè
altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per
quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col
Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore, il ſoffogallero: o
di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime
particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli
mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte
fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi;
onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe
per opera di Livia avvenuto; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma
paſſiam oltre a dir di Clinia da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re
nel vero ſtranamolco,e ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non
darmaia malato niuno,o cibo, o medi cina, fuor ſolamente, che in certi
puntiaſtrologici di fito, o dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti:
e bert gli approdarono sì fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama
appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali
ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la
propia patria, e parte alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar
quelle, quando huopo ciò lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il
fiſterna del la ſua medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma
mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da
chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in
medicãdo ado perata, ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc
ciance, e promeſſe le troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi
ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai
darcominciamé to all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc
alcuna coſa di confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon
andati a gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean
promeſſo loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati
prédeſſero ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la
vittoria: così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero
piena fede alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per
iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale
da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente
giovevole, e neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a
quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano
dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover
per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2
che cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come quello, che poſti in
non cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle
più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide
fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per
venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura, eſoverchia giudicherà
alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè chiunque avvedutamente
v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti, e i difetti di quella:
i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina, quanto dal ſiniſtro
modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale avvedutiſſimo in
fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina,
ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie: a bello
ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe, e inutili aggiratc, a
quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di
meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove
parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano. Così con le medeſime
ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i
ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il
ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina, niegano
conſtantemente gli eleincnti', e gli minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli
coil poco ſode, ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed
appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando, renderommi lecito di brevemente
accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio comodo
come naſcano, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente le
ponga già nate; ne men, quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser
conſi ita; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare,
ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc, o per
accidente da lor fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar
potea, ſe la > natura della materia, dalla quale quelle dirivano ed in cui,
coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura;
il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli, che traſandato il
conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la natura delle
malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in
modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità
di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa
mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole
riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà, in che
conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser fi dice; perchè anche ne
fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre
qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli pocoriguardando a ciò che
gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano, giudica, che cheno non
pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per
eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato, pur nelle ferite meſ lo,
dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti, che dal caldo,
dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del
caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene
avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il
fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe
non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi. Perchèi
più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe
della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla forina
eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le
coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua
li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del Fernelio, e del
Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca
gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, elementarii
medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis, nec de caufa prima.
Mala vero funt princi. pia artis ea, qua inexplicatam tādem relinquüt
quæſtionem. Talia verofuntelementa Galenicorum: ex quibus non potes demonſtrare
rationem facti offis, carnis, fuccini,magnetis, & cetera ſecundum formam
eſsentialem. E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque
pluribus eçdē affectiones, & qualitates infunt, per commune quoddams
principum infint neceſse eſt;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram, calida
propter ignem. At colores,odores, Sapores efse progosov, fimilia alia,
mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis, animalibus infunt. Ergo per
com mune aliquod principium, & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non
funt elementa: nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam.
Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto
bene avviſando molti degli antichi, e poco men, che tutti imo derni Galieniſti,
ſe maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno all'economia degli animali a
ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e la cagione di qualche ſtra
na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato affac to il lor maeſtro
Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed ogni diviſamento della ſua
razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto
s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno; e rimirando alla
manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più, e più fiate
diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che nel temperamento, o
meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla perfine mal poterli con
quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare, così ſcagionandoſi
apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice,
la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da
ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di
palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza
d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fanno. Con cheGalicno apertamente
confeſſa cgli me defimo, le facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa
pere; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono
con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien
ſi ricorre ad una cagione, la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o
incorporea determinare; e che egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme
col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la
maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli
animalifacciano le loro operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di
Vulcano, ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o
neno il fiato; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli
animali niuna coſa eſſer immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore
alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene
non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano
al fegato; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima
perfezione di ſangue: müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι
δημιουργήμα, και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων,
εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά
τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα
μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας
αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας
μόνον την τξοφήν εκ της γασφος, ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι
τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την
πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga
lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti
del corpo; perchè malamente l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie,
ei luoghi, e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente
ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella,
non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto
baſtantemente la coſtruttura, e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che
d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene
lattee, o in alą tre, cd altre infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe
cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del
quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, &
utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali
due coſe ſole di tanto pregio, e di tanta conſiderazione parve l'o al
nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo, che meritc volméte egli chiamarle
ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro
conferma maggiormen te, craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva, quindi
fperando, che'la medicina, quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche
coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte, in cui
dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità;
almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar
medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità, ed in aggiugner ciance a
ciance, eglicēto niun non facea: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar
con maggior agio, e tempo in un'intero volume, laſcerolla al preſente,
riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi
tira. · La maggiore, c principal parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della
medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e
de'medicamenti s'appar: tiene; or queſta nella medicina di Galieno è certamente
tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli
errori, e falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì
factamente negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio
ne, e rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte
della medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le
qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, & proporre agli
ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's ra,
medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo
umano, della cagione, e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte
a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la
razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per quel che Io micreda, niuno, ſe
non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e ben certe ragioni, come,e qual
ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai
vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno, e
faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di quelli avere? Ma queſto
per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica
certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per tal modo, che non ne
potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo dell'Arte meritare. Ed
interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per
una menoma particella, che nella definizione, o nel partimento, o nel
fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e incerto il tutto anche
diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia. Senzachè la medicina
in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella ha ficuri, e
certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo
bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque non eſſendo
queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor
medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti, e più
dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare; ne
dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin
quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè manifeftiffima coſa è,
che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza veramenteda filoſo fo, e
degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co felli; ed una infra
l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi, che troppo
arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la
natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc. tanto,
380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di
coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e dal fa pore, e
dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù
diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la ragione
d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter
debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in
avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj. Ed a ciò
anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la
fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad
inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus; fed ex modo,
quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat, fed
tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da'
fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro, e ſpezialmente
ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre
sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit,fed
perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma certamente s'egli
riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar
più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui
vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum: quoniam hic author
nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum, quod
pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della
verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per quella di rimproverare a
Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non ſaper punto di Loica; e più
ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia, ove
infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice, che quelli non
ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali (ſon ſue
parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E
ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele,
ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. manifeſtamente, e confeſſa, che
quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al
preſente, dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il
mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa
non altro, che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato,
che ſarebbon guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della
inan deſtra copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi
ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un
vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede,
ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui;
πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω
μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα
ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη
μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα
το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο
συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου
πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης
και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di
riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri
notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no
preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che
per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a
ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di
vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a
più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar
come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte
ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio
ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga
lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 di
Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga
i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la
filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni
d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti,
che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri
di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo
del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non iſccndendo mai alle
particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che viſcenda, il fà per
modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E nelvero chi è, che
non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi, a'
temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali
coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe non ſe con ſole
parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli
dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come
follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e
degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è
per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli
ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj
in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti
delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e
dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione
de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone
per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli
caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero
conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di
botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè
ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo
l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai
ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel ra, poplellia: e che queſta in
quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa, ſe non ſe di rado; ma ciò
fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina, che non
curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati
i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o
d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere ne' ventricoli
del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene
quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το
συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον
ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della coſtruttura delle
parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche
chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri mali della teſta;
ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla
triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre eſteriori
apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono, così la
malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia dell'anima, le
reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié più errori che
parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura
dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la
luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc, o'l
diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel vero, comechè non a
baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or come per Dio huom,
che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni delle malattie, mai
può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per ta cer d'altro, a
Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione
operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare; imperocchèquantunquegli ſi con
ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana, cioè, che ſi cagioni la terzana
dalla collera, la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa
provata,e vera la ſua rego la, che la,
che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la natura della collera,
come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che imputridir la faccia,e come
per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde
egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia
contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo, e
ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia la natura
del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non ſaprà della
colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im putridiſca, e come
ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo. Certamente meglio
partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li foſſe;la qua le,
ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa
razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto
Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più gran
parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che
adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio
infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco
di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e
ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole,
che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe
avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici
più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe
laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus
metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben
qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del
Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne
mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe
de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver
roc, i 1 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in
doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere, il della loica: e fe Galien
conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò, s'egli non
ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare? e
tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato; e dicoloro,
che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè
novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina. Furono di così poco taléto
que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro, che le
coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per lor compreſe, e peggio
rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni
diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla
ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di
tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere
il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di
fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea
purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui,
avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco
berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da
quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro
dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli
errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che
addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle
lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero
rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e
diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da
parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti
cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata
fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto
logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic le ſette razionali;
perchè in iſperimentare, e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto
certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo
impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato: il
quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta
dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua malattia per un
ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è, che tu più
coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle tante, e tante
pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di botto comıniato
al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi. Ma
certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti
greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella intorno
alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e
vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no. E forſe in
ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già l'oſtinazione, e la
fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che per fermo eglino
ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della natų. ra, come
eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e negligenti affai
i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti, come faldede gli
animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e, conomnia, e
l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma ſour'ogn'altra coſa ſi
vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti, la quale così dubbia,
incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato
foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche, e novelle ſi
troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E ben ſi ſcorge ciò dalla
raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride,
il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe
vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te pienamente fece faſtello; e tali
vengono poi per Galic no, per Oribalio, per Paplo, per Aczio, per Simon Seti
trat tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe
non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe
affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis
do, oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima
parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e *
no'l merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò
dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio
avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci
alle noſtre mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi,
e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian
intera credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle
giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti,
anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai
trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi,
digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di
far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare,
quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne
vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme
imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben
s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta
uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a
riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte
tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e
rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la
mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici;
perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle
malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire
icadaveri; avvegnachè una tal Did diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo
malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova,
più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur nondimeno alcuna fiata
potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma quelche più rilieva, ne
meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le ci ha tolte la
lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate,
elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le
crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni, che ſi ſono
attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera, o
perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome fece Amato
nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati',
vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli imalizio fi,
che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a divedere; ſicome
alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per difender le loro
opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza
brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe me d'elimi
far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i
viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con biftentis e
vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro no; perchè
non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope
Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera;
incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta
la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo,
il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne
fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da
maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate
diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi conoſce, che non hanno gran coſa i
Greci in medicina adoperato; imperocchè les aveſfer qualche coſa di pro eglino
mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani
so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella
fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra
eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu
maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del
cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più
miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non
dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel
rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar
nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava
lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe,
che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca
favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in
iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma
gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor
ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi
ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente
dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno,
ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per
cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem
plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con
graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del
zucchero,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua
morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il
zucchero d'una cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole
oltremodo, e nimici; della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil
rendon volatile, Ddd 2 é fottile, e penetrante e, quaſi ad una celeſtial
quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora,
poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men acuto anche, e
mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più diftendermi in queſto,
ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio ragio mare. vele Icome al partir della fredda ſtagione,
dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e feſteggiante
ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e
ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte; e fiabe
belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili artiscellati
ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano,
cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a
farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag
guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza antichemadri,
riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in
ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura, o ciaſcuna
altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun
ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe, efgombinate
dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a
colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala 3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi, e
generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch,
avallar doveſſerola ſignoria di coloro, e la medicina, e la filoſofia alla
primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e
da elſer commendati per quantoil mondo durerà; i quali ardirono prima di far ri
paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune; e ad op porſi sforzatamente
all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria certamente fu di
coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa, e arice
ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro, i
quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo rimeſcolamento della
medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti;
c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto
apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori di quella
in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir di coſtoro,
i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni erbaccia
purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono, che ben
convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c
da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne
ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra
le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor che quelle già
auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza, ericre derle, e
ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior vanto foſſe
deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in
prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i quali non
incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza da ſuperare.
Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni,
ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e quali ſiano le loro opinioni
intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina. Egli fembracertamente, che
prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico, e filoſofante Bafilio Valentino,
monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la
ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova
conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi, e in ſü’l ſecco ſenza fallo
effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo
d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro
ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura: comcchè co
' falalli,e colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti rimedi render la
ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male.
Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati
ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con
ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in folver icorpi
maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a quel ſuo
famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo
fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina
que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo, ſale, e
mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò, che
egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo ſentimento
certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del
folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi ſare,
quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che tutti
loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di vero,
cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi componenti
ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare
lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur
dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor materia,
e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che queſta
dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli elementi formata, e da’tre principj ſolfo,
fale, e mer curio prodotta, e perfezionata; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua
eſſer la primamateria ditutte le coſe; que, ſon fue parole, exficcatione ignis,
& aëris in terram formata eft. Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa
dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi, i quali G nutrichino, e fi
foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù, e la
forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta; ma come chè queſte, e altre fraſche
aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo, pur ſi
potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente, e con ſentimento forſe da
non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò, comein altri
ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo, e vano nel ſuo
filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi, o altro, che il ſi faceſſe, comechè
egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia, e che con quella ma
raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe, avviſando ſottilmente i più naſcoſi
ſegreti della natura; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire, che
penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de
vegetabi li, degli animali, e de'minerali procedono. Mapure egli, come non poco
arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati, e di ſottiliffimi
divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe, che
dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere
il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando
l'incertezza di qucl la, ne conſiglia, econforta a riguardar ſempre all'uſcimen
to de’rimedj; perciocchè dal nocimento, e dall'utile, che quelli recano
a'malati, può il medico avveduto prender có figlio, ſe debba più per innanzi
adoperargli. o nulla, quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche
operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli, e grandi, e copiofi
medicamenti gli venine ro, mercè la chimica conoſciuti; la cui vircù egii
profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà
de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco, gi!re Del Sig.
Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino, el guariſcano i mali.
La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo, ſe non compiutamente
fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe
affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae
ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo, e di ſoverchio ſi
fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine approdar poſſano, ficome quelle,
che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques
piovane aſſomigliando, le quali toſto diſcorrendo per le Atrade, non penetrano
per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra. Siinigliante è
quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un
ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc l'eſem plo del veleno, il quale non
altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro
veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua arzente guariſce la Riſipola,
immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe. Ma da
queſto diviſamento può ciaſcuno far con, ghiettura, ch'egli entrato ne’valti
regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe, ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ
ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto, avreb be detto, che
ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità, gli Alcali volanti dello ſpirito del
vino ciò adoperino; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe
di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle
ferute agevolmente rinvenire, e compornc tanti be veraggi, che vulnerarj ſon
detri. Maciò, ch'è di maggior conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino
d'inveſtigare (il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura,
e tutt'altre proprietà di quelle particelle, onde i tre principj ſono formati,
eco me, ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto
felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia
conoſcitore, egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome
e'di Eec CC CON ce con quelle parole,
che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum
Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat,
commotione vehementi, & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis
occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut
verè, & efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe
proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na
contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue
operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in
sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato
confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe
ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in
aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco
ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del
noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente
in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à
nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus
conftitueris adeobreve, & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in
creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai
di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto,
dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a
biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo
giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam
intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle
s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il
Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali
ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte
dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente
pago di toccar pochiſſime coſe di mio talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le
quali il di ftema tutto di lui vien piantato.. Lamedicina del Paracelſo,
quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto
più veriſimile dell'altre razionali fi paja, e che tanto ne' pro fondi miſteri
della natura innoltrata, e profondata lilia, cheminutamente ragguardar poſſa a
quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor
fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni
menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale già tanto da
Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle cagioni,e la
natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia degli animali
s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia trovati, e
poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali
giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque alcuno dir
giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e d'ui tile
recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti, e
voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini
inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico,
e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la
dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue
saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò
certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere
ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè
il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella
natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo
veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare:
ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto
inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il montanaro, e
rimirando ammuta, Quando rozzo, e ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno
già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura
della corpo rea ſoſtanza, e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee
qualità: ene men inveſtigando onde avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli
ſiano nel corpo umano ad opera re, e cheniuna parte abbiano nelle gravi
inalattie; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac
cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno
a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò
alla natura, o alla proprietà, o a’modi del loro operare;ſenza le quali
contezze non può certamente, ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di
razional medicina in piè rizzarſi. Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente
ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw più minutamente diſaminare. Queſta
grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare, che da Teofraſto Paracelſo venga in
due globi partita: uno al to, che due elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco,
Paria: e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e
la terra. I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui
vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono
da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo
rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli,
chela luce, e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe
furono, allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe
le ſembianze, e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono,
varie, e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del
Paracelſo argomentare: i principi primi delle coſe fon di due inaniere;
perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente
diconſi. Gli elementi ſono due, uno è fecco, il qual terra dannata, e cenere,
carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La
terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come
dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire;
perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore,
giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma
quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono,
dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a
raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire
ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale.
Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol,
che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo
affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica
il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e
riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente
tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il
Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual
disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li
raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo,
agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo
gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo,
echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando,
agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti
del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna
coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza
de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in
minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma
non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il
qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento
Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la
qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente
disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle
coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per
cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi
fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia,
es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra
finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de
corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che
diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e
contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in
altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e
abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini
quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura
de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri
veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal
di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali,
come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano
maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro,
e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver
bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero
artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo
allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano;
perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo
macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno
manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi
pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo
maccramento il ſale; anzi dirà il Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza
artificio alcuno, e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi,
ſicome nelle ſugne, e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non
ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente
abbondano; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben
fati colo favorio di diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi
tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente
ingenerato. Nepuò il fuoco, per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò
adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer.
curio, ne fale non alligna, non ſi potrà per opera difuo co, orlalaro chimico
ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che
dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo, o mercurio ſi può trarre; per ciocchè
riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe,
e poche, che nel volerle diſa minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far
pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo
ſale l'arene, e le pietre: le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla
del loro primjero peſo; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo,
edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi
pud per huomo avviſare; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi,
quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne
ſvaporano. Ne dirò pur coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente
corali principj; conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato
aveſſe il ſale in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così
agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli
occhj propj non l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo
a quell'altra novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma
di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di
ſale, e dodici d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che
l'olio ſi ſia nuovamente dal Cale acetoſo della gromma ingenerato;
conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe,ſarebbe
& a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e
molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e i ſuoi principj:
ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe. Sola mente dirò, che
quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle
coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch
' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza
dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen zachè nello ſcioglimento delle
coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative
fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te; c
altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan
comprendere, non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra
qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello
ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar
certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te, e
quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me operino, ſe pure il fanno;
ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto: da che egli
non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente ſaperla, anzine meno inveſtigarla
egli giammai poteva, non ſappiendo la natura della ſoſtanza,onde quelle
produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che la medicina del Paracelſo
manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe
ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea ben'egli in avviſando, che
co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe, prender
quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di
quellc, e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe
porav ventura egli indugiato; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe
figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi principj cagione; perchè
agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche
non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose
partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna
operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera
dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto
ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di
pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe
dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non
però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver
avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più
pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele
egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co
tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro
non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo
le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma
non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente
giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di,
ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il
guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della
Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum
illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui
Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud
quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello
Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia
inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in
morbis deſpera tis curatos: & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al
trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR (nondubito.quin hoc nomen magis
fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis
qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus, perva. gatus magnam
Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus
omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo
Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus
introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii
acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi, & hominum opinione
infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque.
videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in
medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta, e la dottiſſima Accademia
di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove
ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone
il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos:
nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert:doctioremme
legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum
ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm
ardur, tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem: lepra, podagra,
hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: "idie
per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma
diligentia, magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex
Hippocrate, fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego
de Theopbralo pre clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel
ligat, & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo
famigliare, per veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum
leprofos, bydropicos, e pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos,
aliofque innume ros infirmos gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine
notabili dedecore non potuerunt imitari; unde in magnum apud
quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera
appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a
rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per
isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene
narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta
non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra
le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem,
felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus,
etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata
ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo,
dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis
vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir.
Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure
del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo
altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che
nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto;
Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa
vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia,
mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque
curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina
del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra
pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere
nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan
Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e
prezioſe, che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne
avelle egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2
racclſo in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non però di meno non ſempre ſi
veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire: e ciò maggiormente teſtimonia
la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita, cioè a
dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento
niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura
ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea
detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur. Che ſe'l maggior
medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato, e adoperarsì
co'ſuoi valevoli, co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi
ri ſerbaſſe, che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a
rimedjdeboli, eſpoſſati, per falvainen to delle noſtre vite? Ma egli
ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto
ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in
baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da
quellola vita, e la morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando
dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa
talibusgravius vexentur, &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura
adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis
obftixatam de hac fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia
fimul omnia, &medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas;
ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen
hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem
deftruit; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus
caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum
mortalesfaciani, noftraque molimina infrin, gant, & providentiam noftram,
ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne
poſſiamo, che comechè egli valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe,
pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto,
e imbacuccato tant. egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben rugumargli malage
voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe ſtata invidia
aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi
maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne
volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne
laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia;
de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi
fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono,
togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi
delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna
malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi,
e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza
argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del
mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe
s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe
noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne
anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano,
accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le
medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare;
perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità
delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor
natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer
debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala
pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo
aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque
medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis
mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis,
ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit. Ma in
buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie?
Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo: igroravit bonus
ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita. Ne
ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti
penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet
fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè avviſiamo noi
tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele pur talvolta
incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli
s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p
diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi
ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o
ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo
convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo
seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius
fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente
cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando;
perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo
tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più
agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non
poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la
forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro
diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi
ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per
doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le
ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e
mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a'
mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e
altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la
ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato
ſalutevole del primiero vigore riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola
del Pa. racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da
ſeguire in medicando; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte
di ſale, o di mercurio, o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali
l'infermo, feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a
ciò il conduffero. Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle
particelle, che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali
l'amaritudine nel ſal della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo
Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è
coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea
meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o
di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal
tri, e d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver
parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal
medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo,
igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a
si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito;
perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò
valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e
diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte
prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale
ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura
celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale
eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj,
acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il
Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento
Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure,
chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e
diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi
medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con
ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non
s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe;
ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe
fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo
anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua
vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no
avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della
ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per
la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie,
cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo
poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne
farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli,
ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie,
e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi
diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l
mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione
delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo
all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre
principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe
create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo
gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui
avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto
ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle
da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no
con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fanciulleſche, o
empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un
tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue, licome
il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente rubbellogli ſi, manifeſtamente
rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle
d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè manifeſta coſa è, che quelle, che
ragionevolmente ſon da credere opere ſue, vennero perla più parte ſolamente
dalai diſegnate, ne più poi per innan zi rivedute; perciocchè egli dal ſuo
focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar
le coſe, e quali dal profondo della natura cavarle, con in tendimento poi di
più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare,.e diſaminare, per poter
metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che
im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo
aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i
ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli; perchè rotto a mezzo
della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed
è anche opinione d'alcuni, che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti
de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi
ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in
iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio,e molte non ben copreſe
travolgendo a lor talen to in tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto
più ne ſi fa manifeſto, quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue
coſe ſon ripetite, ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal
loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da
perſone diciò poco, o nulla intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero,
che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col
qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli
frapporvi, certamente oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono;
conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piatto, e imbaccuccato
ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della
natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente, e con lunga fatica agli
huomini dotti, e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla
minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli
animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli
altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice: ne Eleufina ſacra.profanè
Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse Egyptias, & Pythago ne
affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi
diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi
medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men, che come corpo morto
ſenza vita rimane: non può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico valoroſo
colui che non ſappia appieno ciò,che dellecoſe della
natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato.. Fra Tomaſſo Campanella,
comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe, pur sì
fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali, cheben ne da.aw divedere
quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli
ſono, che il ritrovar la verità. Nocquegli più che altro ſommaméte in ben
filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle
opinionidel Teleſio ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane
ciurmerie,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi
dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente
immagi nati abbian parte nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare
ſe'l ſiſtema della medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e
difettuoſo riuſciffe. Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui
eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo;
perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova
ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il
no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia; perchè egli poi traſcorfe in co
tanti errori, e aggiramenti, dicendo il fegato efferfonte, c origine del ſangue
e la milza del fiele: e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice
egli, cor Jan guinis jecur,fplen fellis, & alia aliorum; omnia autemiſta
cerebrocauſsam habent;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur, ubi et
ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia, d
originis. Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe
manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire
ilLindeno: Quid horum eft, quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta
fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep
pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo
appararc, che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza; la quale ſpirito
appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo, e col movimento all'altre
membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente
favelli..: Ma che direm nai del fiſtema di lui, della nuova arte di
medicare,ch'egli ne compone? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente,
e'/freddo effer primi principj di tutte co fe, i quali egli chiamaagenti: e
l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia, ceffetti
di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da: e ſi
rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor
folamente che col caldo: nè'l ſecco con altro, che col freddo; perciocchè
ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo: 04 fecco col caldo, dice eghi, che
ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione
dell'umido.: e'l freddo del ſecco; perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le
allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo per contrario le indura, le ſtrigne, e le
co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze, o for me eſſenziali,
de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo, c la Terra; perchè anche
due, e non quattro vuo Ggg 2 fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme
dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente,
non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc
dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto
delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la
qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E
queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano
lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e
conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione.
Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa
meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non
ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver
filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e
del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che
dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente
egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli
medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè
manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la
ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo
tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè
poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli
in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la
natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre
ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni
de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo
freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il
freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate
abbian ſenſo certamente a ciò credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne
egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono.
Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui
non le creda, e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore;
perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen
fibili dell'univerſo,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor
procedere tutto dinoi veggiamo. Ma per darci ad intendere, che le coſe tutte
abbian ſenſo, do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni,
i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi
componga del fal do, dell'umido, dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal
dezza dalla denſità naſca, e queſta dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle
parti ſi componga; perchè dice egli, che le coſe condenſe, e falde, sì
attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e
fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e
per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute, dice eglieffer la
ſpiritualità: la qual non che reſiſta al toccamento, anziella dileguiſ
immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti
operar faldamé te per l'unione non già corporale, ma ſicomeeglichiama,
affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene,
riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è d'impedimento.
Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per
dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non dover ſeccarſi,
erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo, o di ri
cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec egli, far luogo
le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino: e le falde
ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi portin via; e per con
trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè quello premendo il cibo, e
traendone il fucco, il formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi,
e diſcorra; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo
ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che
l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello
itu dioſamente muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda;
perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo
dello Ipirito: dalle cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue
ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in
quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle
ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel
reggimen to delcorpo. Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia
l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte, maggior capital facendo
degli agj propj di ſe, e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque
dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che
le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan
fuora: le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma
quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare
il diviſamento del Campanella? Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior
parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani, e trafandi,che ſenza
ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma
s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina, conveniva in prima
molto bene la natura del corpo inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa:
ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in
quella piſtola,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual
coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti,
emolci errori di Galieno, e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per
manchezza non poco danno gliene ſeguì; perciocchè egli così poco acconciamente
della natura del le malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel
le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e carminato da
tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa:
ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow
febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte da lui tolia
l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad amcnduc n'avez
dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io
la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris, dice egli, eft
fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad pugnam contra
irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red
ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi. Macomechè la febbre
tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è
ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non ſolo, come lo ſpi rito poſſa
aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe, quando gli metra
bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta, e gli
reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la quale delcervellodel Campanella
fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti,
eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente
talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e alcuna fiata gli uni,ė gli
altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il foa migliante appiccandoſi
alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario combatrendolo il difçacci.
Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che ne vuol far Calandrinis
dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone: fiquidem,
dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto maculas olei ex panno
extrabimus: oleo invitantej oleum, & alliciente: cinere, calce fimul
expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce, di vino fa. pone
confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure il Campanella,
non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio fi meſcola, el
vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura, e per la
diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la cagione,
per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco. come
egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-. ciocchè ſe a ciò egli
badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere,
che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i qualiſe mai loro ven
gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone, che di lor fi lavora,
non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per fomiglianza è, che l'olio del
ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli, e dia
vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de'
panni lini, che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza
avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer
tamente non altra, che quella,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa, o
l'erpice, elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol
preſcrive re purgativa medicina, ineſcolar ſi debbano talora i ſimili
co’contrarj, appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili
ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino. E
quinci, dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della
vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga, e dagli aromati
poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio, chi non ſa, o chinon ha per pruova
avviſato,che la carne della vipera non ſia veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo
affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come, e
quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle
malattie ſervir nc convengu: a'conſigli di lui certamente in niun modo attener
nedob biamo, fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire.
Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti, che per tacer
d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe egli, che le coſe fredde non ſi
convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti; e pure il
caltoreo, il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel
folto, che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che
l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli
trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in
quella ricetta, in cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e
che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover
lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi
è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa
degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit,
cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia
fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo
falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato;
impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè
può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel
vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia,
e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della
debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla,
e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate
ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e
diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti
ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon
deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in
prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì
grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad
unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il
Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo
ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi
veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbolando
s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo
ſiſtema di medicina propio di ſe, filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga
lieno, avviluppa il tutto, e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal
note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina
diGiovan Battiſta Elmonte; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne
paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui
edifici,che in fondare, e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e
molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria
d'arricchir la medicina. Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili
dell'univerſo, appo l'Elmonte,è l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione
de'corpi miſti altramente l'aria, ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża,
ne accidente, ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione,
con dire, che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale
căbiar fi; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua
d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer
ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio, e'l
ſolfo,i quali da quel la per natura', e per arte ſeparare giammai non ſi
ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e mercurio, come tali da eſſo appellati,
per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc
egli però, che l'acqua di ſolfo, di fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che
che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto,
come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di
qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion, che da principio diede A le coſe
create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc
cata, conforta, e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica:
così di quella dicendo, Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen
creatorum eft maximè obvia, aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim de ea
fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt
per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens,
fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in
vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida
fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente
dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei
quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di
filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im
perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e
meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia
l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua
non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a
perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne
diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per
qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri
no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò
che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte
aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi
mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o
al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli
effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle
ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto
mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non
avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la
cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato
avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a
queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la
natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e ſi fendono
agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in
ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer
liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e adattarſi agevolme te alla
figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor
ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli
lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni particella loro
participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia:
ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di
menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in atto partite, e fpiccate
per un.. cotal movimento continuo, che non mai le laſcia appicca re, e
congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva
di poter la natura dell'acqua apparare, e si riparare all'ignoranza, ch'egli di
se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo
diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome, e inſenſibili
particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate inſieme, che
ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto elle ſiano fe
parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano, ne meno per
alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto egli avrebbe
altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo; concioffiecofa chè
l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di
meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già
ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l
movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le par cicelle ſue, o da ſe
medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle comunicate;: perciocchè l'acqua,
almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta al toccamento, e da luo go a ’
ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e di lataſi a'raggi della luce:
e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la
ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati: avve
gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del
guſto, convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo
effe particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure
ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano,
intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle
faline allogare. E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti,
e or dinari ſono, che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi
poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua,
avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti,
ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e
che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche
in parte, o in tutto gli ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer
umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non
però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè
dipoco momento elia fia:non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e
talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli
comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti
cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali
coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar
gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle, ficome ferono già ne’primi
tempi Pittagora, Timco, Platone, altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0
pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha
cilindrica, e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le: 0 ficome
l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli, il qual.cosi'ne favella:
lanugo quedam tenuis, &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet
concipide bet interna, & individua qualibet aquæparticula, ſolidad's
&dura: cujus figura octaedra. E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le
particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro, o almeno poco
diſſomiglianci; la qual forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o
egli è cotanto malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò
operare; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per
quanto Io poſſa comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra
figura l'ac qua ſi tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per
ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio
che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra
imma ginabile qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in
agghiacciando riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e
all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma
il ſito ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole,
l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata
das Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della
Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale
mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon
mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da
dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi,
dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi
dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino
alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo
all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito
era: che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder
conveniva,quivi tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè
di ſottiliſimo intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato
al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come
ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le
temperanze de'vapori Speli: c firta e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de
curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta vena preme foverchiando il
letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe. E quinci
certamente viene, che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata
ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno fi aveſſe fatto; ne di ciò
pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del
ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal Paracel fo, come gli Archei, i Blas',
i Magnali;e quelFormento, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens
creatum form male, quod neque fubftantia, neque accidensfed, neutrum » per motum
lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia,
ut femina preparet;exiſtat, a precedat; con che', e con altre molte fue
fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico, da apertamente a divedere
l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro, di cui tutto di nuove, c nuove
maraviglie egli ſcopriva,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto, e
tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le, ch'egli traſcurò la morta,
ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè
alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i
qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte
alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a
morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor,
utu eunque acerrimi ingenii,in eo fuitminus felix, quod.veteri placitis
rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis,
demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla
maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina,
certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia
addietro. Per ciocchè oltre alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,,
ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli vanraggioſli negli
ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i
graviflimi danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire:
e'l veleno, che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo
d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud
paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare
alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe
egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia,
o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per
chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi,
e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne
ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea
Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo
Atlante celeſte, Chymicarum, dice, operationum adjumento admiranda hatte nus
præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana
penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, & remediis à natura
productis cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe
ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo
maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata
all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis,
ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non
exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici
d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per
tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg
gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in
riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro
ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma
doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue
nobili, e prezioſe incdicinema 1 wifeſtar ci abbia voluto, e quancunque
ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo; non do vea
pure egli, che sì corteſe, umano, e compallionevole dell'altrui miſerie
unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa, che di tanto pro era al mondo
rutro,dovea diftos lui, lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura
parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così
parimente avrebbon fatto delle ſues medicine. Ma ſe egli più lungamente
l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera,
ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe, avrebbes forſe di sì fátti
medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma affai più tardi certamente
di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a
dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional
medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire
in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed appreſſo trapaſsò ben ſei
luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa, ſenza alcun fruta to
mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo
medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e quantunque egli dì, e norte
ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu
daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti, e le
materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de'
putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la collera, o la
flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per
partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo
metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i ſuoitrovati al
giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do:
Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur, trutinentur,
&ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere
videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero
probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur,tutabuntur.
Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le Senſibilicoſeformate
efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale
fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella materia,laquale poits
chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio nel'effetto.
Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa
piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon
terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen:
tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale
dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e
credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della
priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le
coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto
oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte
l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano
nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma
più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme,
e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui
èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo...
Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce',
e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e
ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me,
noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora
ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito
poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver,
reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di
contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che
ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi
coſto della lorvanica. E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri
yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici:
marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder
tāto del lor valore, che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or
quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe
il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda parte tutt'altre mal fatte fue cure:
nella peripneu. monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi
ſangueallo infermo, c poi collc viole; e collo fpiri to del vitriolos o con
altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito
della vita di foverchio nc'polmoni ribolla: ed il feguente giorno
coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito, acciocchè con tal move mento
venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate
colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe
più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè
altrove confeſſa, che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga
del Toro,e'lſangue dell'Irco. E certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro
maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia
patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e
oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto
fpof fáto, e fievole per l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui
fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo
giammai attendere? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay
viſato,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes:
MirorParifienfium medicorumpertinacitatem, curationem febrium, & ferèmorborum
omnium in fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius
caulja moru. borum, & potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium
non refedeat in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana curandi morborum
omniü in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus, &
morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo
effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di
diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit,
do curatio etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut
loco illius fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote
altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri,
e quanto malagevole; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin
dalla prima giovanezza concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute;
il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella
quale fto ria, e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da
luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò
traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro
accennava, che troppo vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente
non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia
a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la
SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando,
far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori
de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella
dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta
entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora
incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri
razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le
avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco
a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza
alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada
della vera filofofia. Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta
pianta, le cui radici fian nel cervello, onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n
vada il tronco, i rami, è tutto il ri manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol
che ſia freddo, umido; mache nel fegato facendoſi roſſo: caldo, e umido
altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue, in caldo, e
fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la, che ſerva all'huomo, come it
caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro
elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le
dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire, delle vene:mapoiin roſſo, e
ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per le vene, e per le arterie ritornare.
Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor delle proprie vie sboce cando per
tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando, contro il
provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque il Florido,e vigoroſo ſtato
di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a dire dal cerebro avvenga:
la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura madre toccando, ftiano
ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare,
allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai divengan vizze,
o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia
madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più
vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore, vaella tutti
i con. venenti della vita, e della morte, e della generazione, u della
corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando.
Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva; i quali
comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali, che
non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi;
edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa
Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis heroina ratio
habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma crapaſsado al ſiſtemadella
medicina di Tomaſo Vil lifio; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello
con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele
rifiutata intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo groſſa, e ſciocca: e
quella di Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente ſottile, e da’ſenli
lontana: alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia, e
vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ).di ſale, di
ſolfo, d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli ciaſcun corpo
ſenga bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò, che elleno
ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e s'affatica di
dar ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente diquelle,ch'alla
mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze
non eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo diviſamento quì
egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora
fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte; anzi egli dice,
che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare, ſciocchezza ſia
l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller
più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas ventura, ea riſchio
delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma
quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper:
tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona;
perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare, avvegnachè egli
contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare philofophiam me
nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un andare alla cieca,
e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o non s'avvede egli, o
s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza
fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli,
e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri principj ſi meſcoli:
c comc ammendi, e affreni i ftraboc chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del
ſale: é comequela to tante, e tant'altre operazioni faccia, le quali egligliat
tribuiſce. Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle:
fiano, ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva; e colcoccare, che colmuovere
ora in uno, oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare. Eben'e gli
dovera (ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di
cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro
cagioniinveſtigare: cav vifare, chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole, ſe di
pre fente nonceda atutti corpi ſaldi, che perentrovi paſlino je perchèeglièda
dire', cheloſpirito ſia in molte, e moltes particelle diviſo: le quali continuo
movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano;ne lo ſpirito,foctile,c volante
efferpuðn e per cutto perretrare, ſe le ſue particelle picciolitime non fono,
esì fåttamente foggiate, che molti gomiti 20 angoli, non abbiano. Neper
darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello, licomc egli dice,
di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito; e che da
quello nafca il calore, cla varietà de'cofori, e degli odori alle co fe, e l'a
lor bruttezza, e bellezza: c per la più parte la di verſità de' ſapori;
perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe,cheegli ſenza niuna pruova farne
grazioſamente, afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo,
argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle
fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii,
calia quanto' famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando
dellacomplellion del fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello
ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici, in ciò che in tutto
partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis
exfuina tura nullibi exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net.
Quindifoggiugne: formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto
quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit
aliud, quam ejuſmodiparticularum impetuofius concitarum motus, deras ptio.Ma
s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di
neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover
velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e fpeffi, ficome far veggiamo al
fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi: non avrebbe
certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma Signori ancor Io immaginava una
volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè
ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte, mecomedeſimo penſava doverſi i
ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e in ſe medeſimi ravvolti formar
cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere, e penetrar poteſſero; ma
meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto, igannato inutaiparere.
Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano,
una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle
de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di
que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali
egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per
altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra, e la
propietà de'componenti di quelli. E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole
a fornire, cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin
dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col
conſiglio dell'incomparabile Boile, edal. tri valorofiffimi filoſofanci
fornirpoteva; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne
imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne. Eles
non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi
avevasben egli in ciò, che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco
ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro
particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che
quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di nuovo volar ti. E Gimigliante
da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che convengano le particelleinfra loro, le
qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò ancora, che i volanti
ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da aſpri, e amari, e
acetofi: dolci, e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e
amari; e alla per fine inciò, che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte
cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo
gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè da ciò tutco ben'egli
argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura:
0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie, e diverſe
figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya', iſali acetofi, in
ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti: e
l'altre generazioni de' fali cſfer più, o meno di quelleforniti,
ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e
della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare, ſe aggiugner
voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat non fi poffa
che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o quanto
probabili folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità; non
però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di
conghietture,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì
ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere
pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo
devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle
febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non
è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto
ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa,
ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti
rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo
meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventurato ne’luoi emoli; perciocchè
de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla ſappiédo delle coſe della natura,
volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo; per chè non durò
molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi
della difeſa di lui, quanto per ricredere, e rintuzzare la tracotata beffaggine
dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe
egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima
detto. Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che
non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del
cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo,
che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere:
cioè a dire che vano, e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne
medico poter giainmai in quella tane to, o quanto
vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e inolto ſcorta
diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello, non altro
certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a dire
nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco,,
e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la medicina a
quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo egli
filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze, così.dover fi
medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali
rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri
argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì fattoavviſola ſua
beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'.
Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che valevole argomento egli
mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta, ove i volgarimedici bene
ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola
della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole
ciò che 1 1 d egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice,
per eſſenza ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion
della gola, e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre;
conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza:
avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema,
o creſce l'enfiagione; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c
l'enfiagione appa fiſcono: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu
fa'a formentare, e a comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la
febbre. Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche
ſcheggia, o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè
ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane,
e talor anche pertutto il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna
fiata enfino, ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento;
perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già
effetto, ſicome immagina il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi
in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè
poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio,
confeſsado egli medeſimo quefta verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli
dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű. tur: fanguis in
motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men
vano, e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir
mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare:ma
perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza, e per non dilungarmitroppo
me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila
biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella qual certame te cotanto egli è più
de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei più avvedutifra loro nella terzana
intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba,
accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e
mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incendimento diſcorrer
poſſa, e riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane
intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non
avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla
bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni
di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti,
ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e
punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di
quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli
ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch '
egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia,
farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la
febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e
fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in
lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento
ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo
pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a
ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di
ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana;
perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e
per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo
avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a
quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no
oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente, chequali
ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime, c
rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de
clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello
febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac ciocchè perlo
falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e le particelle calde di quello per
affoltata non ſi accendano; ſi. coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali
rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere
rinfreſcamento. Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio, che liquorsche
continuo muova, e diſcorra, ficome il ſangue, abbia quelle particelle,
ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af
faſtcllate, ficome ficno in palco, maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde
quelle fono, e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè
malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce
non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole
oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo
ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento.
Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato, ſe non già con falalli, ma con
rimcdj acconcja ciò fare, ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato
di ſventolare il ſangue, edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol
che da ſegnar fiano anche i fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de
ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer
quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli, e da fuggire. E avvegnadiochè egli
molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo
guariti; non però di meno, ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne
poſe per la ma la via; ne è da credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da
falaſiajutati: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta
celsò loro la febbre: e fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla
febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe
veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere
ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde
alcuna volta non colpire, perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè
talvolta non ammazzino, non effer mali? Ma ben disi travolto diviſamento
portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari
ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e
per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non
sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non
più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che
ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue
ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a
raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando
detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono
avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità
Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co
' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio
niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al
tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con
graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia
grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo
e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci
da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il
medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine
adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine
avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della
medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe,
conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza
guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum
judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres
primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una
collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo
crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata ád
bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus,
monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli
affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e
nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio
cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli
nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato
certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo
giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un
ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei
compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione
dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già
egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet
operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere
agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non
modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare.
incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra
i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne
trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne
a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e
riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi,
ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una
sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato
principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel
di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio,
licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno
involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di
que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure
dell'incomparabile Giovan Batrifta El monte, di cui ſopra è detto, a quella
apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non ordinaria fatica ſi rivolſe;
e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine, per non
dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e
tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte, e
laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli
campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco cſper co Nocchiere, avvegnachè di
ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e di tutto ciò, ch'a ben corredata
nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia fornito: impertanto per nuovi, e
nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare,
miſerevolmente inghiottito vi muore; così il Silvio, comechè dibuona
filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non ordinaria medicina fornito,
non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e
quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena
ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe alcun recare in dubbio, ſe
ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato, co me
eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle
fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe, comechè una fiata
dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di
quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer
profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel, ch'e'nedica, trentatrè
anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando le ſue
dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum principia
vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq;
mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé
toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer
ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i
quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor
poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di
ſangue, edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini
per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue
dentro alla ve ſcica del fiele; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro,
e volante, e comee'dice, liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto
d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della
ſaliva, la qualdegli ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del
ſangue com pofta, dalle glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali
diconft, alla bocca trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco
diſcenda: e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi;
quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più
gran par te dimori. Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo,
e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella
una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli
ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne
dalla flemmadiffomigliante, ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli
perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli
fa colla collera, perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella,
edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la
parte più groſſa, e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini
s'avvalli: e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna; e la
flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor
rente, e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco
pancreatico traſcorrano parimente al cuore: ove la fermezza, e’lcompimento
deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili, e
alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente colorate, e tenaci ré. dere,
Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua
medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol, che tutte le
febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne
il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſaço dimorando,
maggiormente acetoſo divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia
negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e
naſcerne la febbre, qualdicono intermittente. E ſe quella parte della collora,
della flemma, c del ſucco pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia
ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo
ribolliméto riſ veglj, e le contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il
voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole
il Silvio, che ciafcuna maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo
di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate
infra' medici un cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo
ſua morte; ma lo diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio
propoſito s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil
diviſamento del Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma
perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue
ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada
con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va
lorofo filoſofante;machi ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer
tali quei tre umori, quali e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di
cagionare i bolli menti, e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti,
poco certamente a capitale il ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel
ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non
ſi è giammai per al cuno acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be
ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe
veramenteil fucco acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli
immagina,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le,
che per l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il
liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo
umore meſcolato ri bolla: che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio, da cui
peravventura ciò apparò il Silvio: il qual contendendo co tro la manifeſta
ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco,
cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga
s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi; per
ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in malei Itato ne ſarebbono:
ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc (triguente, e lazza, e
pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia. Ma chela ſaliva allo
ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia, comechè ella pur gli ſia
diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non
abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E ſopra tutto è da maravigliare di
ciò ch'e dice delle febbri intermittenti; perciocchè ſe quelle dall'acetofità
fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono, e terzane,
e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea, ficome
anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a
più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò che toglie maggiormente l'eſſere
razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui manda a terra, fiè, che egli trasa
dando le fondamenta, a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime
ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella
ſua filoſofia, il modo certamente del ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole
degli arcani dell'Elmonte, e del Paracelſo, non poco dee effer commendato;
perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate
connon ordinaria fe licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò
alle purgagioni troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e
pertutto diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato
ne foſſe. E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só
mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' folo
può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune, andò a
bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove
egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli, che faccia
luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente
radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran male; non avviſando,
che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea temere, dar vi fi può
compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel
fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè
per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi, o fenfibile, o inſen
fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie, il
che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro
Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre alconvenevole ardito, imprende a
determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con
lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle
coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e dice quefti, licome in cotante arche,
o matrici contenerſi negli elementi; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon
quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe, in cui niun
principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede il mercurio;l'acqua, ove
ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il fuoco ond'ogni altro
elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed eccitato dal mercu rio; e
ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il riſplendere, il riſcaldare,
l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua; l'aria
colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il mercurio è un certo ſpirito aeree,
il qual coagula l'acqua, e'l fal volante rappiglia, e che afo fai bene col fuo
ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle
vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima
ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo. La terra
opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica
del fale. Indi deltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne
divifa: il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente
dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli
elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore,
e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo
manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale,
e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde,
la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han
nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì
nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente
ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime
la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna
delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da
principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori
ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e
dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi
diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta
diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non
poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli
molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de
filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e
falſe opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ',
come faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à
medicis acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum
qualitatum conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum
fidus infinitam, & medicine,nec non compluribus mechanicis
rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il
Meſfonieri, in tut curto,e pertutto inverigmile fembri; ficomcè il dir; che il
mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia;e che ſte colà ne paeſi al polo
vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire,
per non logorare fuor di propoſito il tempo. Mada tanti, e sì varj,e sìftra ni
ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a
dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan
vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro
corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale,
dic'egli,è della natura del mercurio, aereos freddiffimo, e dalcervello
perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento, ed ogn'altra azione
animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola parte del ſangue; lo ſpiri to
vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere, e a far impeto
nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé, il quale da per ſeimmobile,e privo
di ſentimento farebo be; tragittaſi dal cuore perle vene, e per le arterie
infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue
queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo
coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa
il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale
freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da
lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del
ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di
fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani male. Ma formentandoſi
continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando egli ſempremai più, ome
no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por trà mai l'animale ípirito
olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien parimcnte poi, che'l Mcf
ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo ro, el diſuniſcano si
farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde avvenga,che'l caldo
eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale; ccoine
al lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed
eſtingua lo ſpirito vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri
nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano, vada ſovente errato; e
quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune
falſe opinioni di Galieno; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va
diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo, che qualor l'azione
dell' animale, o del vitale ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano
damaloritravagliati; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte
negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti
delcorpo; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere, ſalvo che in
tor via quelle cofe, che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che
tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa.
Ma a queſti, cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo
parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per
moſtrargli fall. Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za
nel vero, e materiale effer ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema
paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea.
ra celebre medicante nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima:
ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo
le vane ciance di Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional
medicina; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di
Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor
farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne
di varj, augelli e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che
ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua
fronte quiſquam experien tia Scientia omnis, & cognitionis inventrici)
repugnare prefumat, nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me
quiequam denovo admittere, quod confirmat& eorum upinioni adverfetur, à quo
ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte fapuille
videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria, Hippocratem,
Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non dictum, non
dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto appreffo
fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente
però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole, che della
materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino, c'di
queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i
quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo
coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di.
ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno;
ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati,
che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario
lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali;
dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune,
e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia
parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra
gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu
introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del
Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor
faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute
gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi,
eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che
da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro
furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì
intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro
abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato;
imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chimici poſſono i varj
avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di ſeguente è da dir, che ove ancor
vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci
daglielementi ſi formino, ne men coſa, che monti una frullo Gi farebbe mai a
pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non
eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via, il ci fa mani feftaméte
vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito,
e nella notomia, e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato
fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni
nella gioventù appreſe, che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben
ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina, allor che
veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe
naturali,vuol, che il mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela
flemma, e'l capo morto, o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali
le coſe o per ingen gno, o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo
lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo di
vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele
menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e
quello dell'aria all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra
alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l
fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia,
e che le particelle, che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle
tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla
ao. E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la
qual peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè
diſcorrevole, c vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru,
ciare acconcia, Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte
conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs,
quali ſono il Mmm file, slaai Cáte jela terra dannata, porre d'accorto, e far
ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro
qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro, e
non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè ſcompigliata', e
ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la qual folle mente
il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare. Ma ſufficienti
non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura,
egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde
fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge,
e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono: e giugnédovi
di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si fatti ripari di
riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone apertamente a divedere
con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di
que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e pregiatiſſimi
diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver
curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto errore.".
Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore, il qual
negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale riſvegli: e muova,
e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri ſoſtegna: e ciaſcuna
natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona fperā. zagli fpiriti,
iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il Gliffonio le varie
generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein prima quella
dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia lo fpirito
ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e oltre a ciò
contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale, e che fia
ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes,
appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte, c
terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, che l'Idea dell'uovo, e quella
ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda;
imperciocchè l'Archeodi quelli, non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i
quali egli può produrre, conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta
ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora, e l'ordineditutta ſua
formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La
diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura
rappreſentata per l'idea,e una cotal brama di quella limitata, sìche ſoſpeſa
reſti laſua potenza infino al sempo opportuno. E ultimamente, la diſpoſizione
della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta
operazione valevole, e acconcia, maches'indugi all'opportunità
dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo nell'uovo anche
dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga;
perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią, o d'altro ſomigliante ajuto la
formentazion dello animale rentaſſc, ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb
be. Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va
ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento
ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice
egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale, vita le, e
animale; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato
nell'uovo: l'una fiè, che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare:
e poi nel corpo for mato, in atto già opera; e l'altra ſi è, che al preſente
egli in un caſamento già fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto egli
fignoreggia. Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e
l'Archeo animale; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli
è fornito, quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven
tricolo, della matrice, e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura
dell'animal ſorteggiate. L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che
la terra produce prin çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto
iq Mmm 2 fluiſce, comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo
animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i quali nel ſucco nutritivo
abitano, e dimorano. E dalla perturbazione, e rimeſcolamento di coteſti Archei
vuole egli, chele malattie tutte ne avvengano. Ma egli ſarebbe un logorar
vanamente le parole, ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del
Gliffonio intorno agli Archei. Dirò ſolamente apparer manifeſto, ch'egli in
luogo di ſpiegar, ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che
traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e inviluppata la rende.
E doveva pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che nonci ſono, ne eſſer
poſſono, quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i nedice;ne ſi può
ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta,
qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente argomentato
d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate,
foffe poi sì vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente ammannare aveſſe
potuto cotante ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti, che alla ragion
lontane. Ma non tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va Ient huominiun
tal fallo ſi è ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe
operazioni della naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza d'inveſtirne le
cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi rifuggirono
a sì fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde natura.
Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da
biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente affermando, fe cfſer
pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi, che coloro chiamano
componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento
procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei, e sicon
fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani, e ridevoli
di quelli de'folleggianti peripatetici Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di
noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel
la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa
nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono,
leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel
berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e
s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello
ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe da di re, ciò che egliintorno alle maniere di
ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di
que’ſcioglimenti diviſa, i quali, ficome egli dice, avvengo no per
congregationem, vel attractionem magneticam, fi ve fimilarem. E in prima va
egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante
goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di
quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle
coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat
tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene: e
fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra.
Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod per attractionem fimilarem,
five magneticam intelligam.nempe alle &tationem, five incitamentum, quo
cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più
ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello immaginarfi
giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate foſtanze il
conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce? certamente fe di
baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che le cofe, che
ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao
no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non
partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente filoſofando
ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an
dar del ferro alla calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera
inveſtigare, onde ciò ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali
follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre
coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il
qual dicon magnetico, del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e
ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche
travoltę infra loro, inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime
para ticelle fpiritali, che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della
formentazione riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo
il polo magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì
quello co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal
rimeſcolamento di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la
ſpingono intanto, chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili
corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár
maraviglia, che la calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e
lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche
legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti
poſſano andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la
calamita d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al
Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra
maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli
ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio;
perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go
laiciali ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi
in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util
grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol
mente damedici feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a
dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien
d'altri diviſamengi degli umori infrămetterſi non volle, ficome poco utili alla
medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire
il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario,no
che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo
Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è
vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per
avere cotal divi ſamento da primaritrovato; concioſliecoſachè poſto che loda
pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima cofa. ſia, che la dottrina
de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata
già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di
que. gli uinori, che in varie, e varie parti del corpo fan dimora, non mica già
quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è
forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti
quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia
ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro
agli umori, che non ſi da niuna cu. ra d'inveſtigar la natura delle coſe, non
ſolamente utile niuno, ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al
medicare, comechè ſcorto molto, eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in
conſiderando una fiata, che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi
allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì
biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra, ficome cgli afferma, introdotta.
Non propone egli medicamen to, che volgar non ſia; ne contento d'un ſol
medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri
medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a
divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine. E ciò baſti
avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato; il qual per altro è
certamente non poco da commendare; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa
diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma di troppo
lungo tempo abbilognerei, fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina
dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri
ſcrittori. A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo
accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per
quanto facica vi duraſſero,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta
d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo
noi a ſufficienza conſiderate,e riandate; e altri di loro, fra'quali il
Tacchenio,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e
materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione
alcuna particola re: Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che
ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta
induſtria, e diligenza, che da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia
adoperata, e per qua te coſe per la morta, e per la vital notomia liaoſi nelle
ani. mali, nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e
per quantepruove, e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo
proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto
giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera
ragione dottrina niuna. Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto
alle ragioni pongas mente; per le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-,
te conoſceſi quanto ad huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo
ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe
giudicar delli di quelle, che debbono avvenire, per tanti,e canti, che
infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento
ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così
avverrà certamente a ciaſcun' altro, che tenterà una ſimile impreſa 3 ne
potrafli così nel filolofare in medicina, comenell'adoperarla prometter
ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri
corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia. Anzi, o infeliciflia condizione
di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper
fatica, e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto,
che coſa ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta
veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da
Empedocle,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della
incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής
βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς
τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν, ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην
αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta
verità, oltre a Seſto Empirico, da Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina
favellando: eft enim bęc ars conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có.
jecture ſed nec etiã experientię per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e
d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati
popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente
in Aten ne fioriva la filoſofia, e le buone letterc, traſcurarono la medicina,
no facendone niun capitale, come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν
ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο
μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali
avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone
arti, e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice
Plinio: Populus Romanus neque 46-; cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam
amicus: donec ex pertam damnavit; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo
di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito, e danna to; infra'quali il Balſamone
Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne
manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces ©
riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al
ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú
fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi
bus nutans; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406
Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja:
Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper
ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata
diſcernunt. Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar
ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice,
non è certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque
Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw
s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S.
Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi
ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco
Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede
queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje.
E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che
dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue
erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom
perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il
qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra
Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E
per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più
rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra
Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi
quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè
montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue
infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's
ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar
lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina
nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla
fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del
Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef
ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione
porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di
tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe
quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve
eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir
richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina
guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea,
dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo
arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere
colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene
cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto
intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo
forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi
antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed
altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro
Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio;
Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli
avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più
diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior
hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più
venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male
infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi
cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed
eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza
fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla
bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza
dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni non fa meſtieri la
mia opera, imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale (così
un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto
crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer
medicato; e ſareiben folle, ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la
cura di mia ſalute. E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo
più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e
sì crudelcanaglia; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na
coſa dicerto, abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo
peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma
fino a'tempi di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E
cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da
Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico
divenga: in que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi
tazioni de' medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte
deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora
étrar facédo romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la
voce: acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in
teſta il ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza
ſenno, ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il
quale ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe,
rifpofe con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro
infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων.
Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico
affettatuzzo della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè
nó gli ſiano fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina
mezzanamente grave, ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo
alquanto modeſto, e umi le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi
dire de’veſtimenti del medico, i quali ancoramezzanamé te debbono eſſer
foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino: ne
cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli
ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero.
Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli
medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per
imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla cuticagnato, devafi; perchè Lucio
chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle
chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette, e ben forbice; e
fe per avventura putiffe loro il fiato, o le dicella, o tutta la perſona,a modo
di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi debbon eglino d'odoriferi unguenti,
od’acque nanfe for nire, prima che ad altri medicar fi preparino. Ma purvoleſſe
Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio
ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle maladizionije ed altre illecite
ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano, e maggiormentein pre gio,
e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un medicobia fima; e danna i medicamenti
dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano, ch'egli appunto diviſati n'avrebbe,
s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale, ed anche pega gior misfatto
non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a
Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo. Primo etenim invidiosè jubet
fi qua ante ipſum medicus adhibuit, repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda,
tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab,
biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor,
cheſcriffe: Medicus aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur;
e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies
quadă,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne
narra il giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui
medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut
feques rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro medico narra Calliodoro,
che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe: inter
faburis magiftros folusbabea, ris eximius: & omnesjudicio quo cedant, qui
fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie,e04
rumquediſtingue confli& us, quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li
potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva
a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe
la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj; o comeſemonna
Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del
Sere. Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici, che per uggia ze
mal talento guaſtarono, e atterrarono diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di
que'ribaldi ancora, che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali
della valle d'Anfánto, di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino.
Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il
medico, chiamandolo talora: Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis
perforatam clepſydram;aliena veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ
ignorantia conftantiffimum defenforem, & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c
ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo
dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di
molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno
intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia
uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ
notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica,
de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo
ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam
ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E
GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della
"incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avvegna,che
taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina ! facit, ſono le ſue parole,nonreruin
memoris, fed verborü:1 callidos y verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos,
las boriofos, non ingeniofos, de minime graves s opus enim coni rúm, d
exercitatio minusquam liberalis eft: e altrove pa rimente de medici avea detto:
funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate, adeò ut nihil pejus excogitari
poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia
del Toro, e di Venere, onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad
ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la medicina curativa ſotto quella
diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire,
come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il qua-> le ſoggiúgne, chedalle
ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga
anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um",
eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo, e
malvagio; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i
cicaleccj.delfa ftrologia: è nondimenodacredere, chegl’intendenti dell'arte,ciò
cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe,
chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella
s'offervano's Má chi mai ilmaltalento, e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente
potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano, efimalmenano.
Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca
tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone
della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta
l'Iſola, e la Rocca d'Vraniburgo, di cui egli era Signore: e sité tanto mara
vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine
rovinarono, che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E
l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir
nemichevolmente la patria, ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume, non pur
delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la
cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime
narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui
videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum
turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet
gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa
nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud
quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen
traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei,
ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente
ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le
genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente
com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono.
Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la
nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A
Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di
prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato
da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin
lieno, ilquale anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da
parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c
machinazioni, e delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo
Avicenna, Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo
Lullio, ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di
vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj,
le prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle
tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne
vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di
que tempi Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come
coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in
favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della Penna, (chea 'di ſuoi con aura
di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina, contro
Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo, che più d'un buonno ſcienziato, e
il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e peftifera invidia di Maeſtro Dino
dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri, e quanti nobili e illuſtri
medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide
ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia
ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola piti foſſero nella lapida
della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft, gratis,qui nil
dedis unquam, Mortuus, & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper
Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano
alla cura degl'infermi, dallamaladizione, e dall'altezzola, e sfrenata
tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio
huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime
födaméta dell'ercſia nella Frácia? e da Michel Servetto, la cuiempietà era
inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata, e di Marcello Ancirano: e
dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti, e di Franceſco
Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla
cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio, e quindi ſen? vennead
infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia
tutta della Tranſilvania. E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la
barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol
carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come narra Paolo Giovio, far
notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i già detti due Greci
facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura
commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe moleſte: che
Ooo non oſarono, che non imprefero, che non machinarono a danni del Paracelſo i
Galieniſti medici della Germania? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi
lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere, e rintuzzare il lor rives
ritisſimo Ser Galieno: conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino
perſeguitarono, e malmenarono Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli;
il quale con meche Italiano, e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e
altri', e altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e
fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a
Girolamo Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la
dottrina di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro
Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi
ſer barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente & 'avventarono
contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c
daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel
chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio
Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri
per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile,
e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga
poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie
d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto,
l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor
più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da
Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti
fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne
verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella
Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino,
Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo
Crollio, ealtri infinitimedici doro tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre,
o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza
andar mendicando eſempli di fuora, laſciando das parte ftare le non meritare
perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli
orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città
contro il Ferrillo, e lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer
d'altri, e malmenato da rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle
noſtre contrade Marc Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie
lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così
egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua
perſona, fu prima incarcerz to, e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia
cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata, alla
fine de' ſuoi beni ſpogliato, Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe
tralaſcerò lo, o quali ne ridiro? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le
ingiufte uccifioni, che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici
miſcrevol mente patito: fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella
ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó
peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno, ſe non ſe, per dirlo colle
parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam, &à Virſungio non teme
re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia. Ma in paragone di
tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire,
che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui tanto, e si fatta
-mente porè l'invidia de’mcdici, che accuſacolo all' Impe cradore di Roma
Maffimiano, non mai fi: rimaſero, finchè " non videro per man del
manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma
avvenga, che i medici fian così,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più
chiaro argométo,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti, dove parch'abbiſogni
più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige
materiali, anzi che Ooo 110, 1 2 no,
ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E
per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali, come riferiſce Francefco Silvio,
Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas, ac
tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq; ita putant febres
miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la
cagion di lor malattie fian certe pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili,
le qua li e'dicon, che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi;
e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari; e in tanta
reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro
ſchiera. Nel ta muova Francia poi, ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i
medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente
le infermità guariſcano: ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale,
a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più
parte le vomitive medicine, e só quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi
meſcolan di botto, ſenza che altri lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli,
o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono
altrui eſler la malefica fættura, la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz
fuori colla pūca d'un coltello, che tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e
ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un
altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe
ne muoja, ſi fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più
potente; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da
ridere a quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi,
e degli ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici
que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è
conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro.
Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre
fimili Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide:
felicisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano, il cui fenno che pote da
debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua
Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo
de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il lor conſiglio non
curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron cagione ad Ercole
Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan, chiam'io,che quando
Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma
nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens
Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o
l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna, el
Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che tolgon
l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato è
diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci un
villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre; emai
non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e
diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre
nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo
bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator
menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura
abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un
villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, ch'altrove
vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto
dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non ſappia ciò, che molt'anni avveniffe
in quella terra, chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil
Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale
co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati, non
che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori:
ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone,
e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo come caduto dalla. memoria
mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo,
huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede: Animadversi, ſctive, in
dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui medicina non utuntur,
mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu. rimos elatus à medicis
maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri: ex iis; qui medicas
adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui
moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità
per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro
con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri
ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes
medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza
dell'arte, tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia; e
malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il
non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra
tanti ſubugli di ſchiere, e fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben,
ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le, e con fattinon
paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o
Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto
in pregio dal gran Pompeo, o Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano
Ceſare, o Vezio valente adultero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio, o
l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a medici di
contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e
in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi fempremai
in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i Metodici, e
gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di loro ugualmente
il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le rovines dell'Impero
Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri: ne a'feguaci
d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4
to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto
ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però di menonon poterono far sì, che
affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra
parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con
ſátire, einvettive lungamen te piatifféro; nondiineno di nulla mai', o
reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio,
oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice,
o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della
Suezia,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi
legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o
dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e
ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon
tefa infra i medici Chimici', e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne
foſſedalla ſcuola di Parigi, volle mai inan dare avanti i decreti diquella,
nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa (il qual ſe tanto nella
filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella
Loica di lui s'avantaggiò, certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga
impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad
ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480
Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu
ſeppe Quercetano medico, e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva,
ne fu da lui ſommamente onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre
chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro:
pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del
Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per
ciaſcun medico liberamente adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime
perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi
Redelle Spagne, così ne'paeſi balli, come in tuce'altres Provincie della loro
Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare
a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za
ritegno alcuno; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti
de Galieniſti. Che ſe mai Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha
voluto, e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola,
comechè menoma a certa, e determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova,
che ogni loro ſtatuto, a ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito;
come ſi vide av venire, oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de
Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata,
qual dicono, come velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573.
con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che
poco prima era ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere
que'rimproveri fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella:
Er. rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno
proibire ſotto graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda
dalla ſcorza del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata,
immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur
ga ſenzamoleftia alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo
della gravidezza, è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie,
e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487:
Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però
laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano
lamanna dalfrasſino, e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento
non conoſciuto da loro, febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede
altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a'
ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente
rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione,
che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i
bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali
Ippocrate, del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della
natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris
Hippocratis tanquam ad théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e
das dover eſſere d'ogni eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi
traportare l'Alciato, e'l Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il
noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo
giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici, che
dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit
improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, &
aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat:
eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna
fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d
predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita
magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum
ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò
ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo
ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto
Re di Frácia, il gran Lemoſiniere, e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori
valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair 1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa
accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre leggi, e ſtatuti diviſarono delle
bi. fogne della medicina: ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero
legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire:medicos
ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas
tee neant, divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus
religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo utantur. Ma cotale
ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero, ſeque’valent’huomini
aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal biſogna, e riguarda to
alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e all'incertez za di tal
profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora. E tanto più, che
que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne prima, ne poi i diviſamen ti
d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel purgare, e nel ſegnare,come nel
ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina
è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate; e an zi tutti medici vengono
di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto
agevolmente coglier fi puore; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen
te, che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine
curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo, o daſcorpioni, o da altri
velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che
per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina, che
ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle diverle, e ſoventi fiate contrarie
guiſe di me dicare, e dalle si varic, e tante opinioni, che fra i medici di
tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto
d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed inviluppato meſtiere, il
quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali huomo unquemai poſta porre
alcun menomo fondamento: e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai
manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che
d'ordinar lebis ſogne della medicinafi danno alcuna cura. E perciò lag. gio
ſembrami lavviſo di quella Città, o di que'Regni, ch' avendo forſe a pruova
legià dette verità conoſciute, non vogliono in alcun modo prenderfene briga,
ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio
faggiamente avviſa, que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il
fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non
che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le
ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il
quale a diritto, ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua
giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro
(ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina
degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che
fra medico, e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome.
Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli
occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc
dicina; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio
de'inedici, quanto Trajano Boccalini: allor che narra, aver Apollo per ſecondar
le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici,a cagion di voler
ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni
di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più
moltiplicarono le malattie; e le morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte
maravigliato: (ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo
di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa
confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che
ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo
aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica
udienza, con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484
Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile
rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion
prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha
certezzha 1 RASr 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori; delle
dubbietà,.e incortezze del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi
impoſſibili a ſuperare:'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai;
non altrimenti, che picciola, e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare
da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o
mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta
ſelva;per travolti-bronchi, e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto
s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il
conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via, o modo al
cunoavviſare, convienr'certamente, che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto,
e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave
affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse
egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far:
giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo cheſi poſſa;
çfecondochè la condizione d'un tal meſtiere comporta. E (come a coloro,
cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni picciol cravicello, o pan
chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince: uob; maroſi della
ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti, che gli li fanno
avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con quelli sì degna im preſa
poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita. E quinci ſi è, che
quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che
per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific
loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla
medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto, chiunque voglia con qualche
profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa meſtiere, che lo attenendo le
promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente
chente, e quali coſe a fare un buon medico, e perfetto,in quanto ſi poſſa
umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia
no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err
ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do
dice, ch'a coloro, che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia
meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές,
tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi,
e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da fanciullezza,
einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo lui; conciolo
fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio, e ogni
diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia
vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina apparare,
e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem premai ciò che
dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde
aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova; Eſe'l mondo la giù
ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi Capoa.
487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu
natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è
fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento
richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora
improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di lui
molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi che
dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte ſiano
all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e
ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non
avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni,
c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori
diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo
capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le
ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo,
il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli
rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e
incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun
dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per
appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di
noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e
molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in
altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi
ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano
e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al
mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il
ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per
apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli
dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto
intender noftro, come temerariamente altri pur s'attenta di fare: ma ſe a
qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo
pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma
di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più
rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico
intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda
tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala
co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi
al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della
Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa Tedeſca egli è allai
chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle
medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta
opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche
con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non pienamen té
intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da
Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar
medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam. Et nulla
profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda, traétanda,
meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea
verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel
medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun que veramente
approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella medicina,poichè
eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa poſcia dipartirſene
allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare; onde
faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli
artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno
poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma la norma ſicura
de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e
malamente al ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui,
a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente
avea la ragione, l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello
confortare, e fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè
la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice
egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí
óvño Jou răvő mi yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento,
acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della
medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad
un medico faper Geometria, affermando ancora lommamen te giovevole, e
neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa, e l'altre biſogno nella
medicina. Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto: ſe
oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può
delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine
molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe
(come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico, chifiloſofo in
priina non fia: c per apparar filoſofia, la Geo metria è ſommamente di
meſtiere;egli è pur manifeſto,che il medico debba efter Geometra. Ne può punto
dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè
abbiamo nelle ſtorie, che gli antichi filoſofanti, tan to biſognevole
ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno in quelle
entraſſe,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l gran Galileo
de’ Galilei, grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda filoſofix
attendono, diſſe; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta: e
quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir l'univerfo; ma non
mai poterviſe leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri, co' quali egliè
Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in lingua
matematica, e i caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 1 >
altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der
umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana. měte per un'ofcuro
laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo
Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in medicina non ſi
foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no calleret, per dirlo
colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne: Nam his folum, nec
fallere, nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit,non eſt
veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis, ac fibi ipſi impo
were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu fica, e altri
nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede; e della Muſica
favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni, quos motus in (piritu,adquas
bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo
Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano; e con molte, e ben
compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti
diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe; ſenzachè, dic'egli, ſe il medico,
non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti
d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co
ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali ſenza ſaper di ſtro nomia,
impoflibil certamente fie, che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non
ſaprei mai comprendere, come ben ſi poſſa medicare, ſenza ſapere, il naſcimento,
e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le,
neceſſarie al meſtier della medicina, le quali tutte la ftronomia ne inſegna.
Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio, come vano, e inutile
a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco Vallefio, dicen do,
che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile,
non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo
ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe. Perchè il non mai abaſtanza
lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo
della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela
ſcienza delle ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la
Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il
ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al
ſaper di quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre
aſſai malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni
de’malije i rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per
pruova ha noc.ciuto, e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende
quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri
aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di
lui della fie ra, e lunga peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta
eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza
dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe
perfettamente egli ſaper dee la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le
cagioni, così d'entro, come di fuora delle malat tie, le qualità, e le
coinpleſſioni dell'aria, delle acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali
turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº
occhio, e diſcorrendo: ma in quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi,
e riconcentrarſi, e in apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni
opera affaticarſi. Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon
damento della medicina; e Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba,
ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico
dal filoſofo non dif feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro
no fia, ch'una operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da
giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti
ricercare, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali;
Raq 2 ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità;
concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai,
come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor maggiormente vi s'interna, e
profonda, e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo, che a ciò
riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il biaſimo grande, che di tal
conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to
il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare, e contemplar le coſe
della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno, il qual ſopra ciò
ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per
* chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una piaga non, effer impreſa da
tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno
davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate: il qual giudicò
fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e ſorelle,giua te, ed
avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma, amendue coſtoro d'un
medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo: Primomedendifcientia pars fapientia
habe batur; ut &morborum curatio, dow rerum nature contempla tio fub iiſdem
auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè
requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione, nocturnaque
vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus
fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e
Democrito, e Platonc, e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco
nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della
Grecia ancor s'avanzaſſero; ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna
ſcuola di medicina, eziandio della Metodica, e della Impirica, eilor più
rinomati ſe guaci, tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia
s'eſercitarono. Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi
noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate
innsós gap Quómo, iostec, cioè a dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un
Dio. E 1 1 quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai poco al baſſo, e loſco
intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto; nondimeno queſto
ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia,
acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi, non aver la medicina certezza alcuna;
e a queſto avendo certamente riguardo, diceva Cornelio Celfo: natura rerum
contemplativ, quamvis non faciat medicum aptiorem, tamen medicine reddit
perfectum. Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene;
concioſGecofaché, ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate, di buoni,
e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già, come a tal
pre gio mai aggiugner poteſſe colui, che coile natural filoſofia la
moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella, cha per oggetto
Panino dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli
effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto. Orcome po trà
il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli
ammalati del corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie? cioè a
dire, ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo, come
da prima, e principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer
ſogliono, la qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il medico giãmai,
fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice Sinforiano Cãpegio, per
tacer altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut ſua om nia bona, ac mala,
velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole
cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor
foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora,
ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale
appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e ſe pure dopo ſi è co
minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara viglia, dice Malfmo
Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così in fc ftella diviſa,
e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar
ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte del corpo. Ma con
quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di quella, per nulla dir
de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate queſte due
profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo, ſenza badar
punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e ribalderie
operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon per altra
cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che
dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli
alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori.
Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo ſomigliante a
un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte
cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè guardando a
tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento,
e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde
compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi
guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e del medicare
dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna
altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli
narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo
grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita
di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di
gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa maggiormente al
mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea
provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno, che ſopra tutto
egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato, e di
quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente
ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano
intendimento conceduto, per venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo
uma no, gli conviene in prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e
l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa
manifeſto è, che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè
della me dicina folea dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora
difcentibus neceffarium. La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici
conſiderando, come pienamente nete ſtimonia Galieno, a ufare i noromici
ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli
dee bene inveſtigare, e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la
propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria, dell'acqua, della terra, della Luna,
del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del Cielo; da'quali corpi tutti continuo
fotti liffime, e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro, e qua li a
dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le
naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e degli animali tutti, oide il cibo, e
imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è
neceſſaria, che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino
Inventum medicina meum eſt: opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta
potentia nobis. E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico
riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano
Poeta E già l'antico Erotimo, chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute:
Il qual de l'erbe, e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute.
Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento
non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς
ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più
luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi
da’curiofi ſcolari vedere: e ame baſterà al preſente per raccorciar la
lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice: chiunque nel
medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto
bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in
ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di
medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia;
concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà
un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del
medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto
errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina
necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il
doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat
pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa
l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine
agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro
præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius,
qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia:
&hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt,
ignorantiæ finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e
faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante
malagevolezzo, che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per
venire a capo. Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti
viaggi nuovi altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra
bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e
biftento giugner ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento,
e mille vaghezze allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire
concordemente, che lo voglia favellar della Chimica, nella qual ſi comprende
tutto il bello, tutto il vago, tutto il maravi glioſo, che può mai operar la
natura,o l'ingegno umano. Ne 10, zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe
cento bocche,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna
menoma parte de' pregj di sì iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei
narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o
nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie
al gencre umano arti dell'agricoltura, del fabbricare, del navigare, della mili
della ſcultura, della pittura, della filoſofia, della me dicina: voi facendo
teſtimonianza della grandezza, e dellº eccellenza della Chimica,narrate pure,
come da effa -i vo ftri natali, il voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac
fte: dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia, age volò l'opera:
Netacete pure, o ultime pruove' dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie
dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra
deOmero, che co’ſentimenti inſieme i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni
potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre
Egizie maraviglie, che tolte a noi dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro
vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati
obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo
invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica; e ne'metalli, e nelle
gemme, cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le
fue glorie eternaméte innalzate. Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta
foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola
agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio,
comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil
meſtiere, va reixnucios χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια
διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης
προσγίνεσθαι τέχνης, μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss
auliceiv. Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente
ſi può ravviſare, che ſenza quella non può Rrr valevolinente operare, ne è da
dir arte ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra lunga
mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina,
nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o più ſicura
guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe, che la vera,
echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una
ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi della nas
tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla; licome
nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti, eivegetali,
e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di
quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano
lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la traccia della
chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò, tra perchè
iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men che ſempre
fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il tutto a quelle,,
che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto
altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che dalle prime, le
operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo malagevoli alcune
di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così ayviluppatou fono, e
infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in generano:: 0 per la troppa
debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle, o per
altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne
laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum
ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam, Nec nebulam noctu,
neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes. Così ancor
vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura, e la
propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli animali, e
de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi errori
inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate,
Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan doſi di
poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più addentro
vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel ſolamente
ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che diè
cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana:
mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad
morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam
ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues,
&indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum,quod
ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur
posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore,
dall'odore, e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o
caldi, o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di
radificare, o di ſtrignere, o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero:
inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu
dicato; e'l medeſimo Galicno, non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada,
oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo,
dal freddo, dall'u ! mido, o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e
l'acetofo, ed altre fomiglianti qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò,
v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta
qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe
dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua
ftigia, che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge,
cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio
manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno
quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel
caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed
ogni altra coſa conſu R.15 2 mano, fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come
dice Plu tarco: e.de'cavalli avea detto Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano
delle Corna degli aſini della Scitia; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas
tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis
agudo E Vitruvio: conſervare antë eam, &continere nihil aliud po teſt nifi
mulina ungula. Machi potrebbe mai credere, cheſotto la dolcezza del miele, e
dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti
pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia
diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo, nel nitro,
nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano; e che nel ſolfo diqua, lunque
ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo, c roditore; e che
nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno acutiſſimo, c aſſai valovole a
rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave; e che l'acqua pu ra, e
ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co tanto inſipida, ritengi un
fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben balta egliſolo in minutiſſime
particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme,
ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole, nel ke lattughe, nelle roſe,
ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e fiori, giudicati anzi freddi che
no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia,
dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i
ſentieri ſono, ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici
s'impreſero: e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di
meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri:
cioè (viſcerando, e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf
notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a
sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per
aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo, ben conobbelo il curiofiſla mo
Ga. for mo Galieno, allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi
d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi, così ebbe a dire: In queſta
coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade, e tenterò di far ogni pruova,
acciocchè poftafi qualchearte, oqualche ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi
poſſano le parti contrarie nell'aceto, ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala
pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto
dell'ar te agevolisſimamente s'adopera. Or quat maraviglia fa rebbe
all'orgogliofoGalieno,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della
medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo
ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto
partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno, main altre, ed altre
molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e
profondo eſa minamento de filaſofi, con dar probabile,e verifimile con tezza
delle lor varie; e diverſe propietà, le tante, e tanto maraviglioſe
operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare. Oltre a ciò lo immagino altresì,
che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la
Chimica, comeche rozza; e imperfetta aver potut?, 11011 đì -ſarebbe certainéte
maieglimaravigliato, come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere, quanta è
nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc.- Imperocchè egli con far di
quello notomia agevolmente,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe,
onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme, e di riſtrignere
pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa. Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me
deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe,
ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni
liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar
non lila fciano: 0 como manchevole, e imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto
avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi
ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor
d'incognito fonte il nila muove, tra per le tenebre folte disì antica età, e
maggiormente per la non poca cura, che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla
a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone
purcon ritegno, e riguardo, accennandola con ignoti geroglifici,c.con
intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e favoloſi racconti inviluppan
dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco mē,che impoſſibile rendeſi a
volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre
biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò
Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina, o pure
alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū quealtra parce forſe più
ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare
eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo,
avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica: novum
effe inventum della Chimica favellando, nec illius quenquam meminiffe ante
Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c
ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino,
pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime
de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio, che aveffe la
Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν
Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ
Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι
και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε
περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ
ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa
che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi può apertamente ve dere in quel che dice
di luiSencca in una ſua piſtola: exce dit porro vobiseundem Democritum
invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua
hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur; le quali parole di Seneca
fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca For conto Scala; in
facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio, che Democrito
nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio
un tal racco to, aggiunto, untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a
Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto, e ch'eglimorto
{ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito; impertanto qualch'
altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a
Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome, da ciò non
puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai:
appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura, las qual
ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora:: e'l modo di coporre
il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino, e l'artificio veramente
maraviglioſo di fabbricare i vetri, e diformar le gemme, e'l meſtier del la
milizia, e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco, e neceſſarie al genere
umano; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare..
Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti
gio appreſſo Teofraſto, ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento
ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte,
e da’moderni inge gni ritrovata. Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo.
ficio, o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere
inſieme i diviſi.. E quantunque ella ſia uns fpezial arte, che da ſe medeſima
reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di cui dipender
debba; non però di meno per li molti, é diverſi fini, in cui gli ar tefici le
loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio. no, ella infra varie altre
arti ſovente s'acconta;, ma in tre ſpezie principalınente è partita. La
primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper
fezione (come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien
chiamata da’Greci aepurunanida, La ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale sì
fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico di conoſcere, e ravviſare la natura,
e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica, che il
mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura
de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie, e
dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri:
e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano, e di
maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa ad un'ora più
felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no,
o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte
da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle
matematiche, o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette; ſe non ſe per
avventura dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità recau alla
medicinata Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e
rannodati ſi facciano. Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo
colui, che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve, così ſo
migliantemente o ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe,
che per maggior profitto inmedici na trarre, di sì fatti ſtudi picnamente fi
conoſce. Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico,
o chimico filoſofante-colui chiameremo, che del la chinica arte, o per medicare,
o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole. Madall'uficio, edal
fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia,
e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne
poſſa. E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede, ch'allej naſcoſe coſe Non
trova ingegno-umano aperto il varco: chi può mai porre in dubbio, che lo
ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da
pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i
naturali corpi ſono: come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi,
comed'orioli; o d'altri ſimiglia. ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le
parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del
la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro, Democrito, e altri
ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che attentamente ſempre
facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo
no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai
ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar
l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello della reſoluziou del
corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito: dicendo, nella
carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il
fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi
noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto, ne in potenza; imper
ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E tal ſentimento dalla
torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali ſeinbra aver aſſai bene
ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in bruciandoſi una pianta aver
vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l fumino, che è aria: e la groinma,
la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e
fievole una sì fatta pruova fia,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto
in chimnica, cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le
ſcioglimento; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic
favoleſche, oltre a quelle, che per la picciolezza in conto verun çavviſar non
ſi poſſono, aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la
cenere, il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti,
che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili
componenti fi partano, ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en
d'operazione diverſi, come quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed
infipida, ſenza altra virtù, falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed
acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe,
non micno il ſapo Sss re, che le che la
virtù tutta del legno: le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili,
ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi
nell'umido, ed una ter ra priva di ſapore, e di efficacia. E corale
ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare,
ma col conſiglio della chimica, poco men, che in tutti corpinaturali adattar
puoſli; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i
ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto, egli odori dal ſol, fo,
e dal mercurio la penetrazione; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo
ritroverà, che i ſemi del liquido, e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o
che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che
il ſolfo ſia d'uncinute particelle, e aggavignate com poſto. E così pian piano
ricercando la figura delle parti celle del fale, è degli altri chimici principj
trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli.
Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia
inveſtigare,come far ſi poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi
tuoni,i lápise le ſaette:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il
ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina: come piovano foventi fiate
pietre, ſangue, elatte, e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le
cagionidelle qualicole, e altre molte, potemo ogo gi col giovamento della
chimica, non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare, ma coll'opere, e
coll'eſercizio prat tico imitare; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel
la fornace chimica; che dagli effetti oro fulminante appel laſi, la quale
acceſa, fa non folo lo ſtrepito, e lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e
la violenza della faeţea; il che fa altresì quella polvere da ' chimici
parimente ri trovata, la qual tonante chiamano. Così parimente raccoglieſi
dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal
porzione di ſalnitro,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che
ac celo li fonde in pietra. Ma di troppo più tempo avrei bi fogno ſe voleffi Io
far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per
addietro, e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro
delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne, e manifeſte.
Perchè non è forſe dadubitare, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia
degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo
le huom ricevuto, che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e ben lungo
vantaggio tratto n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella, onde
Platone, e se nocrate volean, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro,
che della Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio, Suida, ed
altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole
ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè la chimica
fola il più certo, e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia;
edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e diamantine porte
differrar in qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi tefori deita
natu ra fon riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente
il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza floſofi, e
ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per
diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la
medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e
ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca
lommamente abbia luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure
coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli
antichi ſapicaci ravviſar non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi
pure per quella il vero movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non
s'ingeneri nel fegato, o nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi,
comemo derni porta opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina
Aristotele: c ſappiaſi anche, che il chilo tragittiſi non per le vene
miſeraiche, ficome vollono gli antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo
dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue
trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio, che vi ha le vene acquofe: c come, e
per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento,
e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de
qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi
altresì volentieri (il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la
notomia già all'ultima mano ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia
quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non
per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella
perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante
fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del
corpo umano: utiliſſima certamente, anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non
baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare, e mandare avanti una
verifimile razionalme dicina: per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro,
ele probabili ragioni delle coſe, non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice
racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo
umano quel medico, il quale non potrà render ragione della natura della
generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo, degli umori
acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c della
propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare
impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per
virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli:
ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli,
uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia:
perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben
filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co
argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente
ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili ſi
traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo, & unifor me licore, che chilo
appellaſı; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi
trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento, e'l ſuo calore, cioè
aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento, over disfacimé to
decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene razione della
bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla trasformazionedel colore
nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e altre ſimili coſe; la
continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue: al fervore, che per la
formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve. getabili. E cotanto montano
per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo
intor, no alle malattie, a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre
faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi,
fe minutamente les dette coſe, e molte, e molt'altre per virtù della Chimica in
prima diligentemente non s'inveftighino, le quali tutte lungo ſarebbe al
preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non men utile, non men giovevole, e
neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le
egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua,
le piante, e gli animali, eimine rali corpi, attentamente poine ſpia, e ne
conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e di qualunque lor menoma parti cella
le propietà, elevirtù, ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e
ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro queſto, che ciaſcun di noi, e
tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda, penctra, avviva, emantiene,
valtiſ fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e ſottiliſſimo cor po dell' aria:
la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate,
e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem,
plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma di varie, e diverſe ſoſtanze
compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora,
edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da
altri corpi superiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla
reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè
nelle cimedegli altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e
della terra, gli animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le
malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris
Corrupto cæli tractu, miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque
lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe
aſſai malagevolmente per certo, aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe
non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti.
Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens
denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la
coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi
fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif
ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui
nel mondotra noiſimuove, & fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui
l'aere non ſolamente agli animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria
eller li conoſce; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli,
allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re
Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena
vigare; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti
giù quelle ſoſtanze nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma
l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole,
quantunque chiariſſima, e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli
proccuri; e che al fapore, all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali
ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe
foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì
fattamente acuto, e pugnereccio, che JEI che di nulla ha che cedere in forza
aque'ſali,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie,
comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e
oftinatiſſimo mai ſempre contraſta; perchè è dacredere nó bene operar coloro,
che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo, e maffimamente di piomboagli
ſpeziali permet tono; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di
quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a
corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che
ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte
biancheggiare, quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non
diſtillara acqua ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi
Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì,
e'l mercurio, e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo
medico, e chimico filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e
tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria
d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura
cagione agli Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte
coſecreate, da'quali tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα
τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι
τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG», καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege
TyIwTHEY, E’I noſtro poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il
medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima
della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele
coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta: & vanti La reggia, ei figli
ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica
L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc
Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius
Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli, come
fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde s'ingenera
l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come riferiſce
Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare
ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi, comc racconta
Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe abbia voluto
eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e,
forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili
del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte
d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che l'ac qua. Ma
non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre, c con
attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra tante, e
tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di minerali'
ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria,
o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di malattie ſovente
cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle gravisſime
febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi
fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano, ſe non
ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro
corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e ingozzati,
ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime
malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu
gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle occulte miniere
della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute; concioſ
fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ravvifarido,
come alcune ſoſtanze, le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento
per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno, come nel
ſolimato ſi vede, del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente
offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti
mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor.
po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle
mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E
ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir
le malattie di cambiamenti d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali,
ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti
velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre
febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi
tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti,
fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed
abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte
cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi
addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial
febbre, laſciò vuoto, e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non
ſolo della Campagna Fe lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è
egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con
l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e
de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero
egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta;che i
ſapori, e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali
della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi
de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono,
che poſlan ſempremzi ben comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per
iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermetica notomia, la quale partendo i corpi, ed
eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma
nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E quale avviſo
potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a
que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a
que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá
ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper
pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale
argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche.
rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la
lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere,
cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele,
e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al
guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il
motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato
altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan
tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil
Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o
Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è
caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele,
e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli
agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con
darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon
derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro dicimile:
Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin tanta
dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, & ad
extremitatem ducuntur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale.
tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile Corroſivă
peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato, e
ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della
natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch '
accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua
mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche
agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace;
e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre,
e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi
volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere,
che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del
mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce
comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente
elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le
operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente intende
Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il
Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non
poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la
cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a
colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè
a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ
cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus
id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo
tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur:
que quum latuerit Ariftotelem; & Galenum, meritò in Aris fotele
admirationis cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem
abundantior, quo vinum craf Ttt. 2 pius eft. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe
meglio inteſo nelle faccende della chimica, aurebbe certamente una aſſai più
veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo
ſpirito ardente, che giova anzi che no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo
nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito
ardente egli è il vino groſſo abbondevole, e copioſo. Ma intorno alle fattezze,
così dentro, come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le
vir tù dc'ſemplici, non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo
tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal
Paracelſo, e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e
averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to
de’ſegreti della natura intédente Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno
certamente ha, che con maggior diligenzas per quel che me ne paja, e più
felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo
Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo, non però
di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare.
Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto; imperciocchè
negliannidell'oro, e nella felice etade, quando i pomi, e le ghiande Eran del
corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la germogliante medicina
ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette vivande, i me dicamenti
ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo, e
comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per
avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre
per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè non ſi fapeva, o
non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona ſeparare, e anche per
chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte medicinal He rimaneva,
qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giunſero valevole ariſtorare i
mancamenti, e i difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco
nocer potef fe; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente
avanzar nedovefle. Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme,
e meſcolarſi i medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta
to la biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon aveſſer
quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina
tota, con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la
medicina, o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo inſieme
una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo,
e inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più faggi, e
avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come
d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την
ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και θηeμακα, και τα από γής,
και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy, og
díxua, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε. ΜαEragrafo biamo ol tremodo
l'indiſcrezione, e la curiofità di coloro, che i minera Li infieme, e le piante,
e gli animali, e ciò che mena laterra, o naſce in marein unomeſcolarono; che
più fennd af'ai avreb ber fatto, fe daparte laſciate cotantecoje folamente
co’farri, colle zucche, e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter
minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum
capture officinas invenere ifas, in quibus ſua' cuique homini venalis
promittitur vita. E chi non maraviglierebbeſi di tante, e tante coſe, ch'a com
por la Triaca, o'l Mitridate, concorrer debbono, dan ftancare i ſpeziali,non
che a raccorle,maſolamente in leg. gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove
il medeſimo Pli nio, vocatur excogitara compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex
ternis, quum tot remedia dederit natura, quę fingula ſuffi, cerent.
Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interin nullo
pondere equali, & qua. rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata. Que
Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum enim fubtilin tas tanta effe non
potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci
riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim
perciocchè nel comporgli da prima, e nel lavorargli non con avveduto, e ſano
giudicio certamente adoperarono, ma a riſchio, e a caſo alcune di quelle coſe
togliendo (che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb.
bono anche dell'altre, e forſe con maggior ſenno, più ef ficaci aggiugnere)il
tutto e nella ſceltage nel povero,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente
alla ventura riniſero, non guardando minutamente comeſi richiedeva, al valor di
quelle, ne punto efaminandole. Impreſa per molti ca pi malagevol troppo, e
quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi,nel diſporſi, e nel
formentarſi inſieme i sé plici,varj, ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne
foglio 110; iqualicertamente non è da dire, ch'aveſſer mai que primi
ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di
Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa
meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli, così nõ meno il caſo an cora
ha parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante
compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte, e graviſſime malattie
fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia, manifeſta coſa è poterſi
molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole piante medicare; la qual forte
di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di varia, ed eſquiſita letteratura:
fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam illa confuforum miſcellanea
compo fitis; magno mortalium, & difpendio, & damnointroducta. £ noi per
tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur
fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil
Caritrero, famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le ſemplici piante,
non ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del Braſile,iſicome
riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis
fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli abitacori del
Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los Indios fon grandesberbo-,
larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi non hay enfermedad para la
qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven muyfanos, y cafi per
maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma: ed in quel va
ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete ſtimonia il Padre
Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi medica tuttavia, ed
aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente come la natura delle
ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta, Nam varieres Vt noceant
homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi federit; at fimulaffis
Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in bilem vertent,ftomacboque
tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia? quin
corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo
divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e non compoſti medicamenti per
riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit, diffe, ceraia, malagmata,
emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina rerum artifex: officinarum
hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè la coſtuma de’meſcolati, co
me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata, che per legge è
quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli
ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol cofa egli certamente, anzi
neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e degli altri piena, e ficura
contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti
medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o quanto farebbe
egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po • neſſe in
opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo, e
per la loro ignoranza il tutto traſcu rata:
1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno lavoraffcro imedici qualche
medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do ſolamente in man degli
ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di
Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio, Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi
medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole, e
aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede
fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi, come e'medeſimo
ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora, il meſtier delmedico da quello
dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid
cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre
imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine ſolebat:ene'répia noi più
vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati
molto ſi foffero, e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro:
come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente
ſi può cópren dere; a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono
nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi
fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato
pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin
mamente coloro, che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne
dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice
Primeroſio, remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis;
præftantior igitur medico erit remediorum natura: quare ea præparare,
&componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero
egli è queſo un meſtier sì nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag
gior lieva, e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in
diſpregio, anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a
conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee ser
deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini
l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio, e avveduto egli ſia ',
porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene,
uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli artifi cj, co’quali ſi
compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di quelli dal niodo
dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar
de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e
tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che
chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba
alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato, ebazzi cato
con gli ſpeziali nelle botteghe loro; & quidem exifti mo, dice anche Pier
Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum: alioquin
fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari
tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica, quanto
al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe; poichè ſi
ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico
non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re, come potrà inai
quando meſtier glie ne ficcia, o colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o
conoſcere al meno, c riparare aldanno, che quelle aveſſero per avven tura
cagionato; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero, raffermare i loro
sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo
miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico,
ſe non ſe intendentistimo della natura, e delle propietà delle parti,
chic’lcompongono, e degli effetti ancora, e del mo do del loro operare? E come
potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una, o d'altra malattia; e
divi. farle ſtagioni, e itempi, in che fan da dire, c alle conj:
pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli? o comcpotrà mai
loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità: 0 temendo di
qualche riſchio rin Vuu tuiz Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la
troppa violenza, o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di
preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi, che ſovente ingenerar ſo
gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti menti del medeſimo
Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui conoſciuta in priina, e
manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli
effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto Galieno, re: qualche
contezza pur delle chimiche medicine, comechè leggeriffima, gli foſſe
all'orecchio pervenuta? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere, e
malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio, cavvedia
mento maggiore; e non che piane,e facili, e ſenza trop po riguardo giudicate
l'avrebbe, ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo più, ch'a popolar
medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla
ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a
coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a
funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im,
perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri
lor ſeguaci, che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero,
comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti; ne dalle
rego le, che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne
alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal
medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè, ficome è detto, in quelli
ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri.Ne quelno biliſſimo
pronipote del gran Re di Damaſco, Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica
medicina, e in quella di Ga lieno, maſſimamente intorno alle purgagioni
eſercitato, n' avrebbe mai conſigliato, cſfer ſempre da leggere, e ſtudiar
ne’libri de'fapienti (cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe
giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci
apparare:netanti, etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di
Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. qual legge ſeguito c, con molta fatica
ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono. E licomc
ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére
eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella,e ſorprender Città:dimine,
d'archibugj, di bombe, d'artiglierie, e d'altri nuovi, emoderni ſtru menti, ed
ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir
ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro, e intendentiſiino di
quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando, o per offefa, periſcherno
da adoperar ſiano: così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro
compiutamente quanto mnai nell’: antica, e volgare fcuola diGalieno apparar ſi
poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono; ma egli fa di
meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la
maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata;
imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa
çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo
orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura, e alla cieca andando, a
manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento
dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa ſci mitarra
diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor teme, e trema
l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue
glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine, dice a noltro
concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut (quod deplorandum
magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no
verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo l'infelici pruove
per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come
l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo dico,ritornato in Damaſco
fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e de'fanciulli. Ma tanto più da
piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull liioc ſciòcca tracotanza
dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc
ſicure, e piacevoli quelle ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati.
Così il dotto Galieniſta per altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo
ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no
aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento
apparato; che ſe egli dal Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro
profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e
pienamente conoſciuto come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia,
certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel
medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha
guari un credu to, e molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi
gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente
eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto,
infelicemente ſtrago Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo
di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e
molte perſone morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la
ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo
dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne
giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo
con ritegno, e riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta
con acqua, o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte
co minciapianamente ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del
ventricolo, ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al
continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et
leviter quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem,
atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia
cevole ſi ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa
525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l
vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in
medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito
vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem
angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che
comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia
veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più
groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a'
grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè
faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto
fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di
Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando
la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del
fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger
fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e
funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne
cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che
quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe
antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne
potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del
vetro, o d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio,
abbia intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar
dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar
dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più.
Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del
fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo
fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro
dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a
nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella
digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi
Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del
Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo
certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici
in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi
per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e
trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie,
eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così
aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora
la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro
famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì
ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma
latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente
filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi
i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più manifeſte di
quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco
affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi certamente
ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato
Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica
va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire: e
ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti, che il Macſtro Simon fi faceſſe,
quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari
ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro, cujus fi granum
unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas, bombardam minorem fonitu
aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia;&contradicendi
ftu dium; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus
evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſam refert: dignum certè hac patella
operculum, & hoc philos fopho hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere
eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi
volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica
ſon propi, e che per opera diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi
compongono; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi
conviene; che co me è già detto, così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg
giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re. E
concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare, e
d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi, che per regole d'ordinaria medicina
non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente
per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto
ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti, detti ſpecifici, i
quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e ſcioccamente lavori, e maneggi
chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato,
e intendente affui; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina,
così brevis ce ſecche, ecalor confule, e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano,
che per im broccarnela quantità, o'l tempo, o la maniera d'uſarle, o le
malattie, nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad
intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente, e ſenza fofpetro
alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic calora, dove lor faccia meſtieri, con effer
in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti; e per quel
che permeſſo ad huom ſia, con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc. Cofa,
la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me
dicamenti naſcer poſſono, pur troppo è a ciaſcun manife fta. Ne è già punto
maraviglia, ſe gli arditi, e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente
inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno: ſe come è detto, anche
nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per
l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente, a’quali dan nomedi
virtù occulta, cioè a dire di ragion no conoſciuta, e non punto da lor compreſa,
credendo così la lor groffezza, e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma
d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi
puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura
dc'mali, e le cagioni, onde avvengono, ſicome con avveduto, e probabile divi
famento fortilmente ragionar ne ſanno, così con loro no bili, ed efficaci
argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano, degni
d'immortal gloria, ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià baſtevolmente
dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica:
a divilar de' chimici medicamenti, e quanto ſovente ne lian neceſſari.
trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e
ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo, pur dubito, non alcuni
dannā- ) do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano.
Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere
mancava? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il
vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per, ogni
menomacagion le vene; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti, e
altriricroyati di barbare, e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e
a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento, e la virtù
di ravvivarlo, e di riſtorarlo alle liquide: uſar le ſcamonces, gli elaterj, le
colloquintide, ilatirj, i pepli, gli Elleborin, iTurbitti, iMezerj, le ſquame
del raine, le pietre lazule, e tante, e tant'altre forţi di nocevolislimi
veleoi più ches, di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina, ſe non
vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati, i
mercurj divita, 0 Alcarotti, come altri gli chiama, i verri, i fiori, e altri
cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio,
o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande
Iddio, che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodotta la medicina; o almen, che
non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata, e delle nuove, e
ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta: che mé malcerto
ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per
mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e
ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te; e
gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina a gara per imprédere
un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici
ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente
correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco
Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato,
ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte,buo
giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che continuamente e' manego
giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe
eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto. Così anche a
' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli
ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri minerali do po continuo tremore,
ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi malattie miſerabilmente alla fine
morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui, che quaſi cibi inno
centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole, e dan noſo è l'avergli
ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo
i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli ſpogliare, e di rendergli benigni
aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni di quelli (e'l confeflano comechè
mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli, e ſpotſati, e di niun momento
dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e parecchj (coſa la quale certamé te è
peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in
prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano, rendegli la chimica col preparargli
non altrimenti, che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali.
Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti, e quanti nel tempo della paſſata
peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel
velenofiffimo ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano,
pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e
co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura
dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet
medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla
giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di
chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i
quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie,
e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della
loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot
tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come
con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo
peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi
a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti
tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi
ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me
ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli
ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel
vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo
dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti
proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti
arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore,
e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie
re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor
più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte
querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la
Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente
adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e
troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri
ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole,
da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa
lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i
misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E
parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a
tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te
degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo
dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de
Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar
la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della
noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina
tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè
dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano,
ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi
riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento
umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici
da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati
masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra
baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo
vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium
culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun
de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita;
perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni
medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati
affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè talvolta pur alcun di
loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL. già per altio, e permalayoglienza,
maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur male a noſtr’huopo comincia tal
volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa, o vera, ch' ella fiali, che
roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla
bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che
vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia, anzi tal volta ſenza
ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia, volentier la s'inghiottono:
& fepè etiam quod falſo creditu eft, veri vicem obtinuit. Perchè
poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico, che non che viſitato
giammai l'aveſſe; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per
avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico
ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici
maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni
da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici; e pure
quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine
del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw
parte qualunque altra cagione, folamente i chimici medi camenti s'infamano;
maſtimamente per coloro, i quali nul la fappiendone, come di nuove, e non
conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono; follemento mai ſempre,e in
tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito:fuper omnibus
negotiis melius,atq;rectius olim provisü:et quæ cuvertuntur in deterius mutari.
Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e
invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe,
intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e
comunali medicamenti talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo ignorante teme;
dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine,
comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ', tantoſto alla cieca, e ſenza
tema alcuna le fi tracannano, volendo pertinacemente anzi che
a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora
ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono: non che ne
ſapeſſer mai le qualità, e glieffetti, che ne'corpi umani quelli adoperar
ſogliono. Non niego però, che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer
agevolmente creduti, eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino, quando o per
ſoverchio dicompasſione, che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover
gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare
i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca
géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i
mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la
creſcente malattia attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti;
perciocchè Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas
invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e
alla cieca gli ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e
cacciato il Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner
veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl
egli ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente
altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così
non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co
tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli
medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non
foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già
reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir
puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna
briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti
dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte
delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di
quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha buon ز occhio, buon vifo;
buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon toffire; Queſti fon ſegni, che
non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro
onore, S'egli ufciffe lor vivodalle mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e
more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare
infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi
Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p
altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e
quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a
prender cura di malagevoli, sfidate malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar
titolo di cattivi medici; e anche avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui
fervari nonpoteſt, non attingere: nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi,
quem forsipfius peremit. E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne
conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro
niuna ſorte dimedicaméto, per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea
torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati
di minor riſchio giove voli ſono. E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet
ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare;ne
hominem occidiſſe, quifua forte interitu rus erat, exiſtimetur. E che direm noi
di que'chimici medicamenti, che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano,
che dichimica, ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre
ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi abborrare i rimedjchimici,
cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime femminelle uſar pubblicamente
ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te
li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali, e da’medici per
diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor
s'imprendono, e teme ruri. rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli
ordinare, e lavorare alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager
Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant
fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri
tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio:
certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le
famiglie, non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola
doperano; non altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia,
non n'è lo ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano.
Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti
chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa
luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il
medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello
infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal
ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto
tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando,
Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne
veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in
corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante
volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le
roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę.
dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire
ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento,
e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne,
qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola
l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 51 na;perciocchè come
Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora
ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc
chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio,
che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e tenere a bada la foga del male,
ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine,
masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si
oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli
n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello, ir
malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat, porrigaturque
in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così parlavano que'buoniantichi,
che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le
cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj
valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni
tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo, ſenza ſtarſe
neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo, che non è dalla natura
forſe per venir giammai. Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto
abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato, e quaſi abbattuto il Bor
go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le
purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique'
poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti
ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé.
za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il me deſimo anche
eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta
all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e di
riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé te
il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti
d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in cui fian
crudi gli umori ſex 2:2 en za enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft
magis peri culofum, quam immatura medicina,comechè non medican-. te, avviso
Seneca; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in
queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo
dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce
maggiormente farſi a conoſcere il danno, che dalle purgagioni, oltre al
convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo, e di maggior riſchio fiè il
male; concior fiecofachè nelle lievi malattie, che molto non piggiorano dal ſuo
naturale ſtato l'inferino, poco nocimento ricever, certo egli ne foglia;
perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì
poco cagionevol della perſona coluinerimane, che nulla il medico quan tunque
accorto, ed eſercitato Gali, comprender mai ne puote. A torto anche vien
biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a
baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine
dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna, o s'altra
al mondo è più vaſta, e più folta ſelva,tã ti alberi, tante belve, quanto
ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a
loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra,madagli animali anco ra, e dalle
piante abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè troppo ſcarſa, e mendica pur
ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza; perciocchè quanto cuopre il Cies: lo,
abbraccia l'aerc, nutrica la terra, e'lmarchiude, tutto alla Chimica
giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali;
concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi
vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c gli ori, e le gemme, comcchè di
queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi, non già i
inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra, c tronchi, e frondi, e ſughi
di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante, e anche tutte parti ſalde, e
diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica
538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e tante guife ordina, e lavora.:
Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi,e s'affarichi, è
per huom da tacciarne: anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico;
concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti, comealcun di loro follemente
ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi
all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai
manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente, e fenza niun
ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe meſcolati
l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei:
maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama
del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a dar per
bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il
mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri
ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime,
ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi
fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe
egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano
fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma
de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle
chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun
preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe
divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre
ſalucevoliſ fimi antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun
di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l
precipitato, e'l ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e
da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi,
che gli compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali
medicine, avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539
noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto
quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere,
che ciò non, lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati,
ci ſolimati fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad
operar mai ad uſo alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona
ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè
ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli
giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il
qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo
veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti
à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe
Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant.
Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà ciò
darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi eſſer a
parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila
pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le pietre
giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma lo per
non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio là
dove d'un cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli
al ſuo Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata, ideo
quia non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque
pleraque. Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed
quotidie agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis
viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in
fixa; mineralia figuntſpiritus, purificant, & exaltant. E prima di lui
Avdrea de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã
in chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo
vena rum ambitu corrupta eft, & referta multorum morborum fe Yуу 2 minariis,
tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi
faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che
di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che noi baſtantemente altrove dicemmo.
At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi
aggrediuntur, ii ple rumque re infecta cummagno dedecore, & fui, &artis
me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di
GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi
Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis. Et fanè certum
eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt, metallicis fæpè,
&malè præparatis, & malèadhibitis uti; verum ut jamfupra dixi mus,
eadem eft materia, & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm
Chimici, quàm vulgaris; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui
dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne. Nonne maximè probanda eft ars
illa, qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata,non integra
exhibet? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e
nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente
veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo, elfal comune alla
giornata ufarli, e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi;
i cui fumıni certamente, come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni
fono. Pure non è coſa cotanto utile, e gio vevole al genere umano, che
nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem.
Igne quid utilius? fi quis tamen urere tecta Cæperit, audaces inftruit igne
manus. Eripit interdum, modo dat medicina falutem. Le ragioni poi, e le
teſtimonianze dell'Eraſto, del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han
canto dello ſceno,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano; e comechè per
mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica,
e ſozzainente lacerarla, e quaſi metterla 1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541
1 in fondo; pure non han potuto far sì, che ſtretti talvolta dalla propia
coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente
approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta
acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico
tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla;e la ſcuola tutta di Parigi pur
la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada
tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto,
ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero.
Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le
péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi
co Torqueto, e l'Arueto, e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in
medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo, e ben parlante Libavio nella ſua
Alchiinia trionfante,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie
dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë,ut nihil amplius
addi polje videatur; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il
ſottiliſſimo Borricchio, non men celebre, che dotto let tor di quella, nella
famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del
Corringio, che nulla più. Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi
in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui
vennetenuto il loro divieto; poichè non men,che prima in Melano, e altrove le
genti tutte l'adope rarono; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi
Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è, che il
mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del
medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio, che alQuercetano, sì bene ſcorto
nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto
ciò ravviſare. Ed è egli pregiato l’Alca. rotto, eziandio daʼmedici volgari, e
Galieniſti, e per buo na, e giovevol medicina per tutto ſtimato; ma pur ſi vuos
le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi
dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai;
perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo
at cuno preſo, certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta
ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il
qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone
trangugis to ſoverchiamente, con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente,
certamente nemoriva. Ma di ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il
medicamento, ma la follia più coſto del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e
più quella dell' ammalato, che alla cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra
caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì
fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno; e come
cantò colui Velperfectèartem diſcant, vel non medeantur; Namfialiæ peccant
artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta, eft plenapericli, Et
fævit,tanquam occulta, aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte
conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di
quello, ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio, che da
alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della
medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana; e nuova ſorte di minerale di
variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba, che ragionevolmére
alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo
meſcolanza, che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co
pongono, non eſſendo potuto alla debita maturità, e per fezion di inccallo
pervenire, così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura
', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che
per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui
notomia, in tante, e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i
più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo
molci, e diverfi argomenti, e ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro
avviſo ricreduti ſi ri mangono. Ma perquanto col noſtro intendimento com
prender ne poſſiano, due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una
fiffa, e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e
ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici
filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo
dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa; perciocchè no filla,
mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè
potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara.
Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual corto più, che
ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto ritiene;e as
queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori la violenza
attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi alcune parti
arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi
ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra,
la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella inſieme,e con ſue
particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c
delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato, che pur ven’ha:
a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò, che tanto all'uſo, e
all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito,
ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole; perchè ne Galieno
medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară
mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi
Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva
dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così temperandolo
ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno, che del me
dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai purgare, ſono
le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi altrettanto
di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri,laſciandoall'altrui
diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ
xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και
είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai,
comechè leggiermente, ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio.
Nicolò Mirelio poi, it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri
cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù
famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli
del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio
ingraſſavanſi i porci: e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra
abbiamo, che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al
peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone; e in molte
contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in
quantità d'unanocciuola, ſenza danno, o noci mento niuno, e'l chiamano
volgarmente allegra cuo ré; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie
uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati;
e nella Francia, e anche altrove, l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure
di ciò pie namente inteſo ſi racconta, fe donne tout les jours tout crud par la
bouche fansaucun accident, emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on
le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre
la verolle, &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour
ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da
quegli intoppi, c da'legami, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le
nocevoli particelle dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe
nicali, ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a
ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere
quantenoje, e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e
diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde ancora del
corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo,finattanto,che
colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi
dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti monio, cheſenza niuna
preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare; ſenzáchè'talora nello ſtomaco
di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che ſciolga da’legami lalparte ve
Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera, parimente può ciò fare; e quel'è la
cagione, che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà
dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di ciò, ſe per opera, e argomento d'avve
dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno
neſia, certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni
peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e acconciamente, e con riguardo per huom ſi
dea; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente
ancora diſſolva, e miglio ri, e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e
cattivo così nelle falde, come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il
che certamente a niuna altra forte di medicamé to, o purganre, o vomitivo,
ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat, dice il Zuelfero, ex
vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum periculoexhiberi pifit, quàm
aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam enim tormina ventris,
convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium colliquativumcauffabit, etiam fi
frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta malagevoliſſima impreſa,e difficil
molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile affatto ad artificio umano; perciocchè la
parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella, che muovelo ſtomaco a recere, e
ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può
in modo alcuno accutare, che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non
abbia gravemente a nuocere. Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or
in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar
ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare, e ftraboc chevol riſchio, che
agevolmente vi ſi corre. E quel ſapientiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e
nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea
dire: Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft,
venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i
fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l
gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per
cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario
vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e
cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per
qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato
aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie
me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente,
e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro
Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il
biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato
ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi
ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con
apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice
Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur, perniciofum
eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem,
perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat, evacuetque; quod ego
probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri
fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum hic antimonii
fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo medico, e
Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice, che
comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam
fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim
quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes
infafionis, eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes,fubito
efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur
gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia
temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve
fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque
rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione
del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza
riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova
quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un
tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la
ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente
che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio,
ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio
col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion
certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno
manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali
ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il
Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione,
lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e
a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come
cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così
il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod
ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, & arſenicalem ipfi infitum quě
nec à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus
concutere, ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat
periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i
fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z Mai Regolo anche
dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione
Dioſcoride,e Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello
altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato
per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio. E ciò anche a'
Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto; infra’quali il Priineroſio,così
dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii malignitatem, qua antea fub
terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo: fed quum omnes pravas, e
horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum indè confeftum
perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico
amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo,
così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus toties in
obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus confectus non eft,
ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris.
Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt àvulgari; quamvis
etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il gruogo de metalli,
col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in
tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no, perchè
ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano, e fpezialmente
l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens
violento, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma
perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio
ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la qual certaméteè quella cheare. cer
muove, ben li può di eſſo dire, che comechè per ope ra d'eccellente, e
ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe, pure pofftan
dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee
l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun ſiniſtro avvenimento
ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne fogliono, Ed havvi
un'altra malagevolezza nel gruogo, imposſibil quafi a ſuperare; perocchè
quantunque con la medeſimas proporzione del nitro, e dell'antiinonio diſpoſto
fia, c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta
più;o men vigoroſo ſortir ſuole, e sì da ſe mede fimo differente, che in dubbio
ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto, e
ſperimentato che l'Artefice fia, potrà maicome, o perchè ciò avvegna
baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora
uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli, perchè fi rompa qualche apoſtema
dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo: o che tra
per la violenza del vomito, e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra, e
ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere, e
dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di
veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti, e pugnerec cj, o
d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento
s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli
de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure
così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto
n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande. E comechè
di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città; purs
baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno
Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role: Huc referamus hiſtoriam, quam
mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm
macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft
obitum vocatusaperuerat. Nulla com paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm
in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò
maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis
copia promanaret, dorfo.cultri inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret
deterfit: boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo
pare Ragionamento Settimo parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa:
cuticules 1. E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir
fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i
Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje, e
ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con toglier agl'infermi
miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo.
lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed eziandio da
altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli, e innocenti
tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia fumpta omnia
pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia;
perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella Callia, non
che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine;
perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora
gli effetti medeſimi dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in
favellando pur della Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem
nimirumillum alui. E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo
parto dell'Antimonio, non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il
Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio, non
dell'antimonio. Ma egli è ſenza dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo;
e fe guentemente maggiorinoje, e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte
maligna, e velenofa, che in eſſo preva le; perchè men certamente agli
ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo
co tal vizio perarte.correggere, e ammendare, e più forfes chc da'volgari
maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato
ſia, temer fempre, e fofpettarne dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come
Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi
ingannar ſuole, o nulla, o ſoverchiamente operando. Ma non perchè dannoſi
talora, e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla
medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire; conciofliecoſachè ben an che
fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di
nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini, e alle donne groſſe, ficome
agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini, delParacelfo, e dell?
Elinonte. E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi
medicamenti, ma innocenti però, e piace. voli e di qualunque veleno
difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda
chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica, que'po chi inedicamenti, che
vanno attorno; come il belzoardico minerale, l'antimonio diaforetico, e altre
ſomigliantime dicine, nelle quali comechè attutato affatto,e ſpento il ves Jen
ſia, pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non
ſogliono, anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime
particelle offender giammai, ne ad huomonocimento alcuno apportare; non
altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni, e nellolio, e nella pietra
focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano,de'quali il concorſo, il
movimento, la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco. Eben diſs’Io non
effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia;
concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco
ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza, i quali il vigor del
veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua
primiera,e natia fierezza. Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio,
il qual vuole, che l'antimonio diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice
terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar
luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e
che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto
fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente
in altra maniera n'aurebbe favellato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia
veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del
Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti
talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi
puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer
nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri
vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per
avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla
loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole
violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli
alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua
uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e
ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo
de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto,
ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi
ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre
cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò
manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e
dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni
verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono
però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e
falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi
della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha
ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro
medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici
dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis,
quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum
eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus
calor adhibetur. Sed præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai
acrimoniam, mordacitatem omnem deponere. Etcertum eft, egli poi
ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, & fero ciſſima medicamenta edomari,
& plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca.
Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e valoroſo Galie niſta, e
d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le
colloquintide, gli elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi violentiſſimi
medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina, i quali già ella più
forſe ad offende reinteſa, che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có
trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della
Chimica raddolcito il natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios
præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della
natura cotan te volte da noi, coniechè non mai a baſtanza commendato Gio:
Battiſta Elmonte: aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum
vim, intelligo rerum vires pri ftinas manere debere, infui radicem introverti,
vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes
clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione additaperfectionis.
Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem introvertit;
emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix egregia. Id
enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit; filuit tamen,
vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium, &vegetabilium venenis
per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia
prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio, di
cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe: Generata naturalia inferiora
loco durioris compaginis conflata, & alta magnifactione, propter duritiem
nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio.
Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere, utilisſime molto, e
neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche
medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli
operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon,
te, e'l Paracelſo, ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine? Eglino
certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo
de'inaggiori medici del mon do: e per queſto ſentiero in tanta altezza di
pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no
medimonarca della medicina. Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi
de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne
la parte inutile, e nocevole, e ſerbar folamente pus ra, e intera la
medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di, e le qualità del fuoco, e gli
ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare, e'l tempo, e l'altre
circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro faggio, e avve
durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e fanno dal vino,
e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri,
e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo, e
ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar dipreſente ripa ro alla
mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli
sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori; in cui convien
di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere. Nea ciò fare al tro
che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte; perciocchè a’ınali
gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari,
e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno
poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte ſtupidito il principe degli
ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis
malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia,
auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante dell'arte, la follia del
preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca
de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo, Chymica
enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur miſtis
tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad imum,
radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco
penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E
quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin
del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati,
econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel
liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e
innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della
Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie
fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum,
quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co
raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col
poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi?
trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti
lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che
chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di
tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della
medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender
lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè
quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun
medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo
guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi
medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo,
e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio,
etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe
allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi
della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor
famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i
Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e
riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero
in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi
vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora
di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente
idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo
conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui
cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro,
coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi
lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui
num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut
rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, & à veneno, &
feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere
didicit; eaque imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la
cagione il Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare
agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum
ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo
rio de' grandi antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico
s'appartiene: perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il
ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il
commetteſſero:Io non lo comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche
medicine impor ſi debba; perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore,
ed efficacia fornite ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e
intendiméto richieg gono, che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo
antidoto, che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione
malne ſortiſce, aſſai più certamente ne può di danno, e di nocimento avvenire;
imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati, e
pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi
commetta, graviſſima certamente, e mortal rovina ne può ſeguire. Perchè
l'incomparabile Resnato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua
diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit celfitudo ſua, quod non luerit
Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires
comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum preparatione, etiam quum optimè
fieri creduntur, variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re
media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a
fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani
mutamenti avviſare, che alcune di quelle, eziandio ottimamente compofte, e
apparecchiate far fogliono? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità
dell'antimonio diaforetico? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo
Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo nitro, aut addito etiam tartaro
præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum pravam, da quaſ maligram induit
naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis anguſtias, lipothymias, vomitufque,
& fimilia prava ſymptomata pro creat. Come potrà egli mai d'altri
medicamenti comedel gruogo del metallo, comprenderla vera, e giuſta quanti tà,
ch’ad ammalato ſia da dare? la qual certamente non da altro li miſura, e
conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti
arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta: e quella ſenza dubbio comprender
non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e per pruova, con far ne ſaggio in
darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite gno in prim?: quindi a poco a poco
andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi
pervéga: oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti, che come di
ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione, e qualità de'ſemplici,
cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano, pur diverſame te o più, o
men vigoroſe, e valevoli ſortir ſogliono; in torno alla qual coſa non è tempo
ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe; ma pur come potrà
egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima
ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate? co me poi diviſarne agli ammalati
i medicamenti, lenza pun to conoſcergli? Ma 558 Ragionamento Settimo
Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono, iquali eglino
nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più
neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon haluogo al medico
cur ti rimedj a ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di maggior
conſiderazione, e di maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo ſolainencei
medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui
per pruo va già in primaconoſciuti dattanco; eſſendovi anche egli talvolta in
fu'llavorio per maggior ſicurezza, quando la biſogna peravventura il
richiedeſſe. Ma convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto dalla mente
miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro,
che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i
libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza
riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi
d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è peravvétura
purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e
feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro
laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico,
e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes
Damafcenus in herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di
impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela
bereelementa à fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt
aërem, ignem; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia,
& fecres ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere
Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum,
ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum,
&patentiffimum eft falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum
prima aqua dif folvere cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut
docent fapientes. Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo
maeſtro, c compatriota'nelle fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna.
Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in
tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci altriluoghid'Avicenna
male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli di chimica; e
centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe dal tempo ne
foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica
efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare tante,
e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol
ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in
nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti de’medeſimi
componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi ritrovandoſi di
qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti, ne in
quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da
uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte
appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi pare,che l'ab. biano
ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par. titamente ſpiegate, e
deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più
profondi dellar te, per non logorargli yanamente infra le genti volgari,cu
dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono
vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman prezioſi; facendoſi a
crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature, e
fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte
poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de'
medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per
ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici componere
fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum. Falleris,fruftraque
immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro, che cotanto
alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon medico diſpor 560
Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel
che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere? Oh ſep chimica
conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento,
certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali, perciocchè non è
egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi
ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e rappreſi dalle particelle di
quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde già roſi, e ſgretolati
furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali,
e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far
fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai,
così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù, cheſipredia canodel
ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati
cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è, quanto più del
vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e
ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli
inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche
mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente, o
la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir
ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman potabile, del qual
certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in prima per più
d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri
ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato avēdo affatto
d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con.
ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra corpus
accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci
poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le
quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini,
cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc
eſſenze non ſono con cior sor ciosfecofachè a farle tali, egli convenga in
prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera,
e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe
altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che
Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche
sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto, di Triſtano, ed'altri
crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur vere coſe, e non
vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han voluto pur
credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal noſtro
intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire;
così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica
Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute
co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile
omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe
veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento
delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente
velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne
potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli
dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati,
e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali;
intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono
valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto,
e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far
ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi
rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente
ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati
non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma
tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per
gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli
intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta
pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor
di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far
toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli
pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice
il grand'Elmonte,qui aurum, & argentum furripientes aliud in borum locum
fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma
de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per
univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato.
Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē
maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam
ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium.
Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia,
perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere
videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates
nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque
peregrina diſſolventiúfuperata, & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,&
lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit
redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed
Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero
ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne
minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta,
&impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro
appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica,
qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ
fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine
oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di
ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philofophorum
tùm ad quorumcunque morborum curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem,
multis, jiſque ad oſtë tationem, & fraudem comparanis rationibus probare
conan tur. Qui ex auro, quod necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi
poteft, ut vim fuam metallicam exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina
miſtura conficere poffe jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu
ram ex omnibus metallis, lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, &
ſales non minus, ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui
ex.talco, corpore illu metallico, & incombuſtibili, balſamicum,
&temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram
tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem
peramenti, majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem
vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam,quæ humidum radicale
confumptum meliusquá ullumaliud fimplex,aut compofitumreftituat. E quancunque
gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi
accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor
fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé
te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene;
perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi
talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli, vengon si fartamente a
ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje, od’aſpri riccj
fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con
mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla giornata nel ſoliinato, e
nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo.
Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral oro favellando,
dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius toxicum. Ed io
porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non ſi deſſero tanto
miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti danni ſeguirebbono,
che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono; perchè non ardirebbono
imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi, e ignoranti, ſe nella
chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti, anzinocevoliſſimiveleni, a'loro
ammalati per cagion veruna imporre; e comprenderebbon pure che corali, che
chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze
ravvivare, inaggiormente gliele abbattono. E ſappiano pure, che ſecondochè nes
dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro,
che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre,
e famoſo in Portogallo, curi, e ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali
roditori, ed acuti dell'acqua regia, che if diffolve; perciocchè corrugando
quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita
umore alcuno trape lare; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù
dell' olio dell'oro, o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire; che
per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e
di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo
pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe
paragonafial riſchio, in cui la vita del malato mani feftamente incorre. Ne
altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc
gemme; perocchè, come di ſopra detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento
gli acuti fali vi s’appiccano, che per quindi torgli vano affatto, e inutile
ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani
del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali,
onde compoſto era, putiva; e quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona
colui ſottraffe, che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre
dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l
Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli
biaſima, e danna. Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine
ragionevolméte da ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle
perle, egli ſenza dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua,
acrimonia, & vi corroſiva, atq; cauſtica non modo margaritas, verum alia
etiam diſolvere; &in cinerem quafi redigere, atque quemadmodum Chymiſte
loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft. Huc autem no eft fpiritum
margaritarum elicere, fed totam earumfubftan. tiam corrumpere. D.Vaoylelius
ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum, magiſterium
hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife,
atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem
eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt
erofa. E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di
quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e
dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre
modo acuto, e roditore. E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa
ne'magiſterj delle perle, e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali,
o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato,
pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano;per chè in luogo
d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo, che nelle noſtre viſcere calor ritrovano,
accreſcendolo maggiormen te, le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi
baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric, che in sì
fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è egli recente ancor la
memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo
ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano, ilquale
con ſue ciarle, e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli
huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone, vendendo, e di
fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi, c'l biſmuto
calcinato con acqua forte, e ſciolto, co me dicono, per deliquio, in luogo di
veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire
di propierà per balſamo di Criſto, e la cintura del Chermes per quella
de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire
il noſtro Dante la giu nella: decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon
l'ombra di Capocchio, Che falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar
ſeben, t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo;
cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (edimedici pur
l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia
medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva
nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace, e vigoroſo, con
quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo; e gli
ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine
reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più vigoroſa negli eſtratti
l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E ſomigliantemente dall'ignoranza
della chimica anco ra avviene, che i baccelloni, e ſemplici medici credendo di
foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie, e diverſe
moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al
mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle bocche, o dalle penne di
chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri
infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente, ch'un celebre Galieniſta
de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino, o altro
ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran maeſtro in quella, preſe
ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto;
e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa
il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo acerbilliini dolori nabif fando, e
rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e irra gionevoli ricette ben ne potrei
Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio;
temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno, come di fallo per avventura da ſe
maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo
ordine intel R 1 iuto, ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà
intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della
Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar
ſi co ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to
eglioltremodo malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale
del vitriolo, dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo
riprodotto dal capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del
vetro medeſiino, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando
acerbillimi dolori nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così
non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel
nuovomiſerabil mente rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido.
Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un
benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c
micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli
ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati;
perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo
danno di colui, che prender gli dec; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi
formentati, gravida di quel ſale acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae
ſoven te qualche nocevol particella della campana, e con la ſua mordacità tanto
quanto la rode, e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in
prima avvedere,[con volge, e morde le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione
vole oltremodo, e difettoſa l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori
che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i
medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il
mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e
ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente
non ne fan riuſcire, dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le
pericoloſisſime medicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali
attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila,
diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò
lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante
d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui,
ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni
maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum
planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur,
chymica medicame ta, quorum vires, & præparationis modum ignorant, fatis
periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza
del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno
non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico:
1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini,
appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi,
che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar
tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e
con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di
quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono?
E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla
conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla
groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto
de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo
noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius
eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam
coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures
Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in
uſum verſa; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſicis, tùm
medicis adopsate. E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la
chimica, a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica
nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra, e in altri molti
famoſisſimiluoghi d'Europa? A che tanti valentisſimi medici (de'quali alquanti
più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante
fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla, per
appararla? E per racer d'Avicenna, di Rali, di Meſue, d'Abulcafi, e d'altri
famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli, d’Arnaldo da Vil
lanova, e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero
Giovanni da Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo Silvio grandiffimo
parteggiano diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero,
Andrea de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio, Felice de'
Platteri, Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio Cefare
della Scala, Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure lio
Severini, Daniel Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni
Eurnio, e Giovan Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con
ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica,
pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e
introduſſe in Vienna, com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli,
e nobili medicamē. ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita
to, e biaſimato. Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe
pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non
s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non
ne ſia in prima a baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e
s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la
malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un
meſtier,dicui appena fanno il nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar
tutti coloro, Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine
adoperano? certamente non è medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che
per be ne ciò fare, con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è
ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia
nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto
n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal
meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in
Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, &
in Italia; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut
hic recenfeam: quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam
profecto fine hacarte medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli:
medicum abſolutum effe non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non
fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj
altri luoghi l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar
perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo
della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più
utili al genere umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di
liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla
Chimica, qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che
formanſi per uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i
metalli, che continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti,
coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua
da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle
buone lettere Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id
artificium, ut vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri
partem argento, aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio
abſtrabat, ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu
interteritur. Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære
eximere, etiã, quod magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum, a inani,
veluti quadam idea à materia abſtracta. E l’Alciato ammirò pariinente la
medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius, S. fed fi D.
de rei vind. nella quale ſi dice, che'l rame miſchiato con argento non può
ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e'
ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari, hodie forte aliud erit,
etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo
fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices, vixque finguli in ma
gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe
fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de'
noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne
cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle
ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere.
Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia,
conviene, che non ſolo, comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben
addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè
in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri
boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi,
c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea fuit om nium hactenus invidia, dice di lor
querelandoli Geremia Bartio, idque præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut
non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint:
ſed veterum etiam arcana, fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata,
impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras
ipfis Cimmeriis, & Ægyptiis denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil
Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver
diligentemente ſtudiato in fiſica, e conſeguentemente in Geometria, e in tutte
altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal
certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e
valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo medico; e chimico Arnaldo da
Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire, &non eſs philofophus,
fa tuus eft; per tacere il Morieno, e altri. Maconviene oltrº a ciò,che per
internarſi nelle cupe, e profonde ſpecula zioni della natura, ne' tre
vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra, e molto in eſli
ſpii, molto co prenda, e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra
le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe; cer cando per lande, e per
valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante,
erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli, e peſci, e altri infiniti animali, e minic
re, e gemme, e altre, e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti
volentieri imprenda, come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo
Lullio, e Teofraſto Pa racelſo. Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer
otti mamente avviſato della natura, e delle qualità di tutti gli ordigni, e
ſtrumenti del meſtiere, e ſopratutto del fuoco; € fottilmente anche comprendere
checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o
fali gne, o d'altre ſorte di quelle coſe, che ſi lavorano; perchè poi vengono
oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine.
Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca, e troppo fuor dimiſura
n’allungherei il ragionamento,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna
recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar
coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re: ed è, che il voler da’ſoli
libridegli autorila chimica ap parare, è impreſa oltremodo malagevole,e dura
affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia, e per la medicina ſervir ſe ne
yuole. La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli
avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata; e ciò fanno
per. non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te; nella
qual cofa adoperano certamente gran ſenno, ſe guitando i conſigli degli
antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci
ſapientiperciocchè;, come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo
Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e care, Saporite, foavi, e delicate
Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè da'porci non ſiano imbrattate.
Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di
ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri, ne rimangono certamente di
gran lunga ingan nati, e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo
coloro, che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di
maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora
noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che
fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente, e alla
ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor maggiormente n’inviluppano. Omnium
rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ ad hanc fcientiam perti nent
vocabula, ab ufu, & confuetudine communifubmoveritt auctores fui,
&peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa lis myſtis tanti arcani intelle
&tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo argentum,& aurum
fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal
ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio, quod qui vel
ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum
ambiguo, & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt,modo percipere;
ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à filiis artis (utvocant, nec
vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut
eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum
fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus. E’l dottiſſimo
Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta, ut
in ejus cognitione adipiſcenda oleum, & operam miſe rè perdant
pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã
inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut
videant, ideo folü fcripfiffe ut nõ intelligerent? E peraddurre di ciò un ſolo
efemplo, chi non crederebbe interamente al Beguino, ea tant'altri moderni
autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo, quelmedeſimoappunto,
che gli antichi Chimiciin, molte malattie di darper bocca uſavano? Epur la
biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra,e più sé plice
maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino, non ſolamentenon
giova, anzi n'offende notabil mente le viſcere; perchè molti della lor perſona
mal capi tati ne ſono, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato
credenza; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma: ecento, e mille
altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E quinci avvien poi, che non ſi veggono
a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che ſi leggono già per iná degli antichi
Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro
ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati, e alla groſſa diſegnati, che inal
certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a ciò ben dovea riguarda re Pier
Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro de mendaciis Chymicorum, con ſua
poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente, e quali fian le malage volezze;
le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano, e come ſe ne poffa in
ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non meno ſciocco, che malizioſo fi
ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando egli ſotto gli ann
maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe, tanto
tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa, che
ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi coll' uſo, e
colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco
ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri
Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri
diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno
ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig.
Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen
te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir,
che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro
certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo,
do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo
ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν
έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν
δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù
poſto i ſudori Hannoglieterni, & immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle
vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel,
ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io
avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che
pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in
meſtier di tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini
haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di
ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di
qualche pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio:
nullus adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E
Giuſeppe della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum
librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona
cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa,
eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che
per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto,
così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto
a propoſito a la gente. Ma particolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal
pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di
Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes libenter audit, omnia legit: non
fcripturam, non perfonam, non doctrinam Spernit:ab omnibus indifferenter, quod
fibi deeffe videtur querit, non quantum fciat,fed quantum igno ret, confiderat.
E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe
d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo, cui
no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani erano riuſcitii molti, e varj
conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città,
egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi
rimedi per li bozzoli della gola, e perle ſcrofole; e al mal della pun ta
guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo ſi da’ falafli, l'olio
del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il ſalnitro, l'incenſo, la
pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori del papavere roſli, la
calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la cenere d'alcuni legni,
nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e l'acqua del vitriolo, e della
calce, e altrimolti medicamenti, che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il
perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo, il
qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar
nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto
ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli convenga anche girne dalle
vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj, e ſperimentati
contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più, ch’altrove per
avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non menche del chimico
è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando
da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora,
acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre, delle
minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi,
de'cibi, delle bevande, delle medicine, delle malattie, e delle maniere di
ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il
medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo
grado della medicina pervenuto: concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che
l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè
queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi
vide, per tacer del Paracelſo, nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi
era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di
queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente
filoſofaro avea. Ma laſciando ciò daparte ſtare, mi par tempo omai, che
veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al
conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla
medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto, infra l'altre coſe
al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare; conveniente coſa mi
parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero, d'un compiuto,
eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er
bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare, con iſpiegar
loro la natura, i nomi, e gli effetti di quelle; acciocchè avveduramente poi
ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto monta al comun deila medicina, che
ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe: ficutmedicus fim plicium ignarus non
eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto fimplicium publico caret, non eft
perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti, e molti danni
annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino
de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun maiſaprebbe, comechè ſagace,
cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me
dicina appartenenti, ſenza aver huom, che d'efli affai pie namente informato
innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno
avviſata, allorche dilic, parlando de'ſemplici: Convien certamente, che non
Dddd nina, una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te
offervando con qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni.
E altrove: Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia
comprender la materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre
fiates ma ſoventi volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle
coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed
altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe
lordiſegnate non curano: diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i
qualii ſe gnali tutti, e i marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non
l'abbian veduto, a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò
eglino daaltrui, comecanzone il vă per tutto poirecitando; che ſe per avventura
intervenije, cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa
menteper tutto ciò no'lravviſerebbono. E ciò tanto mag giormente avviene,
quanto,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente
apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e
per le contele, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e
moltinomi, che i ſemplici hanno, chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa,
la qual cotanto fe ſudare, e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc
egli dice: in berbulæ cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant,
utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie
eandem multi plici prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw
omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire
regionum multarum ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos
Inftrare, abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum
corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne
dum cognitione res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica
d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in
tender preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì
in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! be da confarſi ad ulo di
medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e riſchio delle noſtre
perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più
nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia,
quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali
conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel tempo, che creſcono,
e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente confiderare: τον δε
βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs
gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς
μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές
επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna, di
Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda
nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra
tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole Orto di Padova find a
ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a
medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to; del qual mai ſempre han
tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre parti di medicina
intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi dell' Anguil Jara,
Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero Alpino, Giovan Prevozi,
il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per le lor famoſe opere in
iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto
avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e tempo logorandovi, fe a
più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non
aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in queſta noſtra Città, in queſte
noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente
inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana, e ſconoſciuta
pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe.
Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli, che in ciò pochi ebbe a ſc
pari, infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1 -mofaa
compor s’avea la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene. Or che
della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì
ebbe a ſcla mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli
ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut
diſeantjuniores medici, atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed
quod maximum, quod optă dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot
nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri
indè necantur? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze
a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe
meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza
quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel
li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne
ſiano; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o
della materia, o del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e
per tacer d'altri, o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e
tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato
fede a coloro, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E
certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che
Plinio, anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur
malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti
avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri
ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già
prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa
eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no
Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal
biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura
ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio
ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig.
Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi
ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni
ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè
in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti
diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino
inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due
peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè
loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual
fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero.
E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli
fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan
meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le
mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole,
che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per
quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria
è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, & cccellente
maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo,
ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a
vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica
introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa
meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia,
alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero
d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura
necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo
diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum
legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis
corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad
aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi
tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582
RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E
certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè
non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate
l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo
Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente
credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per
accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i
Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar
dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli
ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò
chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte
contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza
dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di
quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento
porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente
ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni,
e alle varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici
ditem ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban
genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi
farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis,
quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che
altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re;
cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno
medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di
Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti
libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente
conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le
fpoſizioni d'alcuni, che sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire,
einſegnare; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono
riſerbare, e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat,
tantummodo, folum, che i Dottori chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente
del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio, nevolmente è da fare,
certamente non che lo ſpiegare an, che altri nomen famoſi autori vietato ne fia,
anzi egli n'è apertamente conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè
l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro
certainente ſtato non ſia, ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe
di formare un, perfetto ge valentemedico; il quale, conte già abbiam di
moſtrato,cal divenir non potrebbe, s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina
è ſcritto piena contezza non abbia. E. certamente ſe l'Imperador
Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone lettere', che fe lo ſtatuto,
e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo,
che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e
dottrine de" novelli medici, e filoſofanti alcuna concezza avere, eglino
ſenza dubbio non pure permeſſo,ma commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a
pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora
noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel
barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no
mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in
quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova,
e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo,
chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di
Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da
parce i Greci maeſtri, con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle
febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus
almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno
interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo
maeſtro in medicina di queſta noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o
diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do,
licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor
ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre
nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo
nimico di Galicno, e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente
mandar giù le loro doterine, aper tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe
ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma, e la
ſperienza ſeguire. E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti
di Galieno traſandando, ove la verità il richiedeva apertamente il
contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono,
ſe contro i divieti imperiali altronde, che da Ippocrate, e da Galieno raccolta
l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi
fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi
i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo
alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora
pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio
ſconce,e gua íte, e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere
d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi; de'quali la
doctrina allora per tutto trionfando fio riva; intanto, che Avicenna per comun
yoce era principe della medicina chiamaco. E tanto parmial preſente della
traccia, che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina
aver baſtantemente accennato. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a
huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia,
comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità
nell'inſegnare; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole, Rai più
illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra
d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella
ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e
albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i
ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più
anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui
diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della
filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente
condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle
coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi,
Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta
della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj
filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità
degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс punto non che farle
alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza
recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non abbia co’propi
occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata
accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol perchè era intendiméto di
lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale, alla ſcorta della
ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le
cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti
i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero
rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben ſapete, ſotto la protezion di D.
Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la
virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle
lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele,
un Daniello Spinola,un Frá ceſco, e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci,
un Luc' Antonio Porzio, un D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e
altri curiofi, e ſagaci interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e
gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo,
chegià ſtabilito, e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e
dallautorità che gli avea data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar
avviſavanſi; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen
dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero
operá, ecominciamento; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente,
e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe
naturali, altro veramente noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento,
per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di
quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men
buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione
aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella
dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è dato agli huomini
acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge
delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento, e
corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito
già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo
fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no
parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori,
e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a
baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to
d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe
non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e
diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole
abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca
reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che
a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche
fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai
comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe
a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a
parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb
be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare
l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta
non li voleſſe ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le
chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera
grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui,
e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente
gli ſcolari; sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li
bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di
Platone, e d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi
delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili
ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli
s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni
ſua ra gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza,
ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla
Divina eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già
rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene
da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in
ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che
egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun
medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani
quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo
ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da
criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno
Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi
brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in
vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per
fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento
nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non
confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr
del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove
diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che
buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car
cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero
de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide,
che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone,
ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano
fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia
virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la
povertà, gli 1 efilj, la morte, o altri infortunj: le quali coſe, come em pie
la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò
Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma
che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante, e
tante volte da lui ridetto, e pro varo, facendo contro il vero arme i
ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio, il
qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire animale. E a lui di vantaggio
egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà dell'operare empiamente toglie;
oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e pertinace miſcredenza celare,
apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le
genti, e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E
che diremo intor no alle pene, e premj, che dila ſi danno ſecondo l'operes che
di quà per noi fatte fono: E che direm’anche dello in ferno, il qual egli dice
effer certamente novella da vegliar de; morendocon noi l'anime ancora, ne altra
coſa di noi reſtando dopo morte, fe non ſe il freddo cadavero, ſenza,
fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate
foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe tutte quì diſtintamente re
car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe doctrine, dalle quali contaminato
il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e poi altristolſero l'occaſione di
comporre, e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci
apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano:
Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene
nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote
le piggiore aſſai d'Epicuro; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e
ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato
Serafino da Fermo, e S. Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri
na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dareeffer
quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde facte
furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca
ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi
paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e
altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per
ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya
le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia,
che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de
Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum
Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum,
fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando
oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli
d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice:
deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io
c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura
dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni.
Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta
Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche
nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi
dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle
quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi
falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli
ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè
l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la
neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri
ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe
d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur
la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a
noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli
occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem
noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più
avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere
fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè
credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere,
quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il
Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of
ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio
apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il
Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco
celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole
aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi
le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da
Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe
pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo
lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem
po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo;
non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua
donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A
riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella,
ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e
convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata
bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad
Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men
che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine
lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente
della ſua fciocchilimatracotanza il non volere far pruova di ciò, che ſogna,
che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto, ch'un altra d'una
libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare, che que due mobili, tutto che
tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali in velocità. E chedirem noi
intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe,
che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e come egli tratto dalla
ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera della larghezza, o
ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi
aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in
ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri creduto ne fu
egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il favellarne.
Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro Ariſtotele
eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra li ſieno?
Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon pur
l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi ſon
laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e
troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano,
ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro
comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco
Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così
operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla
per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris
tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe
cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem
nautæ fcandalium vocant, & altero leviore funiculo operculo accommodato,
ita ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem
in mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum,
ſcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere, minorem funem traxi, operculum
referavi. Extraximus opertum mari ple. num, falfo, amaroque, baud
majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio
guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza
il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi
han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella
diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata
nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le
vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel,
che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino; affermando
con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua
toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol
balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame; la qual parimente
nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa
del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor
huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno
a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che non ſi congiungano inſieme,
trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe, p piccioliſſime
focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli, e follemente
giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei; e nel Parapamiffo l.2 lor
prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e l’Araſle, cche da queſto
poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle, e
impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò
intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la dalla Perſia il
Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè
non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane,
e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una medeſiına fonte ſorgano; c'l
Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff
Ariſtotele, che nella Liguria un fiume grandiflimo; e non minor del Po
s'inghiotta tutto, e fi divori dalla terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo
diſcorra altrove. Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti,egli molto
ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi
monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto, e condenſo,
e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne, e nelle picciole buche
della terra; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal
gravezza, la quale perrocce, e per burrati, eper lande, e pervalli faccendo
l'acqua diſcorrere, eca dere La fa inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual
modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e
fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del
mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca, e da ridere, ben può comprenderlo
chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica. Eche direm
noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja,
ch'avanza inver quante novelle, Quante mai differ favole, ecarote Stando
alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice, che
fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate; che fatta ne la
ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo
Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre
Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non gridar eoli: papa in quos
aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici;
putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe
famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare,
o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte
Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di menomar
cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue; qua
DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem
nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores
judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree condita, &abditadocere,
excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum effe. Ma fe falla così
ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere, non meno errar ſuole
egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe quelle, che manifeftamente ſon
vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle
contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo, in cui già
cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le
genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for
bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria,
egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato
peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur,
qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa
mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare
a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole, fenza aver riguardo niuno alla verità. E
volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere, e negare contro l'avviſo di
molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che
direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire cerchio di lat te, il quale fecondo
Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per
l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci monti vi manda continuo la
cerra; errore così grande, che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e
apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla qual coſa, ſon veramente degne da
notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2
quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo: il
Reo (dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell
attore; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la
Galaffia, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone;
perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi
ftul si quidam:fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome
CeſareCremonini:mathematica,et rationis expertes;e Aver roe, il quale così a
capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar
volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi
ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire. Ma che direbbono
a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del
Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme,
e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi quà ne fembrano per la lor
picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza
conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito, allor che, come
Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe eſfer la faſcia del latte non
altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non
vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza, non già perchè allumate non
fian dal ſole per lo tramezzamento della terra, come falſamyente ne vuol dar a
diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per avval lare il buon nome di
quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore. Ma chi non fa quanto egli
fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle
stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi; e già n'è prie troppo a
ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco (che
tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo
Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così
dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno
all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno alla natura del ſole, e
dell'altre ſtelle? E che direm noi della favoloſa novella della sfera del
fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo
avendo Ariſtotele poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle
meteore,ch'ella inverſo Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi
ciò anche contento, ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe
della memoria, ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione
eſſer la terra, non già ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di
cilindro, o dirottame di colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non
altrimenti,che tamburo; perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi
paja ch'eifavelli della terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli
antichi filoſofi, i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che
ſia di ciò, falfo pariméte ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo;
ondeebbe a di re il Tallo, comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra
l'habitata terra Timpano più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno.
Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta
delle ſue opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte,
e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle.
E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di
fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo
lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar
volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone,
e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali
ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or
rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni
dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l
dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che
dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti
degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo
1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere
manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de
multis, magnis infinitorum authorum; & operum vigiliis; recognita nufquam
funt. E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati
libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne
ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto
aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in
tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν,
πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον
αποκεκλεικόG, και στις πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse
contr’Ariftotele, efser lui impronto, orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda
ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e
per ogni ſcena pro verbiava; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul
la inteſo di sì fatte faccende dice, in favellando di Timeo, falfifima enim
omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar
alcun luogo alle conghiet ture, più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di
quel, chc Timco, ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli
ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi
logo raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più
minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto
ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e
malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando
ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele
cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti:
maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli
dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le
ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole
maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo
le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo
Ariſtotele, e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che
Democrito in ciò manifeftamente fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo
per tutte parti del ſuo corpo, a guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta
gli vadano coprendo la buccia; o non altrimenti che s? avventino le penne
dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον,
ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον
φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena
mādan fuq ri le fila,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come
falfamente immagina Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur
di quegli animali, che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì
non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco
curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne
pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do
daparte quello di Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu
affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo
ſi rendono, quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to,
o fatica per venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e
imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli
abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne
alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato
intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto,
eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che
manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in
prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova
co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli
era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o
dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più
conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia
veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe
tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per
avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e
cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro
pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe
Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum
quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, &
quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic
adii, ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe
interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras
ederet: cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo
demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum
obferuo ipſum inverſum, hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem
acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum
aranei filum aciem oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum
ſeceſſu Aranei prodire. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente
ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar
credenza il Vosſio padre: così poco acconcio egli eb be l'intendimento a
diviſar delle cole della natura. Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non
tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro
Ariſto tele vanamente anco s'aggiri, dicendo partorire i ragnoli cotali
vermicelli vivi, e non già le uova, come alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia
dalvero lontano, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che
per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe, non avea mai veder po tuto
ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce. re i piccioli
ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al
Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali fu Erodoto, che diceano
il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo,
comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben
conoſciuti aniinali ſcioc chinen camente Ariftotele travede che dovrem noi
credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade, e meno uſati,de quali egli
nátrâ cotante ſtrane, e incredibili novelle, e più affai, che me diceffe mai
fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo? Narra egli del Lione
Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma
che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè
sì ſottili, e poche quelle ſiano, che par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde
egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo
fia, non pure per Ateneo, che forte ne ’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui
ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio; il quale
aperti due gran lioni in Afnias, reggia di Danimarca,vide egli avere in molte
delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu
ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa,
Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle; e
quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’
critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio,paver lui poſto in
bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera
ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto, quando fa
egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante, all'effeminato
Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni Ti porſi.io dunque li
primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni; il che an che
credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der l'Arioſto, giuſta il
ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane, e
puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche, e
cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele, diccndo egli
aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe
ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo
altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja. Ma ciò manifeſtamente
fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i quali comechè fortis e
gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per diligenza, chevi fi adoperaffe,
non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco;, fen zachèſe ciò pur
foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento
l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco in fregandoſi due
tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc ferole, o altri
simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che
in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna
maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del
Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome tutt'altri
animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte intere, e
diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan piegare; ma
in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame. te lo
convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta fermamente di
que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta
erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio, e
ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i cani fiutar fogliono
gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al
pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo ſoggiugne: e
lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi, ch'egli
divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato, che il
Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al Lio ne.
Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione
aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle
d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che:
Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo;non
avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella
eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia
formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte
ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l
principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti
dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che
manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia
da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas
ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli
affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli
intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed
Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio
Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della
natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e
ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že
n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per
Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali
animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche.
Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a
dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi
facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo,
o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come
gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai
potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e
cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori,
dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di
più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle
quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente
delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima
opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome
riferiſce Gggg 2 Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè, ch'egli avuto aveſſe
Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro, per po refla più
acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la ragion del dottisſimo
Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e
che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer deſtinati, co me narra
Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere
juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria, armenta,
piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea
quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto
parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto;
imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an
tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da Filippo ad
Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare;
conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in Grecia, e
perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia
Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e
ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni, o
ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario,
ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè
non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo
della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli
ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che
per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor
di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele
ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico,
che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio
da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578
γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e
divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di gos va difvögliarſi di
qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore, per cuii giovani
male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate miſeramente ne capitano; e tinto
s'in veſchiò nella pania, che per amor venne in furore, e matto; e come narra
Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia, che a leicosì
immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi; e per tali
cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo,
gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il foldato,ove ne
meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche
per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi
avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di
dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità, con cui
difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque mi fo a cres dere,
ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi animali; e che
folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli antichi
fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla rimpazza
ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene, cheben'a
lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis
appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le
venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei
movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor
folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E
ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in
ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo
umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe
Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico,
daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben
fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che
no, allor che diſſe po + 1 CO Ariſtotele conotcerti di notomia. E ben’a
noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva,
Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen te que’pochi ſe ne leggono,
che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi
favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata
numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent, effent fortaſſis
innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del
divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe, del tanto aju
to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte
notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma ſenza venir
tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò
Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma un
folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì
chemeritevolmente, e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo,
el celebrerà il futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura,
cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc
fu Ariſtotele, che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi
medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de'
Greci; o d' Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon
peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non
fi partiſſe? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza,
e della venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate,
niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti
alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam,
fed juxta pofitiones peripateticorum; & ideo illos laudet, velre prehendat,
non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto
Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum
naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi
argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievolinente egli
tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam
nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui,
nous poteft dici abfolutè,din totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle
fondamenta di quella, e ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con
falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia,
dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e': ne tragge,
e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars, pars
autem topica tantum probabilia.. contineat, non poteft dici abfolutè, & in
totum fcientia. Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa, quanto inu tile,
quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia
d'Ariſtotele, conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola.
Dico adunque, che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla
ſublime altezza della natural filoſofia pervenire; una, ches quantunque falli,
è nondimeno agevole, e piana, echiun que per quella prende il camino, non fida
cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē.
preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini, e de' vocaboli, quali a
ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi
poſſono; e comechèſembri, che tutto dicano, che tutto ſpianino:impertanto,
altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non
altrimenti che ſi faceffero un tempo, ſe'l ver dice l' Arioſto, que’franceſchi,
e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo
confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità;
ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è
più nobile, e più gloriofa. Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti
inveſtigatori del le coſc, ei ſavj interpetridella natura; i quali diſcorrendo
regolatamente, ed offervando con diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le
coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli
altri a traviac da queſto diritto ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che
ſe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana
ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci
degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare. E fu tanta
certamente loro ſchiera, e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go
del buono filoſofare; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon, perchè rara è vera
gloria: i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie, che noi rabbiamo
comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri pochi,
Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel
ſatirico: Rari philofophi: numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel
divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto
col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro
) etatem inter experimenta con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè
a dir ſenli bili,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla
natura appartener fi poffe, che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo
detto antiquorum omnium fubtilif fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a
chiamar l'ebbe lingua della natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e
diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia
volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non
calere co tal vero, e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della
natura, e con univerſali, c apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual
maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e
abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia;
ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo
avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo
fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe
il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di
quei tempi un vano berlingare, e cinguettar di vegliardi ozioſi, e ſcioperati,
a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire, che gli
antichi aveſſero nelle coſe filoſofato,ei moderni ſolamente in pa role.
Qualdunquefia maraviglia, ſe così mal concia, malmenata la filoſofia, non potea
vantaggiarli nella Grecia. Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San
cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del
muides is ', gépur di enlew oux iso, certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id
quod puerorum eft, ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint.
Così perduta, e ſpenta la buona filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri
diquella, nc punto per huom riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra
breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi
perderono; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e
corrotto ſecolo erano in pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar
l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes
poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba
ogni coſa, que'pochi libri, che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice
il teſtè rap porcaco Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft;
& philofophia Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori,
minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati,
lo non ſo come, dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente
filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella
filoſofia,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e
tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe
le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto
modo difiloſofare: percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a
ſeguirlo, lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non
però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente
egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli
intitola il Ti Hhhh.. meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli ſaggia
mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui già
Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia
avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente
l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν,
fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς
πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα
και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως, ουδε περί
αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί
ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la fula
generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli
elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli
altrifo miglianti corpi; ne demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino
cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e
lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè
que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë
all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e
maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così
fattamente ragionare; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue
ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre, de'venti,
delle gragnuole, de’nuvoli,del criſtallo, della neve, della rugiada,delvino,
dell'olio, e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli
odoris e de'colori delle coſe, e detto altresì de’mutamenti e degli
accreſcimenti di quelle; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta
della carne, e dell’oſsa, ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro
innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con
que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe;
perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero, che ſi
conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E queſto
è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella
difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi
doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi, pereffer valevoli a
produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori, e i ſapori, e i colori
delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele, niun maeſtro in
filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi
fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime
paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε
γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη
άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις
τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev
dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura,
é netta,meſcolalla, e inu midilla colle midolla;quindila poſe nel
fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e
cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua, sì, e tanto fece, che
dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi. Or chi domine,
non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole
parole, ſenza veder più in là, che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la
terra, come vuol Platone, era pura, e ſchietta, non era, meſtier certamente di
sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata, così
ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale alcun di partiinento non avevano,
già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi; e ſeguen temcntc non era
dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che tritata, e minuzzata così ſe ne
poteva formar terra, come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo,
ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva. Perchè me ftier certamente non
era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per lavorar quaſi in fucina,
temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva. E ſe i cubi eran
partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai potea cosi divili,
e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega; non
altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo
Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole
verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura farebbe, e da
niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto
tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda
ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già un
corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E
lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo
Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel
medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e
ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco
intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante
Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele
in dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in
filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della
natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i
corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole;
per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non
folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto
dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e
convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi
Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il
caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per
al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun '
ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de
corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne
ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al
preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente
ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure, come ſi pare,ch'egli in qualche
fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia; vano certamente, e foverchio è a dire,
che que'cotali corpicciuoli colle lor figure, e facce dean cominciamento alle
coſe tutte del mondo; e non più tolto un ſolo corpo, il qual poi in molti
corpicciuoli di moka te, e varie figure partito foſſe. Ma fe pur vogliams
contendere, che ne ftritolar, ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano,
lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante, e tante diverſe coſe,
che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne meno fo lo certa mente comprendere,
come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche
avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe,
portando opinione, che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio;
nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi
interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e
prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra
Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi
l'avvedutisſimo Platone, riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non
ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā. taggio ne'maraviglioſi ſegreti della
natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo
i più ſicuri lidi, non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del
filoſofare, e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle
coſe. Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che
affermare alcuna, comechè leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir
perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe
del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m
ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace
Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del
ſuo ingegno riyol gendoſi, cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto
operò, che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo
mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi
dimoſtrerò. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel
quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare: e ad eſemplo degli
antichi, or di Teologia, or di ſapienza, or diprima filoſofia altiera mente
chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo
della Metafiſica cambiati. Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire;ma chi
pur n'è vago di qualche contezza, vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e
Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo
alla fine non eſſer altro, che la medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe
parole, e nuovo ordine travolta: e una ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e
guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da
Damaſco, il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele
medeſimo fureputato, comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico
ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe; e
de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco. Ma che che di ciò ſia, immagi nò
Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere, ch'egli aveſſe
diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte, per non doverle poi
meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda
lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi
peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua
ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle
coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non
s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente, e ideale, ne
ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto
modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai, e ingegnoſoallas
ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali va ni, e folli
diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando per avventura non
ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva, maravigliando ſommamente
di cotanti termini ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi
dagli ſcolari di baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e
ſottil dot trina, checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur,
amantq; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci
veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler
ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche
menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non
iſpiegando mai nulla di vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe,
di cui egli fa vella; ne come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me
patiſcano, o operino nel mondo. Al che riguardando infra gli altri Plutarco,
comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto;
l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero
di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto
avea. Ne in ciò cota to teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti
fono, che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari
ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo
fuo Chioſatore, il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran
rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del
ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico,
edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones: ubi adres
phyſicas de venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires
nonacuit; ed in un altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus
affuetus, quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude: fed fenties in
rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi
ſarà maicolui, che riſtucco forte, e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l
biaſimi, e rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori tacce affai', che non
vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616
Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro,che
gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima
maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica, e apparente, prele per
principi delle coſe sé. fibili, e vere, terminitutticonfuli, e generali, e da'
noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare;
mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata, do ver delle coſe
ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto egli giudicò vero,
che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i
principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi
foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare
curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an
tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò ben ne diedea conoſcere
il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo, allor che
con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati; e provani peripa terici,
fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti ficio dopo il Digbi,
molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando ciò al preſente
ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia quello, a cuive
ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi zione della materia,
e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E nel vero, chemonta per
Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce,
e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi? ed ecco la
gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli
con tante bel faggini millantando innalza, chiamandola privazione; più
ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe.
Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe, cioè a
dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta
dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio, e
ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria
delle coſe cſser po 1 tel tenza, overo
in potenza a divenir tali coſe, e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto,
che dandoalla materia perfe zione, la mandi avanti, e la faccia eſfer
propiamente tale. E queſto è quel, che con tanti riboboli, e aggiramenti, e
lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in
che conſiſta la fiſica natura della mate ria, cioè a dire iti cui cada cal
potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa., come potrà mai ſaperſi poi la
fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi, acciocchè la materia
imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro per informarſi? e ſe
queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità, l'opere, e le
paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano? Se a
giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo molte, e molte
vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e nota ben tutte mie
parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da
compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo
fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe oriuolo ella
già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può venir oriuolo
per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che udédo
cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe direbbe,
maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è quel 12
cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale; e
quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone alla fin
riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro l'oriuol
fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz, ſchernito, ed
ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto ſcherniſce, e
beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi
ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro, çome in altre
coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser vero, c
propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo,
e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea
Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur non
ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe,
reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè ſeguirſi
il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi aſſegnare
alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non
potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla materia
', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e piegar le fue
parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima, e'l
proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia
d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà
certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a
dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta
maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di
natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e
pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù;
ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de
fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in
prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi
corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va
diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural
filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar
briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al
cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora
sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente
egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie
no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento
all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non
convengono nella gravità, e.che di diverſo genere ſono. Così parimente erra
Ariſtotele allor chedice, il caldo fceverar le coſe, che di diverſo genere
ſono,, da quelle, che convengono inſieme nel genere medeſiino; imperocchè
uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre,
cut te le coſe,, che ſiano di qualunque genere, comechè talo ra (il che
ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più
gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede
Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido,
definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del
genere; dicendo: ma l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini,
non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or.
E no ha dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di
cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non
ſe quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo
cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende
dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì
fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non
che una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive
Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con
Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio
converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo
Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo
il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il
termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i
corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la
ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non
riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma
ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi
aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuoco a quel termine, che da altri
corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il
fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano
cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria, perchè ſe la ſomma
umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte niuna in quello la
ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel
vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del
ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco eſſer quello, che
ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende l'altrui termine:
Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non può con venire in
modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa affermare, che'l fuoco
fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue, ſarà anche per fe
umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è ſpecie dell'u mido,
e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità l'aria, non che gli
altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la
dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il
fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da Ar cangeloMercenario, che
volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e come potraſli giugnere mai
a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti? ma ond'è, che il folc, per
tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo,
comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele
medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio, ne'metalli,
einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo, o pure i
più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire, che'l fuoco non
ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe, o la maggior
parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe ciaſcheduno,
che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a ciò allora
quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco cambiata in aria,
certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo
di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe ſarà ſecco il
fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi
ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha
tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi
nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re; ma eſſendo
propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare, certamente da ciò umido
più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri, Ariſtotele non
l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi legge umido nelle fue opere,
per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi
libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata
definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére,
or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra corpi diſcorrenti tien vigore
do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini. Eglino non bene intendendo i
ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui l'umido definito;perchè
foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza, e di co
traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora
affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida
dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò, che
fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè Ariſtotele in coſa
appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli
ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua, il che appena
mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo ella così ric ca, e
copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di chiaramente fpiegare
ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe
rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera ra ſi trovi in
tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel
luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a
terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi, che
terminare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι
μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το
σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole
chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure
il diſcorrente; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote, e non comunea
verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte
contro quel,ch'altre volte detto egli avea, viene a determinare l'acqua ſola,
eſcludendone l'aria, eller o umida, o diſcorrente, M,a nella ragione, che
Ariftotele di ciò indi a poco rapporta, ſi vale ſenzafallo della parola vypov a
denotar l'umido; e dice eſſer quello, il quale ha, forza dicontenere,
riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale ſenza l'acqua verrebbe a
diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua parimente neceſſaria alla
compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη
δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το
υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la
definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare,
che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta;
ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad altri eziádio la
briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli
rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura
di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così poi far anco di
que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che
fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto fia di picciolo
parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε.
pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa, che
detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue; il che dovea
certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora come Ariſtotcle a
ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in cui non ha dub bio,
che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli cgligiúdica eſfer
ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento,
la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman locale. In di
diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica,
in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov, cioè endelechia di
quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed altrove: aivos,
évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi è endelechia
della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta
potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da:
Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione
più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè
diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole',
e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma.
Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina;
ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la
natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce
ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti;
e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per
ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi
ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee'
ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue
Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele
così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a
quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il
rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le
regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi
poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non
già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando,
comepar che e' voglia: o per me”di re, per la ſtrada p la quale la perfezione
s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne;
perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa, comechè
imperfetto; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir
alla forma, in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to
può ella effettualmente imprenderla. Or dove eglino ſono, dove conſiſtono
quelle tante, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum
tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient montes, naſcetur ridiculus mus.
Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa, l'eſemplo dei rame, il
quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno quel movimento, col quale egli
poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma di {tatua, non appartic ne
punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame te in quanto egli può
divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το
χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς, και κατα τον
λόγον, ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache montano alla
filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno ravviſi,e
non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la
ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi
ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi
voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in
molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che
ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule
Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias
debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che
parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte
ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue
Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma
lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente
definir mai voleſs Ariſtotele quel movimento, che chiaman locale, certamente
egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu
gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale. La qual coſa:
ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua
ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione, così
definendola: l'alterazione, è atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in
quanto ch'ella alterar fi puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή
αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo
vimento del luogo la definizione: egli è il movimento del luogo, endelechia,
cioè atto della coſa, che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può
localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura
del movimento locale, dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in
trattando del moto locale, a valer non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee
certamente quì, che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa,
genere anche delle ſpecie di quella, perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le
ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo,
così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur;
&ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet
motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni
d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il
quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari
Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in
ejus philofophia incerta, da perplexa, parum etiam vera; dum magis curat quem
in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut afserat verum. E perciò funneanche
da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele
dell'oſcurezzaſi compiacque, e così ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a
dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob
fcuritas fuit. E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo
Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza,
lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere
dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e
baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in
quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da' ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta
l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata
s'ngoja nixovs libros, quos edi tos quereris, non perinde, ut arcana
abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non editos; quoniam iis ſolis, qui
nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì malamente venne fatto ad
Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente, che
fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far dimeno i medeſimi
peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio,
diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo
averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine purdice in facendo parole
delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri te&tum, &
callidums, &metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne proferret
interdum aperte, quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura, &
ambigua. Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi
ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto,ſei
eſſere le ſpezie del moto: cioè generazione, corruttura,al
terazione,accreſcimento,diminuimiento, e moto locale; ma a chiunque bene, e
ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra forte di movimento ſi fu avanti
nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero tutte le ſpecie
addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti locali; e ſi pare,che'l
medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli; concioſliecoſachè dica egli una volta,
che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie
del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed
uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello, che
dir ſidebba propriamente moto. Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale
in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento, il quale è ſempre
mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto,e
circolare;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte
pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi
a conſiderare, Il moto çircolare, il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è
perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller quello, che fi få intorno almezzo;
ma il retto allo incon tro eſſer quello, che faffi in ſuſo, ed alla in giù,
Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti, ch'egli immagina farſi
intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ', ma ellittici,
follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo,
che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo, cheſi muove convien certamente,
che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni
ſuo moto ret to, e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti
obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che
moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora
facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men, che infinite linee
rette; laonde niun moto del mondo farà circolare; imperciocchè niun moto, che
in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente
lontano; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare. E quinci
ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari
ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione,
dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di quello, che ſi fa
intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa dal mezzo; e
l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con
grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte
affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè abbiano i corpi
tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari la menzionata
diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno nell'univerſo, che
compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir
veramente ſi poſſa. Ma trapaſſando a quella diviſione del moto, così cele bre
ne’libri d'Ariſtotele, in naturale, e violento:veramen te in iſpiegare i membri
di quella oltremodo vario, ed in conſtante e ' li moſtra; perciocchè una fiara
dice, il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato; il che ſe vero
fofſe, vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto, giuſta Ariſtotele,
altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea
detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa, trondimeno alcun
movimento eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele vuole, che quel moto djr ſi
debba violento, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo, che
il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è, fe non cambiamento di
luogo, e al corpo non meno è natural queſto, che quell altro luogo: certamente
al corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni qualunquemoto, che nell'univerſo
ſi faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra, o altro corpo dique'che chiamanli
gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in
alto, quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi, che la ſpingono
giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo
famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove, per alrri ſi muova, la
diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che vien fatto da fe, e
propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per accidenteè detto. Ma una
cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire,
che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi ancor quando più non è; e
che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che ancora di colui che'l tutto
muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero, quanto dire, che
le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate. Ma dovea
Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca
dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da quella, che'l più acuto umano
intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e comeegli già traſſe dal nulla le
corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla quale potè dar loro il moro anzi
gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no; e che Iddio
ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili
fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze; e laſciando
di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e altrimae Ari in
divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari: Io
vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in
quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che
muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche
membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que'
rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che continuo dal fangue
vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò
dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento,
così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso;
non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è l'anima del
corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi
corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli
penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono
le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel
corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi
diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a
un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione
a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che
s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè
egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa
allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun
giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione
dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì
disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630
Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa
diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini;
e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per
tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero
ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a
qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver
parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da
quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il
luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual
minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo
nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad
abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di
eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut
te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze
a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice
Ariſtotele del tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire,
e di numerar il movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio
ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo?
E laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente
s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e
della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa
egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo
rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior
luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo
incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue
particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di
quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera,
Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come
de' colori, come de? (1 pori, come degli odori, comedell'altre ſenſibili
qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i
fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare,
certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non
aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle
lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di
propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo, dell'a. nima, e delle ſue
operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove, de'fulmini, dellaneve, del
tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola
mento, della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non
iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come facea meſtieri: chenti, ſono
le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice, che ne meno eb
be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in
Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua
loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare, e mandar a terra i
buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio
venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto avātidi lui per le
medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica
d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam
in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam
fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non ſo come fuggito
mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento,
ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto,
avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle quali dimenſioni in fuora,
altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove
fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre, allora
in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta maniera, la natura il ci
inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali
ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli, non per
altro, ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui
malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la
cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole:
d'Averroe in dico, il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer
Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti
iſecoli, e per addicar ne l'ultimo sforzo, e l'intero compimento d'ogni umanaj
perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro
ajuto; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli
error alcuno ri trovare; e in fine ch'a miracolo Natura il fece, e poi ruppe la
ſtampa; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe, fe ad
Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del
mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè, qualor difle aver
Moisè dette molte coſe, ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer
d'altro, quell'altra beſtemmia; che coloro, i quali affer mano Iddio ritrovarſi
per tutto, ſian fanciulli, e che di ſtruggano, e mandino a terra l'ordine tntto
delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo, e ballo
intendimento: impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che
vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono
le dottrine d'Ariſtotele; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i
ſeguaci di Macometto,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima
apparare; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o pure quella,
che ſi contiene ne' libri, che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè
dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori. E veramente
alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di Tullio,di
Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e di
Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare; nondimeno però
nei, co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere, che
portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori,
l'iſteſſo modo di filoſofare: portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o
pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala
ſciando ciò ſtare al preſente, chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede,
non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per
primicro filoſofante; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo
le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine,
e ſciempiezza del loro intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro
Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo,
perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac
cone, coitio, non confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già
opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non
badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat
fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i
ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc'
peripatetici da Lorenzo della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò
la filoſofia da quel cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot
topoſta:Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos,
&jurejurando adigendi, nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum
fuperftitiofum, atque vecors, defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent
indagă då veritatis; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi
legem impofuerunt, qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem
in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia
quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le,
alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che
dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia
il Romino Ora tore, la filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111
ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis
contenta judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, & fufpe
ta, & invifa; eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente
avviſa il Baccone: nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf
intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele
folamente in favellando la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte
doverfimai ſempre {eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora
diviſato, deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali
tutti ebbe a dire quel valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così
ſtrana, e rimoſſa dalla ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì
abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili
opinioni, che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus
quicquamfomniat Tam infandum, quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima
potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato
l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti;
de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti, ſe a noi foſſero pervenute
tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre.
Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi
maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e d'Epicuro in
filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor del noſtro
propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed
epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente ſi fu la
follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il quale avendo
ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci
filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno più
coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella
traviato; e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in
iſpiegar le coſe della natura, non però di meno egli ancora nelle maggiori
ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in
ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes
rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla. tone,e Ariſtotele;
della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico;
eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la
forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo, che
coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del corpo, e come
formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità,
mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes ingenerino: è da
dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in
prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente caduci. Ma
non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di Zenone, che
egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli
coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce,
o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li, comech'egli in ciò poco
felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima, come certamente
conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le, che
ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere
allor ch'egli dice, eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia. Dice ben
egli Zenone, che ſon due i primi principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la
materia, ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera
ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol
Zenone, ch'altro non fia, ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e
di ſapienza, il quale per tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e
che dalle varie, c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia
egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te
meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere. E Lill 2 nel vero ſe mai
Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del
fuoco,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi
nione; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e
ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera,
acflellas vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe,
atque alieno loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe
non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o
piramidali,non pofſa ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione,
che l'anima far ſuo. le; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef
fer mortali, e quelle dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli
ſciocchi, e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme
attutarſi, emorire; e quelle de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover
durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria
fino all'ultimo ſcoſcio del mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di
Zenone, e degli ſtoici, non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual
luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur,
& fatuæ pereunt,aut non diu manent. La quale opinione motteggiando
l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam
cornicibus: dia manſuros ajūt animos, ſemper negant. E quinci follemente
temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che
l'aniine, come quelle, ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal
crcdenza ella mi ſembra, che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe;
imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l
fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il
morir affogati nell'acque: ingemit Æneas, dice Servio, non propter mortem, fed
pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio, quia
anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma
piacevole è nel vero a udire il di viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla
generazion del mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo
raccolto, il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la
materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che
ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente
nell'ae: qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente
ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua,
l'aria, e la terra; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il
fuoco ſecon do Zenone è caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra
è arida; ma l'ordine col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi
dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa.
Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la
gran fua: ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero
le ſtelle fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo
l'acqua; e ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben
fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze,
che ci vuol dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in
ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare
agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio;
perchè cantò Lucano, per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum,
quum primum informia regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in
æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, & fecula jufa
ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco
poeta, così traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat
lovem; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui
medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde
ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o
qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa
ſuis currunt cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden
do,come è fua usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di
Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii
tutti, non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano
deſtinate; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che
così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del
mondogli Dii, per menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima
ordinata, e lun gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri,
e ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l
trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale
oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero.
Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile
Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi
moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1
primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando
anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer
corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo
Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù
ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente
s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al
valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù
preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a '
peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne
meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di
colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le.
Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole, chenon altrimenti, che
ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando,no’l muova amore,non
ira,non odio, non timore, ne qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti
in verità, per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io
per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella,
ch'un huomopoffa viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane.
Manon queſti ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi
Stoici prendono, alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non
pocomimaraviglio, come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio
tenute quelle memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca;
imperciocchè non è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’
aſtuto Stoico, re ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi
fibadi, in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo
ogni coſtuma dipietà, e direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue
dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia
no; e a prima faccia appaja, qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone,
Virtutis verd cuſtos, rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi
parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle
coſe naturali; come quando egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la
viſta, diſſe l'occhio valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le
coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle
Carte. Com nobbe ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,,
effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti
non eſser altro il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non
ſi puote, come egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero,
e puriſſimo. Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone
s'ingannò grandemente, immaginando participar la luna aſsai più dell'altre
erranti ſtelle, della natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla
terra vicina; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó
v'ha ragion alcuna, la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto
dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli
antichi filoſofi, i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di
piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle
erranti, e fiſse, e la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle,
ch'animaliſono, dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole
nutricato dal mare, la luña dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2
perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu
egli oltremodo manchevole, checoltivò molto più di quel, che certamente a
natural filofofo fi conveniva, gli ftudi della Loica, onde conveme, che i
ſeguacidilui, for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili
fortigliez ze dialettiche intrigati, vennero ragionevolmente da Ga lieno
contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto
vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura; onde ebbe a dire il medeſimo
Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati, ma rozzi poi
allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando
Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro.. Primieramente per mio avviſo mai fi
par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da
pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon
dire jufra l'altre millanterie, ch' Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi
foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro
anche fi foſse Quel, che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a
terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar
ch’Epicuro altro in verità nõ faceffe, che traſcrivere le ſentenze di Democrito:
i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe: anzi ſe
mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi falli. E
gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea ſoſtanza,
qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli
di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente im menfo,
qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che fenza
regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto,
dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non
ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al
diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi
quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello
poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer
dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri
corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize
non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le
noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis.
Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma
anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma
all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun
modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima
macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle
ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi
contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le
moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto
menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono;
e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me
par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come
nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono.
Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella
teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e
tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è
anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini;
da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e
comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me
bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e
de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a
ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le
quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i
ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri
maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro
indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar
ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca
alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i
giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe
freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che
l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe
quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no
altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per
ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo:
avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie
propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca,
el bel tempo fereno Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i
grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è
certo. Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e
parte Cuſtode, e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende
icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E
quelle più ſerene, e calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno
Aggiugneal travagliar continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle
formiche oervò Clea te. Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for
micajo il cadavero d'una formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e
quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e
accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle
ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le
foreſtiere,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle
alle lor compagne; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi
ritornate a patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine
dopo cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla
buca, e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual
prendendoli quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via;
ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover
quello ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto
ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual
ripoſtali in guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo
piede unamoſca, la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir
slargomentava; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc
ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo
un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con alire formiche a condurli
a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma perchène G faccia maggiorméte
manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E
picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella vien fatta all'autore
dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura
abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque, che una ſoſtanza
fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in
queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere, in cui non pur
Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari fa ve duta
diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E tanto par che
coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove feriſse
eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non eſser
differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto altrove
egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le
diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa
dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può
fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano
eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è
da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E
finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando,
la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser
perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià
perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin
Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando
le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla
creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i
peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di
cui ragioniamo,altro,non ſia che corpo inminutisme particelle di grandezza,
difigura; di fito, di moto, e d'ordine diverſe,sbriciolaco', e diviſo,
fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè
Democrico, più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse. Maqueſta
ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza, e
ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante guiſe, e comunicare ivarſ
mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe da pri ma, per quel ch’lo
ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete Milefio; e confeſsollo
manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum:Derim
autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui l'appreſero poi Ippone,
e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali tutti concordevolmente
giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo,e fceve
rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in
cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora,
che dalla materia lua ſimilare, comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del
mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover biato, e biaſimato oltremodo da
Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse
voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione dell'apparenze nas turali: non
altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre
i nodi più inviluppati del le favole; edelimedeſimo ſentimento di Talete
furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da credere pure, che dal fon datore
dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj
filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma però tutti i sì fatti
filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente
eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore,
dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non guari illoro errore fu
avāzato da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò checoloro alla mente
operatrice afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè la divina, ed eter 1
li e ne be 12 2 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe
della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole
il poco: ilmolto, anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente;
perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do,
tutta la materia nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo
e'ne formafle. Ma ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì
ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli
nonmeno ſciocco, che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano,
come quello, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio
corpo altrimenti, ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice
Epicuro,oltre a ciò, che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le
membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli
Diilia in quello ſpazio, che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per
luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la
provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro
meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani
della volubile, ei cieca fortuna,con iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le
attribuiſce De la terra, e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più
diviſar di queſte, e d'altre fimili em piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute:
Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro
dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè, quantunqué
menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano, ben potranno dividerſi
da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli
fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo nell'atomo vuoto alcuno,
110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne dividerlo in
parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e partire ilvoglia,
con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma ſi può creder 1 1
1 1 impertanto, che ſia queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime
fiate avvenir poffa, che un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida;
concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo,
che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli
altri atomi avviticchiato, e congiunto, ſicome a chiun quedirittamente
ragguarda la cofa, egli è manifeſto: gli riuſcirà aſſai più agevole in
ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni, a fe
vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino,dal vedere,
che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i quali per qualunque forza, che
l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che
altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li
tutti, che gli compongono nella figura, e'nella grandez Za non guari diſſimili
infra effo loro, e dal non venir que gli mai rotti, e in particelle diviſi. Ma
non mi par, che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod
Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi
filoſofi cerchino pure farla apparer vera; poichè per tacer altri imbratti,
concedendoſi ilva. cuo,converrebbe, cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u
nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre
a queſto, fe infiniti gli atomiſono, ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo
ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo;
in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io non veggio lo, come infiniti corpi,
e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente
fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri errori ancor egli commettc;infra i
quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per
aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio crede, maperfuafo da troppo fievoli
argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto, o poco più, o poco meno
grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò,
che Epicuro immagina della figura della terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento
Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo dellole, della luna, e dell'al tre
erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan,
ſecondo egli penſa, allorche noi veggia mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo
diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi
mamentequei, ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia;
perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e
di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà,
come d'accordo ciaſcua vuole, è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro,
i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente
chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che
la greca filoſofia, a riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole
rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende
lievemente, e alla sfuggita,ſenza troppo minutamenteconſiderarla; e come altri
poicredo no, crae ella ſua origine dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude
egli alla fine, efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali
appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a
lungo, e più diquel,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon
traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò
inutile, e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno
forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga
ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci
filoſofiaveſſero fco perto, e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del
la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro
certa.nente, che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel
tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con
ragio ni le coſe naturali, fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano
ſtati iveri ſentimenci, o di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor
di Montagna: car les opin mions des bommes font, recevesà la fuitte des
creances an ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi c'eſtoit religion
Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on reçoit cette
veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments, odepreuves, comme
un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge plus. Au
contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant cette
creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple,
contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde,
feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des
choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint
lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les branches: onne
demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E
quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno, la
quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto
loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe
apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti, e
ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora, che fiyantaggin nella
buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo, ed in al tri
molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della
filoſofia d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire: ne in
cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche,
çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea
fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus, ut ad
verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint. Anzi Ariſtotele
medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi, concepctie alcuno di
que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo
gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché ca gioni in noi
ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore, !! c a ciò punto
badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare, giudicando la
dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità
veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe egliaveffe:
avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce,e foa ve:
a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la colloquintida amariſſima a
noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire: certamente egli non così
improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe
ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma, e così ordinate, e moſſe,, che
in diverſi palati, or di dol cezza, or d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella
medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele
potrei lo quì rapportare, le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti. Ne
ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e fatica, che vi ſi logori', non ſi
poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban
deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano. Cosi
avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o
-inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada, eſilavi: non però dimeno non ſi
puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo
vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta, concioſliecoſachè
quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime
particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino,
o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone, trameſtandofi loro, agevolmente vi
nuotano per entro, per opera della fermentazione poi creſcono",intanto,
che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono. Così avvenir ſuole
nell'anima,la quale priva, e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe
medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche
introdurre; eri porre; poichè le nuove ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da
quelmovimento, chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche
ſomiglianza, che è tra loro, alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata
viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. E
comechè ciò baſtantemente, per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur
d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò, che nella memoria artificiale
fortir ne ſuole Sogliono coloro, che all'arte,veramente maraviglioſa del
ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá
loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre
a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no
ricordare; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna
coſa appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria
preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa
manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca,
o di forziere, che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di
veſtimento,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre,
ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab
bricarono, o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa
rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne
ſovviene. Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to
dell'aura, dolcemente faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da
primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a
ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì
dolci je profonde; E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o
geloſia celato temme. Ma veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ.
fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva
lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti
fine, mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová
punto,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e
in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i
loro ſtudi egli Nnnn: 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole
ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e
alle maniere, che vengon tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan
daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non
ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e
con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e
diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte
eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le
coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto
dicemmo effer a' medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente
non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti,
econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello
fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo
s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente
diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal
meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne
riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte
diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così
fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio,
fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, & neceffaria, fed
deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet
guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam
Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam,
aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni
vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono
conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee
quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati,
accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi
liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per
legge comandò non poterſi il pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza
ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati; e l'Imperador Federi go pur
v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer
teſtiinong, che colui, che aw medicare inprenda, da tanto ſia; perciocchè
parlando de gli Impirici, folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono;
ne vollono eſſere da eſaminar coloro, a’quali la cura d'efaninare altrui era
per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle
bollettes delle licenze: Doctor medicinæ practicabitfine literis, quia
fuitexaminatus, quando fuit doctoratus, &approbatus; for cut ibi diximus de
Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre
oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta, per
tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente andarmedicando:ne altrimenti effer
mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore, in cujus
contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum, quod magiftri
medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere
literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege, vel vicerege medieandi in
Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti; e larebbe certamente
un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina;
cioè a dire, di dar licenza di liberamente me dicare; ſenzachè non ſapreiIo
certamente, quali medici farebbon da eſaminare; perciocchè egualmente i giovani,
ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne
richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine
giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli, i
Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche
eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo coloro, che queſta
novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti; i quali da non mol
to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati:maben
dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale
eſaminamento: eleggendo anzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione
aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol
rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero, a'quali, o alcun
governo, o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo
di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica; da che la Chi mica
cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali
eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono, per
molte, e mol te cagioni, le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba
ftantemente, a ciaſcun manifeſto; ſenzachè i vecchj anco ra, anzi con maggior
ragione, che i giovani, farebbon da eſaminare; richiedendoſi.comunemente a
ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo aſſai meglio i giovani, che i vecchi
medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si
potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al
noſtro comune non ſiegua; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la
detto, pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il
curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe
ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi;
concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo
glian talora, o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente
ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol medi camento ſappia, non ſi poſſa dar
compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi delle malattie, aſai ſovente
glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra, e
contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual mala ventura, comedicemmo, cadono
talora, anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè
ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e
miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del
tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito, e non permeſſo loro il farlo
lol coll'ap prova poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il
torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo, che all’onta di tut te le
proibizioni eglino il capo alzaſſero; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo
incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè
daʼmedicijnõoſtante il gran male, ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza
del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio:
in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia, fi quis
borum nebulonum feme: dicummentiatur, mox raptus in afinumftrigofum, fiin
venitur fcabidum, ſublimistollitur, averfus, urbe tota cir.
cumducitur,Scommatisundique incefitur, conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis
generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata
urbe ejici tur, illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente
ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al
preſente de gli Speziali,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente
chimici; il quale fu il ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento.
Veggiam dunque brevemente, quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia
van taggiarſi in sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda
fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere,
edipoca licva ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro
ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte
altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della
medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa
fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne
tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e
biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ', dovrebbe almen chi
deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c
lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina,
c della greca lingua inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi
ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri
vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta, e
apparecchiata la conoſcenza, non folamente di que’vegetabili,o minerali, o
animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di quelli ancora, che nelle ſtrane,
enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico
venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti
tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora, che alcu
ni di quelli han co’ſemplici, de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma
ſopra tutto convien, che la propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente
ſappia; acciocchè poi comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni,
che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente
aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica;
ſenza la quale Io non veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì
malagevole meſticre adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento
all'uman genere farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i
medicamenti li lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo
comprendere, comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia
in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente
conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre
coſe, avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale
co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai
in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti,
non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po
eſser della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche
medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che
il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da
cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono
invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici, rei, ch' a' ſoli speziali, e a tali,
quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura; ne altra privata
perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male compoſizioni de'più
pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi
dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici. Ne è da dir con
alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa
minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano, come
dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana ſenza dubbio, e inutile
cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai, per ſogno niuno, lorvir tù,
e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne' bof foli delle botteghe, la
bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico,
delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì fatti medicamenti d'odore, e
di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be, e
l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato
preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici
medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande, che cziandio de'più me
nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome
que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere; imperocchè i fali
fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio appare,ne alle
varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte,
ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il precipitato colcotare,
ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e ſaggio in chimica,
certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta, di qual
animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo
loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e del color
medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna, non fa iuogo
ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei
ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito
appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai,
come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro,
il quale lo ora ſto intero a comporre. DI
CAPUA, Leonardo Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag.
1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice
che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici
anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della
retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove
frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni
filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi
alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A
ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a
Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e
anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al
giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e
quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a
Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una
certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco,
composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il
martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola
boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a causa
di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli. Non
sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non
accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente
ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso
Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e
Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col
Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova
scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di
medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella
linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di
quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno
di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli
anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno
spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina
ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere
la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di
chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento
della medicina. È il periodo della lettura dei grandi filosofi
contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà
di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova
filosofia" condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G.
A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno
nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche
per esplicita richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti
filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi
disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la
protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico
nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad
un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con
sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con
l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali
specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in
particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò
la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al partito
capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla natura
dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì a
caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle controversie
tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere. L'opera è del
1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale e razionale,
il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva d'ogni salda
dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è il punto
centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle future
polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il Parere
manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si dichiara di
condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti", quali Copernico
e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle, nonché il
"dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la loro
opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca
scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a
"far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste
rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa
più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla
incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente
accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle
reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva,
ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo
sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare,
aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva,
invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del
potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In
breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo
stesso Parere non rimase esente. L'Amenta ci riferisce che la
pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla
corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere
apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il
Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante
il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina.
Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati
dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea. Il
De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei
Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate
nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti
durava già da sei anni), tacciava di "libertini" e
"ateisti" i seguaci della nuova filosofia con i suoi due
allettamenti: la "novità" dell'opinione e la "libertà"
dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia
scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco
Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694, pp. 256, 258, 267). Egli presentava
il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti,
sebbene quelli avversassero il giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al
fatto che solo dopo la morte del Vico il giansenismo fa la sua comparsa a
Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come
dottrina teologica. Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al
D. e ai capuisti, colpiti indirettamente attraverso i loro allievi o
simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere
della Curia di Roma. Già nel 1671 la congregazione dell'Inquisizione
aveva scritto al cardinale I. Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo
in guardia dai pericoli derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio.
Veniva consigliato di stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare
alla congregazione il loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a
Napoli la dispersione degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano
aderire alle nuove idee. Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di
G. Burnet a Napoli, erano rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che,
a detta del Burnet, venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali
erano "vus de mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de
disciples de Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita
italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da
molti come un processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore
dell'atomismo, del gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il
Valletta, il quale vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una
nuova riappropriazione della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e
Democrito, il mantenimento della integrità della fede stessa. Il Valletta
arriverà a sostenere che la filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di
tutte le eresie, opinione che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia
filosofica del 1714. Le affermazioni del Valletta facevano invero da eco a
quanto scriveva D. nel suo Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di
Aristotele, ma si esige che essa sia convalidata e suffragata
dall'esperienza. Sullo stesso piano si manterrà la Risposta del D'Andrea
alle Lettere del De Benedictis: essa, infatti, difendendo il pensiero del D.,
si profila nell'orizzonte di una polemica intesa in senso antiscolastico e non
in senso antimetafisico. Il che equivale a dire che il vero oggetto della
controversia era il "metodo" dell'indagine scientifica e non i
fondamenti metafisici del conoscere umano. In aperto conflitto erano non
singole dottrine ma due modi di vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la
polemica sorta, immediatamente dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e
l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che la polemica, tra i fautori del naturalismo e
i conciliatori del meccanicismo con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento
orientato nel senso di un moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti
del D., oltre le confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto
riguarda il processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente,
sebbene imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver
appreso da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi
del processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni. Il
D. aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane
Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri
battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella
loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia,
confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.:
"L'eruditissinio signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella
toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21).
Invero, il D. diede il suo contributo per il superamento delle forme
parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di
un "secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello
d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben
presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo
toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto
formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore. Il
processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate,
quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella
chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio
funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la
statura intellettuale di maestro e di guida. La prima e più complessa
opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua. Divisato in otto
ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il progresso della
medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a
Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel
1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle
mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta
risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De
Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova
sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una nuova
filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come realtà
connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai
ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa
la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli
aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla
originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle
mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata
secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di
possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa
cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle
"sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose,
necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non
riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del
Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla "prova
sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto gli
impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente
radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al
modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica,
alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli
asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere
filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere..., Bologna
1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico della
scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la
"oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le
scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua
crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli
antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello
spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a
dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e
della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori
difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e
ragione. Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla
naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della
storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689,
obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al
Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a
Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T.
Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a
Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti
tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e
natura. Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia; G.
B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari, Riccio, Cenno stor. delle
Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap.,
Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie, Bari,
Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari, Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano, Mastellone,
Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento,
Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima
ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto
Aletino, in Riv. stor. ital., Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli
ateisti, Roma, Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua.
Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca,
comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia
lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carabellese: l’implicatura
conversazionale dell’arena e la pietra -- la sabbia e la roccia – il segno –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Molfetta). Filosofo italiano. Grice:
“I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds
me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks,
which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks
of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or
conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da
una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo;
il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a
compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo
critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa
intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in
ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è"
e non "esiste"). Difese
l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere
specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la
coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto
della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della
filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si
attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma
Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche,
o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla
politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema
della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia;
L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini.
Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione.
L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della
coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia:
l'ontologia critica di Pantaleo C.. Il problema dell'io in C.. Metafisica in C..
Kant e C. Dizionario Biografico degl’italiani.
Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di
Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento
della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come
« scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il
Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo
linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty,
Sens et non - sens, Paris, Nagel; It. trans. by Caruso, Senso e non senso, Milan, Il
Saggiatore. La ontologia di C., così, si
prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia
come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei
significati dell’essere. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano,
secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del
linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive
Semerari citando C., scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa
portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico
e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire
dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata.
Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza
con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica
contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica,
porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al
silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della
critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza
silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in
comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io
che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità
egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso
dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche
trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da
un chi che riconosce di fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca
con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura
alterità. L’alterità di ciascun io è, come scrive C., «l’insondabile residuo di
meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è
il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia
soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè
che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta
egoità.. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la
compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività
molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente,
implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea C.
Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi
con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua
solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano,
nell’interpretazione del C., elimina gli altri io dalla coscienza,
assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli
vede come una nuova forma di eleatismo. C. sottolinea che se non è da
percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non
conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata
appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad
intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la
relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per
C. si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità,
non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di
coscienza apriori di cui parla C., in primo luogo non si identifica con il
corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in
generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono,
o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur
sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne
può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che
io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» C.
rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo
non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo.
Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la
radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione
in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli
altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si
porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione
spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la
riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito
implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se
Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la
meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è
sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se
stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto.
L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per C. che venga
eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano
tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano
«togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per
giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere –
osserva C. – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e
che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad
uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col
presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non
io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica
limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo
mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo
limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il problema teologico come
filosofia C. afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva
non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della
“concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel
pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e
come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui
si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia
ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così
“sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per C. non è esteriore, né
eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto
realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema C. sostiene l’“identità” dei
soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione
dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti
l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non
voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva
egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non
all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia,
se la moltiplicazionealterazione è riferita da C. all’Unico, non all’uno:
allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile
altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i
soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi
in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità
infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso
tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.
L’uno di cui parla C. è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che
altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è
uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la
meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e
l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per C.
invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se
si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe
essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si
vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione
del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare
me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che
è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità.
L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è
proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla
assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua
alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo. La
struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in
altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura
coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di
ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli
altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come
altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per C. l’amor di sé ha insita
l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come
l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di
offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più
nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro
identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera
relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che
il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per
cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è
già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e
gli scontri a livello empirico. L’altro per C. è un altro me, non la negazione
del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che
Platone pone tra uno e altri. Per C., sulla base dell’essere di coscienza, tale
opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli
altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma
altri uno, sono perciò altri “me”. C. individua la causa della “cacciata” degli
altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta
con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri
è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità”
pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né
oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se
nell’essenziale relazione, di cui parla C. è apriori, non si identifica con il
singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e
limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e
illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra
il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra
“miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica
espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della
coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio
metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come
intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana,
esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza,
per C. l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea,
antologia a cura di Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia
del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il
Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella
fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una
sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si
arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua
esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso
il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu,
che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non
sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io
(uno)?»18. In realtà, per C. c’è un'unica soluzione, che esclude la fine
tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non
quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la
meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò
mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il
diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se
stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io,
Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce
l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con
tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano.
Secondo C. si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se
fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe
eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo
l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che
è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non
è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva,
comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci
sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica
alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo
di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che
è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia
soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè
che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta
egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non
è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io,
alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso
nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in C.. Cfr. in
proposito C., La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo
l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra;
consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti
soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti. La differenza fra le egoità
si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti
sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. C.
contrasted the rock of concrete, temporal, plural, relational being in the
light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity cannot
be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist
succession of the facts in which law and value coincide with the succession
itself. The metaphor of sand and rock used by the same C. in his later writings
is taken up by Semerari in the title of an essay dedicated to critical
ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical
instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is
asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the
ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the
interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside,
as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed
phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e
questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER
SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE” -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia,
l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P
– non S FUI P --. La responsabilita profonda e di questa coscienza storicista,
che si resolve appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA
[on sand, not on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista
di Croce, che spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo
ultramondano degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia
della semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita
consapevole. CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la
greta), che sono i successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira
forse cosi di ritrovare il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI
FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non
sia quello datoci dal SABBISO SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna
costruzione noi uomini pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro
PENSARE NON TOCCA LA ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro
pensare no ha LA ROCCIA A SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna
costruzione fare SE INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano
sorgere o tramonatre con la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce.
Si COSTRIUCE SOLO CON PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA.
ROCCIA E L’ESSERE SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.” 24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et
facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra
petram. 25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti
et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26
Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto,
qui aedificavit domum suam supra arenam. 27 Et descendit pluvia, et
venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit,
et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la
roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione,
azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita
comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati,
l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Caracciolo: l’implicatura
conversazionale del colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Pietro
di Morubio). Filosofo italiano. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked
on Schlipp, and stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in
German) living philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has
dedicated his life to translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the
‘volgare’: and now I have concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead
philosopher – “in cammino verso il linguaggio: il dire originario” –“. Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’
translates Heidegger’s ‘weg’ – my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way
to’ (weg zur) – as it should!” cf. Speranza, “in cammino verso la
conversazione” – versus “il cammino della convresazione’ –“ Grice: “Note that
in Italian, unlike German, you drop the otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is
o-kay, but “in cammino” is the choice by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel
cammino’ OF his life, towards heaven, or paradise, that is.” Studia a Verona e
Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con il quale collaborò alla stesura dei
Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno dei più noti martiri della Resistenza
e a lui Caracciolo dedica un saggio, “Teresio Olivelli: biografia di un
martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi, Brescia, e Genova. La sua filosofia si
sviluppa inizialmente all'interno della tradizione crociana, ma poi acquisisce
tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith e Heidegger. In cammino
verso il Linguaggio. Di particolare interesse e importanza sono i suoi studi
sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla dimensione religiosa
dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure mostrato una forte
attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra pensiero e musica. Altre
opere: “L'estetica di Croce nel suo svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica
e la religione di Croce (Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza,
Brescia); Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. I problemi della
"Critica del giudizio", Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona
e il tempo, Arona; Saggi filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La
religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e
linguaggio, Milano); Religione ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo,
Napoli); Nichilismo ed etica, Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla
religioso e imperativo dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia);
Leopardi e il nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria);
L'assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia
della religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della
religione antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della
trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri
del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die Sprache im
Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg Trakls Gedicht.
Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem Fragenden.
Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La parola. Il verbo.
Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e tempo. La
riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e metodo storico-ermeneutico.
Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà sta la possibilità. La
Kehre. L’essere: un problema che rimane problema. Poesia. L'arte come messa in
opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della povertà. Il pensiero come Kehre.
In cammino verso il silenzio. La differenza e il fondamento. In cammino verso
il linguaggio: il dire originario. In cammino verso il linguaggio: il suono del
silenzio. “Heidegger is the greatest living philosopher”. Heidegger In cammino verso il linguaggio Curatore: C.
Mursia. Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio. Ci sono alcune cose
interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto l’esordio in cui è
molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo nella veglia e nel
sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma ascoltiamo o
leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma ci dedichiamo
a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro parliamo
ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non
nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per natura
parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e
dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende
affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella
del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo
quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla,
è la lezione di Humboldt, resta però da riflettere che cosa significhi
“l’Uomo”. Ora considera una poesia di Kraus: Quando la neve cade alla finestra
a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è pronta, la casa è
tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta per oscuri
sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa della terra,
silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la soglia, là
risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita piena di
grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo” colui
che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che cosa
“chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta
dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”,
il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la
religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero
essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento:
come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente,
però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli
enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e
rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi
vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda
lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose
quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose
si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è
sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che
non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco:
esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le
cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza.
Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa
ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la
loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo 3 potrebbe
essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da
alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il
mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla
nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le cose-
tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure però
costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà che
stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente,
compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si
costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla quale,
e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità della
dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che differenziando
porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le
cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un verso l’altro. Il
termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione posta tra oggetti
del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo sono quelli che
il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una relazione
oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero presentativo
venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è comunque relazione
tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento negata e trascesa
– cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa che le cose
emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga come quello
che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto misura nella sua
interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio di mondo e cosa,
la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta generandola la
misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel nominare che chiama
“cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza. A questo
punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente a Derrida, il
quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà ancora più
evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De Saussure dice:
“Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo chiamare è
l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale soltanto ogni
“chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni possibile
“chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella “quiete”
(adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente) portando mondo
e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel modo
dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono della
quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è
esattamente lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a,
è uguale, non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è
esattamente questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla
parola di essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere
qualcosa, lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure,
dal segno di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che
questa barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella
che compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono minimamente
interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto conto di queste
asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino verso il
linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo determina,
non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare l’esserci,
“Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente di volta in
volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che l’essere
non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così notava
Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza improbabile, è
come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È niente.
Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può
accadere certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non
avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa
ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a
parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e
tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una
riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio
necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende
sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare
non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno
scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente
oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua
costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene:
si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica.
Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non
portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la
presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e
alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di
fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di
controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel
prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che
qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello
che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle
prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo
non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in
ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice,
ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel
linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le
cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione
perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in
Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette,
mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione
esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico
esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non
esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di
porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per
Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non
necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo,
sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè
la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che
l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo.
Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano,
dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito
dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non
averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi
interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio
“che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso utilizzare
quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è sempre
all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare
autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che
sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita
a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto
dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose
molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante
perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le
cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere,
lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. Heidegger
prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da qualche tempo (siamo nel
‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che viene chiamato
“metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici) giustamente pertanto la
filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale super linguaggio,
intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona come metafisica,
non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti la metafisica
della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento
interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica e
tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia
di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte,
meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e
splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno
giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito
di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio,
questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è
mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della
tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido
il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le
parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario,
lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa
è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel
senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel
cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere
quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la
velocità cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non
avesse parlato all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta
parlando della tecnica ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto
l’uomo alla fretta, se la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci
sarebbe nessuno sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del
linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il
riguardo dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma.
(l’enigma sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice
delle cose perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga
sul fatto che se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa,
non c’è nulla. Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un
caso che riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso
infatti appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist
wo das Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato
diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del
discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che
segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo
“così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non
indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve
immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola
e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si
esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il
poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del
rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola
a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto
diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe
allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”,
l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma
dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in
futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia”
significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente
dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha
evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci
incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come
8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli
abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la
parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola
“Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice
“Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa”
“rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco
“sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un
Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al
suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui
rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si
sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa
ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di
fronte a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì
prima che io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però
aggiunge no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato
destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a
quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che
solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella
cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta
rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è
propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come
una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione,
seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa,
questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola
dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la
parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in
modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte
del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia
bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre
commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole
che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo
quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua
fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita
delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando
di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già,
da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto
consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola
sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò che si
fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita ancora la
frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra parola e
cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto
essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa (qualunque
essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del rapporto, il
complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io che porta
all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo,
il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si
occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle
scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός”
“attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella
scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al
contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo
fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche,
che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus
degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà
di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la
vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.
L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono
trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche
Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza
e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino.
Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel
metodo e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze
verso mete che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel
potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle
possibilità a questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il
tema rientra nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni,
mercoledì prossimo riprendiamo questo testo. Vi rileggo la poesia di Stefan
George perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di
lontano o sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che
la grigia Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora
afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un
giorno giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò
a lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che
la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta
chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della
parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe
garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla
parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale
dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche
cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe
il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del
significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro
elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche
cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza.
“Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa,
prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa
trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. //
Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra
il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra
essere e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e
sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in
questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché appunto
dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza
del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene
così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé,
con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale
comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza
del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la
parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel
rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri
termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si trattiene
dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse
parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si
trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che
l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e
cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il
linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla
di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda
nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è
proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla
continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con
Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è
qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi,
ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a
questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che
è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così
suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il
rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché
è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la
parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la
questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come
diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra
i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi
di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa
all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è
il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo
anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile
essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto
ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma
porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e
tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così
dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la
parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel
momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo.
Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in
rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa
come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la
parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice
che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui
badate bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte,
come dire che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non
c’è più la parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso
che la parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il
λόγος, e questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla
questione della metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger,
non è altro che lo spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e
che deve dare il senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le
distinzioni dalle più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”,
“immanente – trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione –
enunciato”, l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico
che tutta questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa
accezione ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come
dicevo, trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in
cui qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a
qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti
ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è
in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo
ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza,
potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe,
dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla
metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo
elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato
da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo
punto non c’è la possibilità di bloccare un significato 12 ovviamente, ma
questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio
continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere
quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo,
di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il
linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la
metafisica illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per
cui non hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita
dalla metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla
metafisica, e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La
“parola per la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il
linguaggio (cioè se c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è,
una parola che dica la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola,
non c’è, non si trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa
essere, quindi non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non
c’è la parola che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come
essente splenda e fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un
tesoro non conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il
pensiero? Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la
parola autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha
essere. Il nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone
un pensiero così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle
parole, esse sono. Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri
sensi, basta solo per far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di
“cose” stampate, certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la
parola grazie alla quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in
grado né di captarla né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la
parola? dove il dire? Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno
che può essere di grande aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece
noi abbiamo cognizione delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola
allora la cosa è. Ma qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è”
è anch’esso una cosa sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi
non troviamo mai questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la
situazione è la stessa che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose
che sono più di quanto non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non
è, nel senso dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè
come ente, qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come
lo è per esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente
un’altra cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare
frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del
linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per
sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla
che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è”
nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti)
l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito
di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che
“la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la
parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno
l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il
rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il
dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente,
qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il
pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato,
pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in
modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco
può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si
offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso
incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la
parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non
solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella
sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello
che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es
ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt
Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è
qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che
dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica
del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non
è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel “es,
das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò
stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in
molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren”
“ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra
riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola”
ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war,
soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là
dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state
fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti
al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere
pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che
noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che
propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la
determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse
il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la
rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella
parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che
non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma
comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma
sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è
trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio
della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte
insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la
parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale
incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a
dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si
sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i
versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone
cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che
non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola
come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione
che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità
tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che l’evento
domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice della sua
essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre raggiunto il
segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo solo se ha
risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto nel
linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché la
presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica nucleare,
non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo (in
tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre esattamente
gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in grado di
produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a crollare
l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché non
avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto parla
contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di interpretare il
cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”, sennonché ciò che
spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è primariamente la
passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad essere quel che sono
in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina il pensiero moderno
nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e nella difficile
situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia dietro la quale si
cela un passivo che non può essere sanato né da parte della scienza, né da
parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente poi qual è
questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere ciò che
stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande):
(Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna
cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una
frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa,
farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la
parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola
per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per
essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono
conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha
detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di George) sono come qualcosa che dorme, che ha
bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle cose,
nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che poi
viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a quel
momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano la
realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto quella
che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si trova? (il
gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello deve sì
restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No, altro
accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che manca il
nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della parola, è
quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente: (cioè la
parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo prende e lo
porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola presenta
improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa sulla realtà,
come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che consiste nel dare
un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta dinnanzi, al contrario
(qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce la presenza cioè
l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente, quest’altro potere
della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo brusco e improvviso,
al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca, perciò il gioiello
dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro che poi il poeta
non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua, che cosa manca?
Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo al fatto che ciò
che manca è quella parola che da fuori del linguaggio finalmente dica che cos’è
veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è un’altra parola, non è
qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che sia esattamente quella
cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la cosa sia, cosa
tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai giunge a
possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la vita della
parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto di fare
essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola, alla
sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla
dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio
quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come
parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima,
le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das
Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario,
velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò
che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè
esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo
abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul
linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come
“energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”,
espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di
tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa
fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare
esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il
linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso
metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se
volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo
pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa
parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in
questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare
rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a
quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola,
mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose,
l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti,
presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che
sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che
queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri”
(questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in
un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come
sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è
precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e
in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è
detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza
fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e
può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco?
Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già
costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far
che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio
come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die
Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti
i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini
soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in
questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare
che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne
riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine
volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a
ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò (ricordate:
il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per Heidegger) in
tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola,
che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di noi, non solo ma in
quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto, che è operante il
mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è presente appare,
ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario il soggetto)
dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra una ripetizione
inutile “dischiude il suo essere presente nel suo essere presente” ma il
fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è così automatico, occorre
qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il quale qualche cosa può essere
presente, non basta che sia presente perché che sia presente da sé non
significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere presente.) il dire
originario domina compone in unità la libera distesa di quella radura … da dove
viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e troppo in fretta (non è che
possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi di osservare la natura e
l’origine del moto presente nel mostrare, non è necessaria qui una lunga
ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non obliabile e perciò sempre
nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi tuttavia lungi dal
riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di conoscere, questa
realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni mostrare del dire originario
trae il proprio moto, è per ogni essere presente ed essere assente l’alba di
quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio la vicenda del giorno e
della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più remota tale realtà appena
ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera “Er-örterung”. Il tempo che
non concede di essere raggiunto perché è luogo di tutti i luoghi e di tutti gli
spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con una parola antica e diremo:
ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo “Eignen”. Lo Eignen adduce
ciò che è presente e assente in quello che gli è proprio, cosicché emergendone
la cosa presente e assente, si rivela nella sua vera identità e resta se
stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se stesso nel senso di un
narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come sarebbe potuto apparire,
(eventualmente) come dire originario il linguaggio è il mostrare appropriante,
che appunto prescinde da sé per dischiudere così per mostrare la possibilità di
rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il linguaggio consente alla
cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di mostrarsi per quello che è. Il
linguaggio è questa possibilità delle cose di essere quelle che sono. Ma non
toglie alle cose il fatto che sono quelle che sono.) Il linguaggio che parla
dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare il dire che non ha suono,
corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene dicendo, in tal modo anche il
silenzio che non di rado si pone a fondamento del linguaggio, come sua
scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla chiamata del dire,
ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo punto la risposta a
quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli che siamo, restiamo
immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a un punto da cui ci
sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il linguaggio sempre solo
in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di noi (appoggiato su di
noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto che del linguaggio ci
è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio bisognerebbe uscire dal
linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso secondo la concezione
tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia rappresentare, non è
certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale siamo eletti e
attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a portare a
parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati ad essere
parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto, rispondere
voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il logos.
Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è ciò che
consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno della parola
per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa, e quindi è
quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere cosa. Terza
domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un dono conferito
alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος, nient’altro che λόγος
e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste cose perché non è tanto
il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger quanto il modo in cui approccia
la questione del linguaggio, in un modo che lui direbbe “non presentativo” cioè
non mostra, non dice che cos’è il linguaggio come fa la linguistica, come fa la
filosofia del linguaggio, come fa la filosofia in generale approcciando il
linguaggio come ente, perché sta qui la differenza ontologica: ente/Essere. Il
linguaggio è Essere non è ente. Sono considerazioni interessanti che possono
portare ad altre considerazioni, possono aprire altre vie, per questo motivo vi
ho letto alcune cose di questo testo di Martin Heidegger. The uttered speech of
private life is fluctuating and variable. In every period it varies
according to the age, class, education, and habits of the speaker. His
social experience, traditions and general background, his ordinary tastes
and pursuits, his intellectual and moral cultivation are all reflected in
each man’s conversation. These factors determine and modify a man’s mode
of speech in innumerable ways. They may affect his pronunciation, the
speed of his utterance, his choice of vocabulary, the shade of meaning he
attaches to particular words, or turns of phrase, the character of such
similes and metaphors as occur in his speech, his word order and the
structure of his sentences. But the individual speaker is also
affected by the character of those to whom he speaks. He adjusts himself
in a hundred subtle ways to the age, status, and mental attitude of the
company in which he finds himself. His own state of mind, and the mode of
its expression are unconsciously modified by and attuned to the varying
degree of intimacy, agreement, and community of experience in which he may
stand with his companions of the moment. Thus an accomplished
man of the world, in reality, speaks not one but many slightly different
idioms, and passes easily and instinc- tively, often perhaps unknown to
himself, from one to another, according to the exigence of circumstances.
The man who does not possess, to some extent at least, this power of
adjustment, is of necessity a stranger in eveuy company but that of one
particular type. No man who is not a fool will consider it proper to
address a bevy of Bishops in precisely the same way as would be perfectly
natural and suitable among a party of fox-hunting country
gentlemen. A learned man, accustomed to choose his own topics of
conversation and dilate upon them at leisure in his College common room
where he can count upon the civil forbearance of other people like
himself, would be thought a tedious bore, and a dull one at that, if he
carried his pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart regiment.
'A meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund Verney,
in a letter in which he discusses a proposal that his son should be sent
to Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a youth
of his yeares that must see company at convenient times, and studdy men
as well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous
then esteemed ^ There is naturally a large body of colloquial
expression which is common to all classes, scholars, sportsmen, officers,
clerics, and the rest, but each class and interest has its own special
way of expressing itself, which is more or less foreign to those outside
it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise
between a variety of different jargons, each evolved in and current among
the members of a particular section of the community, and each, within
certain social limits, affects and is affected by the others. Most men
belong by their ciicumstanccs or inclinations to several
speech-communities, and have little difficulty in maintaining Ihhmsclvcs
creditably in all of these. The wider the social opportunities and
experience of the individual, and the keener his lin- guistic instinct,
the more readily does he adapt himself to the company in which he finds
himself, and the more easily docs he fall into line with its accepted
traditions of speech and bc aiing. But if so much variety in
the details of colloquial usage exists in a single age, with such
well-marked differences between the conventions of each, how much greater
will be the gulf which separates the types of familiar conversation in
different ages. Do we realize that if we could, by the workings of some
Time Machine, be suddenly transported back into the seventeenth century,
most of us would find it extremely difficult to carry on, even among the
kind of people most nearly corresponding with those with whom we are
habitually associated in our present age, the simplest kind of decent
social intercourse? Even if the pronunciation of the sixteenth century
offered no difficulty, almost every other element which goes to make up
the medium of communication with our fellows would do so. We
should not know how to greet or take leave of those we met, how to
express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay a
compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We should be
at a loss how to begin and end the simplest note, whether to an intimate
friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold a footman,
commend a child, express in appropriate terms admiration for a woman’s
beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate every
moment how to address the person we were talking to, and should be
embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as — look here,
old man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon
; I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most
amusing ; you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and
meaningless expressions with which most men fill out their sentences. Our
innocent impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so
on, would be nipped in the bud for want of words to express them. How
should we say, on the spur of the moment — what a pretty girl 1 ; what an
amusing play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ;
that's a perfectly rotten book ; I hate the way she dresses ; look here,
Sir, you had better lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if
I'll do that ; I’m very much obliged to you. I'm sure ? It is
very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these and a
thousand others when we read them in the pages of Congreve and his
contemporaries, but it is equally certain that the right expressions
would not rise naturally to our lips as we required them, were we
suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk. The
fact is that we should feel thoroughly at sea in such company, and should
soon discover that we had to learn a new language of polite society. In
illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to be
content, either with the account of conversations given in letters, or
with such other passages from letters of the period as appear to be
nearest to the speech of everyday life. The following
passages are from the Shillingford Letters, to which reference is
repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are extracted from
the accounts given by the stout and genial Mayor of Exeter, in letters to
his friends, of his conversations with the Chancellor during his visit to
London. Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer
but suddenly changes to the first person— in describing the actual
meeting, again returning for a moment to the impersonal phrase.
Jolm Shillingford* ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447)
tberafter the mayer came to West- minster sone apon ix. atte belle, and
ther mette w* my lorde Chanceller atte brode dore a litell fro the steire
fote comyng fro the Sterrechamber, y yn the courte and by the dore
knellyng and salutyng hym yn the moste godely wyse that y cowde and
recommended yn to his gode and gracious lordship my feloship and all the
comminalte, his awne peeple and bedmen of the Cite of Exceter. He seyde
to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the tyme “Right well come
Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by the honde, and so went
forth to his barge and w* hym grete presse, lordis and other, &c. and
yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w* wham he was at
right grete pryvy communication. And therfor y, mayer, drowe me apart,
and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther toke my leve of
hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon youre gode
lordship and youre better leyser at another tyme He seyde to me ayen,
“Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w* the Chief
Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus
departed. A little later : — * Nerthelez y awayted my tyme and put
me yn presse and went right to my lorde Chaunccller and seide, “My lorde
y am come at your coinmaundc- ment, but y se youre grete bysynesse is
suchc that ye may not attencle ”, He seide “Noo, by his trauthe and that
y myght right well se”. Y scide “Yee, and that y was sory and hadde pyty
of his grete vexacion”. He seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme
to the Kyng, and come ayen this wyke : ye most awayte apon my comyng, and
then y wol speke the justise and attende for yow ” &c. — p. 7.
* He seyde “ Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking
on Sunday) . . . “the love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and
prayed hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym
that they have spatte to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy
that y sende to yow of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they
do so ? y woll sey right sbarpely to ham therfor and y nogh Brews*
The following brief extracts from the letters of Brews, the
affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like a ray of sunlight in the
dreary wilderness of business and litigation, which are the chief
subjects of correspondence between the Pa&tons. Even this Iove*letter
is not wholly free from the taint, but the girl's gentle affection for her
lover is the prevailing note* * Yf that ye cowde be content
with that good and my por persone I wold be the meryest mayclen on
grounde, and yf ye thynke not your selffe soe satysfyed or that ye myght
hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be youe afor ; good trewe and
iovyng volentyne, that ye take no such labur iippon yowe, as to come more
for that matter, but let it passe, and never more to be spokyn of, as I
may be your trewe lover and bedewoman during my lyfe .’ — Pas ton
Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her 'trewe and
Iovyng volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe she here no
word from you. She is in goode heaie, blissed be God, and al yowr babees
also. I marvel I here no word from you, weche greveth me ful evele. I
sent you a letter be Basiour sone of Norwiche, wher of I have no word.’
To this the young wife adds the touching postscript : — ' Sir I pray yow
if ye tary longe at London that it wii plese to sende for me, for I
thynke longe sen I lay in your armes.’ — Paston Letie?-Sj Sir Thomas More. No figure in the
eaily part of Henry VIII’s reign is more distin- guished and at the same
time more engaging than that of Sir Thomas More* A few typical records of
his conversation, as preserved by his devoted biographer and son-in-law
Roper, are chosen to illustrate the English of this time. The context is
given so that the extracts may appear in Roper's own setting.
'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his
servaunte) liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^
liberally to rayle against his ould Master, waxed so discontented
therwith, that he hastily came to him, and tould him what he had hard:
"and were I Sir” (quoth he) " in such favour and authoritie
with my Prince as you are, such men surely should not be suffered so
villanously and falsly to misreport and slander me. Wherefore 1 would
wish you to call them before you, and to there shame, for there lewde
malice to punnish them.” Who smilinge upon him sayde, " Watter
Baylie, would you have me punnish them by whome 1 reccave more benefit!
then by you all that be my frendes ? Let them a Gods name speakc as
lewdly as they list of me, and shoote never soe many airowcs at me, so
long as they do not hitt me, what am I the worse? But if the should once
hitt me, then would it a little trouble me : howbeit, I trust, by Gods
helpe, (here shall none of them all be able to touch me. I have more
cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to be angrie with
them.” Such frutfiill communication had he often tymes with his familiar
frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde with me at Chelsey,
in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now, would to God,
Sonne Roger, upon condition three things are well estab- lished in
Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the
Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should
move you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they
be” quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth
I, “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where
as the most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at
universal peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this
present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well
settled in an uniformity. The third, that where the Kinges matter of his
marriage is now come into question, it were to the glory of God and
quietnesse of all parties brought to a good conclusion : ’’ where by, as
I could gather, he judged, that otherwise it would be a disturbance to a
great part of Christ endome/ ‘ When Sir Thomas Moore had continued
a good while in the Tower, my Ladye his wife obtayned license to see him,
who at her first comminge like a simple woman, and somewhat worldlie too,
with this manner of salutations bluntly saluted him, ‘‘What the good
yeai'e, Moore” quoth shee, I marvell that you, that have beene
allwayes hitherimto taken for soe wise a man, will now soe playe the
foole to lye here in this close filthie prison, and be content to be
shutt upp amonge myse and rattes, when you might be abroad at your
libertie, and with the favour and good will both of the King and his
Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best learned of
this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right fayre
house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your
orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you
might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be
merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to
tarry.’' After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice,
tell me, tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not
this house as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her
accustomed fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie,
Tille valle ” “How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus,
bone Deusy man, will this geare never be left?” quoth shee. “Well
then Alice, if it be soe, it is verie well. For I see noe great cause
whie I should soe much joye of my gaie house, or of any thinge
belonginge thereunto, when, if I should but seaven yeares lye buried
under ground, and then arise, and come thither againe, I should not fayle
to finde some Iherin that would bidd me gett out of the doores, and tell
me that weare none of myne. What cause have I then to like such an house as
would soe soone forgett his master?” Soe her perswasions moved him but a
little.* The last days of this good man on earth, and some of his
sayings just before his death, are told with great simplicity by Roper.
We cannot forbear to quote the affecting passage which tells of Sir
Thomas More’s last parting from his daughter, the writer’s wife.
‘When Sir Tho. Moore came from Westminster to the Towreward againe,
his daughter my wife, desireous to see her father, whome shee thought shee
should never see in this world after, and alsoe to have his finall
blessinge, gave attendaunce aboutes the Towre wharfe, where shee knewe he
should passe by, eVe he could enter into the Towre. There tarriinge for
his coininge home, as soone as shee sawe him, after his blessinges on
her knees reverentlie receaved, shoe hastinge towards, without
consideration and care of her selfe, pressinge in amongest the midst of
the thronge and the Companie of the Guard, that with Hollbards and Billes
weare round about him, hastily ranne to him, and then openlye in the
sight of all them embraced and tooke him about the necke, and kissed him,
whoe well likeing her most daughterlye love and affection towards him,
gave her his fatherlie blessinge, and manye goodlie words of comfort
besides, from whome after shee was departed, shee not satisfied with the
former sight of her deare father, havinge respecte neither to her self,
nor to the presse of the people and multitude that were about him,
suddenlye turned backe againe, and rann to him as before, tqoke him about
the necke, and divers tymes togeather most lovinglay kissed him, and at
last with a full heavie harte was fayne to departe from him; the
behouldinge whereof was to manye of them that were present thereat
soe lamentablcj that it made them for very sorrow to mourne and
weepe.’ In his last letter to his ' dearely beloved daughter, written with
a Cole Sir Thomas More refers to this incident :' And I never liked
your manners better, then when you kissed me last. For* I like when
daughterlie Love, and deare Charitie hath noe leasure to looke to
worldlie Curtesie Next morning ‘ Sir Thomas even, and the
Utas of St. Peeter in the yeare of our Lord God, earlie in the morninge,
came to him Sir Thomas Pope, his singular trend, on messedge from the
Kinge and his Councell, that hee should before nyne of the clocke in the
same morninge suffer death, and that therefore fourthwith he should
prepare himselfe thereto. Pope sayth he, for your good tydinges I most
hartily thankyou. I have beene allwayes^ bounden much to the Kinges
Highnes for the benehtts and honors which he hath still from tyme to tyme
most bounti- fully heaped upon mee, and yete more bounden I ame to his
Grace for putting me into this place, where I have had convenient tyme
and space to have remembraunce of my end, and soe helpe me God most of
all Pope, am I bound to his Highnes, that it pleased him so shortlie to
ridd me of the miseries of this wretched world. And therefore will I not
fayle most earnestlye to praye for his Grace both here, and alsoe in
another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane unto his Highnes,
that my daughter Margarette may be present at my buriall.’’ “ The King is
well contented allreadie*' (quoth M^’ Pope) ‘‘that your Wife, Children
and other frendes shall have free libertie to be present thereat “O how
much be- hoiilden” then said Sir Thomas Moore “am I to his Grace, that
unto my poore buriall vouchsafeth to have so gratious Consideration.*’
Wherewithal! Pope takeinge his leave of him could not refrayne from
weepinge, which Sir Tho. Moore perceavinge, comforted him in this wise, “
Quiete yourselfe good M^ Pope, and be not discomforted. For I trust that
we shall once in heaven see each other full merily, where we shall bee
sure to live and love togeather in joyfull blisse eternally.Wolsey.
The Ij/e of Wolsey, by George Cavendish, a faithful and devoted
servant of the Cardinal, who was with him on his death-bed, gives a
wonderfully interesting picture of this remarkable man, in affluence and
in adversity, and records a number of conversations which have a
convincing air of verisimilitude. The following specimens are taken from
the Kelmscott Press edition of 1893, which follows the spelling of the
author's MS. in the British Museum. ‘ After ther departyng^ my lord
came to the sayd howsse of Eston to his lodgyng, where he had to supper
with hyme dyvers of his frends of the court. And syttyng at supper, in
came to hyme Doctor Stephyns, the secretary, late ambassitor unto Rome ;
but to what entent he came I know not ; howbeit my lord toke it that he
came bothe to dissembell a certeyn obedyence and love towards hyme, or
ells to espie hys behaviour, and to here his commynycacion at supper. Not
withstandyng my lord bade hyme well come, and commaundyd hyme to sytt
down at the table to supper; with whome my lord had thys commynycacion
with hyme under thys maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye
be-welcome home owt of Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he,
I came home allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn
ever sence? Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than
have ye hunted and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he,
and so I have, I thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have
ye? quod my lord. I have some syr quod he. And thus in huntyng, and
in lyke disports, , passed they all ther commynycacion at supper. And
after supper my lord and he talked secretly together until it was
mydnyght or they departed.’ Than all thyng beyng ordered as it is before
reherced, my lord prepared hyme to depart by water. ^ And before his
departyng he com- maundyd Syr William Gascoyne, his treasorer, to se
these thyngs byfore remembred, delyverd safely to the kyng at his
repayer. That don, the seyd Syr William seyd unto my lord. Syr I ame
sorry for your grace, for I understand ye shall goo strayt way to the
tower. Ys this the good comfort and councell, quod my lord, that ye can
geve your mayster in adversitie? Yt hathe byn allwayes your naturall
inclynacion to be very light of credytt, and mych more lighter in
reporting of false newes, I wold ye shold knowe, Syr William, and all
other suche blasphemers, that it is nothyng more false than that, for I
never, thanks be to god, deserved by no wayes to come there under any
arrest, allthoughe it hathe pleased the kyng to take my howse redy
furnysshed for his pleasyr at this tyme. I wold all the world knewe, and
so I confesse to have no thyng, other riches, honour, or dignyty, that
hathe not growen of hyme and by hyme ; therefore it is my verie dewtie to
surrender the same to hyme agayn as his very owen, with al my hart, or
ells I ware and onkynd servaunt. Therefore goo your wayes, and geve good
attendaunce unto your charge, that no thyng be embeselled.’ ‘And the next
day we removed to Sheffeld Parke, where therle of Shrews- bury lay within
the loge, and all the way thetherward the people cried and lamented, as
they dyd in all places as we rode byfore. And whan we came in to the
parke of Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of Shrewesbury, with my
lady his wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my lords gentilmen, and
yomen, standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy
ng, to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng
these words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me,
and glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ;
and myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my
gentill lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and
allthoughe I have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may
joye, I rejoyce my chaunce, which is so good to come into the hands and
custody of so noble a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn
allwayes right well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my
ongentill accusers hathe used ther accusations agenst me, yet I assure
you, and so byfore your lordshipe and all the world do I protest, that my
demeanor and procedyngs hathe byn just and loyall towards my soverayn and
liege lord ; of whose behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good
experyence ; and evyn accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I
bescche god helpe me in this my calamytie. I dought nothyng of your
Irouthe, quod therle, tlierfore my lorde I beseche you be of good chere
and feare not, for I have receyved letters from the kyng of his owen hand
in your favour and entertaynyng the whiche you shall se. Sir, I ame
nothyng sory but that I have not wherwith worthely to receyve you, and to
entertayn you accordyng to your honour and my good wyll ; but suche as I
have ye are most hartely welcome therto, desiryng you to accept my good
wyll accordyngly, for I wol not receyve you as a prisoner, but as my good
lord, and the kyngs trewe faythfull subjecte ; and here is my wyfe come
to salute you. Whome my lord kyst barehedyd, and all hir gentilwomen ;
and toke my lords servaunts by the hands, as well gentilmen and yomen as
other. Then these two lords went arme in arme into the logge, conductyng
my lord into a fayer chamber at thend of a goodly gallery within a newe
tower, and here my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue
between Wolsey and his friends, just before his death : *
Uppon Monday in the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought viii
of the clocke, the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights
burnyng uppon the cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to
his end. He perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side, asked
who was there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to me. Very
well Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ? quod
he to me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the
mornyng. Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers
times eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the
last, it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal
loose your mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of
this world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs
to have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with
you. And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all
: for whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche
better. And even with these words he began to drawe his speche at lengthe
and his tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled
hyme ; than we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and
sent for the Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede
and mynestred unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and
caused also the gard to stand by, bothe to here hyme talk byfore his
deathe, and also to here wytnes of the same ; and incontinent the clocke
strake viii, at whiche tyme he gave uppe the gost, and thus departed he
this present lyfe.’Latimer. The Sermons of Bp. Latimer present good
examples^ of colloquial oratory, and the style is but little removed from
the colloquial style of the period. The following are from the Sermon of
the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough.
It is no mete office for them. It is not semyng for their state. Thus
came up lordyng loiterers. Thus crept in vnprechinge prelates, and so
haue they longe continued. ‘ For how many vnlearned prelates haue
we now at this day ? And no maruel. For if ye plough men yat now be, were
made lordes they woulde cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of
theyr labour and fall to lordyng outright, and let the plough stand. And
then bothe ploughes nor walkyng nothyng shoulde be in the common weale
but honger. For euer sence the Prelates were made Loordes and nobles, the
ploughe standeth, there is no worke done, the people starue.
‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr
pre- lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and with
theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by tne
lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone . .
^^‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I
coulde gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so
troubeled wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m
courte^ ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions,
burdened with ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that
maketh his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their
gaye manoures and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr
Lordeshyppes : that they canne not attende it. They are other wyse
occupyed, some in the kynges matters, some are ambassadoures, some of the
pryuie counsell, some to furnyslie the courte, some are Lordes of the
Parliamente, some are presidentes, and some comptroleres of myntes. Well,
well. Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr
callyng? Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the
myntes ? Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ?
Is this hys charge ? I woulde here aske one question : I would fayne
knowe who comp- trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he
comptrolleth the mynte ? If the Apostles mighte not ieaue the office of
preaching to be deacons, shall one Ieaue it for myntyng ? ’
Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the
hearers, and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What
are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is
illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of them would
now make us laugh, are at least couched in a very easy and colloquial
style and enlivened by scraps of actual conversation. The most
amusing element in the whole chapter is the attitude of the writer to the
subject, and the combination of seriousness and scurrility with which it
is handled. ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane
that maketh us mery ... is the fondnes, the filthines, the deformitie,
and all such euill be- hauiour as we see to be in other? ... Now when we
would abashe a man for some words that he hath spoken, and can take none
aduauntage of his person, or making of his bodie, we either doubt him at
the first, and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els
we confute wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we
extenuate and diminish his doings by some pretie meanes, or els we cast the
like in his dish, and with some other devise, dash hym out of countenance
: or last of all, we laugh him to scorne out right, and sometimes speake
almost neuer a word, but only in continuaunce, shewe our selues
pleasaunt’. — ^p. 136. ‘ A frend of mine, and a good fellowe, more
honest then wealthie, yea and more pleasant then thriftie, liauing need
of a nagge for his iourney that he had in hande, and being in the
countrey, minded to go to Parlnaie faire in Lincolnshire, not farre from
the place where he then laie, and meeting by the way one of his
acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how horses went at the
Faire. The other aunswered merely and saidc, some trot sir, and some
amble, as farre as I can see. If their paces be altered, I praye you tell
me at our next meeting. And so rid away as fast as his horse could cary
him, without saying any word more, whereat he then being alone, fel a
laughing hartely to him self, and looked after a good while, vntil the
other was out of sight.’ — p. 140. 'A Gentleman hauing heard a
Sermon at Panics, and being come home, was asked what the preacher said.
The Gentleman answered he would first heare what his man could saie, who
then waited vpon him, with his hatte and cloake, and calling his man to
him, sayd, nowe sir, whate haue you brought from the Sermon. Forsothe
good Maister, sayd the seruaunt your cloake and your hatte- A honest true
dealing seruaunt out of doubt, piaine as a packsadclle, bauing a better
soule to God, though his witte was simple, then those haue, that vnder
the colour of hearing, giuc them selues to priuie picking, and so bring
other mens purses home in their bosomes, in the steade of other mens
Sermons.’— pp. 14X-2. These two stories are intended to illustrate
the point that ' We shall delite the hearers, when they looke for one
ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though we would not seeme
to vnderstand what they would haue ^Churlish aunsweres like
the hearers sometimes very well. When the father was cast in judgement,
the Sonne seeing him weepe : why weepe you Father? (quoth he) To whom his
Father aunswered. ^What? Shall I sing I pray thee seeing by Lawe I am
condemned to "dye. Socrates likewise bieing^ mooued of his wife,
because he should dye an innocent and guiltlesse in the Law: Why for
shame woman (quoth he) wilt thou haue me to dye giltic and deseruing.
When one had falne into a ditch, an other pitying his fall, asked him and
saied : Alas how got you into that pit ? Why Gods mother, quoth the
other, doest thou aske me how I got in, nay tell me rather in the
mischiefe, how I shall get out.’ The nearest approach to the
colloquial style in Bacon is to be found in the Apophthegms, in which are
scraps of conversation. A few may be quoted, if only on account of the
author. ‘ Master Mason of Trinity College, sent his pupil to an
other of the fellows, to borrow a book of him, who told him, I am loth to
lend my books out of my chamber, but if it please thy tutor to come and
read upon it in my chamber, he shall as long as he will.” It was winter,
and some days after the same fellow sent to M^‘ Mason to borrow his
bellows ; but M^’ Mason said to his pupil, ‘‘ I am loth to lend my
bellows out of my chamber, but if thy tutor would come and blow the fire
in my chamber, he shall as long as he will.” —ApophtJi. There were
fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon came thither by chance
in the afternoon, and offered to buy their draught : they were willing.
He askcvl them what they would take ? They asked thirty shillings. M^
Bacon offered them ten. They refused it. Why then said M^* Bacon, I will
be only a looker on. They drew and catched nothing. Saith M^ Bacon, Are
not you mad fellows now, that might have had an angel in your purse, to
have made merry withal, and to have warmed you thoroughly, and now you
must go home with nothing. Ay but, saith the fishermen, we had hope then
to make a better gain of it. Saith M^’ Bacon, ‘‘ Well my master, then I
will tell you, hope is a good breakfast, but it is a bad supper.” Otway^s
Comedies have all the coarseness and raciness of dialogue of the latter
half of the seventeenth century, and a pretty vein of genuine comicality.
They are packed with the familiar slang and colloquialisms of the period.
A few passages from Friendship in Fashion illustrate at once the speech
and the manners of the day. Enter Lady SQUEAMISH at the
Door, Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see
I am at it. Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no
sooner talk of wh — but she must come in, with a pox to her. Madam, your
Ladyship’s most humble Servant. Ldy Squ. Oh, odious !
insufferable ! who would have thought Cousin, you would have serv’d me
so— fough, how he stinks of wine, I can smell him hither. — How have you
the Patience to hear the Noise of Fiddles, and spend your time in nasty
drinking ? Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely Lady,
thou shalt take thy Glass. Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I had
rather you had offered me a toad. B b Sir N, Then
Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion upon Ossa. [Drinks
and breaks the Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?
MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients
; the noble Gentleman is well read. Ldy Squ. 'Nay he’s an
ingenious Person I’ll assure you. Sir N. Now Lady bright, I am
wholly thy Slave: Give me thy Hand, I’ll go straight and begin my
Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign me the private Honour of
thy Lip. Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for
shame be not so rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you
good-natur’d Toad you. [Exetmti\ Malagene, . . . I’m a very
good Mimick ; I can act Punchinello, Scara- mouchir, Harlequin, Prince
Prettyman or anything. 1 can act the rumbling of a Wheel -barrow.
Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow ! MaL Ay, the
rumbling of a Wheel-barrow, so I say — Nay more than that, I can act a
Sow and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a roasting : I
can act a fly in a Honey-pot, Truman, That indeed must be the
Effect of very curious Observation. MaL No, hang it, I never make
it my business to observe anything, that is Mechanicke. But all this I
do, you shall see me if you will : But here comes her Ladyship and Sir
Noble. Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for
Heav’n’s sake. Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee :
Sir, do you know me ! I am Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate,
and I live— Do you want any money ? I have fifty pounds. VaL
Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The Lady, the
Lady, Sir Noble. Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take
ft, there it is. — Hang Money, my Father was an Alderman. MaL
’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.
[Picks up the Guineasl\ Sir N. But, Sir, you will not keep my
Money ? MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.
Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag — I do but sham all this
while i — ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and
come kiss me. VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.
Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay
dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits. Sir
N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry me?
[LTneels.] MaL Faith Madam do, let me make the Match.
Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll swear
have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ? MaL Write? I
thank your Ladyship for that with all my Heart. No I have a Finger in a
Lampoon or so sometimes, that ’s all. Truman, But he can act.
Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our
Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not
comparable to the French or Italian: Besides we want Poets. SirN,
Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play, and have
nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy. Ldy Squ. Oh Cousin, if you undertake
to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft melting tender
things in it that may be moving, and make your Lady’s Characters virtuous
whatever you do. Sir N. Moving I Why, I can never read it myself
but it makes me laugh : well, ’tis the pretty’st Plot, and so full of
Waggery. Ldy Sgti, Oh ridiculous I Mai But Knight, the
Title ; Knight, the Title. Sir N, Why let me see ; ’tis to be
called The Merry Conceits of Love ; or the Life and Death of the Emperor
Charles the Fifth, with the Humours of his Dog Boabdillo. Mai
PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a
little something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it
makes me think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O
Lord, don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there
ever any- thing so pleasant ? Trwn, Was ever anything so
affected and ridiculous ? Her whole Life sure is a continued Scene of
Impertinence. What a damn’d Creature is a decay’d Woman, with all the
exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet none of the Charms ! [Mai
s^peaks in PunchinelMs voicei\ Ldy Squ, O Lord, that, that ; that
is a Pleasure intolerable. Well, let me die if I can hold out any
longer. A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the
Generous Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two
Gentlemen’, Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays
of the day and others of an earlier date. The style is that of easy and
natural familiar con- versation, with little or no artificiality, and
incidentally, the tract throws light upon contemporary manners and social
habits. The following examples are designed to illustrate the colloquial
handling of indifferent topics, and the small-talk of the early
eighteenth century, as well as the treatment of the immediate subject of
the essay. Sullen. They may talk of the Country and what they will,
but the Park for my money. Ramble. In its proper Season I
grant you, when the Mall is pav’d with lac’d shoes ; when the Air is
perfum’d with the rosie Breath of so many fine Ladies ; when from one end
to the other the Sight is entertain’d with nothing but Beauty, and the
whole Prospect looks like an Opera. Sull And when is it out of
Season Ramble ? Ram. When the Beauties desert it ; when the absence
of this charming Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is
to me no more than a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country
Garden with a pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.
Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and
the Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the
Masters in Town can’t divert you. Ram. I love everything as
Nature and the Nature of Pleasure has con- triv’d it ; I love the
Town in Winter, because then the Country looks aged and deform’d ;
and I hate the Town in Summer, because then the Country is in its Glory,
and looks like a Mistress just drest out for enjoyment. Sull Very well
distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress. Ram. I
distinguish ’em by that comparison because I love nothing well enough to
be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change my
Abode with my Inclination, Sull I differ from you for the very
Reason you give for your change ; the Town is evermore the same to me ;
and tho* the Season makes it look after another manner, yet still it has
a Face to please me one way or other, and both Winter and Summer make it
agreeable, —pp. 1-3* B b 2 Here is a conversation
during dinner at the ' Blew Posts \ Critik, What have you order’d
? Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ;
d’ee like it ? Crit, I like, anything in the World that will
indure Cutting : Prithee Cook make haste or expect I shall Storm thy
Kitchin. SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping
Garrison in Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy
Company. CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou
mightst under- stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our
Places • . . the blessed hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to,
Graces are out of Fashion. Ramb. I wish the Charming Madam Subligny
were here. CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d
down to the Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter,
some Wine . , . or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an
Ostrich, the Bones of these great Fish are no more to him than the Bones
of an Anchovy ; they melt upon his Tongue like marrow Puddings.
Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here
’s one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . .
. , Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?
Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to
break his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his
knife in ’t, it runs away from him as if it were still alive, and was
afraid of the Hook : Put the Lamb this way. SulL The Rogue
quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the whole Pond ; the
late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar- badge, wou’d
ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ? does that
feel your knife? Crit. A little more substantial, and not much :
Well, I shou’d certainly be starv’d if I were to feed with the French, I
hate their thin slops, their Pot- tages, Frigaces, and Ragous, where a
Man may bury his Hand in the Sauce, and dine upon Steam : No, no, commend
me to King Jemmy’s English Surloin, in whose gentle Flesh a Man may
plunge a Case-knife to the tip of the Handle, and then draw out a Slice
that will surfeit half a Score Yeoman of the Guard. Some Wine ye Dog . .
. there . , . now I have slain the Giant ; and now to your Question . . .
what was it you askt me ? Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some
Tarts and Cheese ? Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like
a faint After-kiss, when a Man is sated with better Sport ; there ’s no
more Nourishment in ’em, than in the paring of an Apple. Here Waiter take
away. . . . Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’ ,
. Ramb. Here Waiter — send to the Booksellers in Pell mell for the
Generous Conqueror and make haste . . , you say you know the Author
Critick. Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of
good Extraction, and for ought I know, of good Sense. Ramb.
Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that a Man that
can write a Play, must be a Man of good Sense. Crit That is not
always a consequence, I have known many a singing Master have a worse
voice than a Parish Clerk, and I know two dancing Masters at this time,
that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit up a Man of War
for the West Indies, and perhaps not know his Compas : Or a great
Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole World, may,
like him, not know the way from the next Village to his own House.
Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick. Cfit. Not so
remote as some successful Authors are from good sense ; Wit and Sense are
no more the same than Wit and Humour; nay there is even in Wit an
uncertain Mode, a variable Fashion, that is as unstable as the Fashion of
our Cloaths : This may be proved by their Works who writ a hundred Years
ago, compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney, Don, Overbury,
nay Ben himself took singular delight in playing with their Words : Sir
Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by the
example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now
that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low
for the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find a
Man who still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as
who is more remarkable than Capt. Swan. Ramb. Nay, your
Quibble does well now a Days, your best Comedies tast of ’em ; the Old
Batchelor is rank. Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen
Betty’s Ruff and Fardin- gale are not more exploded ; But Sense
Gentlemen, is and will be the same to the World’s end. SulL
And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and such
Variety. Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the
last Reign but two, complain of the same Calamity, and before that Reign
the thing was the same : All Ages have produced Murmurers ; and in the
best of times you shall hear the Trades-man cry — Alas Neighbour ! sad
Times, very hard Times .. , not a Penny of Money stirring . . . Trade is
quite dead, and nothing but War . . . War and Taxes . . . when to my
knowledge the gluttonous Rogue shall drink his two Bottles at Dinner, and
his Wife have half a Score of rich Suits, a purse of Gold for the
Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver Lace on her under
Petticoats. Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is
a great Truth; those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’
our Nation never had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too
little for their voracious Appetites : As I live — says he, I can’t
afford this Silk one Penny cheaper — d’ee mind the Rogues Equivocation ?
as I live — ^that is, he lives like a Gen- tleman — but let him live like
a Tradesman and be hang’d ; let him wear a Frock, and his Wife a blew
Apron. Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. —
pp. 76-9. The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^
devoid of all the lighter touches, is typical of the age that was
beginning, the age of reaction against the levities and negligences in
speech and conduct of the seventeenth and early eighteenth
centuries. The following conversation of rather an agitated
character, between a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa
Ifarlozue{i*j4S): * • * • My mother came up to me. I love, she was
pleased to say, to come into this appartment.— No emotions child I No
flutters ! — Am I not your mother F—Am I not your fond, your indulgent
mother P-— Do not discompose me by discomposixig Do not occasion me
uneasiness, when I would glveyau nothing but pleasure. Come my
dear, we will go into your closet. . . . PI ear me out and then speak ;
for I was going to expostulate. You are no stranger to the end of M^
Solmes’s visits — O Madam! — Hear me out; and then speak. — He is not
indeed everything I wish him to be : but he is a man of probity and has
no vices — No vices Madam ! — Hear me out child. — You have not behaved
much amiss to him : we have seen with pleasur *. that you have not — O
Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently, —A young
creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say, cannot
surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see
any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles
and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? |
w^nt to secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to know)
whether you prefer this man to all others ? — Yet God forbid that I
should know you do ; for such a declaration would make us all miserable.
Yet tell me, a.re your affections engaged to this man ? I
know what the inference would be if I had said they were not You hesitate
— You answer me not — You cannot answer me — Rising — Nevermore will I
look upon you with an eye of favour — O Madam, Madam ! Kill me not with
your displeasure — I would not, I need not, hesitate one moment, did I
not dread the inference, if I answer you as you wish. — Yet be that
inference what it will, your threatened displeasure will make me speak.
And I declare to you, that I know not my own heart if it be not
absolutely free. And pray, let me ask my dearest Mamma, in what has my
conduct been faulty, that like a giddy creature, I must be forced to
marr^r, to save me from— from what ? Let me beseech you Madam to be the
Guardian of my reputation \ Let not your Clarissa be precipitated into a
stale she wishes not to enter into with any man ! And this upon a
supposition that otherwise she shall marry herself, and disgrace her
whole family. When then, Clary [passing over the force of my plea]
if your heart be free — O my beloved Mamma, let the usual generosity of
your dear heart operate in my favour.^ Urge not upon me the inference
that made me hesitate. I won’t be interrupted, Clary — You have
seen in my behaviour to you, on this occasion, a truly maternal
tenderness ; you have observed that I have undertaken the task with some
reluctance, because the man is not everything ; and because I know you
carry your notions of perfection in a man too high. — Dearest Madam, this
one time excuse me ! Is there then any danger that I should be guilty of
an imprudent thing for the man’s sake you hint at ? Again interrupted! Am
I to be questioned, and argued with? You know this won’t do somewhere
else. You know it won’t. What reason then, ungenerous girl, can you have
for arguing with me thus, but because you think from my indulgence to you
you may ? What can I say ? What can I do ? What must that cause be
that will not bear being argued upon ? Again ! Clary Harlowe
— Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure
to obey you. But look upon that man — see but the disagreeableness of
his person — Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! —
Now is M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable
only as an« other man has a much more specious person. But,
Madam, are not his manners equally so 1 — Is not his person the true
representation of his mind ? — That other man is not, shall not be,
anything to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden,
resists. Condition thus with your father. Will he bear, do you think,
to be thus dialogued with? Have I not conjured you, as you value my peace
— What is it that / do not give up ?*~-This very task, because I
apprehended you would not be easily persuaded, is a task indeed upon me.
And will you give up nothing ? Have you not refused as many as have been
offered to you ? If you would not have us guess for whom, comply ; for
comply you must, or be looked upon as in a state of defiance with your
whole family. And saying thus she arose, and went from me.’
Miss AusteiL. The following examples of Miss Austen’s
dialogue are not selected because they are the most sparkling
conversations in her works, but rather because they appear to be typical
of the way of speech of the period, and further they illustrate Miss
Austeff s incomparable art. The first passage is ixomEmma^ which was
written between i8ii and 3^5 i8i6. Mr. Woodhouse and his
daughter have just received an invitation to dine with the Coles,
enriched tradespeople who had settled in the neighbourhood. Emma's view
of them was that they were ' very respect- able in their way, but they
ought to be taught that it was not for them to arrange the times on which
the superior families would visit them On the present occasion, however,
‘ she was not absolutely w^ithout inclina- tion for the party. The Coles
expressed themselves so properly — there was so much real attention in
the manner of it — so much consideration for her father/ Emma having
decided in her own mind to accept the invitation — some of her intimate
friends were going — it remained to explain to her father, the ailing and
fussy Mr. Woodhouse, that he would be left alone without his daughter s
company for the evening, as it was out of the question that he should
accompany her. ‘ He was soon pretty well resigned.’ ‘ I am
not fond of dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is Emma.
Late hours do not agree with us. I am sorry and Cole should have done it.
I think it would be much better if they would come in one afternoon next
summer and take their tea with us ; take us in their afternoon walk,
which they might do, as our hours are so reasonable, and yet get home
without being out in the damp of the evening. The dews of a summer
evening are what I would not expose anybody to. However as they are so very
desirous to have dear Emma dine with them, and as you will both be there
[this refers to his friend Weston and his wife], and Knightley too, to
take care of her I cannot wish to prevent it, provided the weather be
what it ought, neither damp, nor cold, nor windy.” Then turning to Weston
with a look of gentle reproach — “Ah, Miss Taylor, if you had not
married, you would have staled at home with me.” “ Well, Sir ”,
cried Weston, as I took Miss Taylor away, it is incumbent upon me to
supply her place, if I can ; and I will step to M^’® Goddard in a moment
if you wish it.” . . . With this treatment M^ Woodhouse was soon composed
enough for talking as usual. “ He should be happy to see M^*® Goddard. He
had a great regard for Goddard; and Emma should write a line and invite
her. James could take the note. But first there must be an answer written
to M’^® Cole.” “ You will make my excuses, my dear, as civilly as
possible. You will say that I am quite an invalid, and go nowhere, and
therefore must decline their obliging invitation ; beginning with my
comj^limentsy of course. But you will do everything right. I need not
tell you what is to be done. We must remember to let James know that the
carriage will be wanted on Tuesday. I shall have no fears for you with
him. We have never been there above once since the new approach was made
; but still I have no doubt that James will take you very safely ; and
when you gel there you must tell him at what time you would have him come
for you again ; and you had better name an early hour. You will not like
staying late. You will get tired when tea is over.” “ But you would
not wish me to come away before I am tired, papa ? ” Oh no my love
; but you will soon be tired. There will be a great many people talking
at once. You will not like the noise.” “But my dear Sir,” cried M^’
Weston, “if Emma comes away early, it will be breaking up the
party.” “ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The
sooner every party breaks up the better.” “ But you do not
consider how it may appear to the Coles. Emma’s going away directly after
tea might be giving offense. They are good-natured people, and think
little of their own claims ; but still they must feel that anybody’s hurrying
away is no great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more
thought of than any other personas in the room. You would not wish to
disappoint and mortify the Coles, I am sure, sir; friendly, good sort of
people as ever lived, and who have been your neighbours these /en
years.” ‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much
obliged to you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving
them any pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole
never touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he
is bilious — M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of
giving them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure
rather than run any risk of hurting and Cole you would stay a little
longer than you might wish. You will not regard being tired. You will be
perfectly safe, you know, among your friends.” Oh 5^es, papa.
I have no fears at all for myself ; and I should have no scruples of
staying as late as Weston, but on your account. I am only afraid of your
silting up for me. I am not afraid of your not being ex- ceedingly
comfortable with Goddard. ^ She loves piquet, you know ; but when she is
gone home I am afraid you will be sitting up by youiself, instead of
going to bed at your usual time ; and the idea of that would entirely
destroy my comfort. You must promise me not to sit up.” * The next
example is in a very different vein. It is from Sense and Sensibility
(chap, xxi) and records the mode of conversation of the Miss Steeles.
These two ladies are among Miss Austen's vulgar characters, and their
speech lacks the restraint and decorum which her better-bred personages
invariably exhibit. While the Miss Steeles’ con- versation is in sharp
contrast with that of the Miss Dashwoods, with whom they are here
engaged, both in substance and manner, it evidently passed muster among
many of the associates of the latter, especially with their cousin Sir
John Middleton, in whose house, as relations of his wife's, the Miss
Steeles are staying. Apart from the vulgarity of thought, the diction
appears low when compared with that of most of Miss Austen's characters.
As a matter of fact it is largely the way of speech of the better society
of an earlier age, which has come down in the world, and survives among a
pretentious provincial bourgeoisie. ‘ ‘^What a sweet woman Lady
Middleton is” said Lucy Steele . . . '‘And Sir John too ” cried the elder
sistei', “ what a charming man he is ! ” . . . And what a charming
little family they have ! I never saw such fine children in my life. I
declare I quite doat upon them already, and indeed I am always
destractedly fond of children.” "I should guess so” said Elinor with
a smile “from what I witnessed this morning.” “I have a notion”
said Lucy, “you think the little Middletons rather too much indulged ;
perhaps they may be the outside of enough ; but it is natural in Lady
Middleton; and for my part I love to see children full of life and
spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet” “I confess
” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I never think of tame
and quiet children with any abhorrence.” * “ And how do you like
Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele) I suppose you were very
sorry to leave Sussex.” In some suiyrise at the familiarity of this
question, or at least in the manner in which it was spoken, Elinor
replied that she was. “Norland is a prodigious beautiful place, is
not it?” added Miss Steele, “We have heard Sir John admire it
excessively,” said Lucy, who seemed to think some apology necessary for
the freedom of her sister. “ I think MISS LUCY STEELE
B11 every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the
place; though it is not to be supposed that any one can estimate its
beauties as we do." “ And had you many smart beaux there ? I
suppose you have not so many in this part of the world ; for my part I
think they are a vast addition always." “ But why should
you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister, “that there
are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex." “
Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure
there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I
tell what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid
the Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many
as they used to have. But perhaps you young ladies may not care about
beaux, and had as lief be without them as with them. For my part, I think
they are vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil.
But I can’t bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at
Exeter, a pro- digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson,
you know, and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to
be seen. I sup- pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before
he married, as he was so rich ? " “ Upon my word,"
replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per- fectly comprehend
the meaning of the word. But this I can say, that if he ever was a beau
before he married, he is one still, for there is not the smallest
alteration in him." “ Oh ! dear 1 one never thinks of married men’s
being beaux — they have something else to do." “Lord! Anne",
cried her sister, “you can talk of nothing but beaux; — you will make
Miss Dashwood believe you think of nothing else."’ It is not
surprising that ‘ “ this specimen of the Miss Steeles’" was enough.
The vulgar freedom and folly of the eldest left her no recommendation and
as Elinor was not blinded by the beauty, or the shrewd look of the
youngest, to her want of real elegance and artlessness, she left the
house without any wish of knowing them better Greetings and
Farewells. Only the slightest indication can be given of the
various modes of greet- ing and bidding farewell These seem to have been
very numerous, and less stereotyped in the fifteenth and sixteenth
centuries than at present. It is not easy to be sure how soon the
formulas which we now employ, or their ancestral forms, came into current
use. The same form often serves both at meeting and parting.
In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that "after
evynsonge, Angnes Ball com to me to my closett and dad me good evyn \ In
the account, quoted above, p. 362, given by Shillingford of his
meetings with the Chancellor, about 1447, he speaks of "saluting hym
yn the moste godely wyse that y coude ' but does not tell us the form he
used. The Chancellor, however, replies " Welcome^ ij times, and the
tyme Right met come Mayer'% and helde the Mayer a grete while faste
by the honde I In the sixteenth century a great deal of
ceremonial embracing and kissing was in vogue. Wolsey and the King of
France, according to Cavendish, rode forward to meet each other, and they
embraced each other on horseback. Cavendish himself when he visits the
castle of the Lord of Cr^pin, a great nobleman, in order to prepare a
lodging for the Cardinal, is met by this great personage, who ^ at his
first coming embraced me, saying I was right heartily welcome'. Henry
VIII was wont to walk with Sir Thomas More, ' with his arm about his neck
\ The actual formula used in greeting and leave-taking is too often un-
recorded. When the French Embassy departs from England, whom Wolsey has
sb splendidly entertained, Cavendish says — ' My lord, after humble
commendations had to the French King bade them adieu'. The Earl of
Shrewsbury greets the Cardinal thus — ‘ My Lord, your Grace is most
heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my gentle Lord of
Shrewsbury, I heartily thank you '. It is not until the appearance
of plays that we find the actual forms of greeting recorded with
frequency. In Roister Doister, there are a fair number: — God heepe thee
worshipful Master Roister Doister; Welcome my good wenche ; God you saue
and see Nourse ; and the reply to this — Welcome friend Merrygreeke; Good
flight Roger old farewell Roger old knaue ; well mef^ I bid you
right welcome, A very favourite greeting is God he with you,
God continue your Lordship is a form of farewell in Chapman's
Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs in Middleton's Chaste
Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the same play makes use of
the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to which the reply is
vows your service Str\ Massinger's New Way to pay old Debts contains
various formulas of greeting. I ain still your creature^ says Allworth to
his step-mother Lady A. on taking leave ; of two old domestics he takes
leave with ‘ rny service to both \ and they reply ‘ ours waits on you In
reply to the simple Farewell Tom, of a friend, All worth answers ^ All
joy stay with you \ Sir Giles Overreach greets Lord Lovel with ‘ Good day
to My Lord ' ; and the prototype of the modern how are you is seen in
Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P ' A graceful greeting in this
play is ‘ Fou are happily encountered'. The later
seventeenth-century comedies exhibit the characteristic urbanity of the
age in their formulas of greeting and leave-taking. ‘ A happy day
to you Madam is Victoria's morning compliment to Mrs. Goodvile in Otway's
Friendship in Fashion, and that lady replies— ‘ Dear Cousin, your humble
servant'. Sir Wilfull Witwoud in Congreve's Way of the World, says ‘ Save
you Gentleman and Lady ' on entering a room. His younger brother, on
meeting him, greets him with ‘ Four servant Brother", and the knight
replies ‘ servant! Why yours Sir, Four servant again ; "s heart, and
your Friend and Servant to that \ Tm everlastingly your humble servant,
deuce take me Madam, says Mr. Brisk to Lady Froth, in the Double
Dealer. Your servant is a very usual formula at this period, on
joining or leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel
Courtly on entering is greeted by Lady Headpiece — Colonel your servant;
her daughter Miss Betty varies it with^ — Four servant Colonel, and the
visitor replies to both — Ladies, your most ohedienL Mr.
Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury Fair, parts thus from his
friends — Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish— -S’/r your most humble
servant; Trim — Oldwii I am your most faithful servant; Mr. Oldwit — Four
servant sweet il/'* Trim, Four servant, madam good morrow to you, is Lady
Arabella's greeting to Lady Headpiece, who replies — to you Madam
(Vanbrugh's Journey to London). The early eighteenth century appears not
to differ materially from the preceding in its usage. Lord Formal
in Fielding's Love in Several Masques, says Ladies your most humble
servafit, and Sir Apish in the same play — Four Ladyships everlasting
creature^ Epistolary Formulas. The writing of letters,
both familiar and formal, is such an inevitable part of everyday life,
that it seems legitimate to include here some examples of the various
methods of beginning and ending private letters from the early fifteenth
century onwards. A proper and exhaustive treatment of the subject would
demand a rather elaborate classification, according to the rank and
status of both the writer and the recipient, and the relation in which
they stood to each other — whether master and servant, or dependant,
friend, subject, child, spouse, and so on. In the comparatively few
examples here given, out of many thousands, nothing is attempted beyond a
chronological arrangement The status and relationship of the parties is,
however, given as far as possible. We note that the formula employed is
frequently a conventional and more or less fixed phrase which recurs,
with slight variants, again and again. At other times the opening and
closing phrases are of a more personal and individual character.
1418. Archbp* Chichele to Hen. V, Signs simply: your preest and
bede- man. — Ellis, i. i. 5. 142 5. IVilL Fasten to . Right
worthy and worshepfull Sir. I recom- maunde me to you, &c. Ends
: Almyghty God have you in his governaunce. Your frend unknowen. — Past.
Letters, i. 19-20. 1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my
worshepful housbond W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I
reccommaunde me to yow. Ends : The Holy Trinite have you in governaunce.
— P. L. i. 38-9. 1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont,
Ryght worshipful and with all my herte right enterly beloved brother, I
recomaunde me to you, thenking right hastili your good brotherhode for
your gode and gentill letters. I beseche the blissid Trinite preserve you
in honor and prosperite. Your trewe and feithfull broder H. Bukingham. —
P. L- i. 61-2. 1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful
husbon, I reccomande me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar.
Almyth God have you in his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. —
P. L. i. 48-9. 1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your
good Lordship to wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday
next to fore the Fest. By your laiost symple servaunt — P. L. i,
50. 1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and
entirely wel- bclovcd we grete you wel hertily as we kan , . . and siche
agrement as, &c. ... we shall duely performe yt with the myght of
Jesu who haff you in his blissed keping. — P. L. i. 57, 1444.
Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn, I comand me to
you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn Sir Roger Chamberlain.
1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I grete you
wel. Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59. 380
COLLOQUIAL IDIOM 1449, Marg, to John Paston. Wretyn at Norwych in
hast, Be your gronyng Wyfr.-~i. 76“7- 1449. Same to sa 7 ne.
No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar- karyte Paston. — i.
42-3. 1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore Broder*
1449. E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50 w at this
tyme, but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on Scynt Peterys
day be candel lyght, Be your Cosyn E. C. — P. L. i. 89-90.
1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only welbeloved sone.
Your trewe and lovynge fader Suffolk. — P. L. i. 12 1-2. 1450,
IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may recomaunde me to
mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at London. — P.L. i.
126. 1450. y. Gresham to ^ my Mats ter Whyte Esguyer\ After due
recomen- dacion I recomaund me to yow. 1450. J, Paston to
above, James Gresham, I pray you labour for the, &c. — i. 145*
1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf, By your old Servaunt
William Yelverton Justice. — P, L. i. 166. 1453. Agnes toJ,
Paston, Sone I grete you well and send you Godys blessyng and myn. Wretyn
at Norwych ... in gret hast, Be your moder A. Paston. — P. L. i.
259. 1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre servaunte to his powr
John Paston. — P. L. i. 276, 1454. Lord Scales to J, Paston,
Our Lord have you in governaunce. Your frend The Lord Scales. — P. L. i.
289. 1454, Thomas Howes to J, Paston, I pray God kepe yow. Wiyt at
Castr hastly ij day of September, Your owne T. Howes. — P. L. i.
301. 1454. The same. Your chapleyn and bedeman Thomas Howes.— *i.
31 8. 1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk, Writen at my pore place
of Castre, Your humble man and servaunt. — P. L. i. 324.
1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu preserve
you, J. Bysshopp of Lincoln. — P.L. i. 350. 1456. Archbp,
Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you everlastingly
in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your feith- full and
trew Th, Cant. — P. L. i. 382. 1456 (Nephew to uncle). H, Fylinglay
to Sir J, Fastolf Ryght wor- shipful unkell and my ryght good master, I
recomniaund me to yow wyth all my servys. And Sir, my brother Paston and
I have, &c. . . . Your nevew and servaunt — P. L. i. 397.
1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I wryte unto you at
this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J. J.— P, L. i. 429.
1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to Agn, Paston, Right
worshipful and my most entierly belovde moder, in the most lowly maner I
recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu for his grete mercy
save yow. By your humble daughter. — P. L. i, 434-5. 1469.
Chancellor and University of Oxford to Sir John Say, Ryght wor- shipful
our trusty and entierly welbeloued, after harty commendacyon. . . . Ends
: yo’-' trew and harty louers The Chancelir and Thuniversite of Oxon-
ford. — Ellis. 1477. John Paston to Ms mother* Your sone and
humbyll servaunt P. — P. L. iii. 176. 1481-4. Edm, Paston to
Ms mother, umble son and servant. — P. L. iii, 280.
1482. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest servaunt — P. h*
iii. 290. 1482. Margery Paston to her hushaftd. No more to you at
this tyme, Be your servaunt and bede woman.— iii. 293, 1485. Duke of
Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund me to yow. . . . I
shall content you at your metyng with me, Yower lover J. Nor- folk.— iii.
320, 1485. Eliz, Browne to J. Paston. Your loving awnte E. B.
1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght welbeloved we grete you
well. . , . Suffolk, yor frende. — iii. 324-5. 1490. Bp* of
Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit wortchipful sire, and myne
especial and of long tyme apprevyd, trusty and feythful frende, I in myne
hertyeste wyse recommaunde me un to you. . . , Scribyllyd in the moste
haste, at my castel or manoir of Aucland the xxvij of Januay. Your own
trewe luffer and frende John Duresme. — iii. 363. 1490. Lumen H ary
son to Sir f Past on. Onerabyll and well be lov^^'d Knythe, I commend me
on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr wyffe. . , . No mor than God
be wyth 50W, L. H. at ^ouyr comawndment. 1503. Q. Margaret of
Scotland to her father Hen. VII. My moste dere iorde and fader in the
most humble wyse that I can thynke I recommaunde me unto your Grace
besechyng you off your dayly blessyngys. . . . Wrytyn wyt the hand of
your humble douter Margaret. — Ellis i. i. 43. Hen. VI J to his
Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my most enterely wilbeloved
Lady and Moder . . . with the hande of youre most humble and lovynge
sone. — Ellis, i. i. 43-5. Margaret to Hen. VI 1 . My oune suet and
most deare kynge and all my worldly joy, yn as humble manner as y can
thynke I recommand me to your Grace ... by your feythful and trewe
bedewoman, and humble modyr Mar- garet R, — Ellis, i. I. 46.
1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt excellent, richt hie
and mithy Prince, our derrist and best belovit Brothir. . . . Your louyn
systar Margaret. — Ellis, i. i. 65. (The Queen evidently employed a
Scottish Secre- tary.) 1515. Margaret to Wolsey. Yours
Margaret R. — Ellis, i. i. 131. 1515. Thos. Lord Howard, Lord
Admiral, to Wolsey. My owne gode Master Awlmosner. . . . Scrybeled in
gret hast in the Mary Rose at Plymouth half o^' after xj at night . . .
y^ own Thomas Howard. c. 1515. West Bp. of Ely to Wolsey. Myne
especiall good Lorde in my most humble wise I recommaund me to your Grace
besechyng you to con- tynue my gode Lorde, and I schall euer be as I am
bounden your dayly bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman N 1 .
Elien. c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost
honorable Grace to understand. ... At your Graces commaundement, Willm.
Cantuar. — Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm.
Cantuar. Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste
lowly remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman
John Lincoln.— Ellis, iii. l. 248. Cath, of Aragon to
Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c. —Ellis, i, 2. 19,
• . . Your lovyng mother Katherine the Queue. Archibald, E. of
Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car- dinallis grace of
Ingland. — Ellis, iii. i. 291. 1521. Bp. Tunstal to Wolsey.
Addresses letter :— to the most reverend fader in God and his most
singler good Lorde Cardinal. — Ellis, iii. i* 273. Ends a letter :
By your Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL —Ellis, iii. I. 332
- 1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my
power E. Bukyngham. Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to
Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull seruyse Gavin bischop of Dunkeld.—
Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor and Chaplein of Dunkeld.— Ellis,
iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis,
iii. i. 303- Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)*
Ends : Your assurjd lover and bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6.
Again : Wryttyn hastely at Asher with the rude and shackyng hand of your
dayly bedysman and assuryd frende T. Car^^® Ebor. 1532.
T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his litell Thomas
Audeley Gustos Sigiili. Edw. E, of Hertford {afterwards Lord
Protector). Thus I comit you to God hoo send yo^‘ lordshep as well to far
as I would mi selfe . . . w^ the hand of yo^ lordshepis assured E.
Hertford. Hen. VI 11 to Catherine Parr. No more to you at thys tyme
swethart both for lacke off tyme and gret occupation off bysynes, savyng
we pray you in our name our harte blessyngs to all our chyldren, and
recommendations to our cousin Marget and the rest off the laddis and
gentyll women and to our Consell alsoo. Wryttyn with the hand off your
lovyng howsbande Henry R. — Ellis, i. 2. 130. Princess Mary
to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I commende me to you. —
Ellis, i. 2. 24, Prince Edward to Catherine Parr. Most honorable
and entirely beloued mother. . . . Your Grace, whom God have ever in his
most blessed keping. Your louing sonne, E. Prince. — Ellis, i. 2. 13
1. 1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with
most lovyng and hertie commendations. — Ellis, i. 2. 137.
Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to
com- maundement Elizabeth. — Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most
humble sistar Elizabeth. — Ellis, i. 1. 148. Princess
Elizabeth to Lord Protector. Your assured frende to my litel power
Elizabeth. — Ellis, i. 2. 158. Edward VI to Lord Protector
Somerset. Derest Uncle. . . • Your good neuew Edward. — Ellis, ii. i.
148. Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my
power Marye. — Ellis, i. 2. 153. Princess Elizabeth to Q.
Mary (on being ordered to the Tower). Your Highnes most faithful subjec
that hath bine from the begining and wyl be to my ende, Elizabeth.
(Transcr. of 1732). — Ellis, ii. 2. 257. 1553, Princess Elizabeth
to the Lords of the Council. Your verye lovinge frende, Elizabeth- —
Ellis, ii. 2. 213. 1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your
Maiesties moste bounden and obedient subjecte and servant Henry
Darnley. Queen Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and
schalbe your humble true and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the
Quenc. — Ellis, i. 2. 152. Q. Mary to Marquis of Winchester,
Your Mystresse assured Marye the Queue. -—Ellis, ii. 2. 252.
Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil. It is a great while me
thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you. ... By your lovyng
cousin and assured frynd John Grey. — Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne
Cecil!. . , . By yo^ lovyng Cousine and assured pouer frynd dowring lyfe
John Grey. — Ellis, ii. 2. 276. Lady Catherine Grey, Cmmtess
of Hertford, to Sir W, Cecil. Good cosyne Cecill . . . Your assured frend
and cosyne to my small power Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 278 ;
Your poore cousyne and assured frend to my small power Katheryne
Hartford. — Ellis, ii. 2. 287. 1564. Sir W. Cecil to Sir Thos.
Smith. Your assured for ever W. Cecill. — Ellis, ii. 2. 295 ; Yours
assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297 ; Your assured to command W, Cecill
— Ellis, ii. 2, 300. 1 566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil.
Good M^ Secretary, yf I have let you alone all thys whyle I pray you to
thynke yt was to tary for my L, of Leycesters assistans. ... I can nomore
. . , and so do leave you to God Yo’^ assured lovyng frynd Anne
Somerset,— Ellis, ii. 288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to
Sir W, CeciL Right honourable my duetie with all humblenesse consydered.
. . . Your honoures most due to commando, Christopher Jonson. — Ellis,
ii. 2. 313. 1569. Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable,
my humble dewtie premised. . . . Your honors most humblie bound Anne
Stanhope. — Ellis, il 2. 324. _ ^ ^ ^ , 1574. Sir Philip
Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable and my singular good
Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . . , Philip Sidney. —Works,
p. 345. 1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham, Righte
Honorable ... I most humbly recommende my selfe unto yow, and leaue yow
to the Eternals most happy protection, . , . Yours humbly at
commawndement Philipp Sidney. 1578. Sir Philip Sidney to
Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H. Sidney), Molineux, Few words
are best My letters to my father have come to the eyes of some. Neither
can I condemn any but you. . . . (The writer assures M. that if he reads
any letter of his to his father ^ without his commandment or my consent,
I will thrust my dagger into you. And trust to it, for I speak it in
earnest’. . . .) In the meantime farewell. From court this last of May 1
578, By me Philip Sidney.— p. 328. 1580. Sir Philip Sidney to his
brother Robert. My dear Brother . . . God bless you sweet boy and
accomplish the joyful hope I conceive of you. , . . Lord I how I have
babbled : once again farewell dearest brother. Your most loving and
careful brother Philip Sidney. 1582. Thomas Watson ^ To the frendly
Reader^ (in Passionate Centurie of Love). Courteous Reader , . . and so,
for breuitie sake (I) aprubtlie make and end ; committing the to God, and
my worke to thy fauour. Thine as thou art his, Thomas Watson.
Anne of Denmark to James L Sir ... So kissing your handes I remain
she that will ever love Yow best, Anna R. — Ellis, i. 3. 97. c.
1585. Sir Philip to Walsingham. Sir , . . your louing cosin and frend. In
several letters to Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^
1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi-
catory Epistle to the Discourse of English Poetrie). May it please you
Syr, thys once more to beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your
worshippes faithfull Seruant W. W. 1593. Edward Alleyn to his
wife. My good sweete mouse . . . and so swett mouse farwell. — Mem. of
Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and loving mouse . . . thyn ever
and no bodies else by god of heaven. — ibid. 1596, Thos., Lord
Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir Robert CeciL Sir . . . Your
very lo: frend T. Buckhurst. 1 597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I
humblie thanke yow for your letter . , . S^ I pray love vs in your
element and wee will love and honor yow in ours and every wher. And
remayne to be comanded by yow for evermore W Ralegh. 1602.
Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest, your very loving and
assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi. 1603. Same to same.
My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know, Ever yours T. Buckurst
1605, Same to same. ... I pray God for your health and for mine own
and so rest Ever yours ... 1607. Same to the University of Oxford.
Your very loving friend and Chancellor T. Dorset— xlvi. cr.
1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre zealous pooie
servant H. W. — Ellis, i. 3* loo. Q. Anne of Denmark to Sir George
Villiers (afterwards Duke of Buc- kingham). My kind Dog. # • . So wishing
you all happiness Anna R. Ellis, i. 3, ICO. Charles Duke of York to
Prince Heniy. Most loving Brother I long to see you, . . . Your H. most
loving brother and obedient servant, Charles. — Ellis, i. 3. 96.
1612. Prince Charles to James L Your most humble and most
obedient sone and servant Charles. — Ellis, i. 3. 102. Same
to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so well as your- self.
. , . Your treu and constant loving frend Charles P. — Ellis, i. 3. 104.
King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles, My onlie sweete and
deare chylde I pray thee haiste thee home to thy deare dade by sunne
setting at the furthest. — Ellis, i. 3. 120. Sa 7 ne to
Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe and stewarde. —
Ellis, i. 3, 159. Same to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you
both my sweete babes, and sende you a safe and happie returne, James R. —
Ellis, i. 3 121. Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our
Majesties most humble and obedient sone and servant Charles, and your
humble slave and doge Steenie.—Ellis, i. 3. 122. 1623.
Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . . • Your Majestyes
most humble slave and doge Steenie. — Ellis, i, 3. 146-7. 1623.
Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most obedient, most loyal,
and most affectionate subjecte and servant, E. Herbert The letters
of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves & Turner) are mostly undated,
but one to Davenant has the date 1629, and another to Sir Henry Vane that
of 1632. The general style is more modern in tone than those of any
of the letters so far referred to. (See on Suckling’s style, pp. 152-3.)
The beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes
identical with those of our own time. To Davenant, Vane, and
several other persons of both sexes, Suckling signs simply — ^ Your
humble servant J. S.’, or 'J. Suckling’. At least two, to a lady, end *
Your humblest servant The letter to Davenant begins ‘WilL; that to Vane —
‘Right Honorable’. Several letters begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘
My noble friend another ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more
fanciful letters, to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’,
‘ My clear Dear ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a
cousin begins ‘ Honest Charles The habit of rounding off the
concluding sentence of a letter so that the valedictory formula and the
writer’s name form an organic part of it, a habit very common in the
eighteenth century — in Miss Burney, for instance — is found in
Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the humble servant
of my Lord that 1 was, and when I cease to be so, I must cease to be
John Suckling’; ‘yet could never think myself unfortunate, while I can
write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and should you leave that
lodging, more wretched than Montferrat needs must be your humble servant
J. S.’, and so on. The longwindedness and prolixity wiiich
generally distinguish the openings and closings of letters of the
fifteenth and the greater part of the sixteenth century, begin to
disappear before the end of the latter period. Suckling is as neat and
concise as the letter-writers of the eighteenth century. ‘Madam, your
most humble and faithful servant' might serve for Dr. Johnson. Most
of our modern formulas were in use before the end of the first half of
the seventeenth century, though some of the older phrases still survive.
But we no longer find " I commend me unto your good master- ship,
beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and
such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see
pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to
1675, by which latter date letters have practically reached their modern
form. Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee,
'Deare Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend
J. B.', 'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your
assured frend and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J.
B.' When Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in
his exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our
present purpose possess great human and historical interest. These
letters generally begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he
signs himself ' Your very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your
faithful husband', ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till
death ' Meanewhile assure your selfe of the constant love of— My dearest
— ^Your loyall husband The lady to whom these affectionate letters
were addressed, bore with wonderful patience and cheerfulness the anxieties
and sufferings incident upon a state bordering on absolute want caused by
her husband's depriva- tion of his living under the Commonwealth, his
prolonged absence, together with the cares of a family of young children,
and very indifferent health. She was a woman of great piety, and in her
letters ‘ many a holy text around she strews ' in reply to the religious
soliloquies of her husband. Her letters all begin ' My dearest ’, and
they often begin and close with pious exclamations and phrases — 'Yours
as much as euer in the Lord, No, more thene euer ' ; ' My dearest, I
shall not faile to looke thos plases in the criptur, and pray for you as
becometh your obedient wife and serunt in the Lord F. B. ’ ; another
letter is headed ' Jesu 1 and ends — ' I pray God send vs all a happy
meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.' Many of the letters are
headed with the Sacred Name. Others of Mrs. Basire's letters end —
'Farwall my dearest, I ham yours faithful for euer'; 'I euer remine Yours
faithfuil in the Lord'; 'So with my dayly prayers to God for you, I
desire to remene your faithfuil loveing and obedient wif '.
It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends
of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate
the usage of the latter part of the seventeenth century. These
letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip- tions
such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire, Prebendary of
the Cathedral Church in Durham. To be recommended to the Postmaster of
Darneton' (p. 213, dated 1662). This letter, from Prebendary Wrench
of Durham, begins ' Sir and ends — ' Sir, Your faithfuil and unfeigned
humble Servant R. W.' In the same year the Bishop of St. David's
begins a letter to Dr. Basire — ' Sir and ends — ' Sir, youre uerie
sincere friend and seruant, Wil. St, David's p. 219, The
Doctor's son begins — ' Reverend Sir, and most loving Father ' and ends
with the same formula, adding — ' Your very obedient Son, P. B ^ p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire
begins 'Right Rev. Father in God, and my very good Lord ending ' I am
still, My L<i, Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666
the Bishop of Carlisle, Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s,
begins 'Good Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s
grace and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.
In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In
the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who
am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273. Dr.
Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and ends ‘Your
prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and Seruant, Tho.
Barlow’, p. 302 (1673). Dr. Basire begins a letter to this gentleman — ‘
Rev. Sir and my Dear Friend ’ . . , ending ' I remain, Reverend Sir, Your
affectionate frend, and faithful servant To his son Isaac, he writes in
1664 — 'Beloved Son’, ending — ‘So prays your very lovinge and painfull
Father, Isaac Basire ’. Having now brought our examples of the
various types of epistolary formulas down to within measurable distance
of our own practice, we must leave this branch of our subject. Space
forbids us to examine and illus- trate here the letters of the eighteenth
century, but this is the less necessary as these are very generally
accessible. The letters of that age, formal or intimate, but always so
courteous in their formulas, are known to most readers. Some allusion has
already been made (pp. 20-1) to the tinge of ceremoniousness in address,
even among friends, which survives far into the eighteenth century, and
may *be seen in the letters of Lady Mary Montagu, of Gray, and Horace
Walpole, while as late as the end of the century we find in the letters
of Cowper, unsurpassed perhaps among this kind of literature for grace
and charm, that combination of stateliness with intimacy which has now
long passed away. Exclamations, Expletives, Oaths, &e.
Under these heads comes a wide range of expressions, from such as
are mere exclamations with little or no meaning for him who utters or for
him who hears them, or words and phrases added, by way of emphasis, to an
assertion, to others of a more formidable character which are
deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,
with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like
ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the
mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,
disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a
former age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those
who used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us,
would now, if they were revived appear almost like rather blasphemous
irreve- rence. It must be recognized, however, that swearing, from its
mildest to its most outrageous forms, has its own fashions. These vary
from age to age and from class to class. In every age there are
expressions which are permissible among well-bred people, and others
which are not. In certain circles an expression may be regarded with
dislike, not so much because of any intrinsic wickedness attributed to it,
as merely because it is vulgar. Thus there are many sections of society
at the present time where such an expression as ‘ O Crikey * is not in
use. No one would now pretend that in its present form, whatever may
underlie it, this exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons
would regard it with disfavour as being merely rather silly and
distinctly vulgar. It is not a gentleman’s expression. On the other hand,
^ Good Heavens \ or ^ Good Gracious \ while equally innocuous in meaning
and intention, would pass muster perhaps, except among those who object,
as many do, to anything more forcible than ‘ dear me \ Human
nature, even when most restrained, seems occasionally to require some
meaningless phrase to relieve its sudden emotions, and the more devoid of
all association with the cause of the emotion the better will the
exclamation serve its purpose. Thus some find solace in such a formula as
‘ O liitle haiC which has the advantage of being neither particularly
funny nor of overstepping the limits of the nicest decorum, unless indeed
these be passed by the mere act of expressing any emotion at all. It is
really quite beside the mark to point out that utterances of this kind
are senseless. It is of the very essence of such outbursts — the mere
bubbles on the fountain of feeling — ^that they are quite unrelated to
any definite situation. There is a certain adjective, most offensive to
polite ears, which plays apparently the chief r 61 e in the vocabulary of
large sections of the community. It seems to argue a certain poverty of
linguistic resource when we find that this word is used by the same
speakers both to mean absolutely nothing — being placed before every
noun, and often adverbially before all adjectives — and also to mean a
great deal — everything indeed that is unpleasant in the highest degree.
It is rather a curious fact that the word in question while always impos-
sible, except perhaps when used as it were in inverted commas, in such a
way that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or
proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily
intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an
absolutely meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns
in a sen- tence, and worse than if it were used deliberately, with a
settled and full intent. There is something very terrible in an oath torn
from its proper home and suddenly implanted in the wrong social
atmosphere. In these circumstances the alien form is endowed by the
hearers with mysterious and uncanny meanings ; it chills the blood and
raises gooseflesh. We do not propose here to penetrate into the
sombre history of blasphemy proper, nor to exhibit the development
through the last few centuries of the ever-changing fashions of
profanity. At every period there has been, as Chaucer knew —
a companye Of yonge folk, that haunteden folye,
As ryot, hasard, stewes and tavemes, Wher-as with harpes,
lutes and gitemes, ^ They daunce and pleye at dees both day and
night, And ete also and drinken over hit might, Thurgh
which they doon the devel sacrifyse Within the develes tempel in cursed
wyse, By superfiuitee abhominable; c c 2
Hir othes been so grete and so dampnable^ That it is grisly
for to here hem swere ; Our blissed lordes body they to-tere;
Hem though te Jewes rent him noght y-nough. We are concerned,
for the most part, with the milder sort of expres- sions which serve to
decorate discourse, without symbolizing any strong feeling on the part of
those who utter them. Some of the expletives which in former ages were
used upon the slightest occasion, would certainly appear unnecessarily
forcible for mere exclamations at the present day, and the fact that such
expressions were formerly used so lightly, and with no blasphemous
intention, shows how frequent must have been their employment for
familiarity to have robbed them of all meaning. So saintly a
person as Sir Thomas More was accustomed, according to the reports given
of his conversation by his son-in-law, to make use of such formulas as a
Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good faith, xxviii, but
compared with some of the other personages mentioned in his Life, he is
very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk, ‘his singular deare
friend*, coming to dine with Sir Thomas on one occasion, ‘ fortuned to
find him at Church singinge in the quiere with a surplas on his backe ;
to whome after service, as the(y) went home togither arme in arme, the
duke said, “ God body, God body, My lord Chauncellor, a parish Clark, a
parish Clarke ! ” ' On another occasion the same Duke said to him ^
By the Masse, Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for
Gode's body, Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the
conversation in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that
the good gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such
exclama- tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille
vallc ' ; ^ Bone deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name
you meane here thus fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More,
the Lord Chief Justice swears by St, Julian — ‘ that was ever his oath p.
li. ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year
! ' are both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry,
which means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in
the sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses
it, according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is
con- stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry
companions. By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious
potsiick, kocks nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable
by the passion of God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and
further such exclama- tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I
shall so God me saue, I make God a vow (also written avow), would Christ
I had, &c. Meaning- less imprecations like the Devil take me, a
mischiefe take his token and him and thee too are sprinkled about the
dialogue of this play. The later plays of the great period offer a mine
of material of this kind, but only a few can be mentioned here. What a
Devil (instead of the Devil), what a pox, hfr lady, bounds, d blood, Gods
body, by the mass, a plague on thee, are among the expressions in the
First Part of Henry IV, In the Second Part Mr. Justice Shallow swears by
cock and pie. By the side of these are mild formulas such as Tm a Jew
else^ Tm a rogue if I drink today. In Chapman’s comedies there is a
rich sprinkling both of the slighter forms of exclamatory phrases, as
well as of the more serious kind. Of the former we may note j/ faitk^ Ur
lord^ Ur lady, by the Lord, How the divell (instead of how a devil), all
in A Humorous Day's Mirth ; He he sworne, All Fooles; of the latter kind
of expression Gods precious soles., H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my
life, Mons. D'Olive ; Gods my passion, H. D. M. ; swounds, zwoundes,
Gentleman Usher. Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight,
'sdeath, and a fore- shadowing of the form of asseveration so common in
the later seventeenth century in the phrase — ‘ If I know the mystery . .
. may I perish ii. 2, It is to the dramatists of the later
seventeenth and early eighteenth century that the curious inquirer will
go for expletives and exclamatory expressions of the greatest variety.
Otway, Congreve, and Vanbrugh appear to excel all their predecessors and
contemporaries in the fertility of their invention in this respect. It is
indeed probable that while some of the sayings of Mr. Caper, my Lady
Squeamish, my Lady Plyant, my Lord Foppington, and others of their
kidney, are the creations of the writers who call these ' strange
pleasant creatures ' into existence, many others were actually current
coin among the fops and fine ladies of the period. Even if many phrases
used by these characters are artificial con- coctions of the dramatists
they nevertheless are in keeping with, and express the spirit and manners
of the age. If Mr. Galsworthy or Mr. Bernard Shaw were to invent
corresponding slang at the present day, it would be very different from
that of the so-called Restoration Dramatists. The bulk of the following
selection of expletives and oaths is taken from the plays of Otway,
Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra Behn, Vanbrugh, and Farquhar. A few occur
in Shadwell, and many more are common to all writers of comedies. These
are undoubtedly genuine current expressions some of which survive.
Among the more racy and amusing are : — Ld me die : ‘ Let me
die your Ladyship obliges me beyond expression* (Mr. Saunter in Otway's
Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have a great deal of wit'
(Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also much used by Melantha, an
affected lady in Dryden's Marriage \ la Mode. . . 1 Ld
me perish — ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double
Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood. ^le
(Vanbrugh's Relapse), Death and eternal iartures Sir, I vow the
packet's (= pocket) too high (Lord Foppington), Burn me if I
do (Farquhar, Way to win him). Mai me, ^ rat my packet handkerchief
(Lord Foppington). Never Never stir if it did not' (Caper, Otway,
Friendship in Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear
friend, never stir '• BU take my death you're handsomer ' (Mrs.
Millamont, Congreve, Way of the World). , Bm a Person
(Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very
frequent). Split my wmdpipe — Lord Foppington gives his brother his
blessing, on finding that the latter has married by a trick the lady he
had designed for himself— 'You have married a woman beautiful in her
person, charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her
inclina- tions, and of a nice marality split my windpipe As I
hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair), Tm a
Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy). By the
Universe (Wycherley, Country Wife). I swear and declare (Lady
Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant, Double Dealer) ; I do protest
and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s Sir Patient Fancy) ; I protest
I swoon at ceremony (Lady Fancyfull, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess
ingenuously a very discreet young man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient
Fancy). Gads my hfe (Lady Plyant). O Crimine (Lady
Plyant). O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).
Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three
weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair). ril lay my Life he
deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar, Beaux' Strategem).
By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor). the universe
(Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife). Gadzooks (Heartfree,
Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul Plyant, Double Dealer) ;
Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey to London) ; Marry-gep (Widow
Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ; ^sheart (Sir Wilful, Congreve, Way
of the World) ; Eh Gud, eh Gud (Mrs. Fantast, Shadwell, Bury Fair); Zoz I
was a modest fool; ads^- zoz (Sir Credulous Easy, Devonshire Knight,
Aphra Behn, Sir Petulant Fancy); 'D's diggers Sir (a groom in Sir Petulant
Fancy); ^sheart (Sir Wilf. Witwoud, Congreve, Way of the World);
odsheart (Sir Noble Clumsey, Otway, Friendship in Fashion); Adsheart (fkx
Jos, Wittol, Congreve, Old Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain
Dealer). By the side of marry, frequent in the sixteenth and seventeenth
centuries, the curious expression Marry come up my dirty cousin occurs in
Swift's Polite Conversations (said by the young lady), and again in
Fielding's Tom Jones — said by the lady's maid Mrs. Honor. With this
compare marry gep above, which probably stands for ' go up
Such expressions as Lard are frequent in the seventeenth-century
comedies, and the very modern-sounding as sure as a gun is said by Sir
Paul Plyant in the Double Dealer. The comedies of Dryden contain
but few of the more or less mild, and fashionable, semi-bantering
exclamatory expressions which enliven the pages of many of his
contemporaries ; he sticks on the whole to the more permanent oaths —
'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed that the dialogue of Dry
den's comedies is inferior to that of Otway or Congreve in brilliancy and
natural ease, and that it probably does not reflect the familiar
colloquial English of the period so faithfully as the conversation in the
works of these writers. Dryden himself says, in the Defense of the Essay
of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted by Nature to write Comedy :
1 want that Gaiety of Flumour which is required to it. My Conversation is
slow and dull, my Humour Saturnine and reserv’d : In sliortj I am none of
those who endeavour to break all Jests in Com- pmy, or make
Repartees It may be noted that the frequent use — almost in ever;^
sentence — of such phrases as A/ me perish, hum me, and other meaningless
interjec- tions of this order, is attributed by the dramatists only to
the most frivolous fops and the most affected women of fashion. The
more serious characters, so far as such exist in the later
seventeenth-century comedies, aie addicted rather to the weightier and
more sober sort of swearing. It is perhaps unnecessary to pursue this
subject beyond the* first third of the eighteenth century. Farquhar has
many of the manner- isms of his slightly older contemporaries, and some
stronger expressions, e. g. ‘ There was a neighbour's daughter I had a
woundy kindness for Truman, in Twin Rivals ; but Fielding in his numerous
comedies has but few of the objurgatory catchwords of the earlier
generation. Swearing, both of the lighter kind as well as of the deliberately
profane variety, appears to have diminished in intensity, apart from the
stage country squire, suc h as Squire Badger in Don Quixote, who
says ^ShodUkins and ecod, and Squire Western, whose artless profanity is
notorious. Ladies in these plays, and in Swift's Polite Conversations,
still say lard, O Ltid, and la, and mercy, ^shuhs, God bless my eyesight,
but the rich variety of expression which we find in Lady Squeamish and
her friends has vanished. Some few of the old mouth-filling oaths, such
as zounds, ^sdeath, and so on, still linger in Goldsmith and Sheridan,
but the number of these available for a gentleman was very limited by the
end of the century. From the beginning of the nineteenth century it would
seem that nearly all the old oaths died out in good society, as having
come to be considered, from unfamiliarity, either too profane or else too
devoid of content to serve any purpose. It seems to be the case that the
serious oaths survive longest, or at any rate die hardest, while each age
produces its own ephemersil formulas of mere light expletive and
asseveration. Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ;
Abuse, Very characteristic of a particular age is the language of
hyperbole and exaggeration as found in phrases expressive on the one hand
of compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of
disgust, dislike, anger, and kindred emotions, on the other.
Incidentally, the study of the different modes of expressing such
feelings as these leads us also to observe the varying fashion in
intensives, corresponding to the present-day awfully, frightfully, and
the rest, and in exaggeration generally, especially in paying
compliments. The following illustrations are chiefly drawn from the
seventeenth century, which offers a considerable wealth of
material. It is wonderful what a variety of expressions have been
in use, more or less transitorily, at different periods, as intensives,
meaning no more than i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s
Gentleman Usher — ^How did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord,
that, that is a pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship
in Love ; ‘Let me die if that was not extravaganily pleasant vtry
amusing), ibid. ; ^ I vow he himself sings a tune extreme prettily \
ibid. : ‘ I love dancing immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot
\ ibid. ; ‘ Deuce take me if your Ladyship has not the art of surprising
the most naturally in the world — I hope you'll make me happy in
communicating the Poem Brisk in Congreve's Double Dealer ; ‘With the
reserve of my Honour, I aSvSure you Careless, I don't know anything in
the World I would refuse to a Person so meritorious — You’ll pardon my
want of expression', Lady Plyant in Double Dealer; to which Careless replies
— ‘O your “Xadyship is abounding in all Excellence^ particularly that of
Phrase ; My Lady Froth is very well in her Accomplishments — But it is
when my Lady Plyant is not thought of— if that can ever be ' ; Lady
Plyant : — ‘O you overcome me — That is so excessive' ; Brisk, asked to
write notes to Lady Froth's Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul,
and proud of the vast Honour let me perish ‘ I swear Careless you are
very alluring^ and say so many fine Things, and nothing is so moving as a
fine Thing. . , . Well, sure if I escape your Importunities, I shall
value myself as long as I live, I swear ; Lady Plyant. The following bit
of dialogue between Lady Froth and Mr. Brisk illustrates the fashionable
mode of bandying exaggerated, but i*ather hollow compliments.
‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last degree — Brisk was ever anything
so well bred as My Lord ? Brisk — Never anything but your Ladyship let
me perish. Ldy F, O prettily turned again ; let me die but you have a
great deal of Wit. Mellefont don^t you think Brisk has a World of Wit
? MeUefont — O yes Madam. Brisk — O dear Madam — Ldy F» An mfinite
deal! Brisk, O Heaven Madam. ■'Ldy F. More Wit — than Body. Brisk — Pm
everlastingly your humble Servant^ deuce take me Madam. Lady
Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay herself a pretty
compliment in lamenting the ravages of her beauty and the con- sequent
pretended annoyance to herself — ‘ To confess the truth to you, Fm so
everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate gentlemen that
were it not for the extravagancy of the example, I should e'en tear out
these wicked eyes with my own fingers, to make both myself and mankind
easy Swift's Polite Conversations consist of a wonderful string of
slang words, phrases, and clicMs^ all of which we may suppose to have
been current in the conversation of the more frivolous part of Society in
the early eighteenth century. The word pure is used for very — ‘ this
almond pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of
excellent^ as in ‘ by Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's
summing-up of the 'Arch- Wag' Malagene. To divert in the characteristic
sense of ‘amuse', and instead of this — ‘ Well ladies and gentlemen, you
are pleased to divert yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her
‘munckey' as ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary
Stewkley (Verney), taxed by her brother with a propensity for gambling,
writes ‘ whot dus becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope
I know The idiomatic use of obliging is shown in the Polite
Conversations, by Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive
praise of her house — ‘ My lord, your lordship is always very obliging '
; in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a
very obliging person \ Extreme amusement, and approval of the
persons who provoke it, are frequently expressed with considerable
exaggeration of phrase. Some instances are quoted above, but a few more
may be added^. ‘ A you mad slave you, you are a ticUing Acior\ says
Vincentio to Pogio in Chapman’s Gentleman Usher. Mr. Oldwit,
in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the buffoonery of Sir
Humphrey : — ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the death of me ; 1
shall break a vein if I keep you company, you arch Wag you, . . . Well
Sir Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT Wit and Wag. I must
forswear thy Company, thou'lt kill me elsei' The arch wag asks ' What is
the World worth without Wit and Waggery and Mirth ? and describing some
prank he had played before an admiring friend, remarks — Mf you’d seen
his Lordship laugh! I thought my Lord would have killed himself. He
desired me at last to forbear ; he was not able to endure it! 'Why what a
notable Wag^s this" is said sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir
Patient Fancy. The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s
Friendship in Love illustrate the modes of expressing an appreciation of
' Waggery In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his
religion (1688), Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he
intends to write — ^you 'll half kill yourselves with laughing at the
conceit and again ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody
split with laugh- ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares
— 'Well, I swear you'll make one die with laughing The
language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval, whether real
or in the nature of banter, is equally characteristic. The
following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile in Otway’s
Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining the company —
' Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why you scurvy
thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than crampt hedgehogs.
’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman sings ? ’
The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the
art of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant
picture of an absent friend — 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in
the Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always
chewing the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her
cough ’ pro- tests Cynthia ; Lady Froth : — ' Then that t’other great
strapping Lady— I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so
exorbitantly ’ ; Brisk : — ' I know whom you mean — But deuce take me I
can't hit of her Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with
a trowel’ Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't
you apprehend me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee —
^you under- stand me — somewhat heavy, a little shallow or so
Lady Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval— '0
Filthy M** Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop . Nauseous
and filthy are favourite words in this period, but are often used so as
to convey little or no specific meaning, or in a tone of rather
affectionate banter. ^ He ’s one of those nauseous offerers at wit
Wycherley’s Country Wife ; ^ A man must endeavour to look wholesome ’
says Lord Foppington in Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a
figure in the side box, the ladies should be compelled to turn their eyes
upon the Play ’ ; again the same nobleman remarks ‘ While I was but a
Knight I was a very nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor — I
shall never be reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the
verb, to express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate
walking ; 'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World).
In the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is
Th In^e, cries out, at the suggestion of such a possibility — ‘ Filthy Fellow
I ... Oh I love your hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In
the same play Lucy the maid calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad
’ during an exchange of civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now
IVe done jesting ’ says Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner
kisses her. ‘Out upon you for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the
Polite Conversations, in reply to the graceful banter of Neverout.
Toad is a term of endearment among these ladies ; ‘ I love to
torment the confounded toad' says Lady Fidget, speaking of Mr. Horner for
whom she has a very pronounced weakness. ‘ Get you gone you good- natur’d
toad you ' is Lady Squeamish's reply to the rather outre compli- ments of
Sir Noble. Plague (Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions
in Polite Con- versations. Lord Sparkish complains to his host — ‘ My
Lord, this venison is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt
my hand with your plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel
observes, with satisfaction, that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘
Don't be so teizing ; you plague a body so ! can't you keep your filthy
hands to yourself? ' is a playful rap administered by ‘ Miss ' to
Neverout. Strange is another word used very indefinitely but
suggesting mild disapproval — ‘ I vow you'll make me hate you if you talk
so strangely, but let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish,
implying a certain degree of impropriety, which nevertheless makes her
laugh ; again, she says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a
strange pleasant creature We have an example above of
exorbitantly in the sense of ‘out- rageously', and the adjective is also
used in the same sense — ^‘Most exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s
comment, in Bury Fair, upon her husband's outburst against her airs and
graces. We may close this series of illustrations, which might be
extended almost indefinitely, with two from the Verney Memoirs, which
contain idiomatic uses that have long since disappeared. Susan Verney, wishing
to say that her sister's husband is a bad-tempered disagreeble fellow,
writes ‘poore peg has married a very humersome cros boy as ever I see'
(Mem. ii. 361, 1:647). Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a
quarrel with a neigh* bouring squire concerning boundaries and rights of
way, describes him as ‘very malicious and stomachfull' (Mem. iv. 3:77,
1682). The phrase ‘as ever I see' is common in the Verney letters, and
also in the Went- worth Papers. Preciosity, &c. We
close this chapter with some examples of seventeenth-century preciosity
and euphemism. The most characteristic specimens of this kind of affected
speech are put by the writers into the mopths of female characters, and
of these we select Shadwell's Lady Fantast and her daughter (Bury Fair),
Otway's Lady Squeamish, Congreve's Lady Wishfort, and Vanbrugh's Lady
Fancyful in the Provok'd Wife. Some of the sayings of a few minor
characters may be added ; the waiting- maids of these characters are
nearly as elegant, and only less absurd than their mistresses.
Luce, Lady Fantast's woman, summons the latter's stepdaughter as
follows : — ^ Madam, my Lady Madam Fantast, having attir'd herself in her
morning habiliments, is ambitious of the honour of your Ladyship's
Company to survey the Fair ' ; and she thus announces to her mistress the
coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter : — ‘ Madame, M^s Gatty ' will
kiss your Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan- tast,
highly respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious,
and affected minxes as can be found, in manner and speech, given to
interlarding their conversation with sham French, and still more dubious
Latin. Says the daughter — ‘To all that which the World calls Wit and
Breeding, I have always had a natural Tendency, a penchen^ derived, as
the learned say, ex traduce, from your Ladyship : besides the great
Prevalence of your Ladyship's most shining Example has perpetually
stimulated me, to the sacrificing all my Endeavours towards the attaining
of those inestimable Jewels ; than which, nothing in the Universe can be
so much a mon gre, as the French say. And for Beauty, Madam, the stock I
am enrich'd with, comes by Emanation from your Ladyship, who has been
long held a Paragon of Perfection : most Charmanf, most Tuant! ‘Ah my
dear Child' replies the old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been, and yet
I am not quite gone . When Gertrude her stepsister, an attractive and
sensible girl, comes in Mrs. Fantast greets her with ‘ Sweet Madam Gatty,
I have some minutes impatiently expected your Arrival, that I might do
myself the Great Honour to kiss your hands and enjoy the Favour of your
Company into the Fair ; which I see out of my Window, begins to fill
apace.' To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly,
‘ I got ready as soon as e'er I could, and am now come to wait on you ',
but old Lady Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will
you never attain to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more
polite way of Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I
come to wait on you! You should have said; I assure you Madam the Honour
is all on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the
sweet Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!'
exclaims Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with this
judgement, we may leave My Lady Fantast. We pass next to Lady
Squeamish, who is rather ironically described by Goodvile as ‘the most
exact Observer of Decorums and Decency alive Her manner of greeting the
ladies on entering, along with her cousin Sir Noble Clumsey, if it has
the polish, has also the insincerity of her age—' Dear Madam Goodvile, ten
thousand Happinesses wait on you ! Fair Madam Victoria, sweet charming
Camilla, which way shall I express my Service to you ? — Cousin your
honour, your honour to the Ladies. — Sir Noble : — Ladies as low as Knee
can bend, or Head can bow, I salute you all : And Gallants, I am your
most humble, most obliged, and most devoted Servant/ The
character of this charming lady, as well as her taste in language, is
well exhibited in the following dialogue between her and Victoria.
^ Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness ! the
pleasantest Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of it
were enough to cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and
Valentine, ha, ha, ha, Viet, Dear Madam, what is ’t so transports
you ? Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me,
hold me, or I shall die with laughter — ha, ha, ha, Camilla and
Valentine, Valentine and Camilla, ha, ha, ha — 0 dear, my Heart’s
broke. Viet, Good Madam refrain your Mirth a little, and let me
know the Story, that I may have a share in it. Ldy Squ, An Assignation,
an Assignation tonight in the lower Garden ; — by strong good Fortune I
overheard it all just now — but to think of the pleasant Consequences
that will happen, drives me into an Excess of Joy beyond all
sufferance. Viet, Madame in all probability the pleasantest
Consequence is like to be theirs, if any body’s ; and I cannot guess how
it should touch your Ladyship in the least. Ldy Squ, O Lord,
how can you be so dull ? Why, at the very Hour and Place appointed will I
greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be there herself ;
then when she comes, expose her Infamy to the World, till I have thorowly
revenged my self for all the base Injuries her Lover has done me.
Viet But Madam, can you endure to be so malicious ? Ldy Squ,
That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d sooner die
ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least Temptation to
the prejudice of my Honour. Viet, But why should your Ladyship run
into the mouth of Danger? Who knows what scurvy lurking Devil may stand
in readiness, and seize your Virtue before you are aware of him ?
Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation: I
durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:
Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal
Aversion, more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell
in a Morning. ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure
you I need not want for Servants ; for I swear I am so perplexed with
Billet-Doux^ every day, I know not which way to turn myself: Besides
there’s no Fidelity, no Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you
do, never let Love come near your Heart : Tho really 1 think true Love is
the greatest Pleasure in the World.’ And so we let Lady
Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an affected, humoursome
baggage. If any one wishes to know whither her ways led her, let him read
the play. Only one more example of foppish refinement of speech
from this play — the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble
Clumsey, who coming in drunk, takes him for a dandng-master — ^ I thought
you had known me’ says he, rather ruefully, but adds, brightening— 'I
doubt you may be a little overtaken. Faith, dear Heart, Fm glad to see you
so merry I ’ The character of Lady Wishfort in the Way of the
World is perhaps one of the best that Congreve has drawn; her
conversation in spite of the deliberate affectation ir^ phrase is vivid
and racy, and for all its preciosity has a naturalness which puts it
among the triumphs of Con- greve’s art. He contrives to bring out to the
full the absurdity of the lady’s mannerisms, in feeling and expression,
to combine these with vigour and ease of diction, and to give to the
whole that polish of which he is the unquestioned master in his own age
and for long after. The position of Lady Wishfort is that of an
elderly lady of great ouii ward propriety of conduct, and a steadfast
observer of decorum, in sjl^ch no less than in manners. Her equanimity is
considerably upset by the news that an elderly knight has fallen in love
with her portrait, and wishes to press his suit with the original. The
pretended knight is really a valet in disguise, and the whole intrigue
has been planned, for reasons into which we need not enter here, by a
rascally nephew of Lady Wishfort’s. This, however, is not discovered
until the lover has had an interview with the sighing fair. The first
extract reveals the lady discussing the coming visit with Foible her maid
(who is in the plot). ‘ I shall never recompose my Features to
receive Sir Rowland with any Oeconomy of Face Fm absolutely decayed.
Look, F oible. Foible, Your Ladyship has frown’d a little too
rashly, indeed Madam. There are some Cracks discernible in the white
Varnish. Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am
arrantly flead (e. g. flayed) — I look like an old peel’d Wall. Thou must
repair me Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my
picture. F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your
picture like you ; and now a little of the same Art must make you like
your Picture. Your Picture must sit for you, Madam. Ldy W,
But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he not fail
when he does come? Will he be importunate, Foible, and push? For if he
should not be importunate ... I shall never break Decorums — I
shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never
advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope Sir
Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking
her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But a
little Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h
little Scorn becomes your Ladyship . — Ldy IV. Yes, but Tendeimess
becomes me best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort
of a — Ha Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My
Neice affects it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my
Toilet be remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he
handsom ? Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be
taken by Sm- prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man.—
TV. —Is he ! O then he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save
Decorums if Sir Rowland importunes. I have a mortal Terror at the
Apprehension of offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man.
Let my things be remov’d good Foible*’ The next passage reveals
the lady ready dressed, and expectant of Sir Rowlands arrival.
— ‘Well, and how do I look Foible! — Z; Most killing well, Madam.
Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what Figure shall I give
39S colloquial IDIOM his Heart the first Impression ?
There is a great deal in the first Impression, Shall I sit? — No, I won’t
sit — I’ll walk— ay I’ll walk from the door upon his Entrance; and then
turn full upon him — No, that will be too sudden. I’ll lie, ay Ell lie
down — I’ll receive him in my little Dressing-Room. There *s a Couch —
Yes, yes, I’ll give the first Impression on a Couch — I won’t lie
neither, but loll, and lean upon one Elbow; with one Foot a little
dangling off, jogging in ^ thoughtful Way — Yes— Yes — and then as soon
as he appears, start, ay, start and be surpris’d, and rise to meet him in
a pretty Disorder — Yes — O, nothing is more alluring than a Levee from a
Couch in some Con- fusion— It shews the Foot to Advantage, and furnishes
with Blushes and recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a
Coach.’ .^t it is when theure du Berger draws near, as she
supposes, that Lady Wishfort rises to the subiimest heights of expression
: — ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, — you are no Novice in
the Labyrinth of Love— You have the Clue — But as I’m a Person, Sir
Rowland, you must not attribute my yielding to any sinister Appetite, or
Indigestion of Widow- hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^ of
Continence — I hope you don’t think me prone to any iteration of Nuptials
— If you do, I protest I must recede — or think that I have made a
Prostitution of Decorums, but in the Vehemence of Compassion, or to save
the Life of a Person of so much Importance — Or else you wrong my
Condescension — If you think the least Scruple of Carnality was an
Ingredient, or that — Here Foible enters and announces that the
Dancers are ready, and thus puts an end to the scene at its supreme
moment of beauty — and absurdity. Even Congreve could not remain at that
level any longer. It is worth while to record that in this play, a
maid, well called Mincings announces — ‘ Mem, I am come to acquaint your
Laship that Dinner is impatient The hostess invites her guests to go into
dinner with the phrase — ‘ Gentlemen, will you walk ? ' This chapter
and book cannot better conclude than with a typical piece of
seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's
leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the
subject for himself. The passage is from the Provok’d Wife :
— ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my
leave. Lady Brute. What, going already madam ? Ldy F. I
must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen visits
this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of the
room. Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down. Ldy F. No,
sweet Lady Brute, you know I swoon at ceremony. Ldy B, Pray give me
leave — Ldy F. You know I won’t — I^dy B. — You know I must. — Ldy F. —
Indeed you shan’t — Indeed I will — Indeed you shan’t — Ldy B. — ^Indeed
I will. Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you
shan’t’ [Exit running. They follow.\ Alberto
Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Caramella: l’implicatura
conversazionale degl’eroi di Vico – filosofia italiana – Caritone e Melanippo
-- Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice:”I like Caramella –
like me, he is into the metaphysics of conversation! And he reminds me that I
should re-read Vico!” -- Grice: “I like
Caramella; he prefaced Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della
massoneria’ – but also wrote on more orthodox subjects like Kant, Cartesio,
Bergson, and most of them!” – Grice: “Like me, he thought truth is found in
conversation!” Ancora al liceo, comincia a collaborare con Gobetti, il quale
gli affida la trattazione della filosofia su “Energie Nove”. Dopo un primo
contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi,
entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del
neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue
idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a
Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne
sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di
Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese
parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che
era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta,
docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia. La sua vasta cultura, gli permise di vedere
la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della
filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello
spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della
filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di C..Lo spirito nella
filosofia di C..C.. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 C., La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II Comune di
Genova, La recente Vita d i Bruno, con documenti e inediti 1, in cui
Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre vent’anni di
ricerche bruniane, mi suggerisce l’opportunità di un breve eenno sul soggiorno
del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto lo Spampanato
ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie da lui
rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo per
narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del
Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova
poco prima della domenica delle Palme, nell’anno in cui la festa cadeva il 15
aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere
capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o
infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti
giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i
Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e lla B e stia trio n fa n
te, che dice proprio così: « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova
mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate,
baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta
degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela,
baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam
possidebitis». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di
Santa Maria di Castello, dove uffiziavano: e la preziosa reliquia doveva certo
esser mostrata 1 Messina, Principato, Vedi, per l’argomento di questa com
unicazione, Torino, Paravia, ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed. Gentile (Dial.
morali di G. B.), Quetifet Echard, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in.
Società Ligure di Storia Patria - al p opolo nella precisa circostanza della
commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a
Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to
notizia che il processo istruttorio p endente presso l’inquisizione, per i
sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e
così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò
egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob
abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po
violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto
la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a
fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello
Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della
vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla
caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è
tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tanto meno di interesse
psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di
cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori
oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato convento
napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua
parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a
Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o
tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì santo 2. E allora il Bruno,
com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni
ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u
m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello
della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche,
chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n siglio di amico lo
spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ unico veramente tranquillo per lui
nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio
genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica
a’ putti ». « Io 1 Per la storia d ella re liqu ia v. Imbriani, Natanar II in
Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia arcana ed aneddotica d’Italia, Società
Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - stetti in Noli circa quattro o
cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo la Sfera o certi
gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per ragioni di coerenza con ulteriori dati
biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di quattro mesi. Comunque,
le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar
qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a
certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da
Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di
Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una
teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria
delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella
seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era dunque
penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici; perfino a
Noli alcuni giovani signori sentivano il bisogn o di stipendiare un povero
erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il
Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n
o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che formano
l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a
meno che venissero fuori i quaderni di queste sue legioni liguri) s’ egli già a
Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare
il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di
Padova, si limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote
napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare
gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno che a
questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi
due di Napoli 1 Docc. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i,
Il quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr.
Amabile, in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli n.; espampanato (e
anche Tocco in Arch. fiir Gesch. der P h ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile,
Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi Società Ligure di
Storia Patria - e il terzo di Roma) «
dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o vese»: ma dell’asserzione
importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno
palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De
Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia
non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo
genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur
dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse
soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di
perseguirvelo). « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove
stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando
trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di
lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’
abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò
alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti,
lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi
accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli,
mai più. C. 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del
Prof. Santino... Storia del pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso
dei licei. La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero VICO L'azione
combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le
righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al
neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella
scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli
italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente
l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di
ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo.
Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe
messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana -
di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Zangrandi)
degli intellettuali fascisti nel partito di Togliatti. L'accertata esistenza di
una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque,
fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della
complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania -
leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la
rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo
nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito
staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela,
invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero
cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito
al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana.
Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase
della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava
avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto
l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani,
causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una
corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e
perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione
cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi
dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via
del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto
durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Tripodi, interprete delle
novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista da Schuster e dal
fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Gemelli
(confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani).
Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un
audace confronto tra lo storicismo cristiano di VICO e la dottrina politica di MUSSOLINI. L'affinità
del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è
causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune
tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che
razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli
uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si
compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su
Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e
quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle
cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se
ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella
quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della
divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e
dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i
risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono
citati Chiocchetti, Vecchio, Amerio, Gemelli, Olgiati, C., Orestano, Carlini e Giuliano)
che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia
tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su VICO precursore
dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per
quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano,
riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano
non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di
sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il
monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli
inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il ribaltamento
della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di VICO quale
orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti
successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della
genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo
all'idealismo. Né GENTILE, né CROCE, anche se il primo ha la camicia nera e
cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi
indica in VICO l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti
nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia
impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine,
costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana,
inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei
fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato
o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale
definita dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù
creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa
prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori
perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e
rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina
provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle
chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor
fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi
formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia
culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Vecchio,
Petruzzellis, Sciacca, Noce, Tejada, Montano, Grisi, Torti) che nella filosofia
di VICO vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri
dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal
gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del
diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il
rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono
nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse
una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere
alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve
nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità
etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che
è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato
dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel
suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due
altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle
astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie
utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni
umane. Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato,
Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di
Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico:
«la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che
perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per
cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi
conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel
quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana
e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale:
«l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di
realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere
alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che
l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per
Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità,
imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere
con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le
vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che le tesi
di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia
tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra,
Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE
(Vecchio, Costamagna, Ottaviano, Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa,
Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione
del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra
cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in
conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il
congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova, doveva, infatti, approvare in
via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando
a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra.
Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista
impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo
dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo
spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal
punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì
un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe
dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal
pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi
di Fiuggi. Nato a Genova da Eleucadio e da Delfò, segui gli studi
classici nella città natale. Ancora liceale, cominciò a collaborare a Energie
nuove di Gobetti, con il quale aveva preso contatto epistolare, dicendosi
lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana.
Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò
al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Su segnalazione
del Gobetti, Radice cominciò ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione
nazionale. In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del
Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal
positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico,
Firenze), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che glielo
aveva proposto come tema di studio. È qui osteggiato un pensiero ispirato
agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in
particolare e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo
(Spencer e Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione
di un Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le
critiche del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare
nuove indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita
umana, sociale e pratica. Nello stesso orizzonte critico degli Studi si
muovono Le scuole di Lenin (Firenze), La pedagogia di Gioberti e la Guida
bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente , che faceva
seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in
collaborazione con Radice. Nutrito di idee democratiche, che gli facevano
ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova
Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò
politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico
di sinistra, che aveva tra i leader Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia al
quotidiano socialriformista Il Lavoro. In particolare, tipico dei gruppo
di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero
gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo
Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione come
strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui,
anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto
veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione
bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano
scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla
considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia
dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare
alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione
laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle
idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non
era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del
partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di
Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le
grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti
magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con Gobetti,
che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo comune
impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia liberale, lo
portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai trionfante. è la diffida dei prefetto di Torino contro la
Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi redattori. La
conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la offrì
ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi
(Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la
rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri
ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era
divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di
libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori
d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a
rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato
invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.
Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto; rinchiuso prima
nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S. Vittore a Milano,
fu scarcerato. Venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le
accuse - come si legge in una lettera al Croce (in Il Dialogo) - erano tra
l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il
Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista
Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità
con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie
all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento e la libera
docenza gli fu restituita con d. m. Venne però destinato all'istituto
magistrale di Messina, dove prese servizio. Dall'ottobre di quell'anno
ottenne l'incarico di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso
il magistero dell'università di Messina. Mantenne questi incarichi finché vincitore
di più concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università
di Catania. Passò alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo
l'ordinariato. Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo
di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso
comune. Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale
impianto teoretico. In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo
tedesco e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei
distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello
Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo
tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta
emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla
concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale
assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione
di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del
pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella
filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi
nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia,
la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C.
medianamente tra Croce e Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura
indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così
schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica
dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi
dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro
stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà
in Ideologia (Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della
teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di
un finalismo pratico della teoria. All'approfondimento critico dei
neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra
ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra
filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia
(Catania), Metalogica: filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana
(Palermo), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema
metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica.
In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento
di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la
capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della
religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta
funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano,
dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza
dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si
concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni
giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal
carcere - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo
spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità,
dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della
svolta. Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C.
ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e
filosofia dell'università di Catania; fu presidente di sezione del British
Council di Catania e presidente di sezione della Società filosofica italiana a
Catania e a Palermo; fu anche presidente di sezione dell'Associazione
pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne
chiamato prima alla cattedra di pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica
presso la facoltà di lettere e filosofia. Il C. morì a Palermo. Opere:
Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di C., a cura di
T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di C. (Atti
dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo. Oltre alle opere
citate ci limitiamo a ricordare qui: Bergson, Milano; Antologia vichiana,
Messina, Breve storia della pedagogia, La filosofia di Plotino e il
neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi italiani contemporanei, a cura
di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel, Padova; La filosofia dello Stato
nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant, Palermo La pedagogia tedesca in
Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove, Fonti e Bibl.: Roma, Arch.
centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Per l'epistolario del C.
contributi in: Lettere dal carcere di C., in Giornale di metafisica, Carteggio
con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Radice-C., a cura di T.
Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di C., in Annali della
facoltà di magistero della università di Palermo, Di Vona, Religione e filosofia nel pensiero
giovanile di C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di C., in Il
Dialogo, Guzzo, C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di C., in Atti
dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo di S. C.
con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di C., in Nuova Riv.
pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di C., in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di C.,
Palermo Ganci, C., Raschini, Commemoraz. del prof. S. C., in Giornale di
metafisica, Brancato, C.: senso fine e significato della storia, Trapani; V.
Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze; P. Prini, La ontologia
storico-dialettica di C., in Theorein, Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero
di C., in Giornale di metafisica, Corselli, La vita dello spirito nella
filosofia di C., in Labor, Raschini, Storiografia e metafisica nella
interpretazione vichiana di C., in Filosofia oggi; M. Corselli, La figura di C.,
in Labor, Sciacca, C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della
facoltà di magistero della università di Palermo. δικά , ώς φησιν Ηρακλείδης ο Ποντικός εν τω περί Ερωτικών. ούτοι Φανέντες
επιβουλεύοντες Φαλάριδί, Chariton& Melanippus και βασανιζόμενοι
αναγκαζόμενοί τε λέγειν τους συν- confpirant ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα-
adν.Ρhala ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον , ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά
επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το
Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτο έμφήνας τουςπυν θανομέ νουςτης Πυθία ςόπωςαυτόεπιθώνται
έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα, προτάξας του εξαμέ τρου το
πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις
Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και
Μελάνιππος έφυ, θείαςαγητηρες έφαμερίοις φιλότατος. 1 Perperamέλαιονms. Εp. &
moxα πολαύσαι1ns. A.proαπολύσαι. α> 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut
ait Heraclides Ponticus in libro de Amatoriis. Hi igitur deprehensi insidias
ftruxisse Phalaridi & tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge
rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam
tormentorum commoverunt , ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam Apollo,
delectatusfacto, moram mortisindullit Phalaridi, hoc ipsum declarans his qui
ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur, consuluerunt: atque et iamde Charitone
et Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus hexametro erat;
quemadmodum etiam poftea Dionysius Athenienfis, isqui Aeneuseft cognomi natus ,
in Elegiis fecit. Erat autem oraculum hocce Felix & Chariton &
Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis amoris. Santino
Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed
Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto,
intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su
Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Caramello: l’implictatura
conversazionale dell’interpretare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
Italiano. Grice: “I love Caramello – he exemplifies all that I say about
latitudinal and longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and
Caramello has dedicated his life to him!” Studia al prestigioso liceo classico Gioberti
di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione presbiteriale con una
speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva completato gli
studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo
sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia
praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum
principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de
partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit
nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem
significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus
concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae
definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia
cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de
simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo
determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse
consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices
intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum.
Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic
determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et
verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine
tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod
constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis
constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione
terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari quare, praetermissis
aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum
est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas
illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio
constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non
autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his
duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.
His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur,
posterius autem manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio
dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem,
sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio
ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica
enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in
demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat
aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis
demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu
nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Si
quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est
quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis
philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione
animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad
constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium.
Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter
est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per
consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat
enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem
continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione:
quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum.
Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae
possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam
esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo
dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur.
Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea,
de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel
incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de
vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat.
Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam
significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum
et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem
significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum
sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et
cetera. Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum
uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones,
ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et
sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod dicit,
earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae
communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et
alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones
significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum, et
aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus
significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones animae hic
intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes
significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse
quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet:
significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus.
Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde
Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia
hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis,
sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces
significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.
Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet
passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed
manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae
operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia
intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali
passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum
intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam
ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de
anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex
aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem
conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum
refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum
cuiusdam impressionis vel passionis. Secundo, cum dicit: et ea quae
scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc
inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut
sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et
litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod
enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt
diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc
expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae
scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis
magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum
autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles
non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius
est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius
ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et
verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim
subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et
verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.,
ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad
hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit.
Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae
naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud
omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est
eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad
litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam
ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud
quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic
determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes,
ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec
voces naturaliter significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae,
quae naturaliter significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt
eadem apud omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones
animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes.
Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus
(quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt
notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas
sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae
passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones
animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et
si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se
exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines.
Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem
est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt
circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et
falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus
comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque
dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando
intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem
aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic
comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc
etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem
ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat
rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in compositione
et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel
falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum
convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est
similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit
in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus
autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est
veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII
metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est
solum circa compositionem et divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam
considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut
in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum.
Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in
compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi
secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. Verum enim,
ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque
dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur
autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum
intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur
ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic
comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo
intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum
quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per
comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales,
existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc
enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria
cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae
per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed
effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem;
et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res
comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in
intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse
verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a
ratione artis. Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum
divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur
esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem
divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum
convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae
conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.
Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et
sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur
verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic
intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo
intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper
est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis
sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim
potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem
apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis
cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et
philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut
scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis
habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est
componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi
componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet
rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse
quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod
est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in
cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc
modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox
vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum
intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et
aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed
quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. Sciendum est autem quod
philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum
humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et
dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et
divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia
immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et
divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba
etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo,
manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et
cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et
divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa
nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine
compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud
addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse
vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est instantia de eo, qui per
unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum
quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur
verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de
verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his
intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio,
licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum
ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus
et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos
cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus
simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi
quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus.
Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est
esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum
tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum
quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur
exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim
falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel
falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine significationis
vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia
principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in
qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo,
determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi:
enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim,
determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales
ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est
enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa
primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam;
secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem
procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera.
Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit;
ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae
perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.
Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia
includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem,
cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem,
cui scilicet definitio conveniat. Et ideo quinque ponit in definitione
nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab
omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus,
cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione
vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est
vox significativa. Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non
est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus
nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex
institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius
definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis
diceret quod est lignum formatum in vas. Sed dicendum quod artificialia
sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem
accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen
ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales,
ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione
ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum
figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si
nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas
artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit:
secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis
procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter,
sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium. Quarto, ponit
tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo.
Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus.
Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine,
sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore
mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter
tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum
quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia
autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non
habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod
subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et
participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo,
potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per
adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto, ponit quartam
differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet
a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in
toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem
pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet
formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat
separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in nomine enim
quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam
particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera.
Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem
particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in
tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per
nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina
simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo
primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in
quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars
ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus
ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum
simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.
Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus
simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est
significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in
compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars
eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio
differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum
simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu;
nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet
apparentiam quod pars eius significet. Deinde cum dicit: secundum placitum
etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo
dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est
naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat
naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota,
idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat
non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati
enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit
potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent
pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant:
nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod
nomen non significat naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit
diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo
naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii
vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint
naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo vero etc.,
excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus
nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non
homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut
homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut
Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae
aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici
indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera
est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est
non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus
existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente,
ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod
potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione.
Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones
concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid
separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio,
id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem
affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi
dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis,
ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit
casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt
nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est
impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur
casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a
nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam
nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest
procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil
prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens
ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit
consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio,
quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in
hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit
semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter
autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba,
scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum
dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum;
ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen
infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis
definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra
communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo
haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit
his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis
significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam
philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria
facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi:
non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini
et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in
definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum
prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat
tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine
tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione,
scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat. Sed cum hoc
etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti,
sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet
Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab
orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia
vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur,
ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in
definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat
compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem
convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis
ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis;
et ideo oportuit iterari. Tertia vero particula est, per quam
distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat
cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota,
idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti
et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur
habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte
subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba
infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in
Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut
et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam
quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel
passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in
abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur
actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut
scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic
significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia
etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu
et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam,
quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet.
Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia
Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et
ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum,
quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata
verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad
compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam
significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum
quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione
compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur
ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad
genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem,
significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant
remotionem actionis vel passionis. Si quis autem obiiciat: si praedictis
dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod
definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem
dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec
ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis
differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt,
deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et
rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de
eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi
privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit
determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis,
quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi
duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit
a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita
non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel
currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi.
Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa
vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter
praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non
constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex
parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et
praedicari. Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum.
Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per
hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est,
aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba
sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum
est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis
significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo
ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit
verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum
inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia
sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum
si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de
eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam.
Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est,
ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad
primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc,
quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et
eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad
secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum
verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere
audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum
significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et
divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non
currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel
non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum
subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi
notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non
esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de
quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de
decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat,
nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est
per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur
conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et
posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur:
tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et
quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis
expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter
exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc
nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit
quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est
intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret
aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum,
sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est,
sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum
vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam
compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum
dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio
significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest
intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus
nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem
Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis
sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non
significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non
esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse.
Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam
quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse,
per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse
principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret
aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est,
non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem
habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad
veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et
falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo
significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat
hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis
vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel
actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est,
vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum
est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de
verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius
existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis,
utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit
definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.;
tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Circa
primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit
illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel
verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc definitionem
Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt
enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut
puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae.
Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli
orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic
decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum,
quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad
domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus
principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante
pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet
manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter
referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam
ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi
perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc.,
exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur;
secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et
cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse
significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis
oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis;
potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt
naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus
interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum,
quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales,
sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad
placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra
dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et
ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus
virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem
naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut
probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem
motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non
sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest
etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter
significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic
incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in
prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate
enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur;
et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera.
Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in
secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de
oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis;
secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis
speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de
sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.
Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum
alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut
supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est
usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est
significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem
enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis
manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant
perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt
iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis,
sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt
species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et
vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit
vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid
separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur
animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura
coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola
enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute
significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum. Sed quia
intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed
etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et
ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur
ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes
ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione
unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc
pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet
oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet
quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio
deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo
non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae
quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo
est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in
nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae
significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi
orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur:
quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad
interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. Deinde cum
dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est
agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae,
quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio
convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio
praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri
directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per
rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo
demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus,
significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et
poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt
propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae
plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut
philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum
orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie
sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad
considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum
constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et
dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda,
manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Circa primum
considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones
enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex,
quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam,
aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum
colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur,
necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse
unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una,
aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est
negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum
est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte
igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa
enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam
intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus,
est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim
naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum,
sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa
enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse:
sicut habitus naturaliter prior est privatione. Dicit ergo quod oratio
enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et
contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio,
quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat
una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non
simpliciter, sed coniunctione unae. Ex hoc autem quod hic dicitur
argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et
negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis
in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non
secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus
commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus
accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest
esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas
dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod
in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum
est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est
prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet
numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius.
Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse
genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae
est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud
et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione;
tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit,
videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est. Deinde
cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo,
manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel
coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio
simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex
enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae
sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum;
ibi: est autem una oratio et cetera. Circa primum duo facit: primo, dicit
quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis
temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de
verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum
negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum
sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio
imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis,
idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit,
quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu
casus verbi, nondum est oratio enunciativa. Potest autem esse dubitatio:
cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine,
sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla
oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua
enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum;
ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum
est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est
principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva
ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa.
Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit
mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum
est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione
verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur
affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua
denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio
Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem
complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia
dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione
una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni
compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet
esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine
compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo
non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de
verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad
manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile
bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de
omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse
alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII
metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi
non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo
materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem
differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex
genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam
quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia
partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel
morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem
definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam
secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in
locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco
coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius
proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali,
cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta
non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam
hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum,
sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde
subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque
per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex
quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum
comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad
genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. Deinde cum dicit:
est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et
primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una;
secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum
autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam
divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et
verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem
unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos
pluralitatis. Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute,
scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est
coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes
plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo
modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales
opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod considerandum est, secundum
Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex
autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio
quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in
unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio,
sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex
pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex
pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum
significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est
pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa
significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura
significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas
et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus
non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus
musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive
cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato
disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa,
quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit
coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non
unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter
nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel
inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat,
vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura
nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam,
homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec expositio non videtur
esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem,
quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et
orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum
quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione
unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur
dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam
et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra
dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile
bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis,
sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent.
Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una
simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal
gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in
prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per
oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes,
et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur
enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari
in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno
communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una
et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse
additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic
modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis
est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura
nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo
unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam
plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo
possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in
quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura
significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam
sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum.
Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem
aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum
significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio
sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel
verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi
enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes;
puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem
utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit.
Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non
enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui
profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte.
Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio
dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem
convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret
enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere
affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset
genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione
generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non
significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari
nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur
aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in
praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque.
Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem,
volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et
negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet
ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere,
cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est
enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero
est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare
esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium
negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur
enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum
est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem
definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est
autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad ostendendum
suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum
prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod
enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel
est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per
comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. Sic igitur
quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum
divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re
est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus
Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non
est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est.
Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad
affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum
enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam;
ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora
procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae,
cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non
esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est,
scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae
opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet
in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur
affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non
esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non
est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad
hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae
per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est,
esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae
enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum
praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus
ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse
est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit:
quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea,
quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt
quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti
et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et
omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis.
Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod
trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde
manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia
affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito
contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem
sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset
contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non
posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit
absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per
nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo
quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni
huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod
dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen
contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut
Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem
et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas,
praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si
non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem
diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est
animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine
ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum,
non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera
talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra
sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones
sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia
philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse
contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere
diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera
contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem
enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo,
manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem
divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde
circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo,
concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera.
Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen
autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est
similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem
rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia.
Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem,
quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero
quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo,
manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem
singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat
philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens.
Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in
primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum
per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed
omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod
significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est
autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo
oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in
intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest
distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem
re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est
haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est
considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod
Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando
igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec
res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive
dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem
dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod
referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum
aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam,
quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod
est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod
intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu
definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium
intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio
alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc
impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si
omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter
conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi
solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est
alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est
quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus.
Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se,
communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod
significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo,
quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam,
sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est
in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est
nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis;
sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde
esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si
essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Potest
autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit:
necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim
semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia,
quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel
non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est
suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem
rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de
universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato
posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in
intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim
attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem
intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive
universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae
sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic
considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod
attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura
apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est
dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod
est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis
irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra
animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei
praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout
est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae
universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet,
vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal,
vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione
singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad
actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur
aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum
dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem,
ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem,
ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis
negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut
supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit
philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter,
quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus
praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius
in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis
in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia
sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum
autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur
pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem,
secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi
divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de
pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem
enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. Deinde cum dicit:
si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode
opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo,
distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo,
ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et
falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera. Circa primum
considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a
singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc
diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem
diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici
determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc
aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum
quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non
habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid
dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra
singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur
quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat
universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis,
per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed
universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione
hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum
attribuendi aliquid universali sic accepto. Sicut autem supra dictum est,
quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et
ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit
secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in
affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat
quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub
subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec
dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto
universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi
non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est
accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque
autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis;
et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio,
aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto
universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat
formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat;
unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio
posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter
removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita
etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem
affirmationem. Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus
aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali
praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia,
in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam
homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur
absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi
enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.
De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum
est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura
universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad
naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis
naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione
singularitatis. Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur
singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes,
scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. Sic igitur
secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones
enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad
indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi:
opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de
oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione
indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit
dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Dicit ergo primo quod si
aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum
continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est,
idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est
albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur
quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non
est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter
remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod
affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc
negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum
quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed
super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem
remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem
contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit
contrarietatem. Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit
oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non
universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim
universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus
subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt
contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria.
Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla.
Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter,
sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed
de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo
praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum
universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter
de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid
de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod
dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus,
quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est
albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc
videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate
rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur
hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in
indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur
subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut
particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est
vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non
praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati
si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem
universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur
ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte
praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere
omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas,
hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad
particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his
notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero
universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et
cetera. Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non
habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem
subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit
affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis
negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia contradictio
consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem
affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex
necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest
nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis
affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod
universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et
particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum dicit:
contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit
quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut,
omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem
universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.
Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se
habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non
sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat
propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod
facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera.
Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis
propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum
subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio
et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod
quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter
sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed
possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et,
homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. In
quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod
indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc
astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se
habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis
trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa,
quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse
sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum
destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem,
sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod
indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt
quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro
universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res;
et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes
non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur
pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat
privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in
Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia
non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita
semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori,
non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere
affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote
particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis
negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est
potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius
etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen
adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro
particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest
aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde
sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod
designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae
sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas
particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia
similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel
ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis
pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et
utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de
universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc.,
probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt
quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum
perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad
factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus,
quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est
imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente
albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit
albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae,
homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit: videbitur autem
etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod
subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est;
quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est,
nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant
neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est.
Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus,
nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa
hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur;
secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem
affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae
dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo primo,
manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem
fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera,
videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic
affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa
opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis
recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola
ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua
aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa
includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in
quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod
affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid
singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter
sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio
neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi
opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12
n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per
exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus,
haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si
vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita,
sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae
est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae
est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum
affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi,
omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est
albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando
affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod
huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria
negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non
aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur
tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. [80426]
Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod
supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita
affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita
affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter,
multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae
componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica
est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum
quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et
equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec,
tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera
existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones
ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad
unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est
albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec
cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter
inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito
vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam
similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel
universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes
affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et
praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario.
In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in
futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque
simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. Sed in
singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et
praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera
falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est
necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur
quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et
impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus
et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti,
quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae
autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum
universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum
in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit
quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa. Deinde cum
dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa
hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo,
ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt
inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in
singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri
oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate
careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes,
in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio
vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut
in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse.
Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut
habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo
homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret,
alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa
positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse
veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod
alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in
singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet
affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem
quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit
determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se
convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod
ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est
dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum
est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si
ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel
negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis
mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut
ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse
affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. Est
ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel
negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis
affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur
quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae
accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia
scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt
ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in
senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent,
nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam
permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad
productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae
sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se
habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum
sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo
enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum
dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit,
iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde
et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non
incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere
potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius
incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non
determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici,
neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad
utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio
vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille
qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse
aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret,
et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus
non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione.
Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum
enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo,
quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur
per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod
est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate
potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo
vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.
Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo,
ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim
prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi:
quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis
rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod
necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram
esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet
nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex
necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum
est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum
quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de
contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod
omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae
est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex
necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed
hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et
negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid
aliud, erit alius finis. Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc.,
probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili
posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud
non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse
impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat
praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod
hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc
non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est
quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex
necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex
necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc.,
ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt,
quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum,
alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum
fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel
negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae
enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter
etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit
affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic
ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum,
ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod
necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri;
consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita;
et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod
nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum
erat dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si haec
possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per
rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis;
secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum
autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod
homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus
existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod
quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et
omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas
persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus
homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota
civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod
homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc
quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis
contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent.
Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id
quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non
fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse,
contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non
fieri, esse et non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc.,
ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova;
manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec
ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod
possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo
supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per
assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita
possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non
inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et
ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper,
sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel
fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad
affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum
contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod
altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in
pluribus. Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in
commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati.
Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud
esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit;
possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero
distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium
esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod
semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non
prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima
distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper
erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in
aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est
necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista
distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium,
quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est
determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino
determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat
aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod
Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc
loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem
quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod
materia est in potentia ad utrumque oppositorum. Sed videtur haec ratio
non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur
in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus
invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter,
sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad
utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi
etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad
unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest,
consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem
modo. Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in
ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad
unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu
connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet
causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se
non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae
sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed
hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus)
reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam,
quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita,
necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad
ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad
bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa,
necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit
utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt
autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid
per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se.
Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum
accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens
alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est
per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod
per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens
non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes
in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in
qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis
syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic
aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et
directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum
differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad
intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur
viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae
secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub
ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra
ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam
secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in
magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si
ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub
ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et
subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad
ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos
eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si
autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa
turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in
via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt
ex necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem
aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi,
aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex
necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non
potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur
bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi
videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex
necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium
et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis
differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam
verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex
necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed
per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate
inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse
felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit,
quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit
esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse
quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando
non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non
potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et
omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne
ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex
necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem
necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter
de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex
necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere
id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est
verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.
Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant
veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit
quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim
illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione
eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se
necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse
est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc
sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod,
impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est
neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si
divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat
per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non
esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non
est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam;
sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim
pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit:
quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat
circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc.,
concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non
est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt,
sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae
praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina
et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in
enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius
enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima,
ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in
subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi:
his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa
oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici
enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem
considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit
unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis
infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid
accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem;
secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente
unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum
vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de
enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex
parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium
adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam
distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et
ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo,
ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi:
praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit
rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen
autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio
et cetera. Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione
affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de
aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur,
consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen
autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia
affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo
significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum
(quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest
infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum
aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne
aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et
innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum,
in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de
uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen,
vel nomen infinitum. Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat,
et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest
infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut,
non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam,
quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam
modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen
finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui,
sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa
conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur
aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem
simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae,
ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem.
Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen
infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet
unum. Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum
scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae
constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine
et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo
affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem
differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit
affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est. Deinde cum
dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest
sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est
affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel
negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in
enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem,
quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae
quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet
ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo
extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis,
sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione
posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem
negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur
negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et
ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo,
quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut
infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur
semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod
non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo,
sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti
est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non
constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum
est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi
includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae
significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur,
hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est
praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur,
quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter
positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus
subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus
nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non
potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare
de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale
subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non
universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae
posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis
temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est
eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus
distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex
parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati.
Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo,
manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero
contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus
in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in
quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit
autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam
ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus
subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent
etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem
habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo,
proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit
earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio,
exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem
et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc
quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum
est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut
cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam
quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine
praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes
et non in tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod
quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter
dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis
enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum
quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum
non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est
homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas
oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati,
quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est
iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo
non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae
particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Deinde cum
dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium
adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet,
scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest
enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est
tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi,
dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit,
vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen
vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum
enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum
habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat;
ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt
oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit
inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae
in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter
sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem
praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum
enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam,
sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut
privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est,
diversimode a diversis expositum est. Ad cuius evidentiam considerandum
est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus.
Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae
enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et
homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen
infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero
praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet
homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo
sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet
illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et
negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel
analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato
privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent
secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato
respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec,
homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero
affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed
duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non
homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et
hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius
evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute
se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere
praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia
illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter
haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum
quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum
loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa
infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici
de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo
iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed
etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus;
tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est
in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo,
quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in
plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici
quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa
privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente
habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum
vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est
quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum
de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam
negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo
iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo
quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non
iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum
iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est
exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum
praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et
negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera
negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut
privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem
affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa
infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa
privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa
sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita
etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus,
et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo
infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. Sequitur, duae
autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet
infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas
in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.
Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen
videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur
sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in
praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et
postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et
magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius
ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo
secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum,
scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una
est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad
affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius
negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad
affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet
negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex
negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae.
Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.
Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra
dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim
nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum
quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet
iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut
cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad
verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi
opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod
praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae.
Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum
dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam
figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est,
intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura,
in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex
opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus
scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non
iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de
infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. BOEZIO. COMMENTARII in
LIBRUM ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM EDITIONEM ET INDICES CONTINENS.
CHE T HILLr L,v-LIPSIAE IN AEDIBUS B. G. TEUBNERI.
LIPSIAE: B. G. TETJBNERI. In secundae editionis textu recensendo lii libri manu scripti mihi praesto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecae Palatinae Vindobonensis (Endlicheri)
qui continet f. 1—
8V versionem continue scriptam libri Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde f. 9—
176v sex libros Boetii commentariorum. F codex (Frisingensis
166) Monacensis 6366 s. XI et X:
vetustior manus s. X incipit a f. 33
(p. 352 editionis Basileensis = p. 171 nostrae editionis). T codex (Tegernseensis 479) Monacensis 18479 s. XI, qui f. 1
56v priorem editionem expositionis BOEZIO, f. 57v—65v versionem continuam, quam 1. % signavi, f. 66v191
secundam editionem complectitur. E codex
(Ratisb. S. Emm. 582) Monacensis 14582
s. XI. Praeter hos quattuor codices, quorum plenam
scripturae discrepantiam studio legentium proposui, hi quattuor alii libri a
mehic aut illic inspecti et difficilioribus locis excussi sunt: X codex Einsidlensis
301 s. X, in quo non pauca desiderantur: nam desunt
p. 371, 17 huius editionis conposita 378, 6 sit, 395, 21 possibile 410, 17 non necessarium, postremo
desinit in verba p. 417, 19 de
contingenti et de possi (sic), ut
finis quinti et sextus liber totus
perierit. J codex Einsidlensis 295 s.
XI. IV PRAEFATIO. G codex Sangallensis
830 s. XI. B codex Bernensis
332 s. XII, in
quo desunt p. 383, 1 ut in eo
— 434, 3 et dicit. Hos omnes
codices ex uno eodemque fonte fluxisse
inde apparet, quod eaedem in omnibus
lacunae, eaedem interpolationes, eadem vitiorum
genera deprehenduntur, et de lacunis quidem
conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208, 22. 288, 7. 382, 8. 432, 9, praeterea p. 126, 8. 267, 12. 290, 18. 312, 14. 341, 3. 447, 9. 482, 14. 489, 7, de interpolationibus autem —
13. iisdem vero cunctos vitiis foedatos esse ut demonstrem, satis erit
unum aut alterum ex plurimis passim
obviis proferre exemplum, nam et p.
361, ubi Peripatetica interrogationis divisio
proditur, cum in codicibus nostris v.
8 sqq. legatur: 'non dialecticae autem interrogationis duae sunt species, sicut audivimus docet
5, manifestum est pro vocabulo corrupto audivimus
5 Eu de mus restituendum fuisse et p. 324,
23 quin recte scripserim: ad tenacioris memoriae subsidium
5, cum codices inperversa scriptione t
elatior is consentiant, quis est qui dubitet? confer praeterea p.237, 25 28
locum illum in omnibus aequaliter libris turbatum. Pro fundamento autem textus constituendi codicem S habui,
omnium longe praestantissimum, qui non raro ceteris fidelius verae scripturae vestigia servaverit, confer e. c. p.
500, 9, ubi huius codicis lectio a bonum 5 propius ad verum ad unum
5 accedit quam reliquorum ad bonum 5, hoc unum dolendum est, quod a correctore quodam, quamquam multa emendata sunt, tamen ipsis locis difficillimis ita rasuris depravatus est, ut quid primitus in eo scriptum fuerit saepe dinosci non possit, nec tamen multum
interest, cum propter similitudinem ceterorum codicum fere semper quid S habuerit ex aliis suspicari liceat.
V Codici S plerumque consentit F, nisi quod in hoc librarius interdum pravo varietatis studio et verba transposuisse et pro solitis rariora vocabula inculcasse videtur, nam cum hic codex
p. 395, 20 pro voce Socratem mire elimannum posueri, quod aperte falsum est, iure in dubium vocari potest, num recte aliis locis hunc codicem solum contra ceterorum consensum secutus sim. quare hos locos notare velim et quid F habeat, quid ceteri adscribam:
F ceterip. 195, 21 autumant putant 208,
25 itidem similiter 212, 17 infit dicit
223, 1 potiores meliores 246, 20
itidem similiter. Ad S et F libros optimos proxime accedit
E, et ipse optimae notae idemque
pulcherrime et diligentissime scriptus, a
secunda manu et in S (= S2) et
in E (= E2), rarius in F (=
F2) multa egregie sunt emendata. N J G et ipsi in optimis numerandi sunt et intima cognation
cum S F E coniuncti, sed vix quidquam novi ex iis elicitur, quod non in ceteris reperiatur.
Minus fidei codici T tribuendum est, quippe qui fere semper cum secunda manu codicis G
(= G2) consentiat, ut quae in G
supra lineam vel in margine leguntur
in T in textum irrepserint, quare nec
interpolationibus vacat et variae lectiones
promiscue iuxta positae inveniuntur, sunt
tamen quae in hoc codice melius quam
in ceteris servata videantur. Minimae
auctoritatis et omnium deterrimus est codex
B (plerumque = E2), qui pauca
emendavit, plurima demendo addendo mutando
turbavit ac miscuit. Ut in prima,
sic in secunda editione lemmata non
plenum Aristotelis textum exhibent, sed
pauciora in secunda editione desiderantur,
quorum quaedam in E Boetii comment.
II. a**VI PRAEFATIO. a secunda manu in
margine et in B sunt addita, ceteram
B saepius prima tantum et postrema
Aristotelis verba expositioni BOEZIO praemittit,
quae vocula 'usque5 (vel 'reliqua usque5)
iunguntur (cf. p. 227, 13 —
26). De versione BOZIO ana libri Aristoteliei
Ttegi eQ[ir}-
vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni annal. vol. CXVII . 247 — 253 (a.
1878) disputavi. Monachii mense Martio
a. MDCCCLXXX. Car. Meiser. Boezio. IH LIBRVM ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS COMMENTARII. SECVNDA EDITIO. Boetii comment.
II. .
S = codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis n. 80. (
E — praemissa translatio). F = codex
(Frisingensis n. 166) Monacensis n. 6366.
T = codex (Tegernseensis n. 479)
Monacensis n. 18479. (X = praemissa translatio).
E = codex (Ratisb. S. Emm. n.
582) Monacensis n. 14582. N = codex
Einsidlensis n. 301. J = codex
Einsidlensis n. 295. G = codex
Sangallensis n. 830. B = codex
Bernensis n. 332. b = editio Basileensis
a. 1570. BOEZIO COMMENTARIORVM IN LIBRVM
ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIA2 SECVNDAE
EDITIONIS LIBER PRIMYS. Alexander in commentariis suis hac se inpulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis
causa est, quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit seriem, nisi
quod Vetius Praetextatus priores BOEZIO VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV ORDINE
(CONS
ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS (ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDAE
LIBER I INCIPIT. SF A-M-S-B- SECVNDA AEDITIO
IN LIBRVM PERI HERMENIAS INCIPIT. GT BOEZIO VIRI
ILL AEDITIONIS SCDAE IN PERIERMENIAS ARIST-
LIB I INCIPIT. J BOEZIO VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI ORDINE
PATRICII SCDAE EDITIONIS EXPO SITIONV IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS INCIPIT
LIBER I E titulum om. NB 1 Alexander
— longissimum om. N 2 longissimg T 4
dissidet F 6 etiam om. F 1*
ed.Bas 5\ 4 SECVNDA EDITIO postremosque
analyticos non vertendo Aristotelem LATINO SERMONE tradidit, sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit. ALBINO quoque de isdem rebus
scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio, de
DIALECTICA uero diu multumque quaesitos reperire non valui, sive igitur ille omnino tacuit, nos praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos
quoque docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. sed quamquam multa sint Aristotelis, quae SUBTILISSIMA
PHILOSOPHIAE arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est.
quocirca plus hic quam in X praedicamentis expositione sudabitur. Prius igitur quid
VOX sit definiendum est. hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri patefiet intentio.
VOX est aeris per linguam percussio, quae per quasdam gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab animali profertur,
sunt enim quidam alii SONI, qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit,
ut est tussis, haec enim flatu fit quodam per arterias egrediente, sed nulla linguae inpressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo potest, quocirca vox haec non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam dicamus SONUM esse cum quadam imaginatione SIGNIFICAND, vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS
alicuius causa profertur, tussis vero cum sonus sit, nullius SIGNIFICATIONIS causa
subrepit 3 Qu§ qui T 4 eisdem E 5
ergo T 6 repp. sic semper
codices 7 omnino ille T 12 nimis
tacumine T 16 omnis om. F 17
intentio de voce SG-J et in marg.
T definitio vocis E diff vocis F2
19 guturis F 29 alicuius — SIGNIFICATIONIS
G2 in marg. tusis F 30 subripit
S surripit GT I. 5 potius quam profertur, quare quoniam noster flatus ita sese habet, ut si ita percutitur atque formatur, ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat, ut terminato quodam et circumscripto sono vox exeat, LOCUTIO
fit quae Graece dicitur Xs%ig. locutio enim est ARTICULATA
VOX (neque enim hunc sermonem id est
Xe%iv dictionem dicemus, idcirco quod cpccGiv
dictionem interpretamur, Xi%iv vero locutionem),
cuius locutionis partes sunt litterae, quae cum iunctae fuerint, unam efficiunt vocem coniunctam conpositamque, quae locutio praedicatur. sive autem aliquid quaecumque vox SIGNIFICET,
ut est hic sermo “homo”, sive omnino nihil, sive positum alicui nomen SIGNIFICARE
possit, ut est “HLITYRI” (haec enim vox per se cum
nihil SIGNIFICET, posita tamen ut alicui nomen
sit SIGNIFICABIT), sive per se quidem nihil SIGNIFICET, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones:
haec omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox conposita quae litteris describatur, ut igitur sit
locutio, voce opus est id est eo sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui inscribi litteris possit, sed ut haec locutio SIGNIFICATIVA
sit, illud quoque addi oportet, ut sit aliqua
significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si
in hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit, ut in litteras
redigat sonum, locutio; quod si vis quoque quaedam imaginationis
adda- 1 quoniam dei. S2 om. F
2 percutitur atque formatur g2p2g2g.
percuti atq. formari SFEN, percuti atq.
formari possit T (possit supra lin.
GJ) ut cu eu B 3 sit] est
STGNJ ( corr. S2) 5 fit] sit S2FE2
lexis codices, item 6 et 8
lexin, 7 phasin 9 literae in marg.
S quae coniunctae S, corr. S2 13
alicuius SF 14 blythyri SG blithyri
NT blytbiri EF? {in fine suprascr. s
F) 21 et ut b 22 scribi? 28
fit T 5 10 15 20
6 tur, illa SIGNIFICATIVA vox redditur. concurrentibus igitur
his tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione aliqua
proferendi fit interpretatio, interpretatio namque est vox articulata per se ipsam 5
SIGNIFICANS, quocirca non omnis vox interpretatio est. sunt
enim ceterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur, nec omnis locutio interpretatio est,
idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones quaedam,
quae significatione careant et cum per se quaedam non
significent, iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. interpretatio autem in solis
per se significativis et articulatis vocibus permanet. quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud
significet, quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur, unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos
de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, PER
SE VERO NIHIL DESIGNANT, interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae scilicet per se ipsa SIGNIFICANT,
nihilo ¬ minus quoque orationem, quae et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret
quare quoniam non de oratione sola, sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola locutione, sed etiam de SIGNIFICATIVA
locutione, quae est interpretatio, hoc libro ab Aristotele tractatur,
id circo quoniam in 16 Ar. Poet. c. 20.
1 significatiua b: significatio SG-TE,
significatione FS1 2E2? redditur uox T 4
interpretatio om. SNF, in marg. addunt GE
quae namq; S2F 10 iunctae F: iuncta
ceteri 14 illud quoq; E 16 arte
poetica S2FE 23 post orationem addit
partem esse tradidit S2F cum om. T
28 in hoc S2F ab om. T
I. 7 verbis atque nominibus et
in significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc
libro tractabitur, id est ab
interpretatione, ipse quoque de interpretatione
liber inscriptus est. cuius expositionem
nos scilicet quam 5 maxime a
Porphyrio quamquam etiam a ceteris
transferentes Latina oratione digessimus, hic
enim nobis expositor et intellectus acumine
et sententiarum dispositione videtur excellere,
erunt ergo interpretationis duae primae
partes nomen et verbum, his enim 10
quidquid est in animi intellectibus
designatur; his namque totus ordo orationis
efficitur, et in quantum vox ipsa
quidem intellectus significat, in duas (ut
dictum est) secatur partes, nomen et
verbum, in quantum vero vox per
intellectuum medietatem subiectas intellectui res
demonstrat, significantium vocum Aristoteles numerum
in X praedicamenta partitus est. atque
hoc distat libri huius intentio a
praedicamentorum in denariam multitudinem
numerositate p. 291 collecta, ut hic quidem tantum de numero SIGNIFICANTIUM
vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet
voces, quibus significativis vocibus intellectus
animi designentur, quae sunt scilicet
simplicia quidem nomina et verba, ex
his vero conpositae orationes: praedicamentorum
vero haec intentio est: de significativis
rerum vocibus in tantum, quantum eas
medius animi SIGNIFICET intellectus, vocis
enim quaedam qualitas est nomen et
verbum, quae nimirum ipsa illa decem
praedicamenta significant, decem namque praedicamenta
numquam sine aliqua verbi qualitate vel
30 nominis proferentur, quare erit libri
huius intentio de significativis vocibus in
tantum, quantum con- 1 in om. E
3 in hoc S2F 9 dispositio S
corr. S2 10 partes primae T 11
intellectus F corr. F1 12 totius F
18 in hoc T 20 in tantum? 26
uocibus tractare F, uoc. dicere TE, tractare
inmarg. S 31proferuntur S2F 32 signatiuis S corr.
S2 8 SECVNDA EDITIO ceptiones animi
intellectus que significent, de decem
praedicamentis autem libri intentio in eius
commentario dicta est, quoniam sit de significativis
rerum vocibus, quot partibus distribui
possit earum signifi- 5 catio in
tantum, quantum per sensuum atque
intellectuum medietatem res subiectas
intellectibus voces ipsae valeant designare,
in opere vero de poetica non eodem
modo dividit locutionem, sed omnes omnino
locutionis partes adposuit confirmans esse
locu- 10 tionis partes elementa, syllabas,
coniunctiones, articulos, nomina, casus, verba,
orationes, locutio namque non in solis significativis
vocibus constat, sed supergrediens
significationes vocum ad articulatos sonos
usque consistit, quaelibet enim syllaba
vel quodlibet nomen vel quaelibet alia
vox, quae scribi litteris potest,
locutionis nomine continetur, quae Graece
dicitur sed non eodem modo interpretatio.
huic namque non est satis, ut sit
huiusmodi vox quae litteris valeat
adnotari, sed ad hoc ut aliquid
quoque significet, praedicamentorum vero in
hoc ratio constituta est, in quo hae
duae partes interpretationis res intellectibus
subiectas designent, nam quoniam decem res
omnino in omni natura reperiuntur, decem
quoque intellectus erunt, quos
intellectus quoniam verba nominaque significant,
decem omnino erunt praedicamenta, quae verbis
atque nominibus DESIGNENTUR, duo vero quaedam id est nomen et verbum,
quae ipsos significent intellectus, sunt
igitur elementa interpretationis verba et
nomina, propriae vero partes 30 quibus
ipsa constat interpretatio sunt orationes,
orationum vero aliae sunt perfectae, aliae
inperfectae. 7 Ar. Poet. c. 20.
3 pro quoniam: cum F 4 quod
F 7 arte poetica FE2, arte in
marg. S 17 lexis FTE 31 aliae
uero inp. TE, aliae inperf. om. S in
marg. addit S2 I. 9
perfectae sunt ex quibus plene id quod
dicitur valet intellegi, inperfectae in
quibus aliquid adhuc plenius animus
exspectat audire, ut est Socrates cum
Platone. nullo enim addito orationis
intellectus pendet ac titubat et auditor
aliquid ultra exspectat audire, perfectarum
vero orationum partes quinque sunt: deprecativa
ut Iuppiter omnipotens, precibus si
flecteris ullis, Da deinde auxilium, pater,
atque haec omina firma, imperativa ut
Yade age, nate, voca Zephyros et
labere pennis, interrogativa ut Dic mihi,
Damoeta, cuium pecus? an Meliboei? vocativa
<(ufi> 0 pater, o hominum rerumque
aeterna potestas, enuntiativa, in qua
veritas vel falsitas invenitur, ut
Principio arboribus varia est natura
serendis, huius autem duae partes sunt,
est namque et simplex oratio enuntiativa
et conposita. simplex ut dies est,
lucet, conposita ut si dies est, lux
est. in hoc igitur libro Aristoteles
de enuntiativa simplici oratione disputat
et de eius elementis, nomine scilicet
atque verbo, quae quoniam et significativa
sunt et significativa vox articulata
interpretationis nomine continetur, de communi
(ut dictum est) vocabulo librum de
interpretatione appellavit, et Theophrastus
quidem in eo libro, quem de
adfirmatione et negatione conposuit, de
enuntiativa oratione tractavit, et Stoici
quoque in his libris, quos ttsqI
a^tco^uzcov appellant, de isdem 7
Yerg. Aen. II 689. 691 9 Yerg.
Aen. IY 223 11 Yerg. Ecl. III
1 12 Yerg. Aen. X 18 14 Yerg.
Georg. II 9 9 omnia TE
10 pinnis S^1 11 damgta T 12
melibei T ut b :'om. codices,
alterum o om. SFE1 15 creandis
Vergilii codices 16 et om. E 17
est et conp. S2FE2 lux est F2E2
21 uox et art. S2FE2 27 peri
axiomaton codices 5 10 15 20 25
nihilominus disputant, sed illi quidem et
de simplici et de non simplici
oratione enuntiativa speculantur, Aristoteles
vero hoc libro nihil nisi de sola
simplici enuntiativa oratione considerat.
Aspasius quoque et 5 Alexander sicut
in aliis Aristotelis libris in hoc
quoque commentarios ediderunt, sed uterque
Aristotelem de oratione tractasse pronuntiat,
nam si oratione aliquid proferre ut
aiunt ipsi interpretari est, de
interpretatione liber nimirum veluti de
oratione per scriptus est, quasi vero
sola oratio ac non verba quoque et
nomina interpretationis vocabulo concludantur.
aeque namque et oratio et verba ac
nomina, quae sunt interpretationis elementa,
nomine interpretationis vocantur, sed Alexander
addidit inperfecte sese habere libri
titulum: neque enim designare, de qua
oratione perscripserit, multae namque ut
dictum est sunt orationes; sed adiciendum
vel subintellegendum putat de oratione
illum scribere philosophica vel dialectica
id est, qua verum falsumque valeat expediri sed
qui semel solam orationem interpretationis
no¬ mine vocari recipit, in intellectu quoque ipsius
inscriptionis erravit, cur enim putaret
inperfectum esse titulum, quoniam nihil de
qua oratione disputaret adiecerit? ut si
quis interrogans quid est homo? alio respondente
animal culpet ac dicat inperfecte illum
dixisse, quid sit, quoniam non sit
omnes differentias persecutus, quod si
huic, id est homini, sunt quaedam
alia communia ad nomen animalis, nihil
tamen inpedit perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum qui animal dixit:
sive enim differentias addat quis sive
non, hominem animal esse necesse est.
eodem quoque modo et de oratione, si
quis hoc concedat primum, nihil aliud
interpretationem dici nisi orationem, 5
alios — libros in hunc? 21 recepit?
21.22 scriptionis S^1 23. 24 adiecit
T 26 non o. diff. sit E 30
addit T 33 interpretatione
F I. 11 cur qui de interpretatione
inscripserit et de qua interpretatione
dicat non addiderit culpetur, non est.
satis est enim libri titulum etiam de
aliqua continenti communione fecisse, ut
nos eum et de nominibus et verbis
et de orationibus, cum baec omnia uno
interpretationis nomine continerentur, supra
fecisse docuimus, cum bic liber ab eo
de interpretatione notatus est. sed quod
addidit illam interpretationem solam dici,
qua in oratione possit veritas et
falsitas inveniri, ut est enuntiativa
oratio, fingentis est ut ait Porphyrius
significationem nominis potius quam docentis,
atque ille quidem et in intentione
libri et in titulo falsus est, sed
non eodem modo de iudicio quoque
libri buius erravit. Andronicus enim librum
bunc Aristotelis esse non puta,quem
Alexander vere fortiterque redarguit, quem
cum exactum diligentemque Aristotelis librorum
et iudicem et repertorem iudicarit
antiquitas, cur in huius libri iudicio
sit falsus, prorsus est magna admiratione
dignissimum, non esse namque proprium
Aristotelis bine conatur ostendere, quoniam
quaedam Aristoteles in principio libri
huius de intellectibus animi tractat, quos
intellectus animae passiones vocavit, et de
bis se plenius in libris de anima
disputasse commemorat, et quoniam passiones
animae vocabant vel tristitiam vel gaudium
vel cupiditatem vel alias huiusmodi
adfectiones, dicit Andronicus ex boc
probari hunc librum Aristotelis non esse,
quod de huiusmodi adfectionibus nihil in
libris de anima tractavisset, non
intellegens in hoc libro Aristotelem
passiones animae non pro adfectibus, sed
pro intellectibus posuisse, his Alexander
multa alia addit argumenta, cur hoc
opus Aristotelis maxime esse videatur, ea
namque dicuntur hic, quae sententiis
Aristotelis quae sunt de enuntia- [5.
6
continentur F 6 cum om. F1 haec S, corr. S2 10. 11 potius sign. nom. S2F 22 et animae T 23 in supra lin. T 24 vocabat b 30 prius pro om. S1 Hic E1 5 10 15 20 25
30 12 SECVNDA EDITIO] tione consentiant; illud
quoque, quod stilus ipse pro¬ pter
brevitatem pressior ab Aristotelis obscuritate
non discrepat; et quod Theophrastus, ut
in aliis solet, cum de similibus
rebus tractat, quae scilicet ab Aristotele
ante tractata sunt, in libro quoque
de adfirmatione et negatione, isdem
aliquibus verbis utitur, quibus hoc libro
Aristoteles usus est. idem quoque
Theophrastus dat signum hunc esse
Aristotelis librum: in omnibus enim, de
quibus ipse disputat post magistrum, leviter
ea tangit quae ab Aristotele dicta
ante cognovit, alias vero diligentius res
non ab Aristotele tractatas exsequitur, hic
quoque idem fecit, nam quae Aristoteles
hoc libro de enuntiatione tractavit,
leviter ab illo transcursa sunt, quae
vero magister eius tacuit, ipse subtiliore
modo considerationis adiecit. addit quoque
hanc causam, quoniam Aristoteles quidem de
syllogismis scribere animatus num- quam id
recte facere potuisset, nisi quaedam de
propositionibus adnotaret. mihi quoque videtur
hoc subtiliter perpendentibus liquere hunc
librum ad analyticos esse praeparatum, nam
sicut hic de simplici propositione
disputat, ita quoque in analyticis de
simplicibus tantum considerat syllogismis, ut
ipsa syllogismorum propositionumque simplicitas
non ad aliud nisi ad continens opus
Aristotelis pertinere videatur, quare non
est audiendus Andronicus, qui propter
passionum nomen hunc librum ab Aristotelis
operibus separat. Aristoteles autem idcirco
passiones animae intellectus vocabat, quod
intellectus, quos sermone dicere et
oratione proferre consuevimus, ex aliqua
causa atque utilitate profecti sunt: ut
enim dispersi homines colligerentur et
legibus vellent esse subiecti civitatesque
condere, utilitas quaedam fuit et causa,
quocirca 3 et b: uel codices 15
subtilior S1 16 addidit E 17 pro
scribere: est T 19 hoc uidetur F
22 in om. F1 29 uocauit E
I c, 1. 13 quae ex aliqua utilitate
veniunt, ex passione quoque provenire
necesse est. nam ut divina sine ulla
sunt passione, ita nulla illis extrinsecus
utilitas valet adiungi: quae vero sunt
passibilia semper aliquam causam atque utilitatem
quibus sustententur inveniunt quocirca huiusmodi
intellectus, qui ad alterum oratione
proferendi sunt, quoniam ex aliqua causa
atque utilitate videntur esse collecti, recte
passiones animi nominati sunt, et de
intentione quidem et de libri inscriptione
et de eo, quod hic maxime Aristotelis
liber esse putandus
est, haec dicta sufficiunt, quid vero
utilitatis habeat, non ignorabit qui sciet
qua in oratione veritas constet et
falsitas. in sola enim haec enuntiativa
oratione consistunt, iam vero quae dividant
verum falsumque quaeve definite vel quae
varie et mutabiliter veritatem falsitatemque
partiantur, quae iuncta dici possint, cum
separata valeant praedicari, quae separata
dicantur, cum iuncta sint praedicata, quae
sint negationes cum modo propositionum,
quae earum consequentiae aliaque plura in
ipso opere considerator poterit diligenter
agnoscere, quorum magnam experietur utilitatem
qui animum curae alicuius investigationis
adverterit, sed nunc ad ipsius Aristotelis
verba veniamus. Primum oportet constituere,
quid nomen et quid verbum, postea
quid est negatio et adfirmatio et
enuntiatio et oratio. Librum incohans
de quibus in omni serie tractaturus
sit ante proposuit, ait enim prius
oportere de 2 sunt om. F1 5
inuenient E 8 animae? 11 suf¬ ficiant
b 16 patiantur T 16. 17 quae
iuncta om. F, in marg. quae iunctim
F2? 17.18 iuncta — cum om. S1
20.21 consideratior SF*T 21 quorum
ego: quarum codices 22 curae ego:
cura codices 23 ipsius om. F 25
quid Ar. xL: quid sit codices 26
sit uerbum codices praeter 2/E2 est
om. 2% {eras, in S) quibus
disputaturus est definire, hic enim
constituere definire intellegendum est.
determinandum namque est quid haec omnia sint
id est quid nomen sit, quid verbum
et cetera, quae elementa interpretationis
esse praediximus, sed adfirmatio atque
negatio sub interpretatione sunt, quare
nomen et verbum adfirmatio- nis et
negationis elementa esse manifestum est.
his enim conpositis adfirmatio et negatio
coniunguntur. exsistit hic quaedam quaestio,
cur duo tantum nomen et verbum se
determinare promittat, cum plures partes
orationis esse videantur, quibus hoc
dicendum est tantum Aristotelem hoc libro
definisse, quantum illi ad id quod
instituerat tractare suffecit, tractat namque
de simplici enuntiativa oratione, quae
scilicet huiusmodi est, ut iunctis tantum
verbis et nominibus conponatur. si quis
enim nomen iungat et verbum, ut dicat
Socrates ambulat, simplicem fecit enun¬
tiativam orationem, enuntiativa namque oratio
est ut supra memoravi quae habet in
se falsi verique designationem, sed in
hoc quod dicimus Socrates ambulat aut
veritas necesse est contineatur aut fal-
sitas. hoc enim si ambulante Socrate
dicitur, verum est, si non ambulante,
falsum, perficitur ergo enuntiativa oratio
simplex ex solis verbis atque nominibus quare
superfluum est quaerere, cur alias quoque
quae videntur orationis partes non
proposuerit, qui non totius simpliciter
orationis, sed tantum simplicis enuntiationis
instituit elementa partiri, quamquam duae
propriae partes orationis esse dicendae
sint, nomen 30 scilicet atque verbum,
haec enim per sese utraque significant,
coniunctiones autem vel praepositiones nihil
omnino nisi cum aliis iunctae designant;
participia verbo cognata sunt, vel quod
a gerundivo modo 2 definire om.
S1 17 et T 22. 23 est verum
F 25 quae om. S1 26 proposuit T
33 uerbis E2? vero verbo editio
princeps conata T gerundi FXE (gerunti?
F) I c. 1. 15 veniant
vel quod tempus propria significatione contineant;
interiectiones vero atque pronomina nec non
adverbia in nominis loco ponenda sunt,
idcirco quod aliquid significant definitum,
ubi nulla est vel passio¬ nis
significatio vel actionis, quod si casibus
horum quaedam flecti non «possunt, nihil
inpedit. sunt enim quaedam nomina quae
monoptota nominantur, quod si quis ista
longius et non proxime petita esse
arbitretur, illud tamen concedit, quod
supra iam diximus, non esse aequum
calumniari ei, qui non de omni oratione,
sed de tantum simplici enuntiatione
proponat, quod tantum sibi ad definitionem
sumpserit, quantum arbitratus sit operi
instituto sufficere, quare dicendum
est Aristotelem non omnis orationis partes
hoc opere velle definire, sed tantum
solius simplicis enuntiativae orationis, quae
sunt scilicet nomen et verbum, argumentum
autem huius rei hoc est. postquam
enim proposuit dicens: primum oportet
constituere, quid sit nomen et quid
verbum, non statim inquit, quid sit oratio,
sed mox addidit et quid sit negatio,
quid adfirmatio, quid enuntiatio, postremo
vero quid oratio, quod si de omni
oratione loqueretur, post nomen et verbum
non de adfirmatione et negatione et
post hanc de enuntiatione, sed mox de
oratione dixisset, nunc vero quoniam post
nominis et verbi propositionem adfirmationem,
negationem et enuntiationem et post
orationem proposuit, confitendum est, id
quod ante diximus, non orationis universalis,
sed simplicis enuntiativae orationis, quae dividitur
in adfirmationem atque negationem, divisionem partium
facere voluisse, quae sunt nomina et
verba, haec enim per se ipsa
intellectum simplicem servant, 1. 2
continent F 7 monopta S 9 concedat
b 10 calumpniari E eum? 11 tantum
de E2 enuntiatione om. S1 12
sumpserat F 14 omnes SFT 20 et
om. F 26 et negationem et F 31
uerba et nomina F „ quae eadem
dictiones vocantur, sed non sola dicuntur, sunt
namque dictiones et aliae quoque: orationes
vel inperfectae vel perfectae, cuius plures
esse partes supra iam docui, inter
quas perfectae orationis species est
enuntiatio, et haec quoque alia simplex,
alia con- posita est. de simplicis
vero enuntiationis speciebus inter philosophos
commentatoresque certatur, aiunt enim quidam
adfirmationem atque negationem enuntiationi ut
species supponi oportere, in quibus
et Porphyrius est: quidam vero nulla
ratione consentiunt, sed contendunt adfirmationem
et negationem aequivoca esse et uno
quidem enuntiationis vocabulo nuncupari,
praedicari autem enuntiationem ad utrasque
ut nomen aequivocum, non ut genus
univocum; quorum princeps Alexander est.
quorum contentiones adponere non videtur
inutile, ac prius quibus modis
adfirmationem atque negationem non esse
species enuntiationis Alexander putet dicendum
est, post vero addam qua Porphyrius haec
argumentatione dissolverit. Alexander namque
idcirco dicit non esse species
enuntiationis adfirmationem et negationem,
quoniam adfirmatio prior sit. priorem vero
adfirmationem idcirco conatur ostendere, quod
omnis negatio adfirmationem tollat ac
destruat, quod si ita 25 est, prior
est adfirmatio quae subruatur quam negatio
quae subruat, in quibus autem prius
aliquid et posterius est, illa sub
eodem genere poni non possunt, ut in
eo titulo praedicamentorum dictum est qui
de his quae sunt simul inscribitur.
amplius: negatio omnis, inquit, divisio est,
adfirmatio conpositio atque coniunctio. cum
enim dico Socrates vivit, vitam cum
Socrate coniunxi; cum dico Socrates non
vivit, vitam a Socrate disiunxi. divisio
igitur quaedam negatio est, coniunctio
adfirmatio. conpositi autem est con-
1 eaedem SF sola ego: solae
codices 2 quoq; ut b 4. 5
est species F 5 alias — alias
E2 12 unum S1T 22 fit T
I c. 1. 17 iunctique divisio,
prior est igitur coniunctio, quod est
adfirmatio; posterior vero divisio, quod
est negatio, illud quoque adicit, quod
omnis per adfirmationem facta enuntiatio
simplicior sit per negationem facta
enuntiatione, ex negatione enim particula
negativa 5 si sublata sit, adfirmatio
sola relinquitur, de eo enim quod est
Socrates non vivit si non particula
quae est adverbium auferatur, remanet
Socrates vivit. simplicior igitur adfirmatio
est quam negatio, prius vero sit
necesse est quod simplicius est. in
quantitate etiam quod ad quantitatem minus
est prius est eo quod ad quantitatem
plus est. omnis vero oratio quantitas
est. sed cum dico Socrates ambulat,
minor oratio est quam cum dico
Socrates non ambulat, quare si secundum quantitatem
adfirmatio minor est, eam priorem quoque
esse necesse est. illud quoque adiunxit
adfirmationem quendam esse habitum, negationem
vero privationem, sed prior habitus
privatione: adfirmatio igitur negatione prior
est. et ne singula persequi laborem,
cum aliis quoque modis demonstraret
adfirmationem negatione esse priorem, a
communi eas genere separavit, nullas enim
species arbitratur sub eodem genere esse
posse, in quibus prius vel posterius
consideretur, sed Porphyrius ait sese
docuisse species enuntiationis esse adfirmationem
et negationem in his commentariis quos
in Theophrastum edidit; hic vero Alexandri
argumentationem tali ratione dissolvit, ait
enim non oportere arbitrari, quaecumque
quolibet modo priora essent aliis, ea
sub eodem genere poni non posse, sed
quae- cumque secundum esse suum atque
substantiam priora vel posteriora sunt, ea
sola sub eodem genere non ponuntur,
et recte dicitur, si enim omne
quidquid si om. S^E1 16 quoq. priorem
F esse om. SF 22 separaret SF,
separabat S2F2, separat T nullus SF1
24 aliquid prius GrTE consideratur F
26 iis F2 Boetii comxnent. prius est
cum eo quod posterius est sub uno
genere esse non potest, nec primis
substantiis et secundis commune genus
poterit esse substantia; quod qui dicit
a recto ordine rationis exorbitat, sed
quemadmodum quamquam sint primae et
secundae substantiae, tamen utraque aequaliter
in subiecto non sunt et idcirco esse
ipsorum ex eo pendet, quod in
subiecto non sunt, atque ideo sub uno
substantiae genere conlocantur: ita quoque
quamquam adfirmationes negationibus in orationis
prolatione priores sint, tamen ad esse
atque ad naturam propriam aequaliter
enuntiatione participant, enuntiatio vero est
in qua veritas et falsitas inveniri
potest, qua in re et adfirmatio et
negatio aequales sunt, aequaliter enim et
adfirmatio et negatio veritate et falsitate
participant, quocirca quoniam ad id quod
sunt adfirmatio et negatio aequaliter ab
enuntiatione participant, a communi eas
enuntiationis genere dividi non oportet,
mihi quoque videtur quod Porphyrii sit
sequenda sententia, ut adfirmatio et
negatio communi enuntiationis generi supponantur,
longa namque illa et multiplicia Alexandri
argumenta soluta sunt, cum demonstravit non
modis omnibus ea quae priora sunt sub
communi genere poni non posse, sed
quae ad esse proprium atque substantiam
priora sunt illa sola sub communi
genere constitui atque poni non posse.
Syrianus vero, cui Philoxenus cognomen est,
hoc loco quaerit, cur proponens prius
de negatione, post de adfirmatione
pronuntiaverit dicens: primum oportet constituere,
quid nomen et quid verbum, postea
quid est negatio et adfirmatio. et
primum quidem nihil proprium dixit, quoniam
in quibus et ad- 1 posterius]
prius S^E1 6 utraeque b 8 sint
E 13 et post re om. F 16
ad ego addidi: om. codices 17 pro
a: et SF 21 supponatur SF multiplica
F ^ 30 quid sit n. codices
31 est om. F primum S: primo S2
et ceteri I c. 1. 19
firmatio potest et negatio provenire, prius
esse negatio, postea vero adfirmatio
potest, ut de Socrate sanus est.
potest ei aptari talis adfirmatio, ut
de eo dicatur Socrates sanus est;
etiam huiusmodi potest aptari negatio, ut de
eo dicatur Socrates sanus non est.
quoniam ergo in eum adfirmatio et
negatio poterit evenire, prius evenit ut
sit negatio quam ut adfirmatio. ante
enim quam natus esset: qui enim natus
non erat, nec esse poterat sanus,
liuic illud adiecit: servare Aristotelem
conversam propositionis et exsecutionis distributionem.
hic enim prius post nomen et verbum
de negatione proposuit, post de
adfirmatione, dehinc de enuntiatione, postremo
vero de oratione, sed proposita definiens
prius orationem, post enuntiationem, tertio
adfirmationem, ultimo vero loco negationem
determinavit, quam hic post propositionem
verbi et nominis primam locaverat, ut
igitur ordo servaretur conversus, idcirco
negationem prius ait esse propositam, qua
in expositione Alexandri quoque sententia
non discedit, illud quoque est additum,
quod non esset inutile, enuntiationem genus
adfirmationis et negationis accipi oportere,
quod quamquam (ut dictum est) ad
prolationem prior esset adfirmatio, tamen
ad ipsam enuntiationem id est veri
falsique vim utrasque aequaliter sub
enuntiatione ab Aristotele constitui, id
etiam Aristotelem probare, praemisit enim
primam nega¬ tionem, secundam posuit
adfirmationem, quae res nihil habet vitii,
si ad ipsam enuntiationem adfirmatio et
negatio ponantur aequales, quae enim natura
aequa¬ les sunt, nihil retinent contrarii
indifferenter acceptae, est igitur ordo quo
proposuit: primum totius orationis 1
est. potest T 2 non est F; non
supra lin. SE; sanus est delet S2
3 de eo om. T1 6 eo? 8
post esset addit potuit dici sanus
non est T, in marg. G2 enim om.
F, eras, in E 12 et hinc E
17 primum F ergo T 23 est F
(in rasura) 26 probare dicit FTE2S2(m»Mf^.)
probare dr Misit G (suprascr. dicit
Premisit G2) enim om. E1 31 quod
F, quoq. T 2 * 5
10 elementum, nomen scilicet et
verbum, post haec ne¬ gationem et
adfirmationem, quae species enuntiationis sunt,
quorum genus id est enuntiationem tertiam
nominavit, quartam vero orationem posuit,
quae ipsius enuntiationis genus est. et
horum se omnium definitiones daturum esse
promisit, quas interim relinquens atque
praeteriens et in posteriorem tractatum
differens illud nunc addit quae sint
verba et nomina aut quid ipsa
significent, quare antequam ad verba
Aristotelis ipsa veniamus, pauca communiter
de nominibus atque verbis et de his
quae significantur a verbis ac nominibus
disputemus, sive enim quaelibet interrogatio
sit atque responsio, sive perpetua
cuiuslibet orationis continuatio atque alterius
auditus et intellegentia, sive hic quidem
doceat ille vero discat, tribus his
totus orandi ordo perficitur: rebus, intellectibus,
vocibus, res enim ab intellectu concipitur,
vox vero conceptiones animi intellectusque
significat, ipsi vero intellectus et
concipiunt subiectas res et significantur a
vocibus, cum igitur tria sint haec
per quae omnis oratio conlocutioque
perficitur, res quae sub- iectae sunt,
intellectus qui res concipiant et rursus
a vocibus significentur, voces vero quae
intellectus designent, quartum quoque quiddam
est, quo voces ipsae valeant designari,
id autem sunt litterae, scriptae namque
litterae ipsas significant voces, quare
quattuor ista sunt, ut litterae quidem
significent voces, voces vero intellectus,
intellectus autem concipiant res, quae
scilicet habent quandam non confusam neque fortuitam
consequentiam, sed terminata naturae suae
ordinatione constant, res enim semper
comitantur eum qui ab ipsis concipitur intellectum,
ipsum vero intellectum vox sequitur, sed
voces elementa id est 3 quarum?
17 — 20 res — vocibus om. F, in
marg. add. F1? 26 significent SF 30
suae naturae E 31 constat SE
comitatur F2 32 eum dei. F2
intellectus F I c. 1. 21
litterae, rebus enim ante propositis
et in propria substantia constitutis
intellectus oriuntur, rerum enim semper intellectus
sunt, quibus iterum constitutis mox
significatio vocis exoritur, praeter intellectum
nam¬ que vox penitus nihil designat,
sed quoniam voces sunt, idcirco litterae,
quas vocamus elementa, repertae sunt, quibus
vocum qualitas designetur, ad cognitionem
vero conversim sese res habet, namque
apud quos eaedem sunt litterae et qui
eisdem elementis utuntur, eisdem quoque
nominibus eos ac verbis id est
vocibus uti necesse est et qui
vocibus eisdem utuntur, idem quoque apud
eos intellectus in animi conceptione
versantur, sed apud quos idem intellectus
sunt, easdem res eorum intellectibus
subiectas esse manifestum est. sed hoc
nulla ratione convertitur, namque apud quos
eaedem res sunt idemque intellectus, non
statim eaedem voces eaedemque sunt litterae.
nam cum ROMANUS, Graecus ac barbarus
simul videant equum, habent quoque de
eo eundem intellectum quod equus sit
et apud eos eadem res subiecta est,
idem a re ipsa concipitur intellectus,
sed Graecus aliter equum vocat, alia
quoque vox in equi significatione ROMANA
est et barbarus ab utroque in equi
designatione dissentit, quocirca diversis quoque
voces proprias elementis inscribunt, recte
igitur dictum est apud quos eaedem
res idemque intellectus sunt, non statim
apud eos vel easdem voces vel eadem
elementa consistere, praecedit autem res intellectum,
intellectus vero vocem, vox litteras, sed
hoc converti non potest, neque enim
si litterae sint, mox aliqua ex his
significatio vocis exsistit, hominibus namque
qui litteras ignorant nullum nomen
quaelibet elementa significant, quippe quae
nesciunt, nec si voces 1 positis
F 8 habent T 20 sit om. F1
24 designi- ficatione S1 28 intellectum
res F 31 consistit E sint, mox
intellectus esse necesse est. plures enim
voces invenies quae nihil omnino significent,
nec intellectui quoque subiecta res semper
est. sunt enim intellectus sine re
ulla subiecta, ut quos centauros vel
chimaeras poetae finxerunt, horum enim sunt
intellectus quibus subiecta nulla substantia
est. sed si quis ad naturam redeat
eamque consideret diligenter, agnoscet cum
res est, eius quoque esse intellectum:
quod si non apud homines, certe apud
eum, qui propriae divinitate substantiae in
propria natura ipsius rei nihil ignorat,
et si est intellectus, et vox est;
quod si vox fuerit, eius quoque sunt
litterae, quae si Ignorantur, nihil ad
ipsam vocis naturam, neque enim, quasi
causa quaedam vocum est intellectus aut
vox causa litterarum, ut cum eaedem
sint apud aliquos litterae, necesse sit
eadem quoque esse nomina: ita quoque
cum eaedem sint vel res vel
intellectus apud aliquos, mox necesse est
intellectuum ipsorum vel rerum eadem esse
vocabula, nam cum eadem sit et res
et intellectus hominis, apud diversos tamen
homines huiusmodi substantia aliter et
diverso nomine nuncupatur, quare voces
quoque cum eaedem sint, possunt litterae
esse diversae, ut in hoc nomine quod
est homo: cum unum sit nomen,
diversis litteris scribi potest, namque
Latinis litteris scribi potest, potest
etiam Graecis, potest aliis nunc primum
inventis litterarum figuris, quare quoniam
apud quos eaedem res sunt, eosdem
intellectus esse necesse est, apud quos
idem intellectus sunt, voces eaedem non
30 sunt et apud quos eaedem
voces sunt, non necesse 2 significant
F 3 est semper E 9 omnes T2
Denm b 10 snbst. div. E 13
nataram pertinet F2 14 quaedam causa
F 15 ut enim cum S2F 16 pro
litterae: uoces E2 easdem E2 pro
nomina: literas E2 18 mox non S2FE2
25 namque — potest in marg. F
28 res om. F1 29 non eaedem
(non supra lin .) F 30 prius sunt
om. F I c. 1. 23
est eadem elementa constitui; dicendum est
res et intellectus, quoniam apud omnes idem sunt, esse NATURALITER constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis
hominum positionibus permutantur, NON ESSE NATURALITER, SED
POSITIONE, concludendum est igitur, quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eaedem quoque voces sunt et apud quos eaedem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eaedem subiectae sunt:
rursus apud quos eaedem res sunt, idem
quoque sunt intellectus; apud quos idem
intellectus, non eaedem voces; nec apud
quos eaedem voces sunt, eisdem semper litteris
verba ipsa vel nomina designantur, sed
nos in supra dictis sententiis elemento
atque littera promiscue usi sumus, quae
15 autem sit horum distantia paucis
absolvam, littera est inscriptio atque
figura partis minimae vocis articulatae,
elementum vero sonus ipsius inscriptionis:
ut cum scribo litteram quae est a,
formula ipsa quae atramento vel graphio
scribitur littera nominatur, ipse vero
sonus quo ipsam litteram voce proferimus
dicitur elementum, quocirca hoc cognito
illud dicendum est, quod is qui docet
vel qui continua oratione loquitur vel
qui interrogat, contrarie se habet his
qui vel discunt vel audiunt vel
respondent in his tribus, voce scilicet,
intellectu et re (praetermittantur enim
litterae propter eos qui earum sunt
expertes), nam qui docet et qui dicit
et qui interrogat a rebus ad
intellectum profecti per nomina et verba
vim propriae actionis exercent atque
officium (rebus enim subiectis ab his
capiunt intellectus et per nomina verbaque
0 14 designentur T doctis S1
17. 18 min. p. art. voc. E
19 littera T pro a: id T 20 grafio STE 24. 25 vel qui F1 29 profecti
ego : profecto SFE, profectu T, profectus
S2F2E2 30 exercent ego: exercet codices
atque in marg. S pronuntiant), qui
vero discit vel qui audit vel etiam
qui respondet a nominibus ad intellectus
progressi ad res usque perveniunt,
accipiens enim is qui discit vel qui
audit vel qui respondet docentis vel
dicentis vel interrogantis sermonem, quid
unusquisque illorum dicat intellegit et
intellegens rerum quoque scientiam capit et
in ea consistit, recte igitur dictum
est in voce, intellectu atque re
contrarie sese habere eos qui docent,
dicunt, interrogant atque eos qui discunt,
audiunt et respondent, cum igitur haec
sint quattuor, litterae, voces, intellectus,
res, proxime quidem et principaliter
litterae verba nominaque significant, haec
vero principaliter quidem intellectus, secundo
vero loco res quoque designant, intellectus
vero ipsi nihil aliud nisi rerum
significativi sunt, antiquiores vero quorum
est Plato, Aristoteles, Speusippus, Xenocrates
hi inter res et significationes
intellectuum medios sensus ponunt in
sensibilibus rebus vel imaginationes quasdam,
in quibus intellectus ipsius origo
consistat, et nunc quidem quid de hac
re Stoici dicant praetermittendum est. hoc
autem ex his omnibus solum cognosci
oportet, quod ea quae sunt in litteris
eam significent orationem quae in voce
consistit et ea quae est vocis oratio
quod animi atque intellectus orationem
designet, quae tacita cogitatione conficitur,
et quod haec intellectus oratio subiectas
principaliter res sibi concipiat ac
designet, ex quibus quattuor duas quidem
Aristoteles esse NATURALITER dicit, res et
animi conceptiones, id est eam quae
fit in intellectibus orationem, idcirco 30
quod apud omnes eaedem atque inmutabiles
sint; 6 et om. S1 12 uerba
et nomina S2F, nomina et uerba (in
ras .) E 12 — 13 haec — designant
in marg. E 14 significationes F 16
//usippus S, siue usippus S2FT 19
nunc om. SFT 20 dicunt SF 23
et quod S2FE2 est om. S1 uocis
est F 24 quod dei. S2, om. FE
29 intellectus S1 I c. 1.
25 duas vero NON NATURALITER, SED POSITIONE constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco NATURALITER
fixas esse non dicit, quod ut supra demonstratum est non
eisdem vocibus omnes aut isdem utantur
elementis, atque hoc est quod ait: Sunt
ergo ea quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea
quae scribuntur eorum quae sunt in
voce, et quemadmodum nec litterae omnibus
eaedem, sic nec voces eaedem, quorum
autem haec primorum notae, eaedem omnibus
passiones animae et quorum hae
similitudines, res etiam eaedem, de his
quidem dictum est in his quae sunt
dicta de anima, alterius est enim
negotii. Cum igitur prius posuisset nomen
et verbum et quaecumque secutus est
postea se definire promisisset, haec
interim praetermittens de passionibus animae
deque earum notis, quae sunt scilicet
voces, pauca praemittit, sed cur hoc
ita interposuerit, plurimi commentatores causas
reddere neglexerunt, sed a tribus quantum
adhuc sciam ratio huius interpositionis
explicita est. quorum Hermini quidem a
rerum veritate longe disiuncta est. ait
enim idcirco Aristotelen de notis animae
passionum interposuisse sermonem, ut utilitatem
propositi operis inculcaret, disputaturus enim
de vocibus, quae sunt notae animae
passionum, recte de his quaedam ante
praemisit, nam cum suae nullus animae
passiones ignoret, notas quoque cum animae
passionibus non nescire utilissimum est.
neque enim illae cognosci possunt nisi
per voces quae sunt 30 1 non
om. S1 4.5 eisdem FE 10 noces
eaedem F Ar.: eaedem uoces ceteri hae
codices cf. p. 43, 6 12 animae
sunt codices : sunt om. Ar. cf.
ed. I hae 27, he§ X: eaedem
ceteri 14 dicta post anima X enim
om. X1 (enim est X2) 16
definire se F 20 neglexerunt h:
neglexerant codices 21. 22 explicata E (
corr . E2) 23 Aristotelem F 26
SECVNDA EDITIO earum scilicet notae.
Alexander vero aliam huius- modi
interpositionis reddidit causam, quoniam, iquit,
verba et nomina interpretatione simplici
conti¬ nentur, oratio vero ex verbis
nominibusque coniuncta est et in ea
iam veritas aut falsitas invenitur; sive
autem quilibet sermo sit simplex, sive
iam oratio coniuncta atque conposita, ex
his quae significant mo¬ mentum sumunt
(in illis enim prius est eorum ordo
et continentia, post redundat in voces):
quocirca quo- 10 niam significantium
momentum ex his quae signifcantur oritur,
idcirco prius nos de his quae voces
ipsae significant docere proponit, sed
Herminus hoc loco repudiandus est. nihil
enim tale quod ad causam propositae
sententiae pertineret explicuit. Ale- 15 x
and er vero strictim proxima intellegentia
praeter¬ vectus tetigit quidem causam, non
tamen principalem rationem Aristotelicae
propositionis exsolvit. sedPor- phyrius ipsam
plenius causam originemque sermonis huius
ante oculos conlocavit, qui omnem apud
priscos philosophos de significationis vi
contentionem litemque retexuit, ait namque
dubie apud antiquorum philosophorum sententias
constitisse quid esset proprie quod vocibus
significaretur, putabant namque alii res
vocibus designari earumque vocabula esse ea
quae sonarent in vocibus arbitrabantur, alii
vero incorporeas quasdam naturas meditabantur,
quarum essent significationes quaecumque vocibus
designarentur: Platonis aliquo modo species
incorporeas aemulati dicentis hoc ipsum
homo et hoc ipsum equus non hanc
cuiuslibet subiectam substantiam, sed illum
ipsum hominem specialem et illum ipsum
equum, universaliter et incorporaliter co-
2 interpraetationis T 6 pro iam:
autem S, om. F 7 significantur b
13 ad in marg. E 20 de om.
F1 21 apud om. E1 22 sententiae
S1 24 eorum/////q; SE, eorumq; T
uocubula T 25 sonarent ego: sonauerunt
S, sonauerint S2FE, sonuerint T 31
equum significare T I c. 1.
27 gitantes incorporales quasdam naturas
constituebant, quas ad significandum primas
venire putabant et cum aliis item
rebus in significationibus posse coniungi, ut
ex his aliqua enuntiatio vel oratio
conficeretur, alii vero sensus, alii
imaginationes significari vocibus arbitrabantur.
cum igitur ista esset contentio apud superiores
et haec usque ad Aristotelis pervenisset
aetatem, necesse fuit qui nomen et
verbum significativa esset definiturus
praediceret quorum ista designativa sint.
Aristoteles enim nominibus et verbis res
subiectas significari non putat, nec vero
sensus vel etiam imaginationes, sensuum
quidem non esse significativas voces nomina
et verba in opere de iustitia sic declarat
dicens cpvdeL yaQ ev&vg diriQ^rai tcc
rs votf- { Lata nal ta aiGfrri [luta,
quod interpretari Latine potest hoc modo: NATURA
enim<(statim)>divisa sunt intellectus et
sensus, differre igitur aliquid arbitratur
sensum atque intellectum, sed qui passiones
animae a vocibus significari dicit, is
non de sensibus loquitur, sensus enim
corporis passiones sunt, si igitur ita
dixisset passionescorporis a vocibus significari,
tunc merito sensus intellegeremus, sed
quoniam passiones animae nomina 'et verba
significare proposuit, non sensus sed
intellectus eum dicere putandum est. sed
quoniam imaginatio quoque res animae est,
dubitaverit aliquis ne forte passiones
animae imagi- 14 Ar. fragm. coli.
VRose 76 2 per quas se F2
9 designativa b: designificatiua codices 14
dirjQ7]Tcu ego (cf. Ar. 1162,22 eth.
Nic. VIII, 14: sv&vs yocQ di7iQi]Tcu
tu %Qya v.ul S6TLV sxsQu uvSqos Y.ui
yv- vaixog): anhphtai SGNJTE; verba Graeca
om. F (<4>rsEl FAP EY& et
alia in marg. F2), dicens hic deest
grecum quod interpretari B 15 AIZTHMATA
EN Latine om. F 16 potes VRose
statim ego add.: om. codices diuersa
E2 est N 19 a om. S*F 23
designificare F 26 animae om. F
5 10 15 20 25
nationes, qnas Graeci (pavraCiag nominant,
dicat, sed haec in libris de anima
verissime diligentissimeque separavit dicens
etircv de cpavraoCa eteqov epaOeog nal
unoepaGeag' Gvintloxr} yaQ vorj[icctav etirlv
ro ccArjfreg 5 xcd ro tyevdog. rd
de tcqcotcc vocata t C dioCcei rov [.
irj cpavrcc<D[iuTa eivcu; rj ovde ravra
<pavrcc6[iarcc, «AA’ ovk ccvev cpuvratitiarav.
quod sic interpretamur: est autem
imaginatio diversa adfirmatione et negatione;
conplexio namque intellectuum est 10
veritas et falsitas. primi vero intellectus
quid discrepabunt, ut non sint
imaginationes? an certe neque haec sunt
imaginationes, sed sine imaginationibus non
sunt, quae sententia demonstrat aliud
quidem esse imaginationes, aliud intelleetus;
ex intellectuum quidem conplexione adfirmationes
fieri et negationes: quocirca illud quoque
dubitavit, utrum primi intellectus imaginationes
quaedam essent, primos autem intellectus
dicimus, qui simplicem rem concipiunt, ut
si qui dicat Socrates solum 20
dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui
in se nihil neque veri continet neque
falsi, intellectus sit an ipsius Socratis
imaginatio, sed de hoc quoque aperte
quid videretur ostendit, ait enim an
certe neque haec sunt imaginatione, sed
non sine imaginationibus sunt, id est
quod hic sermo significat qui est
Socrates vel alius simplex non est
quidem imaginatio, sed intellectus, qui
intellectus praeter ima¬ ginationem fieri
non potest, sensus enim atque ima-
3 Ar. de an. III, 8: 432, 10 —
14. 1 fantasias F, phantasias ceteri
2 haec b: hoc codices diligentissimeque
neq; N ( corr . aeque N1?) 3 — 7
dicens. EZTIN je ( cet. om.) F,
dicens hic item deest grecum B 6
cpcivtuGiiuxci — imaginationes: <E>ANTAZMsl
codices pro rj: N codices 7
interpretatur EN 10 aliquid S2F 13.
14 demonstret T, corr. T2 19 quis
F 25 idem ( pro id est) T2 26
pro qui: quid S, quod S2F I
c. 1. 29 ginatio quaedam
primae figurae sunt, supra quas velut
fundamento quodam superveniens intellegentia
nitatur, nam sicut pictores solent
designare lineatim corpus atque substernere
ubi coloribus cuiuslibet exprimant vultum,
sic sensus atque imaginatio naturaliter in animae
perceptione substernitur, nam cum res
aliqua sub sensum vel sub cogitationem
cadit, prius eius quaedam necesse est
imaginatio nascatur, post vero plenior
superveniat intellectus cunctas eius explicans
partes quae confuse fuerant imaginatione
praesumptae. quocirca inperfectum quiddam est
imaginatio, nomina vero et verba non
curta quaedam, sed perfecta significant.
quare recta Aristotelis sententia est:
quaecumque in verbis nominibusque versantur,
ea neque sensus neque imaginationes, sed
solam significare intellectuum qualitatem, unde
illud quoque ab Aristotele fluentes
Peripatetici rectissime posuerunt tres esse
orationes, unam quae scribi possit
elementis, alteram quae voce proferri,
tertiam quae cogitatione conecti unamque
intellectibus, alteram voce, tertiam litteris
contineri, quocirca quoniam id quod significaretur
a vocibus intellectus esse Aristoteles putabat,
nomina vero et verba significativa esse
in eorum erat definitionibus positurus,
recte quorum essent significativa praedixit
erroremque lectoris ex multiplici veterum
lite venientem sententiae suae manifestatione
conpescuit. atque hoc modo nihil in
eo deprehenditur esse superfluum, nihil ab
ordinis continuatione se- iunctum. quaerit
vero Porphyrius, cur ita dixerit: sunt
ergo ea quae sunt in voce, et
non sic: sunt 30 3 si quod
S^1 7 ait. sub om. F enim (pro
eius) E 10 confuse b: confusae
SF, confusa TE in im. S2, in yma-
ginationem F praesumpta T 15 imaginationis
SFE1? 18 sit ( pro possit) S1
19 cogitationem SFE 20 conecti ego :
conectit codices, connectitur b 21 teneri
F, corr. F2 22 esse om. T1 28
ad T igitur voces; et rursus
cur ita et ea quae scribun¬ tur
et non dixerit: et litterae, quod
resolvit hoc modo, dictum est tres
esse apud Peripateticos orationes, unam
quae litteris scriberetur, aliam quae proferretur
in voce, tertiam quae coniungeretur in
animo, quod si tres orationes sunt,
partes quoque orationis esse triplices
nulla dubitatio est. quare quoniam verbum
et nomen principaliter orationis partes
sunt, erunt alia verba et nomina quae
scribantur, alia quae 10 dicantur, alia
quae tacita mente tractentur, ergo quoniam
proposuit dicens: primum oportet constituere,
quid nomen et quid verbum, triplex
autem nominum natura est atque verborum,
de quibus potissimum proposuerit et quae
definire velit ostendit, et quoniam de
his nominibus loquitur ac verbis, quae
voce proferuntur, idem ipsum planius
explicans ait: sunt ergo ea quae sunt
in voce earum quae sunt in anima
passionum notae et ea quae scribuntur
eorum quae sunt in voce, velut si
diceret: ea verba et nomina quae in
vocali oratione proferuntur animae passiones
denuntiant, illa autem rursus verba et
nomina quae scribuntur eorum verborum
nominum¬ que significantiae praesunt quae
voce proferuntur, nam sicut vocalis
orationis verba et nomina conceptiones
animi intellectusque significant, ita quoque
verba et nomina illa quae in solis
litterarum formulis iacent ijjorum verborum
et nominum significativa sunt quae
loquimur, id est quae per vocem
sonamus, nam quod ait: sunt ergo ea
quae sunt in voce, 30 subaudiendum
est verba et nomina, et rursus cum
dicit: et ea quae scribuntur, idem
subnectendum rursus est verba scilicet vel
nomina, et quod rursus 1 cur
om. F1 4. 5 proferetur F2T 8
post nomen ras. sex vel octo litt.
in S 12 quid sit n. codices 17
ergo om. SF 21 uerba rursus F
24 uerba orationis F 30. 31 cum
dicit rursus F 32 vel] et b
I c. 1. 31 adiecit: eorum
quae sunt in voce, addendum eorum
nomimum atque verborum quae profert atque
explicat vocalis oratio, quod si nihil
deesset omnino, ita foret totius plenitudo
sententiae: sunt ergo ea verba et
nomina quae sunt in voce earum quae
sunt in anima passionum notae et ea
verba et nomina quae scribuntur eorum
verborum et nominum quae sunt in
voce, quod communiter intellegendum est, licet
ea quae subiunximus deesse videantur, quare
non est disiuncta
sententia, sed primae propositioni continua.
nam cum quid sit verbum, quid nomen
definire constituit, cum nominis et verbi NATURA
sit multiplex, de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione distinxit, incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt, quorum essent significativa disseruit, ait enim haec passiones animae designare. illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur,
SED QUONIAM NON OMNIS VOX SIGNIFICATIVA EST, VERBA VERO VEL NOMINA
NUMQUAM SIGNIFICATIONIBUS VACANT QUONIAMQUE NON OMNIS VOX QUAE SIGNIFICAT
QUAEDAM *POSITIONE* DESIGNAT, SED *QUAEDAM NATURALITER*, UT LACRIMAE, GEMITUS
ATQUE MAEROR – ANIMALIUM QUOQUE CETERORUM QUAEDAM VOCES *NATURALITER ALIQUID
OSTENTANT* UT EX CANUM LATRATIBUS IRACUNDIA EORUMQUE ALIA QUADAM VOCEM
BLANDIMENDA *MONSTRANTUR --verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina voces, sed voces significativae nec solum significativae, sed etiam QUAE
POSITIONE DESIGNENT ALIQUID, NON NATURA: non dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima passionum notae, namque neque omnis vox significativa
5. 6 quae sunt in v.— nomina
in marg. F 15 sunt] sunt designantes
TGr 17 et uerba et T 20 vel] et
b 21 vacant ego: uacarent codices ,
carent b que om. S1 22 quadam
S2E 24 moerorem S, merore FE 32
nam FT est et
SUNT QUAEDAM *SIGNIFICATIVAE* QUAE *NATURALITER* NON POSITIONE
SIGNIFICENT, quod si ita dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret, quocirca noluit communiter dicere
voces, sed dixit tantum ea quae sunt in voce, vox enim universale quiddam est, nomina vero et verba partes, pars
autem omnis in toto est. verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae sunt in voce,
velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum designativa sunt, sed hoc simile est ac si ita dixisset:
vox certo modo sese habens significat intellectus. non enim ut dictum est nomen et verbum voces tantum sunt,
sicut nummus quoque non solum aes
inpressum quadam figura est, ut nummus
vocetur, 15 sed etiam ut alicuius rei
sit pretium: eodem quoque modo verba
et nomina non solum voces sunt, sed POSITAE
AD QUANDAM INTELLECTUUM SIGNIFICATIONEM, vox enim quae
nihil designat, ut est GARALUS, licet
eam grammatici figuram vocis intuentes
nomen esse contendant, tamen eam nomen
philosophia non putabit, nisi sit posita
ut designare animi aliquam conceptionem
eoque modo rerum aliquid possit, etenim
nomen alicuius nomen esse necesse erit;
sed si vox aliqua nihil designat,
nullius nomen est; quare si nullius
est, ne nomen quidem esse dicetur,
atque ideo huiusmodi vox id est
significativa non vox tantum, sed verbum
vocatur aut nomen, quemadmodum nummus non
aes, sed proprio nomine nummus, quo
ab alio aere discre¬ pet, nuncupatur,
ergo haec Aristotelis sententia 30 qua ait
ea quae sunt in voce nihil aliud
designat nisi eam vocem, quae non
solum vox sit, sed quae cum vox
sit habeat tamen aliquam proprietatem et
4 dicere ( pro dixit) T 9. 10
des. s. intell. T, corr. T2 13
nummos S1 18 garulus F 20 putabit
ego: putavit codices 22 aliq. rer.
F 25 dicitur T ideo om. F1 27
— 28 non — nummus in marg. S
30 qua ait om. F1 I c.
1. 33 aliquam quodammodo figuram
positae significationis inpressam. horum vero
id est verborum et nominum quae sunt
in voce aliquo modo se habente ea
sunt scilicet significativa quae scribuntur,
ut hoc quod dictum est quae
scribuntur de verbis ac nominibus dictum
quae sunt in litteris intellegatur, potest
vero haec quoque esse ratio cur
dixerit et quae scribuntur: quoniam
litteras et inscriptas figuras et voces,
quae isdem significantur formulis, nuncupamus
(ut a et ipse sonus litterae nomen
capit et illa quae 10 in subiecto
cerae vocem significans forma describitur),
designare volens, quibus verbis atque
nominibus ea quae in voce sunt
adparerent, non dixit litteras, quod ad
sonos etiam referri potuit litterarum, sed
ait quae scribuntur, ut ostenderet de
his litteris dicere quae 15 in scriptione
consisterent id est quarum figura vel
in cera stilo vel in membrana calamo
posset effingi, alioquin illa iam quae
in sonis sunt ad ea nomina referuntur
quae in voce sunt, quoniam sonis
illis no¬ mina et verba iunguntur.
sed Porphyrius de utraque expositione
iudicavit dicens: id quod ait et quae
scribuntur non potius ad litteras, sed
ad verba et nomina quae posita sunt
in litterarum inscriptione referendum, restat
igitur ut illud quoque addamus, cur
non ita dixerit: sunt ergo ea quae
sunt in voce 25 intellectuum notae,
sed ita earum quae sunt in anima
passionum notae, nam cum ea quae sunt
p.30l in voce res intellectusque
significent, principaliter quidem intellectus,
res vero quas ipsa intellegentia con-
prehendit secundaria significatione per
intellectuum medietatem, intellectus ipsi non
sine quibusdam passionibus sunt, quae in
animam ex subiectis veniunt rebus, passus
enim quilibet eius rei proprietatem,
3 sese E 5 et F 8
scriptas b 15 se de? 15. 16
quae inscriptione T 17 menbrana F
23 proposita F 24 illas Tl 26
si T 31. 32 medietatibus {pro pass.)
T Boetii comment. II. 3 34
quam intellectu conplectitur, ad eius
enuntiationem designationemque contendit, cum
enim quis aliquam rem intellegit, prius
imaginatione formam necesse est intellectae
rei proprietatemque suscipiat et fiat vel
5 passio vel cum passione quadam
intellectus perceptio, hac vero posita
atque in mentis sedibus conlocata fit
indicandae ad alterum passionis voluntas,
cui actus quidam continuandae intellegentiae
protinus ex intimae rationis potestate
supervenit, quem scilicet explicat et 10
effundit oratio nitens ea quae primitus
in mente fundata est passione, sive, quod
est verius, significatione progressa oratione
progrediente simul et significantis seorationis
motibus adaequante, fit vero baec passio
velut figurae alicuius inpressio, sed ita
ut in animo 15 fieri consuevit,
aliter namque naturaliter inest in re
qualibet propria figura, aliter vero eius
ad animum forma transfertur, velut non
eodem modo cerae vel marmori vel
chartis litterae id est vocum signa
mandantur. et imaginationem Stoici a rebus
in animam 20 translatam loquuntur, sed cum
adiectione semper dicentes ut in anima,
quocirca cum omnis animae passio rei
quaedam videatur esse proprietas, porro
autem designativae voces intellectuum
principaliter, rerum dehinc a quibus
intellectus profecti sunt
significatione nitantur, quidquid est in
vocibus significativum, id animae passiones
designat, sed
hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur, videns 4 intellegi T
( corr. T1) 5 intellectio T 6 Haec
T 8 quidem F 9 quem actum
F, actum supra lin. J, s. actum
supra lin. S2 12 oratione ego: oratio
codices; oratio suprascr. s. explicat S2,
oratio explicat F significatione dei et
post simul transponit F2 (E in marg.:
aliter siue quod est verius significatione
progrediente oratio progressa simul et se
signif. or. mot. adaeq.) 13 metibus
S1, mentibus F1 17 transferetur T,
corr. T2 17 vel om. F 19 a
om. S1 25 nitatur S^1 27 animorum
SFE et T^1 I c. 1. 35
namque aliquis sphaeram vel quadratum
vel quamlibet aliam rerum figuram eam
in animi intellegentia quadam vi ac
similitudine capit, nam qui sphaeram
viderit, eius similitudinem in animo
perpendit et cogitat atque eius in
animo quandam passus imaginem id cuius
imaginem patitur agnoscit, omnis vero imago
rei cuius imago est similitudinem tenet:
mens igitur cum intellegit, rerum
similitudinem conprehendit. unde fit ut,
cum duorum corporum maius unum, minus
alterum contuemur, a sensu postea remotis
corporibus illa ipsa corpora cogitantes
illud quoque memoria servante noverimus
sciamusque quod minus, quod vero maius
corpus fuisse conspeximus, quod nullatenus
eveniret, nisi quas semel mens passa
est rerum similitudines optineret. quare
quoniam passiones animae quas intellectus
vocavit rerum quaedam similitudines sunt,
idcirco Aristoteles, cum paulo post de
passionibus animae loqueretur, continenti ordine
ad simili¬ tudines transitum fecit, quoniam
nihil differt utrum passiones diceret an
similitudines, eadem namque res in anima
quidem passio est, rei vero similitudo,
et Alexander hunc locum: sunt ergo ea
quae sunt in voce earum quae sunt
in anima passionum notae et ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce,
et quemadmodum nec litterae omni¬ bus
eaedem, sic nec voces eaedem hoc modo
conatur exponere: proposuit, inquit, ea
quae sunt in voce intellectus animi
designare et hoc alio probat exemplo,
eodem modo enim ea quae sunt in
voce passiones animae significant, quemadmodum
ea quae scribuntur voces designant, ut
id quod ait et ea quae 1
aliquis om. T, aliqui E feram S,
speram S2FT 3 ui§ (pro vi ac)
SF speram FT 9 duum S2F2 12
sciamusque ego: sciemusq. codices 14 mens
om. T 20 pass. animae editio princeps
24 inscribuntur SFE 26 eaedem uoces
codices (item p. 36, 6. 7) 29
enim modo F scribuntur ita
intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum etiam
ea quae scribuntur eorum quae sunt in
voce, ea vero quae scribuntur, inquit
Alexander, notas esse vocum id est
nominum ac verbo- 5 rum ex hoc
monstravit quod diceret et quemadmo¬ dum
nec litterae omnibus eaedem, sic nec
voces eaedem, signum namque est vocum
ipsarum significationem litteris contineri, quod
ubi variae sunt litterae et non eadem
quae scribuntur varias quoque voces esse
necesse est. haec Alexander. Porphy- rius
vero quoniam tres proposuit orationes, unam
quae litteris contineretur, secundam quae verbis
ac nominibus personaret, tertiam quam
mentis evolveret intellectus, id Aristotelem
significare pronuntiat, 15 cum dicit: sunt
ergo ea quae sunt in voce earum
quae sunt in anima passionum notae,
quod ostenderet si ita dixisset: sunt
ergo ea quae sunt in p. 302
voce et verba et nomina animae passionum
| notae, et quoniam monstravit quorum
essent voces significa- 20 tivae, illud
quoque docuisse quibus signis verba vel
nomina panderentur ideoque addidisse et ea
quae scribuntur eorum quae sunt in
voce, tamquam si diceret: ea quae
scribuntur verba et nomina eorum quae
sunt in voce verborum et nominum
notae sunt. 25 nec disiunctam esse
sententiam nec (ut Alexander putat) id
quod ait: et ea quae scribuntur ita
in¬ tellegendum, tamquam si diceret: sicut
ea quae scribuntur id est litterae
illa quae sunt in voce significant,
ita ea quae sunt in voce notas esse
animae 30 passionum, primo quod ad
simplicem sensum nihil addi oportet, deinde
tam brevis ordo tamque necessaria orationis
non est intercidenda partitio, tertium vero
quoniam, si similis significatio est
litterarum vo- 5 quo TE1 9 eaedem
F, eedem T 13 quae F 14 ari-
stotelen T 18 prius et om. TE
20 et b 29 sunt om. SF 30
primum? quidem quod b 31 deinde quod
b tamque] tamquam T 33 esset E2
I c. 1. 37 cumque,
quae est vocum et animae passionum,
opor¬ tet sicut voces diversis litteris
permutantur, ita quoque passiones animae diversis
vocibus permutari, quod non fit. idem
namque intellectus variatis potest voci¬
bus significari, sed Alexander id quod
eum superius sensisse memoravi boc probare
nititur argumento, ait enim etiam in
hoc quoque similem esse significa¬ tionem
litterarum ac vocum, quoniam sicut litterae
non naturaliter voces, sed positione
significant, ita quoque voces non
naturaliter intellectus animi, sed aliqua
positione designant, sed qui prius recepit,
ut id quod Aristoteles ait: et ea
quae scribuntur ita dictum esset, tamquam
si diceret: sicut ea quae scribuntur,
quidquid ad hanc sententiam videtur ad-
iungere, aequaliter non dubitatur errare,
quocirca nostro iudicio qui rectius tenere
volent Porphyrii se sententiis adplicabunt.
Aspasius quoque secundae sententiae Alexandri,
quam supra posuimus, valde consentit, qui
a nobis in eodem quo Alexander errore
culpabitur. Aristoteles vero duobus modis esse
has notas putat litterarum, vocum
passionumque ani¬ mae constitutas: uno
quidem positione, alio vero na¬ turaliter.
atque hoc est quod ait: et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem,
sic nec voces eaedem, nam si litterae
voces, ipsae vero voces intellectus animi
naturaliter designarent, omnes homines isdem
litteris, isdem etiam vocibus uterentur,
quod quoniam apud omnes neque eaedem
litterae neque eaedem voces sunt, constat
eas non esse naturales, sed hic
duplex lectio est. Alexander enim hoc
modo legi putat oportere: quorum autem
haec primo- 1. 2 oporteret E 11 recipit S, corr. S2 18—19
quam — Alexander in marg. S 21
vocum om. S1 24. 25 eaedem v.
codices {item p. 38, 10 et 29)
27 hisdem S2F2TE hisdem SF2TE 31
hae codices {item p. 38, 18) 5
10 15 20 25 30
38 rum notae, eaedem omnibus
passiones animae et quorum eaedem
similitudines, res etiam eaedem, volens
enim Aristoteles ea quae positione
significant ab bis quae aliquid designant
naturaliter 5 segregare hoc interposuit: ea
quae positione significant varia esse, ea
vero quae naturaliter apud omnes eadem,
et incobans quidem a vocibus ad
litteras venit easque primo non esse
naturaliter significativas demonstrat dicens: et
quemadmodum nec litterae omnibus eaedem,
sic nec voces eaedem, nam si idcirco
probantur litterae non esse naturaliter significantes,
quod apud alios aliae sint ac
diversae, eodem quoque modo probabile erit
voces quoque NON NATURALITER SIGNIFICARE, quoniam
singulae hominum gentes 15 non eisdem
inter se vocibus conio quantur. volens vero
similitudinem intellectuum rerumque subiectarum docere
naturaliter constitutam ait: quorum autem
haec primorum notae, eaedem omnibus passio¬
nes animae, quorum, inquit, voces quae
apud diver- 20 sas gentes ipsae
quoque diversae sunt significationem retinent,
quae scilicet sunt animae passiones, illae
apud omnes eaedem sunt, neque enim
fieri potest, ut quod apud Romanos
homo intellegitur lapis apud barbaros
intellegatur, eodem quoque modo de ceteris
25 rebus, ergo huiusmodi sententia est,
qua dicit ea quae voces significent
apud omnes hominum gentes non mutari,
ut ipsae quidem voces, sicut supra monstravit
cum dixit quemadmodum nec litterae omnibus
eaedem, sic nec voces eaedem, apud 30
plures diversae sint, illud vero quod voces
ipsae si¬ gnificant apud omnes homines
idem sit nec ulla ra- 1 animae
sunt codices ( item 19) 7 inchoatis T
8 significas S1, signifitiuas T 15
colloquuntur b 17 //////ait S, quod
ait TE (quod dei. E1?) 22 apud
om. F, add. F1 23 qui T
24 modo quoq. F 29 apud ego:
cum apud codices 31 fit F I
c. 1. 39 tione valeat
permutari, qui sunt scilicet intellectus
rerum, qui quoniam naturaliter sunt
permutari non possunt, atque hoc est
quod ait: quorum autem haec primorum
notae, id est voces, eaedem om¬ nibus
passiones animae, ut demonstraret voces quidem
esse diversas, quorum autem ipsae voces
significativae essent, quae sunt scilicet
animae passiones, easdem apud omnes esse
nec | ullratione, quoniam sunt constitutae
naturaliter, permutari, nec vero in hoc
constitit, ut de solis vocibus atque
intellectibus loqueretur, sed quoniam voces
atque litteras non esse naturaliter
constitutas per id significavit, quod eas
non apud omnes easdem esse proposuit, RURSUS
INTELLECTUS QUOS ANIMAE PASSIONES VOCAT PER HOC ESSE NATURALES OSTENDIT, QUOD *APUD
OMNES IDEM SINT, a quibus id est
intellectibus ad res transitum fecit, ait
enim quorum hae similitudines, res etiam
eaedem hoc scilicet sentiens, quod res
quoque naturaliter apud omnes homines
essent eaedem: sicut ipsae animae passiones
quae ex rebus sumuntur apud omnes homines
eaedem sunt, ita quoque etiam ipsae
res quarum similitudines sunt animae
passiones eaedem apud omnes sunt, quocirca
quoque naturales sunt, sicut sunt etiam
rerum similitudines, quae sunt animae
passiones. H er minus vero huic est
expositioni contrarius. dicit enim non esse
verum eosdem apud omnes homines esse
intellectus, quorum voces significativae sint,
quid enim, inquit, in aequivocatione
dicetur, ubi unus idemque vocis modus
plura significat? sed magis hanc lectionem
veram putat, ut ita 30 sit: quorum autem
haec primorum notae, hae omnibus passiones
animae et quorumhae similitudines, res etiam hae: ut demonstratio vi- 4 hae codices (item 31) animae sunt codices (item 32) 21 quarum b: quorum codices
23 homines F, corr. F2 res quoq.
b 28 sunt F 31 autem
ovi.deatur quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines, et lioc simpliciter accipiendum
est secundum Her minum, ut ita dicamus:
quorum voces significativae sunt, illae
sunt animae passiones, tamquam diceret:
animae passiones sunt, quas significant
voces, et rursus quorum sunt similitudines
ea quae intellectibus continentur, illae
sunt res, tamquam si dixisset: res
sunt quas significant intellectus. sed
Porphyrius de utrisque acute subtiliterque
iudicat et Alexandri magis sententiam
probat, hoc quod dicat non debere
dissimulari de multiplici aequivocationis
significatione, nam et qui dicit ad
unam quamlibet rem commodat animum,
scilicet quam intellegens voce declarat, et
unum rursus intellectum quemlibet is qui
audit exspectat, quod si, cum uterque
ex uno nomine res diversas intellegunt,
ille qui nomen aequivocum dixit designet
clarius, quid illo nomine significare
voluerit, accipit mox qui audit et ad
unum intellectum utrique conveniunt, qui
rursus fit unus apud eosdem illos
apud quos primo diversae fuerant animae
passiones propter aequivocationem nominis. neque
enim fieri potest, ut qui voces
positione significantes a natura eo
distinxerit quod easdem apud omnes esse
non diceret, eas res quas esse
naturaliter 25 proponebat non eo tales
esse monstraret, quod apud omnes easdem
esse contenderet, quocirca Alexander vel
propria sententia vel Porphyrii auctoritate
probandus est. sed quoniam ita dixit
Aristoteles: quorum autem haec primorum
notae, eaedem omnibus passiones animae sunt,
quaerit Ale- 9. 10 suptiliterq. SE 11
hoc dei. S2, om. F quod F:
quo STEGN, quoque E2 dicit E2
14 voce eras, in F 16
utrique? 17 designat T quod T 18 nomen S1 23 distinxerint T quos (suprascr.
d) S, qui (in marg. quod) T 24
eas] is? 25 demonstraret T 27 pro
porphirii E 29 hae codices I c.
1. 41 x and er: si rerum
nomina sunt, quid causae est ut
primorum intellectuum notas esse voces
diceret Aristoteles? rei enim ponitur nome,
ut cum dicimus “homo” SIGNIFICAMUS (ROMANI) quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis, cur ergo
non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam intellectuum? sed fortasse quidem ob
hoc dictum est, inquit, quod licet voces rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus, sed ut eas quae ex rebus nobis io innatae sunt animae passiones, quocirca propter quorum significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas, in hoc vero Aspasius permolestus est. ait enim: qui
fieri potest, ut eaedem apud omnes
passiones animae sint, cum tam diversa
sententia de iusto ac bono sit?
arbitratur Aristotelem passiones animae non
de rebus incorporalibus, sed de his
tantum quae sensibus capi possunt passiones
animae dixisse, quod perfalsum est. neque
enim umquam intellexisse dicetur, qui
fallitur, et fortasse quidem passionem
animi habuisse dicetur, quicumque id quod
est bonum non eodem modo quo est,
sed aliter arbitratur, intellexisse vero
non dicitur. Aristoteles autem cum de
similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat,
neque enim fieri potest, ut qui 25
quod bonum est malum esse arbitratur
boni similitudinem mente conceperit, neque
enim intellexit rem subiectam. sed quae
sunt iusta ac bona ad positionem
omnia naturamve referuntur, et si de
iusto ac bono p. 304 ita loquitur,
ut de eo quod civile ius aut
civilis in- 30 1 quod T causa
S F 2 dixerit b 4 pro tamen:
quidem T 6 sunt E, corr. E2 8
quidem post dictum F 10 nris STE
(corr. S2E2) 11 sint S praeter
T 13esse prim. F 22 ///////id
S, cum id TE (cum dei. E2) quidem
(pro quod est) T quo S2F2: quod
SFTE 23 dicetur? 29 si om. S1
30 ita om. F1 iuria dicitur, recte
non eaedem sunt passiones animae, quoniam
civile ius et civile bonum positione
est, non natura, naturale vero bonum
atque iustum apud omnes gentes idem
est. et de deo quoque idem: cuius
5 quamvis diversa cultura sit, idem tamen
cuiusdam eminentissimae naturae est intellectus,
quare repetendum breviter a principio est.
<(a^>partibus enim ad orationem usque
pervenit: nam quod se prius quid
esset verbum, quid nomen constituere dixit,
hae mi- 10 nimae orationis partes
sunt; quod vero adfirmationem et
negationem, iam de conposita ex verbis
et nominibus oratione loquitur, quae eaedem
rursus partes sunt enuntiationis, et post
enuntiationis propositionem de oratione loqui
proposuit, cuius ipsa quoque enuntiatio,
pars est. et quoniam (ut dictum est)
triplex est oratio, quae in litteris,
quae in voce, quae in intellectibus
est, qui verbum et nomen definiturus
esset eaque significativa positurus, dicit
prius quorum significativa sint ipsa verba
et nomina et incohat quidem ab his
nominibus et verbis quae sunt in voce
dicens: sunt ergo ea quae sunt in voce
et demonstrat quorum sint significativa
adiciens earum quae sunt in anima
passionum notae. rursus nominum ipsorum
verborumque quae in voce sunt ea
verba et nomina quae essent in litteris
constituta significativa esse declarat dicens
et ea quae scribuntur eorum quae sunt
in voce, et quoniam quattuor ista
quaedam sunt: litterae, voces, intellectus,
res, quorum litterae et voces positione
sunt, natura vero res atque intellectus,
demonstravit voces non esse naturaliter,
sed positione per hoc quod ait non
easdem esse apud omnes, sed varias,
ut est et quemadmodum nec 1 non
recte F 7 a ego add.: om.
codices 8 quod om. T 15. 16 or.
est F 16 postrem. in om. FE 18
ea quae FE positurus b: positurus est
codices 22 sign. sint F eorum SFE
30 litteras et voces? 31 per om.
SFT quod b: quo///F, quo STE I
c. 1. 43 litterae omnibus eaedem, sic
nec voces eaedem. ut vero demonstraret
intellectus et res esse naturaliter, ait
apud omnes eosdem esse intellectus, quorum
essent voces significativae, et rursus apud
omnes easdem esse res, quarum similitudines
essent animae passiones, ut est quorum
autem haec primorum notae, scilicet quae
sunt in voce, eaedem omnibus passiones
animae et quorum hae similitudines, res
etiam eaedem, passiones autem animae dixit,
quoniam alias diligenter ostensum est omnem
vocem animalis aut ex passione animae aut
propter passionem proferri, similitudinem vero
passionem animae vocavit, quod secundum
Aristotelem nihil aliud intellegere nisi
cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque
imaginationem in animae ipsius
reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse, sed quoniam
demonstratum est, quoniam
et verba et nomina et oratio intellectuum
principaliter significativa sunt, quidquid est
in voce significationis ab intellectibus venit,
quare prius paululum de intellectibus
perspiciendum ei qui recte aliquid de
vocibus disputabit, ergo quod supra
passiones animae et similitudines vocavit,
idem nunc apertius intellectum vocat
dicens: Est autem, quemadmodum in
anima aliquotiens quidem intellectus sine
vero vel falso, aliquotiens autem cui
iam necesse est horum alterum inesse,
sic etiam in voce; circa conpositionem
enim et divisionem est falsitas veri-
1. 2 eaedem v. codices 2 et]
ut intellectus esse quarum b: quorum codices 6 haec E Ar. : hae Eet
ceteri 8 animae sunt codices aliud S:
aliud est est aliud TE ait. quon.]
quomodo E 22 perspiciendum S: persp.
est S2FTE de om. SF 23 disputauit
S^F1TE 28 cui Ar. <p cf. ed.
I: cum codices 30 autem falsitas
ueritasq; ueritas
fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque. nomina igitur ipsa et verba consimilia
sunt sine conpositione vel divisione
intellectui, ut homo vel album, quando non
additur aliquid; neque enim adhuc verum
aut falsum est. huius autem signum
hoc est: hircocervus enim significat
aliquid, sed nondum verum vel falsum, si non vel esse vel non esse addatur, vel
simpliciter vel secundum tempus. Pietro Caramello.
Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG blithyri
NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis” “significativis” garalus
garulus F. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” –
The Swimming-Pool Library.
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